Archivio del Tag ‘Gdf Suez’
-
Ci svendono alla Francia, perché ci salvi da Berlino: illusi
La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».Un’unione a due, argomenta Dezzani sul suo blog, significherebbe che Berlino si faccia carico di Parigi, trasferendo un ammontare di risorse tale da consentirle di “vivere al di sopra dei propri mezzi”: ipotesi piuttosto remota, visto l’assetto politico tedesco. In compenso, «la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di un arsenale atomico: per Berlino, “l’acquisto della Francia” sarebbe un buon affare e le consentirebbe di evitare la sindrome di isolamento/accerchiamento di cui ha sofferto dal 1870 in avanti». Al di là di una maggiore integrazione con Parigi, però, Berlino però non andrà: e sicuramente «non è nell’interesse della Germania creare le condizioni perché anche l’Italia possa partecipare “al nocciolo duro”». Tutte le iniziative tedesche di questi ultimi mesi, osserva l’analista, «vanno infatti nella direzione di un’espulsione forzata dell’Europa mediterranea dall’area euro: dall’ipotesi di “default controllati” avanzata da Wolfgang Schaeuble alla stretta sui crediti deteriorati, passando per nuovi criteri per la valutazione dei Btp iscritti nei bilanci delle banche, è chiaro che la Germania sta facendo di tutto per spingere l’Italia e l’euro-periferia fuori dall’euro».Da qui la tentazione, tutta italiana, di aggrapparsi alla Francia. Si considerino gli investimenti, scrive Dezzani: se le acquisizioni tedesche in Italia sono piuttosto limitate dal 2011 in avanti (il marchio Ducati, l’Italcementi della famiglia Pesenti), quelle francesi esplodono letteralmente e, concentrandosi in settori strategici come l’energia, la finanza e le telecomunicazioni, godono dell’esplicita approvazione dei governi Monti-Letta-Renzi. Nel 2011, ricorda l’analista, Parmalat è acquistata da Lactalis, mentre Bulgari è passata a Lvmh. L’anno seguente, Edison ha lasciato l’orbita Acea per entrare nel mondo Gdf Suez. Ancora: nel 2016, Pioneer è stata comprata da Amundi e Telecom è stata scalata da Vivendi. Nel 2017 Luxottica è stata inglobata da Essilor. Saltuariamente, aggiunge Dezzani, circolano voci di un acquisto di Unicredit da parte di Société Générale, mentre le Assicurazioni Generali sarebbero nel mirino di Axa. «Quel che è certo è la finanza italiana è ormai dominata dal trio francese Jean Pierre Mustier (ad di Unicredit), Philippe Donnet (ad di Generali) e Vincent Bolloré (azionista di Mediobanca e padrone di Telecom), a loro volta espressione della finanza Rothschild che occupa attualmente l’Eliseo con Emmanuel Macron».Negli ultimi sette anni, rileva Dezzani, «l’Italia è diventata un sotto-sistema dell’economia francese, con l’avvallo dei governi “europeisti” nostrani: il governo Gentiloni ha persino inviato i nostri militari a presidiare i fortini della Legione Straniera in Niger». Qualsiasi acquisto italiano in Francia è stato bloccato, dal passato interesse di Enel per Suez alle più recenti mire di Fincantieri su Stx Saint-Nazaire. «In quest’integrazione a senso unico si può facilmente scorgere il grande disegno geopolitico della Francia: ridurre l’Italia, acquisendo il controllo di tutti i gangli dell’economia, alla condizione di Stato-vassallo, così da raggiungere una massa tale da confrontarsi con la Germania che, al contrario, sta coagulando attorno a sé i paesi dell’Europa nordica e centrale (Olanda, Austria, Slovenia, Paesi Baltici)». L’Italia, che ha la “stazza” economica e una popolazione sufficiente per restare un attore autonomo, «guadagna invece da questo scivolamento nell’orbita francese soltanto la promessa di rimanere agganciata al processo di integrazione europea: come satellite di Parigi». Secondo Dezzani, «la fallimentare classe dirigente sta, in sostanza, vendendo il paese alla Francia per salvare se stessa, sperando che l’assoggettamento a Parigi eviti la nostra espulsione “dall’Europa”».Anche lo schema dei trattati bilaterali, osserva l’analista, è un indice della gerarchia che si sta creando in Europa: la proposta di un nuovo Trattato dell’Eliseo, presentata il 22 gennaio 20182, dovrebbe rafforzare l’integrazione tra la Germania (contraente forte) e la Francia (contraente debole). «Nessun accordo