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Archivio del Tag ‘genetica’

  • “Dovete morire prima”, adesso non è più una battuta

    Scritto il 28/9/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    «Il progetto di riduzione del capitale umano in eccedenza (ossia le persone in carne ed ossa) ha fatto un altro passo in avanti. Prima l’innalzamento dell’età pensionabile e adesso la riduzione drastica degli standard sanitari, non possono che produrre quell’abbassamento dell’aspettativa di vita che tante preoccupazioni suscita tra i tecnocrati del Fmi, dell’Ocse e dell’Unione Europea». Quello che fino a ieri si poteva già intuire, ora si sta trasformando in legge, scrive Sergio Cararo: la “fiction” sta diventando realtà, da quando il governo Renzi, attraverso il ministro Beatrice Lorenzin «ha calato le sue carte (o meglio i suoi tagli) sulle prestazione sanitarie». Quelle che saranno soggette a restrizioni salgono da 180 a 208 e riguardano tra l’altro odontoiatria, radiologia, prestazioni di laboratorio e non solo. Ai sindacati dei medici è giunta una lunga lista di prestazioni sotto la lente, con annesso il parere del Consiglio Superiore di Sanità. «Queste prestazioni, se ritenute non necessarie, saranno a pagamento da parte degli utenti, e se ritenute “inappropriate” prevederanno sanzioni contro i medici che le hanno prescritte».
    I sanitari contestano la limitazione della loro libertà di agire secondo “scienza e coscienza”, mentre si attende il verdetto della conferenza Stato-Regioni. Secondo Massimo Cozza (Cgil Medici), «il fatto che il medico debba giustificare la prestazione rischia di non portare ad un risultato di qualità sulla salute». Sfogliando l’elenco delle prestazioni soggette a restrizione, scrive Cararo su “Contropiano”, si ricava subito l’idea che per le cure dentarie l’intero settore viene consegnato esclusivamente ai dentisti privati: sono infatti tutelati solo i minori di 14 anni e le persone ritenute vulnerabili a livello sociale o sanitario. Per colesterolo e trigliceridi, è previsto che l’esame sia eseguito «come screening in tutti i soggetti con più di 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci». Ma, in assenza di valori elevati o di interventi terapeutici, «l’esame è da ripetere a distanza di 5 anni», prima di poter essere nuovamente a carico del sistema sanitario nazionale. «In quei cinque anni, se si vuole controllare colesterolo e trigliceridi, ognuno dovrà pagare di tasca propria».
    Per quanto riguarda invece la risonanza della colonna (cervicale, toracica, lombosacrale) le condizioni di erogabilità prevedono che vi sia una “condizione di dolore rachideo in assenza di coesistenti sindromi gravi di tipo neurologico o sistemico, resistente alla terapia, della durata di almeno 4 settimane; traumi recenti e fratture da compressione. In caso di negatività l’esame non deve essere ripetuto prima di 12 mesi”. Una risonanza muscolo-scheletrica (spalla, braccio, mano, gomito, ginocchio) sarà eseguita solo in caso di patologia traumatica acuta, di diagnosi radiologica incerta, di dolore persistente, nonché in fase post-chirurgica (complicanze) e di sospetta infiammazione. E in ogni caso, l’esame non sarà ripetibile prima di tre mesi. Tra le prestazioni col contagocce, anche i test genetici: rimangono a carico della sanità pubblica quelli a scopo di trapianto. Novità anche per i test allergologici e le immunizzazioni per allergia o per malattia autoimmune, che sono a carico del sistema sanitario solo se prescritti a seguito di visita specialistica allergologica o dermatologica.
    «Siamo dunque di fronte ad una prospettiva pericolosa», scrive Cararo: «Riduzione delle cure per motivi economici oppure intenso ricorso alla sanità privata per chi può permetterselo». Emerge un paradosso vistoso: «Se si lavorerà più a lungo – e con la legge Fornero ormai in Italia sono stati battuti tutti i record – e ci si potrà curare di meno, è evidente come una quota crescente della popolazione “leverà le tende” dalla vita (e dai conti previdenziali) molto prima delle generazioni precedenti». Cararo non ha dubbi: «E’ l’eugenetica sociale, questa volta senza lager e fili spinati, semplicemente con leggi approvate in Parlamento e decise a Bruxelles». Mesi fa suscitò scandalo l’uscita di una donna che siede in un governo europeo, Rimante Salasevicuite, ministro della sanità della Lituania: meglio l’eutanasia, disse, piuttosto che cure troppo costose per chi non può permettersele. Sembrava una battuta, una macabra gaffe. Ma poi a darle manforte intervenne a più riprese il Fmi: l’età media si è troppo innalzata, gli anziani ancora in vita mettono in crisi i sistemi pensionistici. Ora arrivano i tagli sanitari del governo Renzi. Avanza, inesorabile, il piano oligarchico attuato con l’euro: colpire i cittadini tagliando lo Stato. Grandi sofferenze, ampiamente previste. E questo non è che l’inizio.

    «Il progetto di riduzione del capitale umano in eccedenza (ossia le persone in carne ed ossa) ha fatto un altro passo in avanti. Prima l’innalzamento dell’età pensionabile e adesso la riduzione drastica degli standard sanitari, non possono che produrre quell’abbassamento dell’aspettativa di vita che tante preoccupazioni suscita tra i tecnocrati del Fmi, dell’Ocse e dell’Unione Europea». Quello che fino a ieri si poteva già intuire, ora si sta trasformando in legge, scrive Sergio Cararo: la “fiction” sta diventando realtà, da quando il governo Renzi, attraverso il ministro Beatrice Lorenzin «ha calato le sue carte (o meglio i suoi tagli) sulle prestazione sanitarie». Quelle che saranno soggette a restrizioni salgono da 180 a 208 e riguardano tra l’altro odontoiatria, radiologia, prestazioni di laboratorio e non solo. Ai sindacati dei medici è giunta una lunga lista di prestazioni sotto la lente, con annesso il parere del Consiglio Superiore di Sanità. «Queste prestazioni, se ritenute non necessarie, saranno a pagamento da parte degli utenti, e se ritenute “inappropriate” prevederanno sanzioni contro i medici che le hanno prescritte».

  • Cremaschi: dopo 44 anni lascio la Cgil, ha tradito i lavoratori

    Scritto il 21/9/15 • nella Categoria: idee • (5)

