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Archivio del Tag ‘genetica’

  • Da Bossi in poi, i “guerrieri” li sceglie il potere. E li votiamo

    Scritto il 30/5/19 • nella Categoria: idee • (5)

    La vittoria elettorale delle nuove destre è la logica conseguenza di tutto ciò che è accaduto negli ultimi 30 anni anni, in primis per colpa delle sinistre che hanno lasciato un vuoto abissale, abdicando a quello che sarebbe dovuto essere il loro scopo primario, e per logica conseguenza di uno schema del potere, pensato ed attuato perché cambiasse la società in termini reazionari, sia culturalmente che socialmente. Il progetto procede per gradi, dopo aver attraversato diverse stagioni dagli anni ‘70 ad oggi, passando per la strategia della tensione, attraverso il progetto atlantista piduista di spostamento a destra dell’asse politico-culturale ed economico-sociale, attraverso il Patto Stato-Mafia, dopo il divorzio tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, con tutte le nefaste conseguenze politico-economiche che hanno costituito l’attuale stato delle cose, siamo arrivati a percepire ed intravedere le nudità del Re. Così abbiamo abbaiato, ci siamo incazzati e abbiamo desiderato nuovi condottieri che ci portassero via da questo inferno in terra. Non potevamo sapere che i nuovi salvatori della patria e i loro contenitori del dissenso erano stati pensati e progettati proprio dagli stessi poteri forti che pensavamo ingenuamente di combattere.
    In cosa consiste il progetto della sovragestione? Partiamo dall’89, anche se la storia inizia molto, molto prima. Dopo il crollo del Muro di Berlino lo scenario geopolitico internazionale è mutato e il network dei poteri forti ha favorito ufficialmente, e non più sottotraccia, il vento delle nuove destre, ora tecnofinanziarie, ora populiste, ora di centrodestra, ora di centrosinistra, trasversali e apolidi. In Italia Tangentopoli è stato lo spartiacque tra il vecchio sistema oramai in putrefazione e la nuova classe dirigente, è stata l’occasione di aggiornare il sistema in termini dispotici, seguendo un paradigma liberista neocon, neo-aristocratico, di austerity, di svuotamento dell’apparato statale, di destrutturazione dello Stato Sociale, di impoverimento progressivo delle classi sociali; modello perseguito da tutto l’arco politico costituzionale, trasversalmente e senza distinzioni degne di nota. La Sovragestione del progetto di quella che sarebbe diventata la cosiddetta 2° Repubblica nasce molto prima, già prevista alcuni decenni fa; ed era facile previsione, perché dopo 20 anni di future austerity e di politiche economiche anti-statali, anti-sovraniste, di impoverimento del ceto medio, gli elettori si sarebbero naturalmente spostati negli anni verso contenitori populisti.
    E infatti, e per tempo, è corsa ai ripari, plasmando fin da subito negli anni ‘80 una forza che sarebbe cresciuta negli anni a venire: la Lega Nord, “pensata” dall’ideologo Miglio in contrapposizione proprio a quello statalismo italico, nata come formazione secessionista, anticipando su scala nazionale quell’Europa su due livelli, oggi cruda realtà, quindi cresciuta in un’ottica ed in una visione anti-sovranista, anti-statale e filogermanica. Quello fu il primo baluardo, il primo virus introdotto nel corpo morente italico. Contemporaneamente, fu la volta di Berlusconi che è stato il primo vero populista vincente e aggiornatore del palinsesto culturale, mentre il Pd si occupò della svendita del Belpaese e di inseguire anch’esso politiche liberiste neocon; fino alla creazione dei 5 Stelle, nati come contenitore moderno e di passaggio del dissenso popolare, oggi in crisi e forse al termine di un percorso che li ha visti utili idioti di una Sovragestione che li ha strumentalizzati, utilizzati e poi scaricati.
    Trent’anni di malapolitica imposta dalla Sovragestione hanno quindi favorito la pancia e la rabbia dell’elettorato che, anche a suon di propaganda divisoria, basata sulla paura e sull’odio, ha premiato oggi partiti come Lega e Fdi. Nessuna sorpresa, è andato tutto come doveva andare, in maniera assolutamente naturale e pacifica, senza alcuna sbavatura. Prossimo passo sarà quello di alzare finalmente l’asticella del consentito, ovvero l’affermazione sempre più ampia delle nuove destre in Europa e in tutti gli Stati che la compongono, diventando la longa manus di quella Sovragestione che da decenni manovra e favorisce mutazioni genetiche, per implementare politiche repressive, avviare la militarizzazione del territorio e aggiornare il sistema proprio in direzione di quell’Ordine Mondiale globalista che alcuni, forse, si sono scordati esista.
    Il centrosinistra e il centrodestra sono stati utilizzati in questi anni per implementare politiche liberiste e cambiare i connotati culturali, economici e sociali del paese; oggi il macro-potere della Sovragestione conclude il progetto proprio attraverso gli apparenti nemici di sempre, in realtà le sue inconsapevoli sentinelle, oggi preposte ad aggiornare lo stesso sistema di ieri e a renderlo sempre più elitario, sofisticato e potente. E’ la coda che si ricongiunge con la bocca della serpe, i contenitori del dissenso finto-rivoluzionari creati dalla testa per sostituirla e rendere eterno lo schema del potere. Un po’ come tirare una pietra dalla cima di un monte e lasciare che essa crei l’effetto domino della valanga; così funziona la Sovragestione…
    (Simone Galgano, “Le affinità elettive della sovragestione”, dal blog “Maestro di Dietrologia” del 27 maggio 2019).

    La vittoria elettorale delle nuove destre è la logica conseguenza di tutto ciò che è accaduto negli ultimi 30 anni anni, in primis per colpa delle sinistre che hanno lasciato un vuoto abissale, abdicando a quello che sarebbe dovuto essere il loro scopo primario, e per logica conseguenza di uno schema del potere, pensato ed attuato perché cambiasse la società in termini reazionari, sia culturalmente che socialmente. Il progetto procede per gradi, dopo aver attraversato diverse stagioni dagli anni ‘70 ad oggi, passando per la strategia della tensione, attraverso il progetto atlantista piduista di spostamento a destra dell’asse politico-culturale ed economico-sociale, attraverso il Patto Stato-Mafia, dopo il divorzio tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro, con tutte le nefaste conseguenze politico-economiche che hanno costituito l’attuale stato delle cose, siamo arrivati a percepire ed intravedere le nudità del Re. Così abbiamo abbaiato, ci siamo incazzati e abbiamo desiderato nuovi condottieri che ci portassero via da questo inferno in terra. Non potevamo sapere che i nuovi salvatori della patria e i loro contenitori del dissenso erano stati pensati e progettati proprio dagli stessi poteri forti che pensavamo ingenuamente di combattere.

  • Cosa ci manca per essere come Rosselli, Palme e Sankara

    Scritto il 07/5/19 • nella Categoria: idee • (6)

    Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà.  Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.
    Ha impegnato l’esercito in opere civili, e convertito parte dei fondi militari destinandoli a progetti di sviluppo. Ha liberato la donna dal giogo culturale maschile e proibito le mutilazioni genitali femminili, valorizzando quindi gli aspetti culturali costruttivi del suo paese e intervenendo su quelli deteriori. Ha chiesto di cancellare il debito estero di origine coloniale.  Un presidente non ancora quarantenne ha realizzato tutto ciò in quattro anni. L’emozione che sentiamo di fronte alle azioni di Sankara è un pugno nello stomaco per la nostra coscienza, perché ci fa vedere quanto e quanto in fretta è possibile cambiare. Palme ha proposto un mondo senza dittature, che controlla le armi nucleari, cancella l’apartheid, distribuisce la ricchezza e rende i lavoratori piccoli azionisti delle aziende per le quali prestano la propria opera. Rosselli ha insegnato a coinvolgere tutti, nelle decisioni che riguardano tutti, al fine di raggiungere il benessere per tutti: liberalismo come metodo, socialismo come fine.
    Potremmo forse considerare questi tre leader degli idealisti o, peggio, degli ingenui. Ingenuo sarebbe colui che guarda solo i propri ideali, incapace di comprendere il mondo per quello che è. Si dice che in politica il contrario dell’ingenuità sia invece il realismo, cioè la capacità di guardare la dura realtà e governare le masse di conseguenza, senza illusioni, per raggiungere quello che si può. Eppure, Sankara per conoscere il suo paese girava le città e le campagne anche in bicicletta, pagava il mutuo e quando morì c’erano pochissimi soldi sul suo conto corrente; aveva ben presenti i suoi nemici e sapeva quale pericolo rappresentavano per lui; Palme si oppose alla guerra in Vietnam (che gli Usa persero, e tale sconfitta dimostrò quanto fossero falsi i motivi per i quali era stata combattuta); Rosselli previde che l’esito della parabola nazifascista sarebbe stato una guerra fratricida. Che cosa accomuna questi tre leader? Tutti hanno usato in modo costruttivo le risorse materiali e mentali a disposizione, per raggiungere obiettivi di valore. Usare la cooperazione al posto della competizione, che ha nella guerra la sua fine più stupida e ingloriosa, non è certo mancanza di realismo politico.
    Il vero realismo politico è conoscere la miseria della nostra razza e, con i propri principi spirituali, trovare soluzioni per modificarla (la miseria, non la razza). Se siamo dunque qui a parlare di Rosselli, Palme e Sankara come dei “nostri esempi” è perché abbiamo perso quegli stessi esempi per strada considerandoli inconsciamente “idealistici”, e abbiamo dormito il sonno della ragione e della coscienza: tutti noi, sia le masse dei governati sia le élite dei cosiddetti leader, progressisti compresi. Il problema è proprio che Palme, Rosselli e Sankara sono ancora i nostri fari (fuori di noi) e non parte del nostro Dna (dentro di noi). È questo il paradosso della leadership: dichiariamo di seguirla ma non l’abbiamo interiorizzata. Guardiamo i nostri capi attuali. Non soltanto i soliti Kim, Putin, Trump, Erdogan, Orban, Bolsonaro, Maduro, Macron, Merkel, May e così via. Mi riferisco anche alle alte cariche dello Stato in Italia, nazionali e locali, rappresentanti della Costituzione che loro dovrebbero difendere. Quando siamo chiamati a un referendum si dimenticano di ricordare che, proprio secondo la Costituzione, l’esercizio del voto è dovere civico (guadagnato per noi da milioni di soldati e civili morti nell’ultimo conflitto mondiale).
    E noi non pensiamo che, se anche i politici “tradiscono le decisioni referendarie”, in Parlamento noi possiamo votare ancora (e ancora, e ancora) per ribaltare quei tradimenti, informandoci e dedicando mezz’ora del nostro tempo per mettere una croce sulla scheda. Gli stessi politici naturalmente non ricordano ai giornalisti il loro dovere di informare i cittadini prima del voto perché possano conoscere per deliberare. Tutti tacciono e, quando i parlamentari alterano l’esito referendario, la volta dopo noi ce ne stiamo a casa “per protestare”, come bambini incapricciati. È normale che, appena prima del referendum sulla Brexit, il “Sun” titolasse dando ancora indicazioni su come votare? Una decisione così importante avrebbe dovuto essere stata presa dai lettori di quel tabloid settimane prima del voto: un voto che non può essere cambiato dopo cinque anni, come nelle elezioni generali, ma che avrà impatto per decenni sulla vita del Regno Unito. Come è possibile che gli elettori abbiano deciso sulla base di un titolo di giornale?
    I nostri politici non hanno più, o non hanno mai avuto, la spiritualità di Sankara, Rosselli e Palme. E noi non abbiamo quel livello di spiritualità che, se fosse presente, ci farebbe rendere conto che avere capi politici come i nostri non è normale. Diceva Oscar Wilde che il coraggio è sparito dalla nostra razza o forse non lo abbiamo mai avuto veramente… perché, aggiungeva, ci facciamo governare dal terrore della società (che è la base della morale) e dal terrore di Dio (che è la base della religione). In un mondo governato dai principi spirituali, un presidente come Sankara sarebbe considerato un buon amministratore della cosa pubblica, e non un rivoluzionario; un politico normale, che con il cuore e la ragione dei buoni padri di famiglia favorisce la felicità di quelli che dipendono da lui. I politici diversi sarebbero visti come anomalie geneticamente modificate, involucri privi della coscienza, cioè della capacità di distinguere ciò che crea sofferenza da ciò che produce benessere. Il modello di leadership delle nostre società è invece quello del capobranco con il suo gregge, modello che produce povertà e dolore e che nessun essere spirituale accetterebbe mai come “normale”.
    Molti nostri predecessori sono morti sperando che noi avremmo raccolto la loro eredità di cambiamento. Finora non lo abbiamo fatto a sufficienza. Ma le crisi della coscienza sono salutari perché la risvegliano. Che cosa possiamo fare noi oggi di diverso? Quando ci troviamo di fronte a un problema, una crisi, un conflitto, qualcosa che non ci piace, possiamo guardarci dentro e interpellare la nostra scala dei valori, e se riusciamo anche la nostra scintilla divina; poi possiamo ripensare alla scintilla divina che ha animato persone come Palme, Rosselli e Sankara, collegarci ad essa e chiederci: “Ma io, lasciando perdere tutte le distorsioni che mi hanno raccontato sul realismo politico, che cosa farei in questa situazione seguendo i miei principi?”. E poi, possiamo agire di conseguenza. Se lo facessimo, a quel punto ci accorgeremmo che, come non siamo rivoluzionari noi, non lo erano nemmeno Rosselli, Palme e Sankara. Erano uomini con la U maiuscola e la schiena dritta, che hanno fatto semplicemente ciò che andava, ragionevolmente, fatto.
    (Zvetan Lilov, “Rosselli, Palme, Sankara e noi: il paradosso della leadership”, intervento al convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” organizzato dal Movimento Roosevelt il 3 maggio 2019 a Milano).

    Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà.  Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.

  • Paludata, ufficiale, noiosa: e la storia è sparita dalla scuola

    Scritto il 26/3/19 • nella Categoria: idee • (2)

    Tutti a lamentarsi che la storia è sparita nei programmi scolastici e negli esami di maturità. E tutti pronti a dire che siamo “prigionieri del presente” e del web, come dicono in tanti, da Liliana Segre a Giuseppe De Rita fino a Sergio Mattarella. Ma perché la storia è sparita dalle scuole, è colpa del governo in carica e della sua riforma? L’Italia viaggia ormai da anni tra l’amnesia, la nausea e la sazietà di storia. Eppure noi italiani avevamo tanti difetti, non siamo mai stati gran lettori, ma la passione storica ci coinvolgeva, eccitava perfino le tifoserie retrospettive. La storia era sangue e vita. C’erano riviste storiche assai diffuse, da “Historia” a “Storia Illustrata”, i settimanali d’opinione vendevano di più quando avevano in copertina personaggi e inchieste storiche (in particolare col duce). La storia divulgativa, sulla scia di Indro Montanelli, andava alla grande. La politica si richiamava alle provenienze storiche. Da qualche anno, invece, la memoria è passata dalla storia al moralismo, la storiografia si è ritirata in circuiti ristretti e il giudizio storico tocca ai tribunali che possono punire alcuni revisionismi ritenuti indecenti. La storia a scuola si è rimpicciolita, quasi ridotta all’età contemporanea, almeno dai tempi del ministro Luigi Berlinguer. La storia riappare nella sfera pubblica solo per revocare la toponomastica o cancellare le cittadinanze onorarie, per abbattere statue e monumenti non conformi allo spirito del presente. Non c’è più vita nel pianeta storia.
    Ma quali sono le radici storiche di questa perdita della memoria storica anche a scuola? Indicherei due cause prioritarie, intrecciate: una è l’americanizzazione sbarcata anche a scuola, che è la negazione della memoria storica e dello studio della storia; l’altra è l’onda lunga del ’68 che dichiarò guerra al passato, alla memoria e alla storia, vista solo come un cimitero di soprusi da cui liberarsi. I due fattori combinati hanno generato l’ossessione di attualizzare il passato e ridurlo ai precetti odierni. Col risultato di far nascere una storia Ogm, geneticamente modificata. Quella storia è oggi prevalente nelle scuole italiane, perché molti docenti sono osservanti del politically correct. A quei due fattori ne va aggiunto un altro: se Memoria si traduce solo con Olocausto, se la storia si riduce solo a Orrore e Male Assoluto, allora meglio rimuoverla, rifugiarsi nel presente, nella tecnologia o nell’economia. Se si parla di scomparsa della storia nei programmi scolastici e negli esami è dunque riduttivo prendersela col ministro in carica, Marco Bussetti, o col suo governo. Bisogna risalire ai presupposti “storici” che hanno reso ingombrante e molesta la storia, fino a cancellarla dagli orizzonti civili, didattici e culturali.
    Credo che qualche responsabilità l’abbia anche la “storiografia ufficiale” e accademica che vigila sul Canone e la sua osservanza, respinge il revisionismo e riconosce la ricerca solo se non smentisce il pre-giudizio dominante. Abbiamo dovuto aspettare gli storici divulgatori e giornalisti, come Giampaolo Pansa e Pino Aprile, e prima di loro Giorgio Pisanò, Arrigo Petacco e altri, per sapere qualcosa di più, finora non detto o non riconosciuto, sulla guerra partigiana e gli eccidi del dopoguerra, sulla storia d’Italia e la conquista del Sud; sulle foibe e sui regimi comunisti, su alcune biografie, sul caso Mattei o sulle pagine nere della nostra repubblica. La storiografia ufficiale si è distratta su troppi temi, non ha raccontato i lati in ombra, si è limitata a certificare e codificare la verità prestabilita. La storiografia ha responsabilità gravi se la coscienza storica è narcotizzata. Naturalmente non mancano storici rispettabili, studi e opere di spessore. C’è poi un altro aspetto che allontana dalla storia e riguarda il metodo e lo stile. Diceva Gioacchino Volpe, ispirandosi a Labriola, che la storia per essere credibile e appetibile, dev’essere “scienza del procedimento e arte della narrazione”, ovvero da un lato rigorosa ricerca che ricostruisce come sono andate effettivamente le cose e dall’altro capacità di raccontarle, di coinvolgere il lettore. Renzo De Felice, ad esempio, era dotato della prima ma non della seconda, come notava Montanelli (a cui forse si poteva rimproverare l’inverso, ma lui non pretendeva di scrivere testi scientifici). Volpe, che fu accademico ma in origine anche giornalista, anzi correttore di bozze, era dotato di ambedue. Così Rosario Romeo.
    Temo che oggi la “storiografia ufficiale”, con rispettabili eccezioni, faccia esattamente il contrario: la narrazione si fa paludata e noiosa, come un trattato scientifico, e il procedimento, cioè il metodo storico si fa artificioso, se non artefatto, perché sottomesso a omissis, pregiudizi ideologici e dogmi indiscutibili. Il risultato è un indigesto cumulo di ovvietà ma corredate da un sontuoso apparato di note. Tanto condimento per pietanze così scarse. A parziale consolazione della storia scomparsa, è ricomparsa l’educazione civica che torna nelle scuole in forma di “cittadinanza e Costituzione”. Bella cosa, sulla carta, ma col rischio che diventi l’ora del “politicamente corretto” in cui propagandare i temi del razzismo, l’accoglienza, l’antifascismo, l’omofobia e il sessismo. Il personale è già pronto per la missione. Preoccupa che l’ora di cittadinanza e Costituzione possa sostituire la conoscenza della storia e suggerire che la nostra storia cominci con la Costituzione, e la sua agiografia. Per rimediare a un errore, la cancellazione della storia, si rischia di farne un altro, la somministrazione del politically correct, il metadone ideologico dei nostri anni.
    (Marcello Veneziani, “Perché è scomparsa la storia?”, dal numero 11-2009 di “Panorama”; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Tutti a lamentarsi che la storia è sparita nei programmi scolastici e negli esami di maturità. E tutti pronti a dire che siamo “prigionieri del presente” e del web, come dicono in tanti, da Liliana Segre a Giuseppe De Rita fino a Sergio Mattarella. Ma perché la storia è sparita dalle scuole, è colpa del governo in carica e della sua riforma? L’Italia viaggia ormai da anni tra l’amnesia, la nausea e la sazietà di storia. Eppure noi italiani avevamo tanti difetti, non siamo mai stati gran lettori, ma la passione storica ci coinvolgeva, eccitava perfino le tifoserie retrospettive. La storia era sangue e vita. C’erano riviste storiche assai diffuse, da “Historia” a “Storia Illustrata”, i settimanali d’opinione vendevano di più quando avevano in copertina personaggi e inchieste storiche (in particolare col duce). La storia divulgativa, sulla scia di Indro Montanelli, andava alla grande. La politica si richiamava alle provenienze storiche. Da qualche anno, invece, la memoria è passata dalla storia al moralismo, la storiografia si è ritirata in circuiti ristretti e il giudizio storico tocca ai tribunali che possono punire alcuni revisionismi ritenuti indecenti. La storia a scuola si è rimpicciolita, quasi ridotta all’età contemporanea, almeno dai tempi del ministro Luigi Berlinguer. La storia riappare nella sfera pubblica solo per revocare la toponomastica o cancellare le cittadinanze onorarie, per abbattere statue e monumenti non conformi allo spirito del presente. Non c’è più vita nel pianeta storia.

  • Pietà per Michael Jackson, viveva come se fosse già morto

    Scritto il 21/3/19 • nella Categoria: idee • (3)

    A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.
    Non era mai capitato ma ci fu un mercato nero per procurarsi a caro prezzo un invito ai suoi funerali; e mai espressione come mercato nero fu più azzeccata per indicare un traffico di soldi illeciti intorno al funerale di un nero pentito. Funerali rinviati per gestire la gigantesca dimensione del cordoglio, a più di dieci giorni dalla morte. Fu un’icona e un prototipo di chi si rivolge alla tecnica e ai farmaci per manipolare la vita e risolvere i problemi che un tempo affidava alla religione, alla filosofia e al mito. Non esprimo giudizi morali di condanna per la sua vita né giudizi musicali di celebrazione davanti al suo corpo irriconoscibile, al suo naso ridotto ad una presa elettrica, alle sue labbra simili alla fessura di un bancomat, a un viso sfigurato che perde quel che Lévinas riteneva essere l’inalterabile specificità di una persona: il volto. Non aveva volto, Jackson. Quel che gli era rimasto addosso era una specie di mascherina estetico-funeraria, un incrocio tra il visage dall’estetista e la cera mortuaria da obitorio. Non voglio soffermarmi sulle accuse di pedofilia che lo hanno accompagnato anche in vita e tantomeno abbracciare gli alibi dei suoi fan che ebbe un’infanzia difficile e da ricco finanziò opere benefiche in favore dell’infanzia.
    Sbianchettandosi in quel modo orrendo tradì la sua identità e quella di tutti i neri della terra. Offese la negritudine. Quel suo essere un Ogm umano, geneticamente modificato per sfuggire alla sua identità, quel suo razzismo biologico, masochista, contro la sua origine, suscita un’infinita, irredimibile pietà. Quel suo stuprarsi la vita, resettare l’origine e la memoria, rivelava pena e strazio di vivere. E la sua immensa ricchezza, la sua straordinaria fama, non alleviavano quella pena, semmai la ingigantivano, la facevano più clamorosa e cosmica, fino a renderlo il testimonial planetario della condizione umana che volta le spalle al cielo e alla terra, cioè alla vita e all’immortalità, per vivere una gloriosa parodia di morte prolungata, uno spettacolo di agonia anestetizzata. Alla sua morte pensarono di asportargli il cervello per capire di che era morto. Ma al di là del referto medico, chi studia l’animo umano in rapporto alla vita e al suo svanire già lo sa. Jackson è morto di rifiuto della condizione umana e terrena, rifiuto della realtà, del mondo, orrore della vita e dei suoi limiti, ricusazione del fato.
    È martire della società postumana, transgenica e transumana, che si illude di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla, che si sottrae agli urti, all’invecchiamento e alla realtà per preservarsi pura e incontaminata in una surreale esistenza asettica che coincide con un’eutanasia. Fuori dall’età che avanza, fuori dal mondo. Terrore di contatti con gli umani. Odori umani troppo umani, schifo per le cose e per i cibi, cordone sanitario per ripararsi dalla vita e da quella rude e primitiva verità che è la natura. Figli nati senza incontro carnale, senza eros; della vita resta solo un’icona incorporea. E per sottrarsi alle passioni umane, analgesici e anoressia. Jackson era la proiezione su maxischermo di una condizione mentale diffusa tra chi vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla natura, dalla finitudine, dal declino: tatuaggi e chirurgie, pillole e lifting, alcol e droga, diete e radicali modifiche del proprio look, perché si soffre la propria identità, voglia di autocrearsi e di sottrarsi al carcere del proprio corpo. Antiche eresie, religioni gnostiche degenerate, paradisi artificiali che somigliano all’inferno. La cura di sé sfocia nell’imbalsamazione già da vivo.
    Il suo simulacro è quella cassa a ossigeno scelta per la toilette funeraria. E la sua location più appropriata era quella sua villa che si chiamava non a caso Neverland e che, non a caso, non riescono a vendere. La terra che non c’è per una vita che non c’era. Neverlife. Il simbolo più efferato di questa condizione postumana è il suo stomaco: era vuoto di cibi e pieno di pillole e sostanze contro il dolore, contro la depressione, contro l’ansia, contro i contagi. Nel suo stomaco si raccoglieva come un’urna il male occidentale, i suoi fantasmi, la sua paura di invecchiare, di morire, di soffrire, di contagiarsi, di finire in solitudine e di restare incarcerati nei limiti della condizione umana. Un rifiuto del destino, un odio del fato, che è stato fatale. Neverlife è l’epitaffio più sensato per titolare la compilation della sua vita. Ha speso la vita a organizzare il suo funerale. Non infierite ora a dieci anni dalla morte riesumando la sua vera o presunta pedofilia. Abbiate pietà di quell’uomo che si inflisse già da morto la pena di una vita sontuosa in fuga da se stesso, dal mondo, dagli umani.
    (Marcello Veneziani, “Michael Jackson, il nero pentito”, da “La Verità” del 17 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.