simile è previsto tra Germania e Italia». Il nostro paese dovrebbe invece siglare entro il 2018 il cosiddetto “Trattato del Quirinale”, presentato dal premier Gentiloni lo scorso 10 gennaio, in occasione della visita a Roma di Emmenuel Macron: «Si tratterebbe del corrispettivo del Trattato dell’Eliseo, dove però la Francia è il contraente forte e l’Italia quello debole». Di fatto, «accantonata qualsiasi pretesa di parità tra i diversi Stati», “l’Europa a due velocità” sarebbe quindi «una struttura gerarchica, dove l’Italia è un sotto-sistema della Francia, a sua volta dipendente dalla Germania». Secondo Dezzani, i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti dell’Ue: collasso accelerato o precario asse Merkel-Macron? «In qualsiasi caso, non è interesse dell’Italia rimanere in “serie A” come satellite della Francia». Se una classe dirigente «fallita ed esautorata» sogna di stipulare il “Trattato del Quirinale” e assoggettarci alla Francia, «una nuova classe dirigente dovrebbe studiare come ricollocare l’Italia al centro del Mediterraneo e rimettere in sesto l’economia con un’accurata programmazione industriale».La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».
-
Folli sanzioni di guerra, imposte a Trump per farlo cadere
È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.Quel che doveva arrivare alla fine è arrivato: i leader democratici e repubblicani si sono intesi nel contrastare la politica estera del presidente Trump e preservare i loro vantaggi imperiali. Per fare questo, hanno approvato al Congresso una legge di 70 pagine che introduce formalmente sanzioni contro la Corea del Nord, contro l’Iran e contro la Russia. Questo testo impone unilateralmente a tutti gli altri Stati del mondo di rispettare questi divieti commerciali. Queste sanzioni quindi valgono tanto per l’Unione Europea e la Cina quanto per gli Stati ufficialmente presi di mira. Solo cinque parlamentari si sono dissociati dalla coalizione e hanno votato contro questa legge: i deputati Justin Amash, Tom Massie e Jimmy Duncan e i senatori Rand Paul e Bernie Sanders. Le disposizioni di questa legge proibiscono grosso modo all’esecutivo di ammorbidire queste interdizioni commerciali sotto qualsiasi forma. Donald Trump è teoricamente legato mani e piedi. Certo, potrebbe opporre il suo veto, ma secondo la Costituzione, al Congresso basterebbe votare di nuovo il testo negli stessi termini per poterlo imporre al presidente. Costui quindi lo promulgherà senza imporsi l’affronto di doversi mettere al passo del Congresso. Nei prossimi giorni inizierà una guerra senza precedenti.I partiti politici Usa intendono cancellare la “dottrina Trump”, secondo cui gli Stati Uniti devono svilupparsi più velocemente degli altri per mantenere la leadership mondiale. Intendono invece ripristinare la “Dottrina Wolfowitz” del 1992, secondo la quale Washington deve conservare il proprio vantaggio sul resto del mondo rallentando lo sviluppo di qualsiasi potenziale concorrente. Paul Wolfowitz è un trotskista messosi al servizio del presidente repubblicano Bush per lottare contro la Russia. Divenne dapprima vicesegretario della difesa, dieci anni più tardi, sotto il figlio di Bush, poi presidente della Banca Mondiale. L’anno scorso ha dato il suo sostegno alla democratica Hillary Clinton. Nel 1992 scrisse che il concorrente più pericoloso degli Stati Uniti era l’Unione Europea e che Washington doveva distruggerla politicamente, cioè economicamente. La legge rimette in questione tutto ciò che Donald Trump ha fatto nel corso degli ultimi sei mesi, compresa la lotta contro i Fratelli Musulmani e le loro organizzazioni jihadiste, la preparazione dell’indipendenza del Donbass (Malorossiya), e il ripristino della Via della Seta.Come prima ritorsione, la Russia ha chiesto a Washington di ridurre il personale della sua ambasciata a Mosca al livello della propria ambasciata a Washington, ossia 455 persone, espellendo 755 diplomatici. Secondo le nostre informazioni, ci sarebbe una pletora di diplomatici statunitensi in Russia, tra 1.100 e 1.500. In questo modo, Mosca intende ricordare che se anche avesse interferito nella politica americana, questo non avrebbe misure paragonabili con l’importanza dell’ingerenza degli Stati Uniti