    La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi. La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo. Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.
    Nei primissimi anni ‘70 del secolo scorso a Bologna come lavoratore studente ho preso con orgoglio la mia prima tessera Cgil. Poi sono stato chiamato a Brescia per cominciare a lavorare a tempo pieno nella Fiom. Nella quale sono rimasto fino al 2012. Ho visto cambiare il mondo, ma se tornassi indietro con la consapevolezza di oggi rifarei tutte le scelte di fondo. Scherzando penso che io ed il mondo siamo pari, io non sono riuscito a cambiarlo come volevo, ma pure lui non ce l’ha fatta con me. Quando ho cominciato a fare il “sindacalista” a tempo pieno questa parola suscitava rispetto. Io la maneggiavo con un po’ di timore. Il sindacalista era una persona giusta e disinteressata che raddrizzava i torti, era il difensore del popolo. Oggi se dici che sei un sindacalista ti vedi una strana espressione intorno, molto simile a quella che viene rivolta ai politici di professione. Sindacalista, eh? Allora sai farti gli affari tuoi…
    Questo discredito del sindacato è sicuramente alimentato da una disegno del potere economico e delle sue propaggini politiche ed intellettuali. Ma è anche frutto della burocratizzazione e istituzionalizzazione delle grandi organizzazioni sindacali. Paradossalmente oggi è proprio il sindacalismo moderato della concertazione, che ho contrastato per quanto ho potuto, ad essere messo sotto accusa. Negli anni ‘80 e ‘90 è stata la mutazione genetica del sindacato più forte d’Europa, la sua scelta di accettare tutti i vincoli e le compatibilità del mercato e del profitto, che ha permesso al potere economico di riorganizzarsi e riprendere a comandare. In cambio le grandi organizzazioni sindacali hanno chiesto compensazioni per se stesse. Questo è stato il grande scambio politico che ha accompagnato trent’anni di politiche liberiste contro il lavoro. I grandi sindacati accettavano la riduzione dei diritti e del salario dei propri rappresentati e in cambio venivano riconosciuti ed istituzionalizzati. Partecipavano ai fondi pensione, a quelli sanitari, agli enti bilaterali, firmavano contratti che costruivano relazioni burocratiche con le imprese, stavano ai tavoli dei governi che tagliavano lo stato sociale, insomma crescevano mentre i lavoratori tornavano indietro su tutto.
    Quando il mondo del lavoro è precipitato nella precarietà e nella disoccupazione, quando si è indebolito a sufficienza, il potere economico reso più famelico dalla crisi, ha deciso che poteva fare a meno dello scambio della concertazione. Ha dato il via Marchionne e tutti gli altri lo hanno seguito. Quelle concessioni sul ruolo e sul potere della burocrazia, che le stesse imprese ed il potere politico elargivano volentieri in cambio della “responsabilità” sindacale, son state messe sotto accusa. Coloro che più si sono avvantaggiati dei “privilegi” sindacali ora sono i primi a lanciare lo scandalo su di essi. I vecchi compagni da cui ho imparato l’abc del sindacalista mi dicevano: se al padrone dai una mano poi si prende il braccio e tutto il resto. Ma nel mondo moderno certe massime sono considerate anticaglie, e quindi i gruppi dirigenti dei grandi sindacati son rimasti sconvolti e travolti dalla irriconoscenza di un potere a cui avevano fatto così ampie concessioni. Hanno così finito per fare propria la più grande delle falsificazioni sul loro operare. I sindacati hanno difeso troppo gli occupati e abbandonato i giovani ed i precari, questo è passato nei mass media. Mentre al contrario non si sono trasmessi diritti alle nuove generazioni proprio perché si è rinunciato a difendere coloro che quei diritti tutelavano ancora.
    I grandi sindacati han subito la catastrofe del precariato non perché troppo rigidi, ma perché troppo subalterni e disponibili verso le controparti. Questa è la realtà rovesciata rispetto all’immagine politica ufficiale, realtà che qualsiasi lavoratrice o lavoratore conosce perfettamente sulla base della proprie amare esperienze. La condizione del lavoro in Italia oggi è intollerabile e dev’essere vissuta come un atto di accusa da ogni sindacalista che creda ancora nella propria funzione. Non è solo lo perdita di salari e diritti, il peggioramento delle condizioni di lavoro, lo sfruttamento brutale che riemerge dal passato di decenni. Sono la paura e la rassegnazione diffuse, il rancore, la rottura di solidarietà elementari, che mettono sotto accusa tutto l’operato sindacale di questi anni. Di Vittorio rivendicò alla Cgil il merito di aver insegnato al bracciante che non ci si toglie il cappello quando passa il padrone. Di chi è la colpa se ora chi lavora deve piegarsi e sottomettersi come e peggio che nell’800? È chiaro che la colpa è del potere economico e di quello politico ad esso corrivo, oggi ben rappresentato da quella figura trasformista e reazionaria che è Matteo Renzi. È chiaro che c’è tutto un sistema culturale e mediatico che educa il lavoro alla rassegnazione e alla subordinazione all’impresa. Ma poi ci son le responsabilità da questo lato del campo, quelle di chi non organizza la contestazione e la resistenza.
    Lascio la Cgil perché non vedo nei gruppi dirigenti alcuna volontà di cogliere il disastro in cui è precipitato il mondo del lavoro e le responsabilità sindacali in esso. Vedo una polemica di facciata contro le politiche di austerità e del grande padronato, a cui corrispondono la speranza e l’offerta del ritorno alla vecchia concertazione. E se le dichiarazioni ufficiali, come sempre accade, fanno fuoco e fiamme sui mass media, la pratica reale è di aggiustamento e piccolo cabotaggio, nell’infinita ricerca del minor danno. Il corpo burocratico della Cgil è più rassegnato dei lavoratori posti di fronte ai ricatti del mercato e delle imprese, come può comunicare coraggio se non ne possiede? Certo ci sono tante compagne e compagni che non si arrendono, che fanno il loro dovere, che rischiano, ma la struttura portante dell’organizzazione va da un’altra parte, è dominata dalla paura di perdere il residuo ruolo istituzionale e quando ci sono occasioni di rovesciare i giochi, volge lo sguardo da un’altra parte.
    Quando la Fiom nel 2011 si è opposta a Marchionne, quando Monti ha portato la pensione alla soglia dei 70 anni, quando si è tardivamente ripristinato lo sciopero generale contro il governo, in tutti quei momenti si è vista una forza disposta a non arrendersi. Quei momenti non sono lontani, eppure sembrano distare già decenni perché subito dopo di essi i gruppi dirigenti son tornati al tran tran quotidiano. E temo che lo stesso accada ora nel mondo della scuola ove un grande movimento di lotta non sta ricevendo un adeguato sostegno a continuare. Non si può ripartire se l’obiettivo è sempre solo quello di trovare un accordo che permetta all’organizzazione di sopravvivere. Così alla fine si firma sempre lo stesso accordo in condizioni sempre peggiori. In fondo è una resa continua. Il 10 gennaio 2014 Cgil, Cisl e Uil hanno firmato con la Confindustria un’intesa che scambia il riconoscimento del sindacato con la rinuncia alla lotta quotidiana nei luoghi di lavoro. Una volta che la maggioranza dei sindacati firma un contratto la minoranza deve obbedire e non può neppure scioperare. Se non accetti questa regola non puoi presentarti alle elezioni dei delegati.
    Se negli anni ‘50 del secolo scorso la Cgil, in minoranza nelle grandi fabbriche, avesse accettato un sistema simile, non avremmo avuto l’autunno caldo e lo Statuto dei Lavoratori. Che non a caso oggi il governo cancella, sicuro che le grida sindacali non siano vera opposizione. Il movimento operaio nella sua storia ha incontrato spesso dure sconfitte, ma le ha superate solo quando le ha riconosciute come tali e quando ha cambiato la linea politica, la pratica e, a volte, i gruppi dirigenti. Invece nulla oggi viene davvero rimesso in discussione. La Cgil ha sempre avuto una dialettica interna. Tra linee politiche, tra esperienze, tra luoghi di lavoro, territori e centro, tra categorie e confederazione. Dagli anni ‘90 il confronto tra maggioranza e minoranze si è intrecciato con quello tra la Fiom e la confederazione. In questi confronti e conflitti si aprivano spazi di esperienze ed iniziative controcorrente.
    Oggi tutto questo non c’è più. Una normalizzazione profonda percorre tutta l’organizzazione e l’ultimo congresso le ha conferito sanzione formale. Non facciamoci ingannare dalle polemiche televisive e dalle imboscate di qualche voto segreto. Fanno parte di scontri di potere tra cordate di gruppi dirigenti, mentre tutte le decisioni più importanti son state assunte all’unanimità, salvo il voto contrario della piccola minoranza di cui ho fatto parte e di cui non si è mai tenuto alcun conto. Una piccola minoranza che al congresso ha raggiunto successi insperati là dove c’erano le persone in carne ed ossa, ma che nulla ha potuto contro i tanti risultati bulgari per partecipazione e consenso verso i vertici, costruiti a tavolino. Con l’ultimo congresso la struttura dirigente della Cgil ha deciso di ingannare se stessa. La partecipazione bassissima degli iscritti è stata innalzata artificialmente per mascherare una buona salute che non c’è. Ed il resto è venuto di conseguenza. A differenza che nel passato non ci son più problemi nella vita interna della Cgil, tutto è pacificato a parte i puri conflitti di potere. Ma forse anche per questo la Cgil non ha mai contato così poco nella vita sociale e politica del paese.
    A questo punto non bastano rinnovamenti di facciata, sono necessarie rotture di fondo con la storia e la pratica degli ultimi trenta anni. Bisogna rompere con un sistema Europa che è infame con i migranti mentre si genuflette di fronte all’euro. I diritti del lavoro sono incompatibili con una moneta unica i cui vincoli, come ha ricordato il ministro delle finanze tedesco, sono tutt’uno con le politiche di austerità. Bisogna rompere con il Pd ed il suo sistema di potere se non se ne vuol venire assorbiti e travolti. Bisogna rompere con le relazioni subalterne con le imprese e ripartire dalla condizione concreta dei lavoratori. Queste rotture non sono facili, ma sono indispensabili per ripartire e sono impossibili nella Cgil di oggi. Certo, fuori dalla Cgil non c’è una alternativa di massa pronta. Ci sono lotte, movimenti, sindacati conflittuali generosi e onesti, ma spesso distanti se non in contrasto tra loro. Ma questa situazione frantumata per me non giustifica il permanere in un’organizzazione che sento indisponibile anche solo a ragionare su queste rotture.
    So bene che la svolta positiva per il mondo del lavoro ci sarà quando tutte le organizzazioni sindacali, anche le più moderate, saranno percorse da un vento nuovo. Ho vissuto da giovane quei momenti. Ma ho anche imparato che nell’Italia di oggi questo cambiamento sarà possibile solo se promosso da una spinta organizzata esterna a Cgil, Cisl e Uil. A costruirla voglio dedicare il mio impegno. Per questo lascio la Cgil da militante del movimento operaio così come ci sono entrato. Saluto con grande affetto le compagne e compagni di tante lotte che non condividono questo mio giudizio finale. Siccome li conosco e stimo, so che ci ritroveremo in tanti percorsi comuni. Saluto anche tutte e tutti gli altri compagni, perché ho fatto mio l’insegnamento di Engels di avere avversari, ma mai nemici personali. Grazie soprattutto a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori che hanno insegnato a me, intellettuale piccolo borghese come si diceva una volta, cosa sono le durezze e le grandezze della classe operaia. Spero di poter apprendere ancora.
    (Giorgio Cremaschi, “Perché lascio la Cgil”, dall’“Huffington Post” del 15 settembre 2015).