  • Ma Greta è antica come Malthus, l’infelice profeta dell’élite

    Scritto il 19/3/19 • nella Categoria: idee • (5)

    Siamo stati “creati” da antiche divinità o invece “fabbricati” dagli Elohim biblici come Yahvè, dunque “clonati” da entità forse extraterrestri? L’unica certezza è che, intanto, siamo qui a giocarcela: sta a noi provare a raddrizzare il mondo, anzitutto cercando di scoprire come ci siamo capitati. La teoria dell’evoluzione? Non spiega tutto, neppure quella. Ma viene usata nel modo peggiore, da chi ha rimpiazzato la Bibbia con Darwin per instaurare una nuova dominazione, quella del forte che prevale sul debole, con l’alibi della selezione naturale. Bisogna che qualcuno lo spieghi, alla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, trasformata in icona planetaria della mobilitazione culturale contro il cambiamento climatico, presentato come calamitoso prodotto delle sole, irresponsabili attività umane. Tutto comincia alla fine del ‘700 con l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus: nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, Malthus sostiene che l’incremento demografico produrrà penuria di cibo, dato che l’umanità – questa la sua tesi – cresce più in fretta della disponibilità di alimenti. Vero o falso?
    Rigido pastore anglicano, Malthus raccomandava il controllo delle nascite, mediante il ricorso alla “castità”. Oggi la popolazione mondiale è esplosa: siamo sette miliardi e mezzo, eppure buttiamo via il 43% del cibo e dei beni che produciamo. Non siamo mai stati così ricchi, eppure ci stiamo impoverendo. Cosa manca? Non le risorse, ma la loro ragionevole distribuzione, se è vero che 800 milioni di persone soffrono la fame. Malthus non poteva sospettare che saremmo stati così abili nel rivoluzionare i mezzi di produzione con la tecnologia, riducendo in modo impensabile il consumo proporzionale delle materie prime. Dieci anni fa, l’allarmismo ecologista evocava l’incubo del “picco del petrolio”, di cui non si parla più dopo che sono stati scoperti immensi giacimenti. Scienziati russi sostengono che il petrolio non sia affatto una risorsa non rinnovabile, ma che si generi costantemente in tempi rapidi. Carlo Rubbia, Premio Nobel per la Fisica, avverte che la Terra negli ultimi anni si sta addirittura raffreddando. Quanto alla CO2, responsabile solo in minima parte dell’effetto serra, Rubbia propone di risolvere il problema attingendo alla nuovissima tecnologia che permette di usare il gas naturale a impatto zero, senza alcun residuo di anidride carbonica.
    La verità più scomoda di tutte, spiega l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, è che nel secolo scorso siamo definitivamente usciti dal paradigma della scarsità: al punto da svincolare la moneta dalla zavorra del “gold standard”, il valore dell’oro – metallo prezioso perché raro – imposto come limite per evitare l’inflazione, cioè l’eccesso di valuta circolante rispetto alla quantità di merci disponibili. «Si assaltavano i forni perché mancava il pane, non essendovi abbastanza grano. Scenari oggi impensabili, impossibili – dice Galloni, su “ByoBlu” – perché la scarsità è stata storicamente sconfitta». Tranne che per un aspetto: la moneta. E’ detenuta da pochi, ed elargita col contagocce per nutrire l’usura finanziaria, da cui derivano le attuali sofferenze sociali. Ecco il punto, sottolinea Gioele Magaldi, che del Movimento Roosevelt è il presidente: è sempre meglio pesare con cautela le parole di chi predica sciagure imminenti. Non che l’atmosfera terrestre non sia fortemente alterata, o che quella dell’ecologia non sia una reale emergenza. Ma siamo sicuri che la soluzione sia proprio il freno ai consumi (cioè il taglio del welfare e del benessere diffuso) anziché invece, anche qui, l’acceleratore esponenziale della tecnologia, che poi è quello che ci ha permesso – in barba a Malthus – di crescere dieci volte tanto, imparando a produrre a bassissimo costo quantità immense di beni e merci, che infatti finiamo per gettare nella spazzatura?
    Beninteso, sappiamo perfettamente che le risorse dell’ecosistema-Terra non sono illimitate, precisa Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Ma siamo certi che sia davvero la piccola Greta a doverci spiegare dove stia, esattamente, il punto di non ritorno, ammesso che esista? Un consiglio: la problematica ecologica, a partire dall’inquinamento generato dalle fonti energetiche “sporche” come il petrolio e il carbone, è materia complessa: «Forse è il caso di adottare un approccio un po’ più serio». Le manifestazioni di massa? «Fa piacere vedere l’impegno di tanti giovani». Ma il punto è un altro: c’è qualche proposta precisa, sul tappeto, che non sia la decrescita infelice del 99% dell’umanità, a fronte dell’imperterrita super-crescita (felicissima) dell’élite planetaria che ha innescato tutti i nostri disastrosi squilibri, sociali e ambientali, fino a imbarcare disperati su carrette del mare verso le nostre coste? Tutti migranti che poi scoprono, amaramente, che in Italia e in Europa oggi si vive molto peggio di vent’anni fa, essendo scomparsa la mobilità sociale su cui era basata la grande prosperità di un intero continente, alimentata anche dalla scandalosa razzia coloniale a spese della stessa Africa.
    Quello che Greta non sa, probabilmente, è che il baby-retropensiero di cui è imbevuta non è attuale, è addirittura antico. Un presupposto ideologico completamente sbagliato, smentito nel modo più clamoroso già nell’800 dal filosofo statunitense Ralph Waldo Emerson, che scrisse: «Affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, Malthus dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione». E’ per questo, in fondo, che siamo ancora qui, e che siamo così tanti. Vogliamo dichiararci sconfitti? Tornare indietro, come propone Greta? Il dibattito è vasto: persino l’invincibile Impero Romano un bel giorno crollò, ricorda Giuletto Chiesa, autore di saggi spesso basati sulle previsioni catastrofistiche dell’influente Club di Roma. Siamo sicuramente a un bivio, sostiene anche Magaldi: ma il problema non è se crescere o decrescere. Seriamente: siamo stati noi, negli ultimi decenni, a decidere le sorti del mondo? Ci siamo espressi con dei referendum per approvare questa globalizzazione forsennata e per mettere in piedi l’attuale, orrenda Disunione Europea? No, certo. E allora perché saltare l’ostacolo, fingendo di poter incidere sul destino climatico della Terra, senza prima essere riusciti a ristabilire innanzitutto la democrazia a casa nostra, dove persino i bilanci vengono imposti dalle “divinità” di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto?
    Spiegate a Greta che il darwinismo sociale, quello che spinge il povero alla rassegnazione di fronte al potere “fisiologico” del ricco, è il più grande veleno mentale che sia stato immesso nella nostra società neoliberista, sintetizza Magaldi, che propone un antidoto chiamato John Maynard Keynes. Era il maggiore economista del ‘900, e ispirò il New Deal con il quale Roosevelt tirò fuori l’America dalla Grande Depressione, facendone la superpotenza mondiale che conosciamo. Come riuscì nella storica impresa? Tagliando le unghie alle banche speculative, padrone della “scarsità di moneta”, e spingendo lo Stato a investire fiumi di dollari, a deficit, per creare lavoro. Dai tempi di Nixon, la moneta – svincolata dall’oro – è tecnicamente illimitata, virtualmente a costo zero. Ma nel 1999 fu il “progressista” Bill Clinton a restituire a Wall Street l’antico potere, abrogando il Glass-Steagall Act, cioè la legge con la quale Roosevelt aveva separato le banche d’affari da quelle al servizio dell’economia reale. Da allora, è esplosa la follia finanziaria: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, il debito finanziario (titoli tossici) è 54 volte il Pil mondiale. E facciamo le pulci all’Italia perché il suo debito pubblico è 1,3 volte il suo prodotto interno lordo?
    C’è scienza, in questo delirio. E ha un nome odioso: si chiama dominio. Ha idea, la piccola Greta, di come uscirne? O pensa che, schioccando le dita e cantando “Bella Ciao” in inglese, gli ex cittadini (e ora sudditi, italiani e non) possano davvero cambiare di una virgola il futuro del pianeta, addirittura nella certezza teologica che persino il clima – mutato più volte, catastroficamente, dall’età della pietra – dipenda davvero al 100% dalla demenziale comunità umana? Gioele Magaldi non teme neppure di misurarsi con la parola consumismo, distinguendo: perché mai condannare quello dei poveri, fingendo che non esista quello dei ricchissimi? Inoltre: se fin qui ci ha sospinto l’innovazione, per quale motivo dovremmo escludere che la tecnologia possa arginare sensibilmente anche i guai dell’effetto serra? Lo dicono economisti autorevoli: continuiamo a chiamare “rifiuti” quelle che sono risorse riciclabili. Il problema? L’economia circolare è abbondanza, distrugge l’idea di scarsità di moneta con cui il potere ci incatena tuttora. Ma Malthus sta per perdere un’altra volta, di fronte all’avvento della rivoluzione cibernetica: anziché strapparci i capelli perché i robot cancelleranno vecchi mestieri, dice Magaldi, perché non pensare che avremo più tempo per inventare nuovi lavori, meno pesanti e ripetitivi? A una condizione: prima, bisogna tornare sovrani. E non sarà una passeggiata. Ma non si scappa: senza la riconquista della democrazia, potremo solo intonare “Bella Ciao” insieme a Greta.

    Siamo stati “creati” da antiche divinità o invece “fabbricati” dagli Elohim biblici come Yahvè, dunque “clonati” da entità forse extraterrestri? L’unica certezza è che, intanto, siamo qui a giocarcela: sta a noi provare a raddrizzare il mondo, anzitutto cercando di scoprire come ci siamo capitati. La teoria dell’evoluzione? Non spiega tutto, neppure quella. Ma viene usata nel modo peggiore, da chi ha rimpiazzato la Bibbia con Darwin per instaurare una nuova dominazione, quella del forte che prevale sul debole, con l’alibi della selezione naturale. Bisogna che qualcuno lo spieghi, alla giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, trasformata in icona planetaria della mobilitazione culturale contro il cambiamento climatico, presentato come calamitoso prodotto delle sole, irresponsabili attività umane. Tutto comincia alla fine del ‘700 con l’economista e demografo inglese Thomas Robert Malthus: nel suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, sostiene infatti che l’incremento demografico produrrà penuria di cibo, dato che l’umanità – questa la sua tesi – cresce più in fretta della disponibilità di alimenti. Vero o falso?