nella propria vita politica. A questo proposito, è stato appena il 27 febbraio scorso che il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, annunciava alla Duma che le forze armate russe sono ora in grado anch’esse di organizzare “rivoluzioni colorate”, con 28 anni di ritardo sugli Stati Uniti. Gli europei si rendono conto con stupore che i loro amici di Washington (i democratici Obama e Clinton, i repubblicani McCain e McConnell) hanno appena stoppato ogni speranza di crescita nell’Unione. Lo shock è certamente pesante, ma ancora non hanno ammesso che il presunto “imprevedibile” Donald Trump è in realtà il loro migliore alleato. Completamente storditi da questo voto, sopraggiunto durante le loro vacanze estive, gli europei si sono messi in stand-by.Salvo reazione immediata, le aziende che hanno investito nella soluzione adottata dalla Commissione europea per l’approvvigionamento energetico dell’Ue sono rovinate. Wintershall, E.On Ruhrgas, N.V. Nederlandse Gasunie, e Engie (ex Gdf Suez) si sono impegnate a raddoppiare il gasdotto North Stream, ora vietato dal Congresso. Perdono non solo il diritto di competere in gare d’appalto Usa, ma perfino tutti i loro beni negli Stati Uniti. È loro negato l’accesso alle banche internazionali e non possono continuare le loro attività al di fuori dell’Unione. Per il momento, solo il governo tedesco ha espresso il suo sgomento. Non si sa se riuscirà a convincere i suoi partner europei e a organizzare l’Unione contro la signoria Usa che la sovrasta. Mai una tale crisi si è verificata, e quindi non v’è alcun elemento di riferimento precedente che consenta di anticipare il seguito degli avvenimenti. È probabile che alcuni Stati membri dell’Unione difenderanno gli interessi degli Stati Uniti, così come sono concepiti dal Congresso, contro i loro partner europei.Gli Stati Uniti, come ogni Stato, possono vietare alle loro aziende di commerciare con l’estero e alle società straniere di commerciare con loro. Ma, secondo la Carta delle Nazioni Unite, non possono imporre le proprie scelte in materia ai loro alleati e partner. Eppure questo è ciò che hanno fatto a partire dalle loro sanzioni contro Cuba. A quel tempo, sotto la guida di Fidel Castro – che non era un comunista – il governo rivoluzionario cubano aveva lanciato una riforma agraria alla quale Washington intendeva opporsi. I membri della Nato, che nulla avevano a che fare con questa piccola isola dei Caraibi, ne seguirono l’esempio. A poco a poco, l’Occidente, sempre più pieno di sé, ha considerato cosa normale affamare gli Stati che osavano resistere al suo potente signore. Ecco quindi che – per la prima volta – l’Unione Europea è direttamente toccata da quel sistema che essa stessa ha contribuito a mettere in campo. Più che mai, il conflitto Trump/Establishment prende una forma culturale. Esso oppone i discendenti di immigrati alla ricerca del “sogno americano” a quelli dei puritani del Mayflower. Da qui, per esempio, la denuncia da parte della stampa internazionale del linguaggio volgare del nuovo responsabile della comunicazione della Casa Bianca, Anthony Scaramucci.Fin qui Hollywood si era perfettamente accomodata alle maniere degli uomini d’affari di New York, ma improvvisamente questo linguaggio da carrettieri è presentato come incompatibile con l’esercizio del potere. Solo il presidente Richard Nixon si esprimeva così. Fu costretto a dimettersi da parte dell’Fbi che ha organizzato lo scandalo del Watergate contro di lui. Eppure, tutti sono d’accordo nel riconoscere che è stato un grande presidente, ponendo fine alla guerra del Vietnam e riequilibrando le relazioni internazionali con la Cina Popolare contro l’Unione Sovietica. È sorprendente vedere la stampa della vecchia Europa riprendere l’argomento puritano, religioso, contro il vocabolario di Scaramucci per giudicare la competenza politica della squadra di Trump, e il presidente Trump stesso licenziarlo appena nominato. Dietro quella che può sembrare solo una lotta fra clan, si gioca il futuro del mondo. O rapporti conflittuali e di dominio, o di cooperazione e sviluppo.(Thierry Meyssan, “L’establishment Usa contro il resto del mondo”, da “Megachip” del 31 luglio 2017).È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.