    La ragioni per le quali ho restituito dopo 44 anni la tessera della Cgil sono semplici e brutali. Oramai mi sento totalmente estraneo a ciò che realmente è questa organizzazione e non sono in grado minimamente di fare sì che essa cambi. La mia è quindi la presa d’atto di una sconfitta personale: ci ho provato per tanto tempo e credo con rigore e coerenza personale, non ci sono riuscito. Anzi la Cgil è sempre più distante da come avrei voluto che fosse. Non parlo tanto dei proclami e delle dichiarazioni ufficiali, ma della pratica reale, della vita quotidiana che per ogni organizzazione, in particolare per un sindacato, è l’essenza. Non è questo il sindacato che vorrei e di cui credo ci sia bisogno, e soprattutto non vedo in esso la volontà di diventarlo. Naturalmente mi si può giustamente rispondere: chi ti credi di essere? Certo la mia è la storia di un militante come ce ne sono stati tanti, che ha speso tanto nell’organizzazione ma che non può pretendere di essere al centro del mondo. Giusto, tuttavia credo che la mia fuoriuscita possa almeno essere registrata come un pezzetto della più vasta e diffusa crisi sindacale di cui tanto si parla, e che come tale possa essere collocata e spiegata.

  • Ciao Unione Europea, l’Austria vuole andarsene davvero

    Scritto il 10/7/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Occorrevano 100mila firme, in un settimana ne hanno raccolte 261.000 ma solo perchè hanno dovuto fermarsi: la Corte Costituzionale austriaca aveva concesso sette giorni e non uno di più per raccogliere le firme necessarie ad ammettere la petizione popolare per l’uscita dell’Austria dall’Unione Europea, sperando che non sarebbero stati sufficienti. Ne avesse dati quindici, probabilmente la gran parte dei sei milioni e mezzo di elettori austriaci (in Austria il diritto di voto scatta a 16 anni) avrebbe votato a favore della “Volksbegehren Eu Austritt”. Un successo, nonostante il boicottaggio dei media nazionali ed europei (ancora oggi e nonostante tutto la stampa italiana non parla di questo avvenimento e quella austriaca lo fa giusto perchè costretta dalla situazione), nonostante le difficoltà del voto ammesso solo nelle sedi comunali e nei tribunali. Nonostante tutto 261mila austriaci hanno deciso che il Parlamento deliberi immediatamente oppure indica un referendum popolare perchè sia il popolo a decidere se restare o meno nell’Unione Europea.
    Una grossa rogna per il governo socialdemocratico e per i partiti nazionali che dovranno ora prendere posizione apertamente con il rischio di entrare in rotta di collisione con i loro stessi elettori perchè le ragioni del “Volksbegehren Eu Austritt” non si prestano ad “interpretazioni”: recuperare la sovranità nazionale fagocitata da Bruxelles che, senza alcuna legittimazione, decide del destino dell’Austria, scacciare l’euro responsabile del progressivo impoverimento della popolazione, riacquistare la propria neutralità, abbandonare la politica guerrafondaia dell’Unione sempre più schiava delle mire imperialistiche Usa, ripristinare le leggi nazionali sul controllo dell’ambiente, delle tecniche di manipolazione genetica, del traffico, del trattameno degli animali, sulle politiche agricole ed economiche, sui confini, ripristinare normali rapporti commerciali con la Russia.
    Insomma, i promotori della petizione le hanno precisate così bene le loro ragioni e gli austriaci le hanno così chiaramente condivise che Parlamento e partiti dovranno scegliere tra due sole strade: mettersi dalla parte dell’Unione contro la volontà del popolo oppure indire un referendum che già da ora si può prevedere come andrà a finire. Ne vedremo delle belle nei prossimi tempi e per il subito questo voto austriaco ha tolto un altro importante mattone all’edificio di questa congregazione di lobbyes chiamata Unione Europea.
    (“L’Austria se ne va davvero”, da “EbayAbuse” del 9 luglio 2015)

    Occorrevano 100mila firme, in un settimana ne hanno raccolte 261.000 ma solo perchè hanno dovuto fermarsi: la Corte Costituzionale austriaca aveva concesso sette giorni e non uno di più per raccogliere le firme necessarie ad ammettere la petizione popolare per l’uscita dell’Austria dall’Unione Europea, sperando che non sarebbero stati sufficienti. Ne avesse dati quindici, probabilmente la gran parte dei sei milioni e mezzo di elettori austriaci (in Austria il diritto di voto scatta a 16 anni) avrebbe votato a favore della “Volksbegehren Eu Austritt”. Un successo, nonostante il boicottaggio dei media nazionali ed europei (ancora oggi e nonostante tutto la stampa italiana non parla di questo avvenimento e quella austriaca lo fa giusto perchè costretta dalla situazione), nonostante le difficoltà del voto ammesso solo nelle sedi comunali e nei tribunali. Nonostante tutto 261mila austriaci hanno deciso che il Parlamento deliberi immediatamente oppure indica un referendum popolare perché sia il popolo a decidere se restare o meno nell’Unione Europea.

  • Banda d’Italia, “vigila” sulle banche obbedendo ai banchieri

    Scritto il 09/7/15 • nella Categoria: Recensioni • (2)