  • Cade ogni politico, se non serve più al potere che ci domina

    Scritto il 25/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (17)

    un po’ di vertigine, il saggio “Psyops” di Solange Manfredi, che illumina settant’anni di “guerra psicologica”, condotta in Italia. Indovinato: siamo il paese-cavia per eccellenza, dove sono state testate le peggiori tecniche di manipolazione, anche le più sanguinose (Gladio). Nessun’altra nazione, in Europa – ricorda l’autrice, in un’intervista alla trasmissione web-radio “Forme d’Onda” – ha subito altrettante atrocità, a causa del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che ha utilizzato servizi segreti e pedine dell’estremismo per mettere in piedi gli agguati degli anni di piombo e le stragi impunite nelle piazze. Pensiamo a una sigla come la Falange Armata: ha firmato 500 rivendicazioni, tra il ‘92 il ‘94, quando Tangentopoli abbatteva la Prima Repubblica e le bombe affidate alla manolavanza mafiosa condizionavano il sanguinoso esordio della Seconda, nata per sacrificare l’Italia del benessere e portarla a soccombere di fronte all’oligarchia finanziaria di Maastricht e del Trattato di Lisbona. L’Isis? E’ l’ultimo capolavoro della strategia della tensione a livello internazionale, riprodotta fedelmente secondo il modello sperimentato in Italia. C’è il referendum per la secessione della Scozia dal Regno Unito? Benissimo, e chi decapita, l’Isis, il giorno prima? Ovvio: uno scozzese. Negli Usa si vota per limitare ulteriormente le libertà del cittadino, con la scusa della sicurezza? E quindi è proprio un ostaggio americano, alla vigilia, a offrire la gola alla mannaia dello Stato Islamico.
    La regia è scandalosamente evidente, dice Solange Manfredi, così come il movente – per nulla connesso con Allah – dello stesso fondamentalismo religioso mediorientale, creato a tavolino per evitare che il Medio Oriente svoltasse verso il socialismo. Negli anni ‘50, ricorda l’autrice del saggio, i paesi arabi erano largamente laici. «Prima del golpe occidentale che portò al potere Saddam, l’Iraq aveva un ministro donna e si preparava a dare l’indipendenza ai curdi». Così, il governo di Baghdad è stato “suicidato”. Tutto ciò è orrendo? Certamente, ma dobbiamo sapere che è la regola. La storia non lo ammette? Lo si può capire: spesso è il sistema stesso a scriverla, imponendo la sua versione alla scuola. Storia, cioè guerre: nessuno dei conflitti che ricordiamo – dice Solange Manfredi – è stato innescato dai motivi ufficialmente noti. Dietro ogni guerra c’è una causa segreta, e il casus belli è sempre un’invenzione o comunque una manipolazione: da Pearl Harbor, dove il bombardamento giapponese era perfettamente atteso, al Golfo del Tonchino, in cui nessuna artiglieria vietnamita sparò mai contro la flotta Usa. Fino ovviamente all’11 Settembre, servito come alibi per invadere l’Iraq e l’Afghanistan, per poi terremotare tutto il Medio Oriente.
    Cronologia recente: primavere arabe, caduta di Mubarak in Egitto, morte di Gheddafi in Libia, guerra in Siria contro Assad, devastazione dello Yemen. Emergenze umanitarie e crisi dei migranti? Appunto. C’è sempre un’attenta regia che predispone gli scenari, pur scontando anche l’imprevedibilità relativa delle variabili. Certo, i colpi principali vanno spesso a segno: Mattei viene ucciso quando fa diventare l’Italia troppo ingombrante a livello geopolitico, e Moro è assassinato per gambizzare l’economia mista, pubblico-privata, che dovrà cedere il passo al neoliberismo. A sua volta, lo svedese Palme soccombe prima che possa diventare segretario generale dell’Onu, impedendo – fra le altre cose – la nascita dell’Ue nella sua attuale configurazione antidemocratica e antipopolare. Ma se gli eroi restano mosche bianche (Moro fu minacciato da Kissinger in modo brutalmente mafioso), la regola è invece un’altra: il politico di turno – Renzi, Formigoni – viene fatto uscire di scena quando non serve più, al potere che ne aveva assistito l’ascesa.
    Un meccanismo del quale il soggetto (premier, capo-partito, ministro) non è neppure pienamente consapevole, il più delle volte, salvo che per un aspetto: appena raggiunge la vetta, dice Fausto Carotenuto a “Border Nights”, la sua vita di trasforma in un inferno. Motivo: «Il suo primo pensiero, la mattina, diventa questo: chi ce l’ha con me? Chi vorrebbe farmi fuori?». Di manipolazione, Carotenuto se ne intende: per anni ha orientato il lavoro dei servizi segreti Nato. Oggi è approdato a una scelta drastica: la rinuncia sostanziale alla politica, giudicata impraticabile perché interamente manipolata. Un grande inganno, un gioco di specchi in cui nessuno è davvero quel che dice di essere. Dal canto suo, analizzando a fondo la storia italiana contemporanea sulla base di migliaia di documenti desecretati, a cominciare da quelli che comprovano l’arruolamento della mafia e di molti uomini-chiave del nazifascismo, da parte degli Usa, per controllare l’Italia post-bellica in senso anti-Urss, Solange Manfredi insiste su un punto: non è detto che i politici su cui il potere investe siano per forza mediocri, ma è essenziale che abbiano almeno un punto debole (da usare al momento oppurtuno, per liquidarli).
    In altre parole: un cavaliere senza macchia non diventerà neppure assessore. E se qualcuno sfugge al controllo – come Sankara – durerà al massimo una manciata di mesi, prima di venir tolto di mezzo. Il connotato etico dell’analisi si basa sulla distanza tra la verità ufficiale e quella sottostante, tra la democrazia ideale e sostanziale (espressa “in purezza”) e la post-democrazia attuale, completamente svuotata, ormai dominata in modo sempre più evidente dall’invadenza di gruppi di potere privatistici, economici e finanziari. Peraltro, sottolinea Gioele Magaldi nel suo saggio “Massoni” uscito a fine 2014, non è certo piovuta dal cielo neppure la sacrosanta democrazia cui fa giustamente riferimento Solange Manfredi: la prassi dell’uguaglianza – pari opportunità, diritto di voto, Stato laico, legge sovrana emanata dal Parlamento eletto dai cittadini – è il frutto storico dell’impegno settecentesco della massoneria, che ha “fabbricato” la Rivoluzione Francese e poi creato gli Usa. Viviamo dunque in una specie di colossale laboratorio zootecnico, come sostiene Marco Della Luna? Siamo prigioneri di uno smisurato allevamento planetario, popolato da masse interamente manipolate?
    Probabilmente è così da sempre, suggerisce Paolo Rumor nel saggio “L’altra Europa” basato sulle rivelazioni dell’esoterista francese Maurice Schumann, tra i fondatori dell’europeismo novecentesco già durante la Seconda Guerra Mondiale. La tesi: un organismo-fantasma, denominato “la Struttura”, reggerebbe le sorti del pianeta in modo ininterrotto, da qualcosa come 12.000 anni. Le 36 Ur-Lodges supermassoniche presentate da Magaldi potrebbero esserne l’estrema propaggine contemporanea? Dilaga il cosiddetto complottismo, anche perché il potere – sempre reticente – si è fatto aggressivo e sfacciato, nella sua alluvione quotidiana di “fake news”, cioè menzogne ufficiali truccate da notizie. Per un osservatore coraggioso e indipendente come Massimo Mazzucco, non manca il risvolto positivo: è vero che l’intrasfruttura web è comuque sempre controllata dai soliti poteri fortissimi, ma milioni di persone – proprio sulla Rete – oggi possono condividere informazioni preziose, non ortodosse, non convalidate dall’ufficialità. Informazioni di cui fino a ieri sarebbe stato impensabile disporre, e che tuttora – non a caso – sono irrintracciabili sui media mainstream, giornali e televisioni.
    Sta letteralmente esplodendo anche il fenomeno della nuova archeologia, che probabilmente costringerà gli storici a rivedere le narrazioni correnti sulla stessa origine dell’umanità sulla Terra. Narrazioni secolari cadono in pezzi: le ultime scoperte inducono a retrodatare (di parecchi millenni) monumenti fortemente simbolici come le piramidi, mentre affiorano un po’ ovunque i reperti che spingono gli studiosi della paleo-astronautica a ritenere che i nostri antenati siano venuti in contatto, nella notte dei tempi, con esseri sbarcati dallo spazio (probabilmente, i nostri “fabbricatori genetici”). Di qualcosa del genere parla il biblista Mauro Biglino, per anni traduttore dell’Antico Testamento per conto delle Edizioni San Paolo: il suo Yahvè – alla lettera – non ha nulla di “divino”. Non è eterno, né onnisciente, né onnipotente. E il suo rapporto col cielo è mediato dal Kavod, un velivolo rombante e pericoloso. Sono ancora gli Elohim come Yahvè a dominarci, attraverso i loro fiduciari terrestri? «Se un giorno si scoprisse che è così non me ne stupirei», dice Biglino, che però aggiunge: «Immagino che l’attuale esplosione demografica non fosse prevista: siamo oltre 7 miliardi, cioè tantissimi. Troppi, per qualsiasi potere dominante». Come dire: la partita è aperta, forse ce la possiamo giocare. Davvero?
    Il fatalismo complottistico è ben rappresentanto da celebrità come Davide Icke: i suoi invincibili Rettiliani finiscono per ricordare un po’ gli alieni molesti evocati da Corrado Malanga attraverso le sue ricerche, interamente fondate sull’ipnosi regressiva: ipotetici nemici troppo superiori per poter essere contrastati? La convinzione dell’esistenza di uno strapotere insormontabile (almeno, per via ordinaria) induce lo stesso Carotenuto a consigliare di lasciar perdere la politica: è tempo perso, dice. Meglio dedicarsi amorevolmente al prossimo: non è solo etico, ma anche funzionale. Ed è l’atteggiamento che il sistema di dominio più teme, perché è virtualmente contagioso. I politici? Ometti, per lo più. Scelti, dice Solange Manfredi, in base alle loro debolezze. Non sempre, certo: non tutti. Ma la lezione è utile per chi oggi assiste con delusione al declino del governo gialloverde, che ha ceduto su tutta la linea per sottomettersi ai poteri che usano Bruxelles per dominare i paesi come l’Italia. Guai, però, a sottovalutare il popolo: è vero che è sempre condizionato da precise élite, ammette Magaldi; ma da sole – aggiunge – quelle élite non le potrebbero fare, le rivoluzioni. Quella di cui si sente il bisogno oggi ha un nome preciso, si chiama democrazia. Rappresenta un’eresia della storia, un prodotto recentissimo. Di fabbricazione massonica? Certo. Ma alzi la mano chi vorrebbe tornare al potere del dittatore, all’arbitrio del monarca o del Papa-Re. Forse, come dice Mazzucco, la buona notizia è che oggi, nonostante tutto, se ne può parlare: in fondo gli orizzonti sono aperti, come non era mai successo.

    Sembra il nostro paladino, finalmente: l’amico del popolo. E invece è il loro uomo, l’ennesimo. Scelto per durare il necessario, capace di cavalcare l’onda grazie alle sue qualità, al suo appeal mediatico. Ma il “casting” iniziale ha individuato anche il punto debole, già in partenza. Esempio: corruzione, sete di potere e denaro. Oppure ambizione smodata, passione per le donne, o magari abuso di droghe e altre debolezze private. Saranno i tasti da pigiare al momento opportuno, quando l’ometto non servirà più e andrà bruciato. Di colpo, il suo dossier – compilato fin dall’inizio e pronto da anni – finirà ai magistrati (e alla stampa). Risultato: morte civile. Succede sempre, di continuo, secondo uno schema cinico e quasi noioso, nella sua monotonia. Formigoni e Renzi? Sembrano solo gli ultimi nomi della lista. Poi ci sono altri personaggi, di ben maggior peso. Magari finiscono in esilio ad Hammamet, o peggio: assassinati come Moro, fatti esplodere in aria come Mattei. Via loro, avanti un altro. Il gioco continua, perché serve a non cambiare mai le regole. E i padroni di quelle regole non siamo noi, salvo rarissime eccezioni, destinate a durare poco – come Olof Palme, premier svedese freddato da un killer nell’86, o Thomas Sankara, rivoluzionario leader del Burkina Faso massacrato nell’87 dopo soli quattro anni di governo, in cui aveva creduto di poter mettere fine, per davvero, alla schiavitù finanziaria dell’Africa.