-
Tsipras nelle mani della Lazard, la piovra del regime Ue
Mentre i media tallonano Yanis Varoufakis e Alexis Tsipras, in realtà «uomini di facciata ad uso del pubblico», il vero cervello dell’evoluzione tecnocratica europea è un super-banchiere francese, che risiede a Parigi in Boulevard Hausmann. Si chiama Matthieu Pigasse, si definisce “un socialista pro-mercato” nonché un fan dello “scontro frontale”. Secondo il “Wall Street Journal”, disegnerà «il futuro finanziario dell’Europa». Ha 46 anni ed è a capo dei consulenti del governo greco, in quota alla famigerata Lazard, banca d’investimenti internazionali già implicata nella maxi-speculazione contro il popolo greco. Pigasse «è stato coinvolto in alcune delle più importanti ristrutturazioni del debito sovrano in questi ultimi dieci anni», rivela Deborah Zandstra, socia di un team di avvocati che lavorano al dipartimento del debito sovrano della “Clifford Chance Llp”. La Lazard è una società di consulenza e gestione patrimoniale di New York, nata nel 2005. Il suo business: consulenze ai governi. Lazard è stata anche molto attiva in Africa, dove ha dato consulenze a Egitto, Mauritania, Congo, Gabon e Costa d’Avorio. L’anno scorso ha “aiutato” l’Etiopia ad emettere il suo primo miliardo di dollari di prestito in obbligazioni sovrane: un cappio attorno al collo del paese africano.Un business da capogiro, scrive “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”: già nel 2012, la Grecia ha versato a Lazard 28,5 milioni dollari per la consulenza degli ultimi due anni. Perché scegliere proprio Lazard anziché una delle altre boutique delle ristrutturazioni del debito? «La risposta: molti paesi non dispongono di elementi sufficienti per prendere le decisioni necessarie a negoziare il proprio debito basandosi solo sulle informazioni interne». In altre parole, anche il governo Tsipras sarebbe “ostaggio” dei tecno-bankster. Francis Fitzherbert-Brockholes, un esperto di ristrutturazioni del debito presso lo studio legale “White & Case”, dice che alcuni governi – loro clienti – potrebbero preferire Lazard «perché non negozia debito pubblico» e lascia trapelare «una percezione di assenza di conflitto di interessi». Tecnici che sembrano neutrali, ma in realtà lavorano per la speculazione internazionale a scapito degli Stati. Lazard ha quindi un’immagine diversa da quella della Rothschild, altra super-banca “indipendente”, che però ha lavorato per Cipro durante la sua crisi del debito e ha “aiutato” il Portogallo a ricapitalizzare il suo sistema bancario.«Mentre il background accademico di Pigasse non è niente di speciale – scrive “Zero Hedge” – è invece notevole che uno dei suoi colleghi di lavoro non sia altro che l’ex capo del Fmi ed ex candidato alle presidenziali francesi, caduto in disgrazia: Dsk», Dominique Strauss-Kahn. «Pigasse si è laureato in Francia alla Ena, una prestigiosa scuola per l’amministrazione che ha formato molti dei migliori funzionari del paese». Alla fine del 1990, ha lavorato al ministero delle finanze francese proprio sotto la direzione di Strauss-Kahn. «E’ entrato nella Lazard nel 2002 e si è guadagnato una reputazione di forte negoziatore dopo aver lavorato su una serie di affari molto grossi, compresa la fusione da 38 miliardi di dollari tra i giganti delle “utilities” Suez e Gaz de France». Curiosamente, aggiunge “Zero Hedge”, in questo ultimo specifico incarico greco, «non solo sarà in sintonia monetaria con il suo cliente», ma Pigasse condividerà – per così dire – anche «i legami ideologici», visto che «il banchiere è un socialista devoto», cioè aderisce al gruppo che più di ogni altro ha lavorato per costruire il regime oligarchico di Bruxelles e dell’Eurozona. Per inciso, Pigasse è anche comproprietario