    E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.
    Quello che Lannutti mette in luce con la forza dei dati e di quasi trent’anni di battaglie a fianco dei correntisti e dei risparmiatori è un sistema autoreferenziale e omertoso dove la vigilanza viene usata come una clava contro i piccoli per costringerli a consegnarsi ai grandi. Una vigilanza che, contrariamente a quanto accadeva ai tempi di Carli e di Baffi, si guarda bene dal vigilare. O, se vigila, viene annichilita come accaduto non molti anni fa nell’era di Antonio Fazio, l’ultimo governatore “a vita”. O ancora “silenziata”, come dice Lannutti a proposito di Mario Draghi e dell’acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena: «La Banca d’Italia guidata da Mario Draghi nel 2007 sapeva che Antonveneta era un cattivo affare, ma non trasmise le sue informazioni al Monte dei Paschi che la strapagò per 9 miliardi». A luglio il Tesoro diverrà azionista dell’istituto senese – terzo gruppo bancario italiano, tecnicamente “fallito” varie volte in questi anni grazie anche a quell’acquisizione – perché i bilanci sono ancora in perdita e dunque Siena non ha potuto pagare gli interessi sui cosiddetti Monti-bond, i prestiti miliardari gentilmente offerti dallo Stato a spese dei contribuenti.
    L’elenco dei disastri è lungo ed è costato miliardi ai risparmiatori, ma chi pensa che questo sia l’unico prezzo pagato è un illuso: il costo sistemico è enorme perché le banche italiane sono tre volte più care delle concorrenti europee, ma la Banca d’Italia non se ne preoccupa. Anzi, fornisce dati che sottostimano i costi effettivi delle banche misurati non solo dall’Adusbef, l’associazione degli utenti bancari di cui Lannutti è presidente, ma anche dall’Università Bocconi e da altre prestigiose istituzioni. Peggio ancora: “La Banda d’Italia” denuncia responsabilità precise di Via Nazionale nel mancato contrasto all’usura e sulla pratica dell’anatocismo (cioè il pagamento di interessi sugli interessi) e aggiunge il carico pesante dei privilegi della casta di Via Nazionale che gode non solo di stipendi al di fuori di ogni logica (il governatore della Banca d’Italia, ormai quasi privo di poteri, guadagna molto di più del presidente della Bce e di quello della Fed), ma anche di benefit più consoni a sceicchi che a funzionari pubblici, come l’uso della carta di credito per spese personali fino a 10mila euro al mese e case di lusso a prezzi calmierati. Per non parlare della banca interna riservata ai dipendenti.
    Quando è iniziata la mutazione genetica della più prestigiosa e antica istituzione italiana? Secondo Lannutti lo spartiacque è stato il 2003, il non accorgersi di quanto stava accadendo a Parmalat con oltre 3 miliardi di Riba (ricevute bancarie) falsificate. Da lì in poi è effettivamente accaduto di tutto: banche di provincia come la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani balzate improvvisamente ai primi posti della graduatoria nazionale, baci in fronte al governatore, un utilizzo sempre più improprio di due beni preziosi quali l’autonomia e la discrezionalità e l’emergere di un madornale conflitto d’interessi essendo il controllore posseduto per oltre il 90% da banche e assicurazioni su cui esercita poteri di vigilanza e che, tra molti favori e regalie, hanno beneficiato anche della super-rivalutazione delle quote disposta dall’ex ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni, già direttore generale di Bankitalia. Dal caso della Banca dell’Etruria allo strano commissariamento del Banco di Credito di Siracusa, passando per le Coop e i molti casi di svolgimento abusivo dell’attività bancaria: la “Banda d’Italia”, come recita il sottotitolo, è “la prima vera inchiesta su Bankitalia, la super casta degli intoccabili che governa i nostri soldi” e non a caso denuncia le lacune dell’informazione italiana che – salvo rare eccezioni – su Via Nazionale e le sue vicende preferisce far calare la coltre del silenzio.
    (Francesco Scorza, “Banca d’Italia, l’altra casta. Vigilanza a danno dei piccoli e dei risparmiatori”, dal “Fatto Quotidiano” del 26 giugno 2015. Il libro: Elio Lannutti, “La Banda d’Italia. La prima vera inchiesta su Bankitalia, la super-casta di intoccabili che governa i nostro soldi”, Chiarelettere, 146 pagine, 13 euro).

    E’ un riflesso condizionato: se uno dice Banca d’Italia a me vengono subito in mente Paolo Baffi, Mario Sarcinelli e Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona che pagò con la vita la sua dedizione al Paese, al bene comune, all’onestà e alla verità. Poi, certo, ci sono altri grandi, grandissimi economisti che hanno ricoperto il ruolo di governatore prima di Baffi o che gli sono succeduti, come Carlo Azeglio Ciampi. Ma a me, in quegli anni in cui ero ragazzo, il senso “forte” dell’istituzione Banca d’Italia lo hanno trasmesso quei tre uomini con il loro esempio. Ecco perché ho trovato particolarmente dolorosa la lettura di “La Banda d’Italia” (Chiarelettere), il libro-inchiesta di Elio Lannutti su un’istituzione che da diversi anni ormai sembra essersi trasformata nel contrario di ciò che era. Lettura dolorosa ma rivelatrice di un inganno fattosi sistema attraverso la collusione con i controllati, favorita anche dal meccanismo delle porte girevoli che consentono passaggi “arditi”, come quelli dei molti ispettori e funzionari divenuti dirigenti bancari, per non parlare delle nomine ai più alti livelli dell’istituto centrale concertate con gli azionisti, cioè le banche.

  • Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio

    Scritto il 14/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
    Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».
    Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Bce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».
    «Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».
    (Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».

  • Biglino: ma quale religione, nella Bibbia non ve n’è traccia

    Scritto il 17/5/15 • nella Categoria: idee • (30)

    Molte mie traduzioni stanno trovando conferme inattese, addirittura in forum e siti di consulenza ebraica. Ne cito alcune: la Bibbia parla di ingegneria genetica, gli angeli biblici non sono entità spirituali ma individui in carne ed ossa, i cherubini erano oggetti meccanici (robot, li definiscono gli stessi esegeti ebrei), i cosiddetti miracoli non hanno origine soprannaturale ma tecnologica, la Bibbia non parla di creazione dal nulla, Satana non esiste nell’Antico Testamento. Se il Pentateuco del codice masoretico di Leningrado costituisce anche la base della Torah ebraica, mi si domanda come sia possibile che gli ebrei, che conoscono bene la loro lingua, non si siano accorti che la Torah non può essere un libro sacro? Tra le tante conferme che ho ricevuto da esegeti ebrei c’è anche la seguente: la Bibbia non è un libro di religione. Ho spiegato che il rapporto tra il pensiero ebraico e Yahweh non è basato sulla “fede” di tipo cristiano, bensì sulla fiducia: quel popolo rispetta la sua parte del “patto” avendo fiducia nel fatto che Yahweh a sua volta rispetterà le promesse a lui formulate, e che sono da concretizzarsi esclusivamente su questa terra.
    Il significato che comunemente si attribuisce al termine “sacro” nella nostra cultura è totalmente estraneo al testo biblico. Non si può procedere dal testo biblico per ipotizzare la figura di un dio esterno all’esistente, perché l’Antico Testamento non contempla questo concetto di Dio e non ne parla mai. Su un sito di consulenza sulla lingua ebraica si legge che Elohim, stando alla loro traduzione, non sarebbe un semplice plurale, ma un “plurale di astrazione”, cioè un singolare a tutti gli effetti? Nei libri, nelle conferenze e nei filmati che ho realizzato appositamente ho ampiamente documentato – e documento ogni volta – come questa operazione filologica sia un tentativo, assolutamente privo di ogni fondamento, di mantenere la tesi dottrinale monoteista. Tutta la Bibbia dimostra che gli Elohim erano tanti: su questo non ci possono essere dubbi; li conosce, li nomina, li considera molteplici con una naturalezza e una semplicità che sono evidenti già nelle Bibbie tradizionali, quelle che quasi tutti hanno in casa.
    In “La Bibbia non è un libro sacro” esamino ulteriormente questo aspetto ed evidenzio anche come sarebbe assurdo ipotizzare il contrario dal punto di vista storico e sociale del comportamento tenuto nei loro confronti dagli stessi antenati del popolo ebraico. Come è stato possibile scambiare questo “colonizzatore/governatore di nome Yaweh” con il Dio dei teologi? Non si tratta di “scambiare”: questo farebbe infatti pensare ad un errore. L’operazione che è stata volutamente avviata e condotta nei secoli – a partire dal sacerdozio del Tempio di Gerusalemme – è consistita nel trasformare totalmente quel personaggio creando la figura di un Dio che nell’Antico Testamento non è mai stata presente. Gli Elohim sono stati fatti divenire il Dio unico identificandolo in Yahweh, mentre è evidentissimo che quest’ultimo non era che uno di loro. Non un errore, dunque, ma una palese e reiterata mistificazione, resa possibile dal fatto sostanziale che i fedeli non leggono la Bibbia per vari motivi: nel passato il popolo non sapeva leggere, poi c’è stata la proibizione esplicita e infine a questi elementi si affianca la pigrizia innata di molti di noi. Ma ora la situazione sta cambiando: la comprensione e l’informazione si diffondono.
    Come mai affermo che nel Genesi non esiste il concetto di creazione? L’ho documentato in 70 pagine di “Non c’è creazione nella Genesi”, e qui sintetizzo: il verbo “bara” non significa mai “creare”, in nessuno dei passi biblici; inoltre, come affermano tutti gli studiosi di filologia semitica (alcuni de quali sono citati nel mio libro), quella radice verbale non significa creare – e tanto meno creare dal nulla – in nessuna lingua semitica. Significa sempre intervenire in una situazione già esistente, per modificarla. Ed è esattamente ciò che gli Elohim hanno fatto a partire dal primo versetto della Genesi, che non parla quindi di creazione ma di un lavoro preciso e concreto, finalizzato a trasformare un territorio per renderlo fruibile da parte degli Elohim. Varie chiavi di decodifica (tante, e diverse le une dalle altre) vengono presentate da secoli e sono quelle teologiche, esoterico-iniziatiche, cabalistiche. In questa grande varietà di tesi, che si annullano spesso a vicenda, non faccio altro che inserire anche la mia: poi ciascuno sceglierà. Le varie chiavi di lettura utilizzano questo atteggiamento esegetico: “Quando la Bibbia dice che… in realtà vuol dire che…”. Io invece “faccio finta che” quando la Bibbia scrive una cosa voglia dire proprio quella, e vedo cosa ne viene fuori.
    Negli anni di traduzione condotti per le Edizioni San Paolo mi sono accorto che ne esce un mosaico preciso, chiaro, evidente, coerente di per sé e soprattutto affascinante. Ed è quello che sto provando a raccontare da alcuni anni. Alla luce di questa mia lettura dell’Antico Testamento è ancora possibile una fede cristiana? Per fortuna la fede non ha e non deve avere bisogno di un libro, tantomeno di un libro come quello, costruito nel modo che sto da tempo spiegando nelle conferenze: un libro, anzi un insieme di libri scritti e riscritti, copiati con continue variazioni, emendati, interpolati, corretti, contenenti più di 1.500 errori, sviste, contraddizioni palesi. Sono testi in cui, per secoli, tutti i detentori del potere hanno fatto di volta in volta ciò che hanno voluto. Testi sui quali le singole tradizioni non concordano neppure: per la Chiesa cattolica i libri da considerare veri sono 46, per la cultura ebraica e per il protestantesimo sono solo 39, per i cristiani copti sono veri i libri che invece non lo sono né per Roma né per Gerusalemme. La cosiddetta “tradizione” non solo non è garanzia di verità, ma è certezza di manipolazione. La fede deve necessariamente essere altro.
    (Mauro Biglino, dichiarazioni rilasciate alla pagina Facebook “L’insostenibilità storica del Cristianesimo e il mito di Gesù” il 13 dicembre 2013. Già traduttore di ebraico antico per le Edizioni San Paolo, di recente Biglino ha proposto una inedita traduzione letterale dell’Antico Testamento ricavata dal Codice Masoretico di Leningrado, quello su cui si basa la Bibbia comunemente diffusa oggi in Occidente, ricavandone volumi come “Non c’è creazione nella Bibbia”, “Il Dio Alieno della Bibbia”, “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia” e “La Bibbia non è un libro sacro”, pubblicati da Uno Editori).