  • Noi, fabbricati dagli alieni: Barbara Negri e il vita-forming

    Scritto il 01/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Non siamo soli, nello spazio? Contro-domanda: e come potremmo esserlo, se fossimo noi stessi il prodotto di una “creazione aliena”, cioè di un esperimento di “vita forming”? Lo ha affermato, clamorosamente, una scienziata come Barbara Negri, dirigente dell’Asi, l’agenzia spaziale italiana. Secondo Mauro Biglino, che ha tradotto 19 libri biblici per le Edizioni San Paolo, la Genesi lo racconterebbe chiaramente: l’homo sapiens sarebbe un prodotto genetico ricavato dalla clonazione degli ominidi, su cui sarebbe stato innestato il Dna dei misteriosi Elohim, gli individui come Yahvè (la Bibbia ne cita una ventina, chiamandoli per nome) che “fabbricarono” gli adamiti nel Gan, centro sperimentale per l’agricoltura e l’allevamento impiantato nella regione di Eden, fra la Turchia e il Mar Caspio. Da dove venivano, gli Elohim come Yahvè? «Ci sono forme di vita intelligenti, là fuori. E dobbiamo essere cauti nel riferirne, se non altro fino a quando non ne sapremo di più». Lo disse nientemeno che Stephen Hawking, cioè il fisico teorico, cosmologo, fisico matematico e astrofisico più importante dell’ultimo secolo. Si moltiplicano segnali inquietanti, come per prepararci a qualcosa che ricorda i fantascientifici “incontri ravvicinati”: non esiteremmo a battezzare gli eventuali “fratelli dello spazio”, dicono i gesuiti, che gestiscono sul Mount Graham in Arizona un potente centro di osservazione astronomica vocato all’indagine sull’esobiologia, cioè la vita extraterrestre.
    «Tra le varie tesi per spiegare l’origine e la provenienza degli Ufo, nel caso in cui si accertasse in modo inequivocabile la loro matrice extraterrestre intelligente e tecnologica», scrive “Blasting News”, gli ufologi hanno da sempre sostenuto che la specie umana «sia stata creata da creature provenienti da “altrove”, in grado di manipolare il Dna e capaci di “giocare” facilmente con la genetica, sperimentando nuove specie intelligenti e, quanto meno, simili ai loro “creatori”». Lo scopo, da parte di questi esseri ipoteticamente extraterrestri, sarebbe quello di «produrre manovalanza su vari corpi celesti, con obiettivi al momento ignoti». Lo racconta, in dettaglio, la mitologia dei Sumeri: gli Anunnaki (cioè gli equivalenti degli Elohim biblici) dovettero fronteggiare una pericolosa rivolta da parte dei loro lavoratori, costretti a faticare nelle miniere d’oro. A uno di loro venne in mente c’era una soluzione: per sostituire i lavoratori Anunna non restava che “fabbricare” lavoratori terrestri, ibridando gli ominidi (homo erectus, homo habilis) mediante l’innesto di Dna alieno. Sono dunque loro i nostri veri “fabbricatori”?
    «Si tratta ovviamente di tesi non comprovate – aggiunge “Blasting News” – ma che hanno avuto, col tempo, lo scopo di provare ad abbattere quel muro di scetticismo che ancora vige all’interno della comunità scientifica nazionale e internazionale nel campo delle origini della vita e, in special modo, in quello dell’apparizione “improvvisa” della specie umana sulla Terra». E a quanto pare, finalmente, quell’abbattimento è accaduto per davvero. La “rivelazione”, se così dobbiamo definirla, è stata fatta in diretta nel corso di una puntata della trasmissione televisiva “C’è Spazio”, andata in onda il 23 marzo 2017 su “Tv2000”, il canale televisivo dei vescovi italiani. Nella puntata intitolata “Primo Contatto”, condotta da Letizia Davoli (astrofisica, oltre che giornalista), Barbara Negri si è espressa in modo inconsueto, sulla possibilità di incontrare vita extraterrestre. Responsabile dell’unità dell’Asi che si occupa di esplorazione e osservazione dell’universo, la dirigente dell’Agenzia Spaziale Italiana ha risposto in questo modo: più che fare incontri sorprendenti, potremmo semplicemente accorgerci, un giorno, di essere stati “originati”, come homo sapiens, da esseri non terrestri. In termini scientifici: «Potremmo essere un esperimento di “vita-forming” di qualcun altro».
    E’ una delle ipotesi, precisa Barbara Negri, che invita a osservare lo sviluppo dell’uomo: la nostra capacità anche intellettuale, cerebrale, è “esplosa” in brevissimo tempo, quasi di colpo, «quasi come se ci fosse stata, diciamo, una “programmazione” a questa evoluzione, che sta veramente procedendo in maniera veloce». Quindi, insiste la Negri, secondo questa teoria «potremmo essere stati un esperimento di civiltà superiori, che hanno impiantato sulla Terra, proprio perché c’erano delle condizioni ambientali particolari, l’Esperimento Uomo». E quindi, «prima o poi potremmo essere anche visitati, per vedere a che punto è la nostra evoluzione». Fantascienza? «È una teoria», ribadisce la scienziata. La stessa Letizia Davoli aggiunge che, del resto, «la scienza non esclude niente». Tutto questo, conclude “Blasting News”, conferma che, da qualche tempo, «è in atto nell’ambiente scientifico un “cambio di paradigma” che ci porterà, probabilmente tra qualche decennio, a rispondere a quella domanda», ovvero: non siamo soli, nell’universo? Civiltà extraterrestri intelligenti e tecnologiche ci visitano? Ci hanno visitato anche nel passato storico? E addirittura hanno influito, in un modo o nell’altro, sull’evoluzione biologica e intellettuale della specie umana?

    Non siamo soli, nello spazio? Contro-domanda: e come potremmo esserlo, se fossimo noi stessi il prodotto di una “creazione aliena”, cioè di un esperimento di “vita forming”? Lo ha affermato, clamorosamente, una scienziata come Barbara Negri, dirigente dell’Asi, l’agenzia spaziale italiana. Secondo Mauro Biglino, che ha tradotto 19 libri biblici per le Edizioni San Paolo, la Genesi lo racconterebbe chiaramente: l’homo sapiens sarebbe un prodotto genetico ricavato dalla clonazione degli ominidi, su cui sarebbe stato innestato il Dna dei misteriosi Elohim, gli individui come Yahvè (la Bibbia ne cita una ventina, chiamandoli per nome) che “fabbricarono” gli adamiti nel Gan, centro sperimentale per l’agricoltura e l’allevamento impiantato nella regione di Eden, fra la Turchia e il Mar Caspio. Da dove venivano, gli Elohim come Yahvè? «Ci sono forme di vita intelligenti, là fuori. E dobbiamo essere cauti nel riferirne, se non altro fino a quando non ne sapremo di più». Lo disse nientemeno che Stephen Hawking, cioè il fisico teorico, cosmologo, fisico matematico e astrofisico più importante dell’ultimo secolo. Si moltiplicano segnali inquietanti, come per prepararci a qualcosa che ricorda i fantascientifici “incontri ravvicinati”: non esiteremmo a battezzare gli eventuali “fratelli dello spazio”, dicono i gesuiti, che gestiscono sul Mount Graham in Arizona un potente centro di osservazione astronomica vocato all’indagine sull’esobiologia, cioè la vita extraterrestre.

  • Hellyer: “L’alieno è tra noi” (e lo dicono anche i testi ’sacri’)