di “Le Monde”, che “Zero Hedge” definisce «quotidiano di sinistra».Mentre i media tallonano Yanis Varoufakis e Alexis Tsipras, in realtà «uomini di facciata ad uso del pubblico», il vero cervello dell’evoluzione tecnocratica europea è un super-banchiere francese, che risiede a Parigi in Boulevard Hausmann. Si chiama Matthieu Pigasse, si definisce “un socialista pro-mercato” nonché un fan dello “scontro frontale”. Secondo il “Wall Street Journal”, disegnerà «il futuro finanziario dell’Europa». Ha 46 anni ed è a capo dei consulenti del governo greco, in quota alla famigerata Lazard, banca d’investimenti internazionali già implicata nella maxi-speculazione contro il popolo greco. Pigasse «è stato coinvolto in alcune delle più importanti ristrutturazioni del debito sovrano in questi ultimi dieci anni», rivela Deborah Zandstra, socia di un team di avvocati che lavorano al dipartimento del debito sovrano della “Clifford Chance Llp”. La Lazard è una società di consulenza e gestione patrimoniale di New York, nata nel 2005. Il suo business: consulenze ai governi. Lazard è stata anche molto attiva in Africa, dove ha dato consulenze a Egitto, Mauritania, Congo, Gabon e Costa d’Avorio. L’anno scorso ha “aiutato” l’Etiopia ad emettere il suo primo miliardo di dollari di prestito in obbligazioni sovrane: un cappio attorno al collo del paese africano.
-
Bugie mondiali: Shell, Samsung e Gdf-Suez come Pinocchio
Ricchissimi, potentissimi. E soprattutto bugiardi. Al punto da meritarsi il “Premio Pinocchio”, attribuito da una platea di 61.000 persone. A guidare la lista sono tre grandi multinazionali planetarie: Shell, Gdf Suez e Samsung. L’accusa: devastazione ambientale, falsa immagine “verde”, sfruttamento degli operai, lavoro minorile. A “processarle”, a Parigi, sono decine di migliaia di cittadini: un record di partecipazione, che testimonia «la crescente indignazione dei cittadini verso i gravi impatti sociali e ambientali delle attività delle multinazionali», scrivono su “Comune-info” gli attivisti francesi di “Amici della Terra”, organizzatori del premio insieme a “Popoli Solidali – Action Aid France” e al Crid, Centro di ricerca e informazione per lo sviluppo. «Shell – scrivono – ha alzato le mani al cielo con il “Premio Pinocchio” nella categoria “Una per tutti, tutto per me” con il 43% dei voti, per la moltiplicazione dei suoi progetti di estrazione del gas di scisto in tutto il mondo, salvo che in Olanda, suo paese di origine, dove è sottoposta ad una moratoria».Mentre si vanta di svolgere le sue attività rispettando “principi ambiziosi”, scrivono gli “Amici della Terra”, questa multinazionale, come le altre grandi imprese petrolifere, dimostra che il suo comportamento, specie in Argentina e in Ucraina, è ben diverso: «Assenza di consultazioni delle popolazioni, pozzi scavati in zone naturali protette e su terreni agricoli, bacini all’aria aperta per le acque utilizzate per le perforazioni e quindi tossiche, opacità delle operazioni finanziarie». Alla Shell fa compagnia la francese Gdf Suez, “premiata” col 42% dei voti nella categoria “Più verde del verde”, a causa delle sue sbandierate “obbligazioni verdi”. «Lo scorso maggio scorso, questo gigante energetico aveva annunciato con fierezza di aver emesso la più importante “obbligazione verde” che fosse mai stata realizzata da un’impresa privata, raccogliendo due miliardi e mezzo di euro presso degli investitori privati per realizzare i suoi cosiddetti progetti energetici. Ma, osservando con maggiore attenzione l’iniziativa, si poteva rilevare che nessun criterio sociale o ambientale chiaro era associato a queste obbligazioni “verdi” e che inoltre l’impresa non aveva mai reso nota la lista dei progetti finanziati».Gli organizzatori del “premio” sospettano che le “obbligazioni verdi” possano essere serviti anche a finanziare «progetti distruttivi, come ad esempio le dighe di grandi dimensioni, come quella di Jirau in Brasile», che Gdf Suez cita come esempio, «mentre d’altra parte continua a investire massicciamente nelle energie fossili». Primeggia invece nella categoria “Mani sporche, tasche piene”, col 40% dei voti, la coreana Samsung, «per le indegne condizioni di lavoro negli impianti che fabbricano prodotti in Cina: ore di lavoro eccessive, salari da miseria, lavoro infantile». Nonostante ripetute inchieste, appelli della società civile e una denuncia depositata in Francia, «questa impresa leader dell’alta tecnologia si intestardisce a negare tutte queste accuse». Denunciando numerose violazioni dei diritti dei popoli e dell’ambiente, il “Premio Pinocchio” istituito nel 2008 è diventato sempre più importante, per premere sulle imprese chiedendo il rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e delle popolazioni. Una strada comunque in salita, ammette Juliette Renaud, degli “Amici della Terra”: «Le pressioni esercitate dalle lobby costringono i governi all’inazione».In Francia, una proposta di legge contro gli abusi delle multinazionali, «non è stata ancora messa in votazione e non è nemmeno iniziata la discussione». Se non altro, agginge la Renaud, «contrapponendo fatti concreti ai bei discorsi delle imprese», il “Premio Pinocchio” mostra che i vuoti giuridici permettono alle imprese di agire in completa impunità, in Francia e nel resto del mondo. Per Fanny Gallois, responsabile delle campagne di “Popoli Solidali – Action Aid France”, «ovunque nel mondo, uomini e donne si mobilitano per far rispettare i loro diritti e per ottenere delle condizioni degne di vita e di lavoro». Il “premio” funge da mefagono, premendo sui governanti: «E’ giunto il momento di considerare le multinazionali responsabili dei danni che causano». Secondo Pascale Quivy, del Crid, i decisori politici europei non dovrebbero sottovalutare la crescente popolarità del “Premio Pinocchio”, «emanando delle norme vincolanti per le imprese in materia di responsabilità sociale, ambientale e fiscale», da far applicare sia in Europa che nel resto del mondo. Illusioni? Con la probabile ratifica del Ttip da parte dell’Ue, attraverso il Trattato Transaltantico le multinazionali non solo continueranno a fare quello che vogliono, ma potranno addirittura dettare legge e punire, con pesanti sanzioni, gli Stati che oseranno ostacolarle in nome dei diritti per i quali si batte il “Premio Pinocchio”, gloriosa bandiera culturale di un’Europa civile che probabilmente sta per smettere di esistere.Ricchissimi, potentissimi. E soprattutto bugiardi. Al punto da meritarsi il “Premio Pinocchio”, attribuito da una platea di 61.000 persone. A guidare la lista sono tre grandi multinazionali planetarie: Shell, Gdf Suez e Samsung. L’accusa: devastazione ambientale, falsa immagine “verde”, sfruttamento degli operai, lavoro minorile. A “processarle”, a Parigi, sono decine di migliaia di cittadini: un record di partecipazione, che testimonia «la crescente indignazione dei cittadini verso i gravi impatti sociali e ambientali delle attività delle multinazionali», scrivono su “Comune-info” gli attivisti francesi di “Amici della Terra”, organizzatori del premio insieme a “Popoli Solidali – Action Aid France” e al Crid, Centro di ricerca e informazione per lo sviluppo. «Shell – scrivono – ha alzato le mani al cielo con il “Premio Pinocchio” nella categoria “Una per tutti, tutto per me” con il 43% dei voti, per la moltiplicazione dei suoi progetti di estrazione del gas di scisto in tutto il mondo, salvo che in Olanda, suo paese di origine, dove è sottoposta ad una moratoria».