    Molte mie traduzioni stanno trovando conferme inattese, addirittura in forum e siti di consulenza ebraica. Ne cito alcune: la Bibbia parla di ingegneria genetica, gli angeli biblici non sono entità spirituali ma individui in carne ed ossa, i cherubini erano oggetti meccanici (robot, li definiscono gli stessi esegeti ebrei), i cosiddetti miracoli non hanno origine soprannaturale ma tecnologica, la Bibbia non parla di creazione dal nulla, Satana non esiste nell’Antico Testamento. Se il Pentateuco del codice masoretico di Leningrado costituisce anche la base della Torah ebraica, mi si domanda come sia possibile che gli ebrei, che conoscono bene la loro lingua, non si siano accorti che la Torah non può essere un libro sacro? Tra le tante conferme che ho ricevuto da esegeti ebrei c’è anche la seguente: la Bibbia non è un libro di religione. Ho spiegato che il rapporto tra il pensiero ebraico e Yahweh non è basato sulla “fede” di tipo cristiano, bensì sulla fiducia: quel popolo rispetta la sua parte del “patto” avendo fiducia nel fatto che Yahweh a sua volta rispetterà le promesse a lui formulate, e che sono da concretizzarsi esclusivamente su questa terra.

  • La Bibbia alla lettera: dal cielo nessun Dio, solo guerrieri

    Scritto il 03/5/15 • nella Categoria: segnalazioni • (14)

    “Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.
    «Sì, esattamente. Tra i tanti dubbi che ho, questa è una delle mie poche certezze: la Bibbia non parla di Dio. Quando parla di Jahwè, intende un individuo che fa parte di un gruppo di individui chiamati Elohìm, guidati da uno che chiamava Eliòn. Questi individui hanno avuto un rapporto con l’umanità, ma un rapporto speciale, nel senso che se la sono un po’ fabbricata. Jahwè era uno di questi, tra l’altro anche uno dei meno importanti. Emerge insomma una realtà che è confermata dai libri sacri degli altri popoli, di tutti i continenti della Terra, che nella sostanza ci raccontano esattamente le stesse cose: ovviamente con una terminologia diversa perché sono lingue diverse, culture diverse, ma la realtà è sempre quella». Una visione sconcertante e destabilizzante, come ho avuto modo di dire più volte allo stesso autore. In sostanza, in quelle pagine che abbiamo letto e studiato più o meno tutti a catechismo, sarebbe raccontata una storia ben diversa da quella che ci hanno spiegato.
    A partire dalla stessa Genesi, racconto simbolico – ci hanno insegnato – di come dal nulla Dio abbia generato l’intero creato, umanità inclusa. Ma Biglino dissente in toto, in virtù dell’etimologia del verbo ebraico utilizzato per descrivere la nascita dell’Universo. «Creazione è un termine improprio, perché il termine “barà” non ha quel significato, non soltanto nell’Antico Testamento, ma proprio come radice semitica: non significa mai creare né tantomeno creare dal nulla. Significa intervenire su una situazione già esistente per modificarla, che è esattamente quello che hanno fatto questi signori. Cioè hanno introdotto un pezzettino del loro Dna all’interno di esseri che hanno trovato già su questo pianeta per modificarli e per renderli, per loro, utilizzabili. Ci hanno reso capaci, diciamo così, di capire ed eseguire degli ordini», dice il ricercatore, condividendo di fatto l’idea che noi uomini – così come siamo ora – saremmo il prodotto di un intervento di ingegneria genetica. Una affermazione già sostenuta nei suoi libri da Zecharia Sitchin, sulla base di quanto descritto dai testi mesopotamici: basta sostituire il termine Annunna (o Annunaki) con Elohìm, e tutto corrisponderebbe.
    Sarebbero vari i passi “incriminati” dai quali emergerebbe una realtà tutt’altro che divina di queste entità – “quelli là”, direbbe Mauro Biglino. Ad esempio, vengono citati i mezzi sui quali si spostavano nel cielo, con precise caratteristiche materiali: sono pesanti, metallici, lucenti e pure pericolosi. Descrizioni – al di là delle traduzioni teologiche – che sembrano coincidere con i moderni “Ovni”, oggetti volanti non identificati. «Certo – conferma lo studioso delle religioni – oltre alla Genesi ci sono altri libri dell’Antico Testamento che danno indicazioni completamente diverse: penso al Libro di Ezechiele, piuttosto che al Libro di Zaccaria, in genere interpretati come allegorie e metafore, ma che al contrario sono di una chiarezza evidente. Questi libri in particolare ci raccontano degli strumenti sui quali questi signori si muovevano». Tutto molto inquietante. E assurdo. Ma a voler credere all’interpretazione – letterale – del testo ebraico così come lo traduce Biglino, allora quelli lì, gli Elohìm, chi erano? Se davvero si trattava di creature in carne ed ossa, da dove erano arrivate? E cosa volevano?
    «Purtroppo la Bibbia non ce lo dice, ma erano sicuramente individui dotati di tecnologia superiore, inarrivabile per i tempi, forse in parte inarrivabile anche per noi. Si sono spartiti la Terra, come afferma il Libro del Deuteronomio, come ci racconta Platone nel “Crizia”, come ci tramandano i popoli di tutti i continenti della Terra. Insomma, si sono suddivisi il pianeta e l’hanno governato comportandosi come normali colonizzatori. Jahwè era uno di questi. Tra l’altro, Jahwè è definito dalla Bibbia “uomo di guerre”, quindi combatteva». Uno dei libri più noti di Mauro Biglino, non a caso, ha un titolo emblematico: “Il Dio alieno della Bibbia”. Fino a poco tempo fa, a tutti coloro che gli domandavano quale ne fosse il pianeta d’origine, lo scrittore rispondeva sempre di ignorarlo e di voler parlare solo delle cose che conosceva, ovvero quelle scritte dagli autori veterotestamentari. Ma proprio da quel testo e da analogie scoperte in altre culture antiche, adesso è giunto quanto meno ad una ipotesi, per spiegare la provenienza di questa presunta stirpe di dominatori extraterrestri.
    «C’è un’indicazione del termine Nephilim, un termine plurale, che indica però una razza diversa rispetto a quella degli Elohìm. Il termine Nephilà al singolare, in aramaico, indica la costellazione di Orione. Questo mi fa venire in mente quello che c’è scritto nei testi vedici, dove si parla di una possibile provenienza di questi qui da una zona vicino alla stella Betelgeuse, che corrisponde alla spalla destra della costellazione di Orione, una zona che veniva chiamata Mrigashira – ovvero, testa d’antilope – perché il cacciatore Orione se la portava sulla spalla destra. Quindi ci sarebbe una corrispondenza tra dei possibili Orioniani, diciamo così, o comunque provenienti da quella parte del cielo, indicati dal termine Nephilìm, e almeno una parte di quegli altri che in Oriente dicevano provenire dalla stessa porzione di cielo. È solo un’ipotesi, ovviamente. Tra l’altro Betelgeuse – ed è una cosa molto curiosa – deriva dall’arabo Ibn al-Jawzā. Ma Beth El significa Casa di El, cioè Casa dell’Elohim. Chissà…».
    (Sabrina Pieragostini, “Mauro Bigliono e gli Elohim venuti dallo spazio”, da “Panorama” del 4 luglio 2014).