    Scritto il 27/1/19 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    L’alieno è fra noi, e ci protegge: lavora segretamente per evitare che l’uomo distrugga la Terra, impiegando le armi atomiche. E’ la tesi rilanciata dall’ingegner Paul Hellyer, già vicepremier e ministro della difesa del Canada, perfettamente al corrente – quand’era in carica – dei segreti strategici del Norad, la difesa missilistica nordamericana. Clamorose le sue prime esternazioni, nel 2005 all’università di Toronto: gli extraterrestri sono tra noi da sempre e si sono installati nel Nevada (Area 51) dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Obbiettivo: dialogare con gli Usa e convincerli a non ripetere l’esperimento. «Il loro aspetto umanoide li rende simili a noi, e ben 6 di loro siedono nel Congresso statunitense». Temono che l’umanità possa annientarsi, distruggere la Terra e creare ripercussioni nel cosmo. Nel 2004, aggiunse Hellyer, il presidente Bush chiese alla Nasa di creare una base avanzata sulla Luna entro il 2020: vero obiettivo, monitorare il traffico alieno e intercettare minacce dallo spazio, da parte di entità ostili. Tesi rilanciate nel 2014 in un’intervista a “Rt”: sarebbero almeno 80 le specie extraterrestri, anche “residenti” nel sistema solare, e alcune di queste collaborano con le autorità terrestri da mezzo secolo: dobbiamo a loro l’introduzione delle luci a led, dei microchip e di materiali come il kevlar. Ma in realtà, sottolinea l’ex ministro canadese, gli alieni sono tra noi da migliaia di anni.
    A dire il vero sarebbero i nostri effettivi “genitori”: lo sostiene Zecharia Sitchin, lo studioso azero naturalizzato statunitense, secondo cui gli antichi testi sumeri raccontano la “fabbricazione” dell’homo sapiens da parte degli Anunnaki, gli “dei” venuti dallo spazio. Secondo Mauro Biglino, a lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, l’Antico Testamento riproduce fedelmente i testi sumeri: la Genesi racconta la clonazione del maschio (l’Adàm) per dare origine alla femmina (Hawà, Eva). Figli delle Stelle, Anunna o Elohim biblici? Erano sempre loro: i testi antichi, poi trasformati in “libri sacri” con la successiva divinizzazione dei “theoi” operata dal pensiero greco-ellenistico, non fanno che parlare di loro. Le grandi religioni? «Sono nate, tutte insieme e in tutto il mondo, attorno al V secolo avanti Cristo, cioè quando questi personaggi – prima visibili, come Yahvè che parlava “faccia a faccia” con Mosè – sono improvvisamente scomparsi dalla circolazione». Biglino cita un padre della Chiesa vissuto nel III secolo, Eusebio di Cesarea. Nella sua “Praeparatio Evangelica”, Eusebio attinge al greco Filone di Biblos, che a sua volta riprende gli studi di Sanchuniaton, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Il fenicio racconta di aver rinvenuto, in un tempio egizio dedicato ad Amon-Ra, un memoriale sconcertante, secondo cui gli “dei” antichi – poi trasformati in oggetto di culto – erano in realtà individui in carne e ossa.
    Uno di loro, il babilonese Nergal, si narra che sganciò dal cielo armi micidiali, annientando intere città e provocando l’improvvisa desertificazione della Mesopotamia. Anche in questo caso la Bibbia fornisce una sorta di “fotocopia”, narrando la distruzione, mediante l’impiego dell’“arma del terrore”, di Sodoma, Gomorra e le altre città della Pentapoli sulle rive del Mar Morto. Armi in realtà descritte con precisione nei Veda indiani: Enrico Baccarini, appassionato ricercatore, rivela che le “tejas astras” (armi a energia) fuorono impiegate dai Deva (i “theoi” asiatici) nelle loro guerre stellari combattute anche sulla Terra. Un bombardamento di quel genere avrebbe raso al suolo la grande citttà di Mohenjo Daro, nella valle dell’Indo, scoperta dagli inglesi solo a metà dell’800. L’intera civiltà Arappa, spiega Baccarini, costringe gli archeologi a riconsiderare datazioni e sequenze storiche: fiorì infatti 11.000 anni fa. E rivela indizi che portano alla misteriosa presenza di paleo-astronauti. Per la verità, gli stessi Veda sostengono che l’universo sia abitato da 400.000 specie umanoidi. C’è da credere, a quegli antichi testi in sanscrito? Sulle “istruzuioni” dei Veda si sono basati scienziati aerospaziali indiani per realizzare un modellino di astronave (curiosamente, a forma di pagoda). E sempre i Veda, scritti migliaia di anni fa, indicano – con sconcertante precisione – la misura della circonferenza terrestre e la stessa velocità della luce.
    Ha ragione il fenicio Sanchuniaton, secondo cui il pensiero magico-religioso non sarebbe stato che un colossale depistaggio, organizzato dalla casta sacerdotale per tentare di mantenere i propri antichi privilegi? Ex dignitari di corte si trasformarono in clero, sostituendo (con l’adorazione di “divinità” invisibili) l’antica obbedienza a “theoi” un tempo visibilissimi, e tutti giunti sulla Terra – pare – dalle Pleiadi e dalla costellazione di Orione? Suggestioni sempre più insistenti, man mano che le istituzioni cominciano ad ammettere la possibilità di forme di vita extraterrestre. Roberto Pinotti (fondatore del Cun, centro ufologico nazionale) è uno degli ufologi più importanti al mondo, storico collaboratore dell’aeronautica militare italiana. Sostiene che gli avvistamenti anomali registrati negli ultimi decenni sono stati un milione, di cui il 40% (ben 400.000) classificati dalle autorità come “non terrestri”. Sembra che da più parti si stia lavorando per preparare l’umanità a rivelazioni clamorose riguardo ai “fratelli dello spazio”, come li chiama il gesuita Gabriel José Funes, argentino come Papa Francesco.
    Padre Funes è il direttore del potente osservatorio astronomico installato dalla Compagnia di Gesù sul Mount Graham in Arizona. A che serve, ai gesuiti, un centro astrofisico come quello? Dichiaratamente: a indagare proprio sull’esobiologia, cioè sulla “vita extraterrestre”, a quanto pare sempre meno ipotetica: per il canadese Hellyer, a nostra insaputa, vivremmo già in compagnia dei “biondi nordici” (o anche “bianchi alti”), da non confondere con i “bassi grigi”, alti appena un metro e 20 – più o meno come la creatura che si racconta sia apparsa nel 1858 nella grotta di Lourdes alla giovanissima Bernadette Soubirous, che la chiamava “aquerò” (in occitano, “quella là”). «Se vedeste un grigio, vi rendereste subito conto di vedere qualcosa che non avete mai visto prima», dice Hellyer. «Se invece vedeste una delle “bionde nordiche”, allora potreste pensare di aver incontrato una donna della Danimarca». I “grigi”, aggiunge l’ex vicepremier canadese, sono piccini. Hanno braccia e gambe sottili, testa grossa e grandi occhi marroni. «Sono quelli che si vedono nella maggior parte dei film». A proposito: sicuri che la fantascienza non contenga precisi messaggi, come per abituarci progressivamente all’idea degli inevitabili incontri ravvicinati?
    Biglino ricorda che erano ebrei gli ideatori di un supereroe dei fumetti come Flash Gordon, proveniente dal pianeta Krypton (nascosto). Creato negli anni Trenta, Flash Gordon è l’antenato di Superman. Nome originario, in ebraico: Kal-El, cioè “El rapido e leggero”. La presunta “divinità” con la quale viene in contatto Abramo si presenta con il nome di El Shaddai. La traduzione in italiano (“Dio l’onnipotente”) è totalmente inventata: lo dice la Bibbia di Gerusalemme curata dagli autorevoli biblisti domenicani, secondo cui “El Shaddai” vuol dire, semplicemente, “signore della steppa”, laddove “El” è la radice di Elohim, vocabolo convenzionalmente tradotto con “Dio” ma in modo arbitrario, «visto che nessun traduttore al mondo – sottolinea Biglino – è tuttora in grado di spiegare il significato della parola “Elohim”». La Bibbia? Dibattito infinito: bisogna però sapere, ribadisce Biglino, che quell’insieme di testi è stato incessantemente manipolato a partire dal II secolo avanti Cristo, e la manipolazione è terminata solo con la vocalizzazione introdotta dai Masoreti. Un lavoro di revisione proseguito fino all’epoca di Carlomagno. Risultato: dall’Antico Testamento “masoretico” sono spariti 11 libri, ripetutamente citati in vari passi della Bibbia stessa. Uno di questi riguarda “le guerre di Yahvè”.
    Il teologo cattolico Ermis Segatti conferma che la Bibbia non racconta la “creazione” dell’uomo: dice solo che «siamo stati fatti», cioè “fabbricati”, utilizzando materia preesistente. Corrado Malanga, ricercatore universitario a Pisa, sottolinea l’abisso che separa l’australopiteco dagli ominidi successivi: gli stessi genetisti, oggi, convergono sull’opportunità di riconsiderare i testi antichi come “libri di storia” ante litteram, capaci di spiegare il “missing link” tra uomo e scimmia. Un analogo “anello mancante” differenzia la patata commestibile dal tubero suo progenitore, e lo stesso grano dal farro selvatico: tutte specie comparse sulla Terra all’improvviso, grossomodo nel periodo che la Genesi indica come quello in cui erano in corso le sperimentazioni genetiche del Gan, in “giardino protetto e recintato” posto nella regione geografica di Eden, fra Turchia e Mar Caspio. In antica lingua persiana, è il termine “pairidaēza” a indicare il giardino recintato (da cui il greco “parádeisos”, fino al nostro “paradiso”). Se il pensiero “essoterico” ha fondato religioni, quello esoterico tende a fidarsi solo dei simboli: conterrebbero le tracce degli archetipi, cioè gli “eventi, materiali e immateriali” all’origine della nostra storia. Un corpus sapienziale che gli esoteristi riconducono a quella che chiamano “tradizione unica primordiale”. La sua provenienza? Ignota.
    Nel libro “L’altra Europa”, Paolo Rumor (nipote del più volte premier Mariano Rumor) racconta di un’unica dinastia di potere che reggerebbe il mondo da 12.000 anni. Sarebbe nata in Mesopotamia per poi trasferirsi in Egitto, quindi in Grecia e nel resto del Mediterraneo, dando vita a tutte le civiltà di cui si occupano gli storici. La chiama, semplicemente, “la Struttura”. Fonte: i diari del padre, Giacomo Rumor, che nel dopoguerra fu messo a parte di questo ipotetico grande segreto dall’esoterista francese Maurice Schumann, tra i fondatori del gollismo. Mesopotamia, Anunnaki: chi erano, in realtà, i Sumeri? Possibile che tuttora non si conoscano le origini di una fiorentissima civiltà nata dal nulla ma in possesso di conoscenze avanzatissime – agricoltura, architettura, diritto, astronomia – proprio sulle rive dell’Eufrate, cioè non lontano da quel Gan-Eden da cui, secondo la Genesi, fu cacciato Caino? Lo scozzese Graham Hancock suggerisce di rileggerle con occhi nuovi, le “impronte degli dei”, perché potrebbero riservarci grosse sorprese. Lo stanno già facendo: le piramidi scoperte a Visoko, in Bosnia, hanno 28.000 anni. E l’ipotetica metropoli appena rinvenuta in Sudafrica, a due passi dalle più antiche miniere d’oro del pianeta, ne avrebbe addirittura 160.000. Notizie, spunti, segnalazioni e ricerche al cui confronto, forse, rimpiccioliscono un po’ anche gli alieni di canedesi di Paul Hellyer.

    L’alieno è fra noi, e ci protegge: lavora segretamente per evitare che l’uomo distrugga la Terra, impiegando le armi atomiche. E’ la tesi rilanciata dall’ingegner Paul Hellyer, già vicepremier e ministro della difesa del Canada, perfettamente al corrente – quand’era in carica – dei segreti strategici del Norad, la difesa missilistica nordamericana. Clamorose le sue prime esternazioni, nel 2005 all’università di Toronto: gli extraterrestri sono con noi da sempre e si sono installati nel Nevada (Area 51) dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Obbiettivo: dialogare con gli Usa e convincerli a non ripetere l’esperimento. «Il loro aspetto umanoide li rende simili a noi, e ben 6 di loro siedono nel Congresso statunitense». Temono che l’umanità possa annientarsi, distruggere la Terra e creare ripercussioni nel cosmo. Nel 2004, aggiunse Hellyer, il presidente Bush chiese alla Nasa di creare una base avanzata sulla Luna entro il 2020: vero obiettivo, monitorare il traffico alieno e intercettare minacce dallo spazio, da parte di entità ostili. Tesi rilanciate nel 2014 in un’intervista a “Rt”: sarebbero almeno 80 le specie extraterrestri, anche “residenti” nel sistema solare, e alcune di queste collaborano con le autorità terrestri da mezzo secolo: dobbiamo a loro l’introduzione delle luci a led, dei microchip e di materiali come il kevlar. Ma in realtà, sottolinea l’ex ministro canadese, gli alieni sono tra noi da migliaia di anni.