    “Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.

  • Colpo di mano, Juncker autorizza gli Ogm anche in Europa

    Scritto il 27/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Il grosso vantaggio dell’Ue per le lobby finanziarie e industriali è che è molto più facile influenzare un potere centrale che i singoli governi dei 28 paesi membri. Le istituzioni europee soffrono di una cattiva immagine presso i cittadini europei (vedi Eurobarometer: fiducia nell’Unione Europea al 37% in Ue, sfiducia maggioritaria in 14 paesi tra cui l’Italia). I centri di potere di Bruxelles e Francoforte sono visti come lontani dal popolo; controllati dalle lobby; indifferenti agli interessi e alle opinioni dei cittadini comuni; proni a quelli delle élite finanziarie; sbilanciati a favore dei grandi gruppi a scapito di piccoli produttori e aziende familiari o individuali. Questi cliché sono stati ancora una volta confermati questa settimana in maniera ‘eclatante’ (cit. Renzi). Il colpaccio di Juncker: ieri infatti la Commissione guidata dall’ineffabile Juncker, noto amico dei piccoli contribuenti e feroce avversario delle grandi multinazionali che tentano di eludere il fisco, ha autorizzato l’introduzione in tutta l’Ue di 19 Ogm, senza attendere il parere di Parlamento e Consiglio Europeo. L’autorizzazione vale 10 anni su tutto il territorio europeo e include gli Stati che si erano opposti.
    Ovviamente sui giornaloni nazionali non troverete grandi titoli. Sopire, troncare. Fonti riportate dal “Figaro” spiegano che il presidente Juncker era «ossessionato dalla quantità di richieste di autorizzazione di Ogm bloccate» (dagli Stati membri, ndr). Bravo Juncker, è noto che i cittadini europei si torturano ogni giorno sul problema degli Ogm bloccati. Ue batte Natura 2 a 0. Andiamo a vedere la lista degli Ogm autorizzati da Juncker: sui 19 approvati, 17 sono per l’alimentazione umana e animale e 2 riguardano specie di garofani. Ben 11 sono brevetti dell’americana Monsanto (soia, mais, colza e cotone), gli altri 8 sono prodotti della statunitense Dupont e dei gruppi tedeschi Bayer e Basf. Tutto indica un’attenzione speciale delle istituzioni europee per gli interessi delle multinazionali a danno della biodiversità e della libera scelta. Ricordiamo infatti che sementi non incluse in una lista della Ue sono vietate. Lista i cui criteri privilegiano le sementi industriali ed escludono varietà antiche e tradizionali.
    A riprova, associazioni senza fini di lucro che come Kokopelli promuovevano la biodiversità sono state punite con multe astronomiche e la cessazione dell’attività per aver diffuso semenze tradizionali secondo una sentenza della Corte Europea del 2012. Una sentenza che rovesciava la posizione dell’Avvocatura Generale della stessa Corte Europea, la quale stimava che «il divieto di commercializzazione di sementi (…) è non valido in quanto viola i principi di proporzionalità e di libera impresa secondo l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la libera circolazione delle merci secondo l’articolo 34 Tfue così come il principio di uguaglianza di trattamento secondo l’articolo 20 della detta carta». Dunque la Corte ribalta il parere dell’Avvocatura e vieta le sementi tradizionali. Il terreno è pronto per la mossa successiva. E qui interviene Juncker, che motu proprio autorizza gli Ogm su tutto il territorio europeo.
    Per salvare le apparenze i singoli Stati potrebbero in teoria vietare gli Ogm sul proprio territorio – ma solo se accettano la riforma proposta tre giorni fa (guarda caso) dalla stessa Commissione Juncker, che rende più facile l’importazione di Ogm in Europa e allo stesso tempo permette ai singoli Stati di vietarle. Divieti che però devono essere motivati in base a pericolo per salute e ambiente (rovesciando l’onere della prova sugli Stati!), sono sempre impugnabili (cfr. Tttip e le prerogative del suo Regulatory Council) e difficilmente applicabili in pratica, vista la libera circolazione delle merci e le ambiguità europee sull’etichettatura degli alimenti. Nulla impedirebbe di trovarci in tavola carne di maiale nutrito con soia transgenica in Germania o Polonia. Poiché le multinazionali hanno tempi lunghi e costi elevati per dimostrare che gli Ogm sono innocui (quando ci riescono), saranno gli Stati a dover dimostrare che sono nocivi, in barba al principio di cautela che dovrebbe regolare le questioni attinenti la salute e l’ambiente. In sintesi, la nostra stessa sovranità alimentare è messa in pericolo dalla Ue.
    Ma vediamo cosa pensano i cittadini europei degli Ogm. L’Eurobarometer n. 341 del 2010 (stranamente Eurobarometer non ha condotto nessun sondaggio sugli Ogm dopo il 2010) vede una schiacciante maggioranza di cittadini europei CONTRARIA agli alimenti geneticamente modificati. A pagina 18: «Un’elevata percentuale, 70%, ritiene che il cibo Gm (geneticamente modificati) sia innaturale. Il 61% degli europei conviene che i cibi Gm li mettono a disagio. Inoltre, il 61% degli europei è contrario allo sviluppo di alimenti Gm, il 59% non è d’accordo che i cibi Gm siano sicuri per la salute loro e della loro famiglia, e il 58% non è nemmeno d’accordo che gli alimenti Gm siano sicuri per le generazioni future». Come al solito, quindi: le istituzioni europee capitanate dall’ineffabile Juncker si fanno un baffo dell’opinione dei cittadini; la Commissione si dimostra sempre molto attenta agli interessi delle lobby di grandi industrie e banche; la Commissione può agire in maniera autoritaria e antidemocratica, se occorre; l’informazione “ufficiale” oscura queste gravi vicende; il nostro governo è totalmente supino ai diktat europei, se non promotore attivo delle strategie delle lobby (Renzi: «Il Ttip ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano»). Morale: dopo la sovranità monetaria l’Ue ci farà perdere la sovranità alimentare.
    (Ulrich Anders, “Colpaccio di Juncker: fine della sovranità alimentare, Ogm per tutti”, da “Scenari economici” del 25 aprile 2015).

    Il grosso vantaggio dell’Ue per le lobby finanziarie e industriali è che è molto più facile influenzare un potere centrale che i singoli governi dei 28 paesi membri. Le istituzioni europee soffrono di una cattiva immagine presso i cittadini europei (vedi Eurobarometer: fiducia nell’Unione Europea al 37% in Ue, sfiducia maggioritaria in 14 paesi tra cui l’Italia). I centri di potere di Bruxelles e Francoforte sono visti come lontani dal popolo; controllati dalle lobby; indifferenti agli interessi e alle opinioni dei cittadini comuni; proni a quelli delle élite finanziarie; sbilanciati a favore dei grandi gruppi a scapito di piccoli produttori e aziende familiari o individuali. Questi cliché sono stati ancora una volta confermati questa settimana in maniera ‘eclatante’ (cit. Renzi). Il colpaccio di Juncker: ieri infatti la Commissione guidata dall’ineffabile Juncker, noto amico dei piccoli contribuenti e feroce avversario delle grandi multinazionali che tentano di eludere il fisco, ha autorizzato l’introduzione in tutta l’Ue di 19 Ogm, senza attendere il parere di Parlamento e Consiglio Europeo. L’autorizzazione vale 10 anni su tutto il territorio europeo e include gli Stati che si erano opposti.

  • Biglino: ma nella Bibbia non c’è Dio né creazione del mondo

    Scritto il 19/4/15 • nella Categoria: idee • (23)

    La Bibbia è uno dei tanti libri che l’umanità ha scritto nel corso della sua storia, quindi va letta come tale, secondo me. Parla del rapporto tra un popolo e un individuo, che noi conosciamo con il nome di Jahwè, e che poi successivamente ci è stato presentato come Dio. Leggo la Bibbia dai tempi del liceo e la trovo affascinante, più l’approfondisco e più mi piace. La Bibbia contiene moltissimi errori, contraddizioni e discrepanze. Di errori, i docenti israeliti ne hanno trovati almeno 1.500 (tra errori e sviste), e poi ci sono un sacco di contraddizioni e discrepanze, veramente tantissime. Sicuramente la contraddizione che mi ha colpito di più quella che è stata tradotta dall’esterno, cioè la volontà di vedere nella Bibbia la presenza di Dio, che assolutamente in realtà non c’è. Il modo corretto per affrontare la Bibbia? Leggerla, appunto, come uno dei tanti libri che l’umanità ha scritto nel corso della sua storia, cercando di dare credito a ciò che c’è scritto. Dobbiamo leggerla e studiarla perché, piaccia o non piaccia, almeno un paio di miliardi di persone hanno la vita condizionata, direttamente o indirettamente, da quel libro.
    Se la Bibbia viene da Dio? Assolutamente no – e per fortuna, direi. Se Dio ci ha fatto a sua immagine? Non Dio, ma gli Elohìm, cioè quel gruppo di individui di cui parla la Bibbia, che ci hanno costruiti – loro sì, a loro immagine. Cosa cambierei della Bibbia? Nulla. La Bibbia va presa così com’è, altrimenti non sarebbe più la Bibbia. Salverei la Genesi, perché è il libro che, essendo stato preso da libri più antichi di altri popoli del Medio Oriente – quindi, quello meno toccato dalla teologia, per certi aspetti – è quello che ha più probabilità di contenere delle verità, almeno dal punto di vista della cronaca e della storia. La prima volta che ho letto la Bibbia ho provato stupore, per le differenze che ci sono tra ciò che leggo nella Bibbia e ciò che della Bibbia avevo sempre sentito raccontare. I dubbi mi sono nati mentre ero alla mia scrivania, mentre facevo le mie traduzioni professionali della Bibbia per conto delle Edizioni San Paolo.
    Conosciamo tutto, del nostro passato? Per fortuna no, così abbiamo ancora un sacco di cose da studiare. Cosa sia la creazione non lo so, ovviamente penso che non lo sappia nessuno. Non so come sia nato l’universo. Di certo so che non se occupa neppure la Bibbia. Cioè, nemmeno la Bibbia parla di creazione. Né tantomeno del diavolo: il diavolo biblico non esiste, come non esistono né l’inferno né il paradiso biblico. Nella Bibbia non esistono neppure gli angeli. Esisterà l’Apocalisse? Se per Apocalisse intendiamo Rivelazione, allora io spero che prima o poi ci sia la rivelazione di una qualche forma di verità. Gli alieni? Mi stupirei se non esistessero. La Bibbia oggi è sicuramente ancora attuale: siamo in Italia, e la stessa politica italiana è comunque condizionata da ciò che da quel libro è stato ricavato. Quanto c’è di vero e quanto di falso? Stabilire percentuali è quasi impossibile. Direi che nella Bibbia c’è sicuramente una sostanza cronachistica e storica vera, su cui è stato costruito un castello di falsità.
    Se la Bibbia è in grado di rispondere a tutte le domande? Assolutamente no. Direi che non era neppure il suo obiettivo: la Bibbia si occupava solo del rapporto tra un popolo e un individuo di nome Jahwè. A un certo punto – parliamo della storia di Adamo ed Eva, ovviamente – questo gruppo di Elohìm ha avuto la necessità di fabbricarsi qualcuno che lavorasse per loro. Hanno fatto prima il maschio, un gruppo che noi conosciamo come l’Adàm, e con ogni probabilità lo hanno fatto con un intervento di ingegneria genetica. Dopo un po’ di tempo si sono accorti, bontà loro, che il maschietto da solo non stava tanto bene. E hanno deciso di fargli la femminuccia, e anche questa l’hanno fatta – stando a quel che racconta la Bibbia – compiendo un ulteriore intervento di ingegneria genetica. E di lì in avanti, poi, si è sviluppato il tutto.
    Penso che questo possa essere considerato l’inizio, perlomeno della specie che conosciamo come homo sapiens, perché prima probabilmente gli ominidi hanno seguito il loro normale processo evolutivo. Io penso che la vita, come espressione del Dna, chieda ad ogni essere vivente di realizzare se stesso al meglio e sviluppare al meglio i suoi talenti. Il senso della Bibbia è quello di raccontarci una storia, dalla quale probabilmente possiamo ricavare delle informazioni sulle nostre origini. A un religioso cristiano non ho da dire assolutamente nulla, anche perché non ho la necessità di convincere nessuno. Io a metto a disposizione le mie cose, poi ciascuno ne fa quello che vuole.
    (Mauro Biglino, affermazioni rilasciate a “Luoghi Misteriosi” per la video-intervista parallela con monsignor Avondios, arcivescovo della Chiesa Ortodossa di Milano, pubblicata su YouTube. Saggista e già traduttore per le Edizioni San Paolo di 19 libri dell’Antico Testamento, Biglino ha suscitato molto clamore con volumi recenti come “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è Creazione nella Bibbia” e “La Bibbia non è un libro sacro”, pubblicati da Uno Editori, nei quali si sostiene che – traduzione letterale alla mano – la Bibbia non fa cenno ad alcuna divinità, né tantomeno alla creazione del mondo).

    La Bibbia è uno dei tanti libri che l’umanità ha scritto nel corso della sua storia, quindi va letta come tale, secondo me. Parla del rapporto tra un popolo e un individuo, che noi conosciamo con il nome di Jahwè, e che poi successivamente ci è stato presentato come Dio. Leggo la Bibbia dai tempi del liceo e la trovo affascinante, più l’approfondisco e più mi piace. La Bibbia contiene moltissimi errori, contraddizioni e discrepanze. Di errori, i docenti israeliti ne hanno trovati almeno 1.500 (tra errori e sviste), e poi ci sono un sacco di contraddizioni e discrepanze, veramente tantissime. Sicuramente la contraddizione che mi ha colpito di più quella che è stata tradotta dall’esterno, cioè la volontà di vedere nella Bibbia la presenza di Dio, che assolutamente in realtà non c’è. Il modo corretto per affrontare la Bibbia? Leggerla, appunto, come uno dei tanti libri che l’umanità ha scritto nel corso della sua storia, cercando di dare credito a ciò che c’è scritto. Dobbiamo leggerla e studiarla perché, piaccia o non piaccia, almeno un paio di miliardi di persone hanno la vita condizionata, direttamente o indirettamente, da quel libro.