  • Darpa, Ogm Usa: insetti-soldato per devastare l’agricoltura

    Scritto il 21/12/18 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Esistono prove evidenti del fatto che il Pentagono, attraverso la sua agenzia di ricerca e sviluppo Darpa, sta sviluppando insetti geneticamente modificati che sarebbero in grado di distruggere le colture agricole di un potenziale nemico. Quanto sostenuto è stato negato dalla Darpa, ma i principali biologi hanno lanciato l’allarme su ciò che sta avvenendo con l’impiego della nuova tecnologia Crispr per l’“editing genetico”, al fine di utilizzare, a tutti gli effetti, gli insetti per scopi militari. È come attualizzare la piaga biblica delle cavallette al 21° secolo, solo potenzialmente di gran lunga peggiore. La Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) del Pentagono sta finanziando un programma dal nome bizzarro, “InsectAllies”. Il dottor Blake Bextine della Darpa descrive il programma come «sfruttamento di un sistema naturale ed efficiente di attuazione, in due fasi, per trasferire i geni modificati alle piante: gli insetti vettore e i virus delle piante che essi trasmettono». Darpa sostiene che il programma è fornire «contromisure modulari, facilmente dispiegabili e generalizzabili contro potenziali minacce, naturali e progettate, all’approvvigionamento alimentare, con gli obiettivi di preservare il sistema colturale degli Stati Uniti». Badate al linguaggio: modulari, facilmente dispiegabili …
    Nell’ambito del progetto Darpa, gli agenti di alterazione genetica o virus saranno introdotti in una popolazione di insetti, per influenzare direttamente la composizione genetica delle colture. Darpa prevede di utilizzare cicadelle, mosche bianche e afidi per introdurre virus selezionati nelle colture. Tra le altre dubbie affermazioni, si dice che aiuterà gli agricoltori a combattere “i cambiamenti climatici”. In particolare, ciò a cui nessuno può dare una risposta, riguarda il fatto che né il Pentagono né la Fda americana si interrogano su: come i virus geneticamente modificati negli insetti interagiscono con altri microrganismi nell’ambiente? Se le colture sono costantemente cosparse da virus geneticamente modificati, come potrebbe ciò alterare la genetica e il sistema immunitario degli umani che dipendono dalle colture?
    Allarme di guerra batteriologica. Poiché la maggior parte dell’attuale approvvigionamento alimentare degli Stati Uniti è contaminato dal Roundup tossico e da altri erbicidi e pesticidi, assieme alle piante Ogm, si potrebbe dubitare dell’onestà delle affermazioni preoccupanti del Pentagono per l’attuale sistema colturale statunitense. Un gruppo di scienziati europei ha pubblicato un articolo scientifico nel numero 5 di ottobre della rivista “Science”, il cui autore principale è il dottor Guy Reeves del Max Planck Institute for Evolutionary Biology, Plön, Germania. Il documento rileva che il programma Darpa “InsectAllies” «mira a spargere i virus infettivi modificati, progettati per modificare i cromosomi delle colture direttamente nei campi». Questo è noto come “ereditarietà orizzontale”, in opposizione al metodo verticale dominante dell’alterazione degli Ogm, che produce modifiche generate in laboratorio nei cromosomi delle specie-bersaglio per creare varietà di piante Ogm. Le alterazioni genetiche alle colture sarebbero effettuate tramite “spargimento con gli insetti” all’aria aperta.
    Gli scienziati europei sottolineano che la Darpa non ha presentato motivi convincenti per l’utilizzo degli insetti, come mezzo incontrollato per lo spargimento di virus sintetici nell’ambiente. Inoltre, sostengono che il programma “InsectAllies” potrebbe essere più facilmente utilizzato per la guerra batteriologica, che per l’uso agricolo di routine. «È molto più facile uccidere o sterilizzare una pianta usando l’editing genetico, piuttosto che renderla resistente agli erbicidi o agli insetti», secondo Guy Reeves del Max Planck Institute. L’articolo di “Science” sottolinea che non c’è stata alcuna discussione scientifica, per non parlare della supervisione, della sicurezza di tali metodi di modifica genetica in campi aperti o anche se ci sono dei benefici. Il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti respinge categoricamente qualsiasi test di condizioni di sicurezza di piante o insetti geneticamente modificati. «Di conseguenza, il programma potrebbe essere ampiamente percepito come uno sforzo per sviluppare agenti biologici per scopi ostili e i loro sistemi di somministrazione, che, se fosse vero, costituirebbero una violazione della Convenzione per le armi biologiche». Finora, 27 milioni dollari dei contribuenti statunitensi sono stati spesi per “InsectAllies”.
    Tecnologia instabile. Sebbene i dettagli non siano disponibili, è più che certo che il progetto di editing genetico per InsectAllies, con gli strumenti di Crispr-Cas, utilizza quello che viene chiamato “gene drive”. Vi è un finanziamento consistente anche del “gene drive”, da parte della Darpa del Pentagono, che con editing genetico mira a forzare una modificazione genetica per la diffusione a un’intera popolazione, che sia di zanzare ed eventualmente umana, in poche generazioni. Lo scienziato che per primo ha suggerito lo sviluppo di unità geniche nell’editing genetico, il biologo di Harvard Kevin Esvelt, ha pubblicamente messo in guardia sul fatto che lo sviluppo dell’editing genetico, in combinazione con le tecnologie del “gene drive”, ha il potenziale allarmante di andare storto. Fa notare la frequenza con cui Crispr provoca danni e la probabilità di mutazioni protettive che si innalza, rendendo aggressivi anche i geni drive benigni. Sottolinea Esvelt: «Solo pochi organismi modificati potrebbero alterare irrevocabilmente un ecosistema».
    Le simulazioni del “gene drive” del computer di Esvelt hanno calcolato che un gene modificato risultante «può diffondersi al 99% di una popolazione in sole 10 generazioni e persistere per più di 200 generazioni». Nonostante ciò che potrebbe affermare Bill Gates, uno dei maggiori finanziatori dell’editing genetico, questa non è una tecnologia in alcun senso precisa. In Cina, gli scienziati hanno utilizzato embrioni umani, dati da donatori di embrioni, dai quali non sarebbe derivata la nascita di un individuo vivo, per modificare un gene specifico. I risultati si sono rivelati un brutto fallimento, poiché le cellule testate non sono riuscite a contenere il materiale genetico destinato. Il ricercatore principale, Jungiu Huang, ha detto a “Nature”: «Ecco perché ci siamo fermati. Pensiamo tuttavia che non sia ancora il tempo per ciò».
    Un laboratorio per le armi batteriologiche in Georgia per InsectAllies? Ci sono scienziati pazzi alla Darpa o altre agenzie del governo degli Stati Uniti che si preparano a scatenare nuove micidiali forme di agenti biotecnologici contro avversari come la Russia, oggi il più importante produttore di cereali al mondo e un paese i cui raccolti sono per legge senza Ogm? O contro la Cina, l’Iran o l’India? Una serie di recenti rapporti sui media russi e occidentali ha recentemente puntato i riflettori su un bio-laboratorio finanziato dal Pentagono, ad alta sicurezza, nelle vicinanze dell’aeroporto di Tbilisi in Georgia, limitrofo alla Russia. Il laboratorio, il Richard G. Lugar Center for Public Health Research, una struttura da 350 milioni di dollari, secondo i resoconti dei testimoni oculari georgiani è costruito secondo i cosiddetti standard Bio-Safety Level III, il che significa che può gestire tutto, tranne una manciata dei più pericolosi microbi conosciuti, compresi l’antrace e i batteri che causano la peste bubbonica. Il Lugar Center è composto da scienziati dell’Us Army Medical Research e del Material Command.
    All’inizio dell’anno, l’ex ministro della sicurezza dello Stato della Georgia, Igor Giorgadze, ha rilasciato un’intervista a Mosca, in cui ha affermato di avere prove che confermano che il centro ha allestito esperimenti rischiosi, in cui un certo numero di persone sono morte. Ha condiviso le sue prove con le competenti autorità russe. Tutto questo sembra un capitolo del romanzo di fantascienza del 1969 di Robert Crichton, “Andromeda”, solo che non è fantascienza. I tribunali dell’Ue hanno stabilito che la modifica genetica deve essere regolata, in quanto è un’altra forma di Ogm oppure organismi geneticamente modificati. Gli Stati Uniti hanno rifiutato regolamenti di qualsiasi tipo. Non è difficile credere che le persone che strappano il Trattato Inf (Intermediate Nuclear Forces) del 1987 e impongono ripetute sanzioni ai funzionari e all’industria russi, sarebbero tentate di scatenare o minacciare di scatenare una nuova bio-arma terrificante che, attraverso miliardi di virus modificati geneticamente – insetti infetti da virus per mezzo di editing genetico, distruggerebbero il granaio vitale della Russia, tutto nel nome della “pace mondiale”. Il Pentagono è impegnato, attraverso la Darpa, nella ricerca “a duplice uso” sviluppando un’arma biologica sotto l’apparenza di progresso agricolo? C’è chi direbbe: «Sì, ma nessuno sano di mente rischierebbe quello che potrebbe essere un’alterazione irrevocabile del nostro ecosistema». Ma, come ha osservato un biofisico, in relazione agli Ogm, «ci sono alcune persone che non godono di sanità mentale».
    (William Engdahl, “Perché il Pentagono utilizza gli insetti per scopi militari?”, da “Journal-Neo” del 20 ottobre 2018; post tradotto da “Nickal88” per “Come Don Chisciotte”. Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, ha conseguito una laurea in scienze politiche presso la Princeton University ed è autore di bestseller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”).

    Esistono prove evidenti del fatto che il Pentagono, attraverso la sua agenzia di ricerca e sviluppo Darpa, sta sviluppando insetti geneticamente modificati che sarebbero in grado di distruggere le colture agricole di un potenziale nemico. Quanto sostenuto è stato negato dalla Darpa, ma i principali biologi hanno lanciato l’allarme su ciò che sta avvenendo con l’impiego della nuova tecnologia Crispr per l’“editing genetico”, al fine di utilizzare, a tutti gli effetti, gli insetti per scopi militari. È come attualizzare la piaga biblica delle cavallette al 21° secolo, solo potenzialmente di gran lunga peggiore. La Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa) del Pentagono sta finanziando un programma dal nome bizzarro, “InsectAllies”. Il dottor Blake Bextine della Darpa descrive il programma come «sfruttamento di un sistema naturale ed efficiente di attuazione, in due fasi, per trasferire i geni modificati alle piante: gli insetti vettore e i virus delle piante che essi trasmettono». Darpa sostiene che il programma è fornire «contromisure modulari, facilmente dispiegabili e generalizzabili contro potenziali minacce, naturali e progettate, all’approvvigionamento alimentare, con gli obiettivi di preservare il sistema colturale degli Stati Uniti». Badate al linguaggio: modulari, facilmente dispiegabili…

  • Bush senior, il massone terrorista che ha sfigurato il mondo

    Scritto il 07/12/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partortito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.
    Lo spiega dettagliatamente Gioele Magaldi nel suo bestseller “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere: una clamorosa rilettura della storia del ‘900 illuminata da 6.000 pagine di documenti riservati. La tesi esposta: da decenni, il pianeta è condizionato dall’attività occulta di 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali che dettano le loro condizioni alle strutture “paramassoniche” sottostanti – Ue e Fmi, Banca Mondiale e Wto, Commissione Trilaterale, Bilderberg, Chatam House, Coucil on Foreign Relations – le quali poi, a loro volta, con i più noti strumenti di pressione finanziaria, supportano governi “amici” e silurano politici scomodi. Lo stesso Magaldi, massone, è stato iniziato nella “Thomas Paine”, capostipite delle superlogge progressiste: un mondo che ha prodotto personaggi come Roosevelt e Allende, Martin Luther King e Nelson Mandela, Gandhi e Giovanni XXIII, Olof Palme e Yitzhak Rabin. Fino agli anni Settanta, sostiene Magaldi, l’ambiente supermassonico progressista ha gestito in Occidente lo sviluppo industriale sul modello keynesiano, basato sulla spesa pubblica strategica per diffondere benessere in modo orizzontale. Erano i decenni del boom basato sul welfare, sui diritti sindacali e sulla mobilità sociale. Poi è arrivato il grande freddo, annunciato dal manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Trilaterale. Quindi gli anni ‘80: Reagan e la Thatcher, l’ordoliberismo di Kohl e la svolta reazionaria di Mitterrand, grande padrino dell’attuale Ue.
    Tutto l’Occidente aveva sterzato “a destra”. Ma quella retromarcia epocale, spiega Magaldi, era stata abilmente incubata da “menti raffinatissime” come quelle della “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller, abili a nascondere la propria identità supermassonica oligarchica e neo-feudale. Ad aggravare il quadro, è comparsa come un tumore maligno la “Hathor Pentalpha”, fondata proprio da Bush padre dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane del 1980. Era in corso una guerra inframassonica tra due superlogge neo-conservatrici, la “White Eagle” e la “Three Eyes”, divise su Reagan e Bush. Seguirono attentati: a quello contro Reagan, gli sponsor del neopresidente “risposero” con l’attentato a Wojtyla, che era stato eletto Papa con l’appoggio determinante di Zbigniew Brzezinski, lo stratega geopolitico della “Three Eyes” noto per aver reclutato Osama Bin Laden come combattente antisovietico in Afghanistan. Da quel momento, Bush padre fondò la propria Ur-Lodge, la “Hathor”, poi passata alla storia come “superloggia del sangue e del terrore”. Tra i suoi affiliati il francese Nicolas Sarkozy (la guerra in Libia), il violento autocrate turco Ergogan e l’inglese Tony Blair, che inventò le “armi di distruzione di massa” di Saddam.
    Se il mondo oggi è ridotto così, col Medio Oriente in fiamme e la nuova guerra fredda contro la Russia, il “merito” è di supermassoni come l’appena scomparso George Herbert Bush. «Così come altri personaggi, che aborro dal punto di vista dello stile umano e massonico, Bush senior è stato un grande contro-iniziato: non gli si può non riconoscere questa grandezza», dichiara Magaldi, in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente di quel Movimento Roosevelt che lo stesso Magaldi ha fondato, con l’obiettivo di rigenerare in senso democratico la politica italiana, sottraendola all’influsso dei circuiti finanziari supermassonici oligarchici. Magaldi si dichiara «impegnato a ricostruire un tessuto planetario egemone della massoneria progressista». Ma di fronte alla morte, sottolinea, «si deve rispetto anche al peggiore degli antagonisti». Con questo spirito, aggiunge, «il mondo potrebbe evolvere in termini più rapidi verso quei valori che proprio personaggi come Bush senior hanno cercato di conculcare: occorre sempre essere migliori dei propri nemici, senza perdonarli in modo banale, ma avendo quantomeno rispetto per il dolore dei loro cari». Detto questo, George Herbert Bush resta «un grande protagonista del Novecento e anche dell’apertura del nuovo secolo», inaugurata – “grazie” a lui – con la spaventosa strage dell’11 Settembre.
    Sul tema, Magaldi è esplicito: Bush padre è stato «coinvolto, con altri, nella creazione della “Hathor”, che è stata la protagonista della costruzione di quella grande narrativa inaugurata dall’abbattimento delle Torri Gemelle – o “colonne gemelle”, come le colonne del tempio massonico». Era di lunga data, l’ascendenza massonica della famiglia Bush: lo stesso George senior aveva militato «nei circuiti neo-aristocratici classici», quelli delle superlogge “Three Eyes” e “Edmund Burke”. Poi, a un certo punto, s’è trovato in mezzo alla lotta che opponeva la “White Eagle” alla “Three Eyes”, attorno all’elezione di Reagan. Da qui la scelta di mettersi in proprio, con la “Hathor Pentalpha”, degradando ulteriormente il panorama supermassonico neo-conservatore: fino al mostruoso attentato dell’11 Settembre. «Con quell’evento del 2001 – afferma Magaldi – George Herbert Bush inaugurò di fatto il XXI secolo. Aveva alla Casa Bianca il figlio, ma Bush junior era sotto la tutela di Dick Cheney, amico “fraterno” del padre, che l’aveva messo lì a guidare di fatto quella presidenza». Magaldi riflette sulla “mutazione” di George H. Bush, un personaggio che fino ad allora «era stato davvero il più classico e bonario dei massoni neo-aristocratici moderati».
    Certo, il vecchio Bush era pur sempre «un uomo che dietro l’apparenza bonaria aveva di fatto gestito le questioni americane in Cina per alcuni anni cruciali, era stato il capo della Cia e aveva percorso tutte le tappe dell’establishment». Poi, il cambiamento: dietro un’apparenza da classico massone del New England, George senior «ha traghettato la stessa famiglia Bush (e anche gli interessi massonici della “famiglia allargata”) verso altri lidi, spianando la strada alla mutazione genetica di un certo contesto massonico, che diventa assolutamente spregiudicato e quasi incontrollabile». Un gruppo di potere particolarmente violento, «inviso agli stessi cenacoli neo-aristocratici classici, che si trovarono spiazzati da ciò che veniva fatto dal 2001 in avanti». Secondo Magaldi, la grande tradizione della massoneria è progressista e democratica, «quindi l’iniziazione massonica è veicolo di costruzione e diffusione di libertà, democrazia e diritti, e non certo di terrore sanguinario (per di più subdolo)». Per questo, aggiunge, «George Herbert Bush è stato un contro-iniziato, avendo pervertito la specifica cifra massonica». Beninteso, «l’hanno fatto anche altri», ma lui «forse l’ha fatto in modo ancora più forte».
    Ecco perché sono inaccettabili le parole burgiarde di Barack Obama, che ora ha salutato Bush padre come “un grande patriota”. Magaldi definisce «il “fratello” Barack Obama» in modo poco lusinghiero: «Sedicente massone progressista ma in realtà personaggio mediocre, insipido e ipocrita, eletto presidente Usa grazie a una tregua massonica fra gruppi progressisti e gruppi neo-aristocratici classici, moderati, avversi a quel filone inaugurato da Bush senior con la “Hathor Pentalpha”». Tant’è vero che la superloggia “Maat”, nella quale fu iniziato Obama, «fu costruita da un altro grande protagonista della massoneria neo-aristocratica come Zbigniew Brzezinski, e da Ted Kennedy della massoneria progressista». Obama? «Era visto come un presidente che doveva realizzare una soluzione di continuità rispetto agli anni, molto bui, in cui Bush senior e Bush junior imperversavano dalla Casa Bianca sul resto del mondo, costruendo una narrativa del terrore di cui l’Isis era il portavoce visibile. Quindi – aggiunge Magaldi – che proprio Obama parli di Bush senior come di un “grande patriota” e di un “civil servant” è un atto di ipocrisia: un conto è rendere l’onore delle armi a chi se ne va, e un conto è avere questo atteggiamento inconsistente, che cancella tutte le verità storiche e sparge una melassa inodore e insapore che non fa più capire nulla», stendendo una coltre di nebbia sull’accaduto.
    Essendo malato, il “fratello” Bush senior era ormai ininfluente, in quell’ambito: «Veniva al massimo consultato». Ora, prosegue Magaldi, c’è grande confusione, in quell’ambiente, dopo l’elezione del “Maverick” Donald Trump, il “cavallo pazzo” della Casa Bianca: «Parecchi digrignarono i denti, per il suo insediamento, e Bush senior è stato tra i più fieri avversari dell’elezione di Trump, che andava a rompere le uova nel paniere di chi voleva – con Jeb Bush, l’altro suo figlio, o con altri candidati – reimpostare, dopo la doppia presidenza Obama, una nuova stagione di terrorismo globale». E così, “Hathor Pentalpha”, “Geburah” e altre superlogge oligarchiche del filone «malignamente eretico, cioè votate ad atti clamorosi e spregiudicati, davvero di sangue e di terrore, sono in grande difficoltà». Motivo: «Non controllando la Casa Bianca, in questo momento, le loro armi sono alquanto spuntate». Nonostante tutto, sottolinea Magaldi, Donald Trump è un “tappo”, rispetto a questi ambienti: lo odiano, perché non risponde alle loro indicazioni. Certo, Trump «è parimenti odiato dai progressisti all’acqua di rose, quelli che vanno a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedono la trave che sta nella loro testa».
    Il neopresidente poi è detestato dagli stessi gruppi neo-aristocratici, «sia quelli classici che quelli eversivi», perché Trump resta «un massone inclassificabile, svolge un suo copione narcisistico e rappresenta un problema anche per gli assetti dell’attuale globalizzazione». Tutto sommato, conclude Magaldi, Trump si è rivelato «una buona carta, da giocarsi in una visione di eterogenesi dei fini, da parte della massoneria progressista», che l’ha appoggiato sottobanco per stoppare prima Jeb Bush e poi Hillary Clinton. «Naturalmente bisogna andare oltre Trump: anzi, la presidenza Trump dev’essere uno stimolo per costruire un tessuto narrativo e operativo progressista che sia sostanziale, non formalistico o oleografico». Detto questo, dice ancora Magaldi, dalle parti della “Htahor Pentalpha” c’è grande confusione e parecchio nervosismo, oltre che un po’ di scoramento. «Noi speriamo che quell’anomalia rientri del tutto: vorremmo che quella specifica superloggia fosse proprio sciolta», chiarisce Magaldi. Lui e i suoi preferirebbero che la “guerra” per le sorti della globalizzazione si giocasse a viso aperto, tra circuiti progressisti e ambienti classicamente neo-aristocratici, magari reazionali ma «capaci di fermarsi davanti ad azioni turpi come quelle messe in opera dal 2001 in avanti fino ad anni recenti».
    La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: una battaglia sotterranea si sta combattendo tra sostenitori della sovranità democratica e propugnatori della post-democrazia, tecnocratica e finanziaria, di cui l’Unione Europea è probabilmente il peggior esempio mondiale. «C’è modo e modo di scontrarsi su presupposti ideologici diversi», dice ancora Magaldi. «La buona novella è che quei segmenti», protagonisti del terriorismo globale, ora «sono in grande difficoltà». Naturalmente nulla è mai definitivo, quindi «bisogna tenere gli occhi ben aperti», visto che «colpi di coda non sono da escludere». Ma Magaldi vede soprattutto segnali di stanchezza. «E oggi – dice – la morte di un campione di quel mondo, di quella mutazione genetica imprevedibile ed efferata, dovrebbe insegnare qualcosa: quando un ciclo finisce, bisogna anche accettarlo». Quel che c’è sapere, comunque, è che la stagione nera inauguarata dal crollo delle Torri Gemelle – cui seguirono a cascata le guerre in Iraq e in Afghanistan, le rivoluzioni colorate e le primavere arabe fino alla guerra civile in Libia e all’orrore scatenato dall’Isis, prima in Siria e poi in Europa – non è stata una sorta di fisiologia maligna del pianeta, ma un cancro sapientemente coltivato da uomini spietati come George Herbert Bush. Lui e i suoi complici sono stati protagonisti della recente strategia della tensione internazionale che ha colpito milioni di persone con una sistematica sequenza di menzogne e di morte: prima le “fake news”, poi le stragi “false flag”.

    E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partorito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.

  • Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos

    Scritto il 15/11/18 • nella Categoria: idee • (16)

    Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
    Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.
    L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).
    La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).
    La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).
    La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).
    La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.
    Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.
    Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.
    Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).
    Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.
    Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.
    La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.
    (Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).
    https://mariodandreta.net/
    Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:
    Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor Books
    Blumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.
    Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, Milano
    Carli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.
    Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.
    Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: Karmac
    McClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of Cambridge
    Mead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago Press
    Moscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.
    Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & Rinehart
    Transnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015

    Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».

  • La faccia tosta di Prodi, il pifferaio della svendita dell’Italia

    Scritto il 15/11/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.
    Questo è l’uomo che ha oggi la faccia tosta di lanciare un appello (sulle pagine del “Corriere della Sera” di venerdì 5 ottobre) per salvare l’Italia che, parole sue, «rischia di diventare una democrazia illiberale». Democrazia illiberale è un termine interessante, quasi un lapsus. Il binomio democrazia-liberalismo si è infatti dissolto da un pezzo, come hanno spiegato, fra gli altri, Colin Crouch e Wolfgang Streeck: i nostri sono regimi post-democratici, nei quali la democrazia si riduce all’esercizio formale di alcune procedure, mentre le vere decisioni sono delegate ai “mercati” (mitiche entità impersonali dietro cui si celano gli interessi di ben precise caste economiche), in nome dei quali governano esecutivi che giustificano le proprie decisioni antipopolari con i vincoli (che loro stessi hanno scelto di autoimporsi!) dettati da istituzioni sovranazionali prive di legittimazione democratica. Regimi liberali, nel senso che vengono ancora rispettati i diritti civili e individuali (ma non quelli sociali!), ma certamente non democratici, come ha sperimentato sulla propria pelle il popolo greco.
    Parlando del pericolo dell’avvento di una “democrazia illiberale”, Prodi e soci manifestano la propria paura che possa ritornare una democrazia capace di far valere gli interessi delle classi subalterne. Un ritorno che, causa la latitanza delle forze politiche che avrebbero dovuto difenderla (quelle sinistre che oggi ballano come topolini al suono dei pifferi liberali), ha assunto il volto “barbaro” della rivolta populista: dall’elezione di Trump, alla Brexit, alla bocciatura del referendum renziano, passando per la valanga di voti raccolti da formazioni di diversa coloritura ideologica (Lega e M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, ecc.) ma accomunate dal rifiuto del pensiero unico liberal/liberista. Per certa gente la democrazia diventa illiberale quando capisce che il popolo non la segue più, che non riconosce più la loro autorevolezza di “esperti” e pretende di avere voce in capitolo su temi che è troppo rozza per capire. È allora che viene agitato lo spettro di una democrazia che può trasformarsi in “dittatura della maggioranza”, o addirittura suicidarsi, aprendo la strada all’avvento di regimi totalitari. È allora che si lanciano appelli come quello di Prodi (rilanciato da Gentiloni il giorno seguente) che invita a costruire un fronte “antipopulista” che dovrebbe andare da Macron a Tsipras.
    Quale sublime sfrontatezza: si chiama a raccolta Tsipras, l’uomo che ha tradito il voto del suo popolo, piegandosi alla volontà della Troika e accettando che la Grecia venisse ridotta allo stato di colonia, un uomo che non ha più alcun titolo per dirsi di sinistra (giustamente Mélenchon ne ha chiesto l’espulsione dal gruppo parlamentare della sinistra europea), accostandolo a Macron, l’uomo che dopo essere stato eletto in nome di una sacra unione antipopulista, è riuscito, a causa alle sue scellerate scelte antipopolari, a perdere in tempi brevissimi il consenso raccolto con quell’espediente. Senza operare alcuna riflessione autocritica, si rilancia un progetto che si è già dimostrato fallimentare, nella speranza di poter cancellare – con la complicità del terrorismo mediatico – l’evidenza dei fatti e di far dimenticare ai cittadini il recente passato. Non funzionerà. O meglio: non funzionerà per la maggioranza dei cittadini, funzionerà invece nei confronti dei resti d’una sinistra che continua a correre verso il baratro come un branco di lemming.
    (Carlo Formenti, “Prodi ovvero il pifferaio stonato”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2018).

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.

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