  • Medicina ribelle, contro Big Pharma che fabbrica malattie

    Scritto il 14/4/15 • nella Categoria: Recensioni • (8)

    “Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».
    No, purtroppo: «Ancora una volta abbiamo imboccato la strada sbagliata», sostiene la dottoressa. Perché la medicina ufficiale, quella degli ospedali, è tragicamente orientata dal mercato farmaceutico. Un sistema che inquina la conoscenza, a cominciare dalle università e dai centri di ricerca. E’ sempre “Big Pharma” a indirizzare gli investimenti, pensando ai profitti prima che alla salute e all’efficacia delle cure. Clamoroso il capitolo degli psicofarmaci: un mercato virtualmente senza limiti, rivelatosi particolarmente redditizio. «Secondo alcune stime – scrive Bertaglio – psichiatri e produttori di psicofarmaci hanno una fetta di mercato da cui incassano 80 miliardi di dollari ogni anno (sono più di 150.000 dollari al minuto)». Cifre da capogiro. «Le industrie farmaceutiche spendono a questo proposito oltre 22 miliardi di dollari all’anno per convincere ad aumentare le loro prescrizioni, un incredibile 90% del loro budget di marketing», conferma la “Citizens Commission on Human Rights”. Nel 1997, le lobby delle industrie farmaceutiche hanno fatto pressione sul Congresso degli Usa per permettere la pubblicità degli psicofarmaci nelle Tv americane, e questo ha aperto le porte a un torrente di pubblicità. Dai 595 milioni di dollari del 1996 ai 4,7 miliardi di dollari del 2009: un aumento di quasi il 700%.
    «Non sorprende, quindi, che i conglomerati dei media aborriscano l’idea di mordere la mano di chi li nutre», scrive l’autore di “Medicina ribelle”. «Dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, sempre negli Stati Uniti, il numero delle malattie psichiche diagnosticate è passato da 26 a 395». Psicofarmaci dati come caramelle anche ai bambini: «È bene ricordare come oltreoceano abbiano superato l’impressionante numero di 14 milioni i bambini in terapia con psicofarmaci per il controllo delle più svariate sindromi del comportamento: dal miglioramento delle performance scolastiche, al controllo dell’iperattività sui banchi di scuola, alle lievi depressioni adolescenziali». Un problema non solo americano, però: «In Germania, sono stati rilasciati lo scorso anno i dati dei bambini diagnosticati iperattivi e quindi probabilmente destinati a terapie farmacologiche: sono 750.000. E il problema non è solo tedesco: se nella vicina Francia quasi il 12% dei bimbi inizia la scuola elementare avendo già assunto una pastiglia di psicofarmaco, abbiamo un problema».
    La logica, continua Bertaglio, è la stessa che domina in generale nella società dei consumi. Dalla produzione di merci per il loro consumo non siamo forse passati al consumo fine a se stesso per continuare a produrre merci? Bene, allo stesso modo «si è passati dall’invenzione di nuove medicine per la cura delle malattie all’invenzione di nuove malattie per produrre nuovi farmaci». E fabbricare malattie rende moltissimo. «Il caso più eclatante si è probabilmente verificato nel 2004, quando una commissione di “esperti” negli Stati Uniti ha riformulato la definizione di “ipercolesterolemia”», cioè l’eccesso di colesterolo nel sangue. «In pratica, riducendo i livelli ritenuti necessari per autorizzare una terapia medica, hanno letteralmente triplicato da un giorno all’altro il numero di persone che potevano avere bisogno di cure farmacologiche». Dettaglio importante: «Otto dei nove membri di quella commissione lavoravano a quel tempo anche come relatori, consulenti o ricercatori proprio per le case farmaceutiche coinvolte nella produzione di farmaci ipocolesterolemizzanti». E questa, assicura Bertaglio, è solo la vetta dell’iceberg.
    Già nel 2002, infatti, secondo uno studio pubblicato sul “Journal of the American Medical Association”, l’87% degli autori delle linee-guida cliniche aveva conflitti d’interesse a causa di legami con l’industria farmaceutica. «Di questi, il 59% aveva rapporti diretti con i produttori dei farmaci relativi alle patologie per cui era chiamato a stilare le linee-guida». Qualcosa però sta cominciando a cambiare: a opporsi a “Big Pharma” c’è infatti un numero crescente di sanitari, protagonisti della “medicina ribelle” che rifiuta la logica industriale dei “fabbricanti di malattie”. «Sempre più medici iniziano a sentirsi stanchi di essere indotti a mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti», sintetizza Bertaglio, in un libro che fotografa un diverso approccio con il concetto di salute. Il volume, inoltre, «si interroga su quello che ci può capitare con l’eccessiva americanizzazione (che va oltre la semplice privatizzazione) del sistema sanitario».
    “Medicina ribelle” non è ovviamente un manuale scientifico, né una mera raccolta di interviste, ma un insieme di punti di vista alternativi. Lungi dal rifiutare il progresso medico-farmacologico, «sarebbe altrettanto sbagliato non iniziare a reagire ai continui tentativi di venderci, a caro prezzo, un sacco di porcherie di cui non solo non abbiamo bisogno, ma che addirittura ci portano a vivere peggio». Anche in un sistema come il nostro, basato sul profitto, stanno aumentando i medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato. Questa è la loro storia, la loro missione. «Io sono qui per dire che rifiuto una “scienza” per la quale un veleno non è mai abbastanza veleno per essere dichiarato tale», dichiara la dottoressa Gentilini. «Sono qui perché rifiuto una medicina per la quale i morti che si contano non sono mai abbastanza per decidersi ad affermare che è il caso di prendere provvedimenti. E sono qui perché rifiuto un mondo accademico che celebra come grande epidemiologo sir Richard Doll, colui che trent’anni fa attribuì a cause ambientali solo il 2% dei tumori, dimenticando che Doll era sul libro paga della Monsanto».
    Non solo: Doll «era pagato in percentuale in base alla quantità di sostanze chimiche annualmente prodotte da tutta l’industria chimica mondiale». E oggi, «sia chiaro, nulla è cambiato». L’oncologa di Forlì “rifiuta” una scienza e una medicina che non hanno celebrato e ricordato un ricercatore come Lorenzo Tomatis, insigne scienziato sconosciuto al grande pubblico: ignorato dai media, «ha posto le basi scientifiche e metodologiche della cancerogenesi, identificando e classificando gli agenti inquinanti e le loro conseguenze per la salute umana». Per il medico romagnolo, Tomatis «rappresenta la vera faccia della scienza e della medicina: schierata, senza ambiguità alcuna, a difesa della salute e della dignità dell’uomo». Un uomo che si è sempre strenuamente battuto per la prevenzione primaria, ovvero per la tutela della salute pubblica attraverso la riduzione dell’esposizione (ambientale, professionale) a sostanze tossiche cancerogene o comunque nocive.
    Nel suo lavoro di ricercatore, ricorda Gentilini, Tomais incontrò inaudite difficoltà. Addirittura definì la prevenzione primaria del cancro come «una corsa a ostacoli, in cui l’identificazione di un agente fisico o chimico come cancerogeno viene troppo spesso vista con scetticismo, se non con aperta ostilità». Alcune sostanze sono ritenute cancerogene in alcuni paesi e non in altri. Quando riconosciute, i limiti consentiti variano a paese a paese, «come se il loro effetto cancerogeno potesse modificarsi passando i confini». Invitato in audizione sul problema dell’incenerimento dei rifiuti al Comune di Forlì il 24 novembre 2005, Tomatis esordì dicendo: «Le generazioni a venire non ci perdoneranno i danni che noi stiamo loro facendo», e spiegò che centinaia di sostanze chimiche, tossiche e pericolose, molte delle quali emesse anche dagli inceneritori, ormai si ritrovano nel cordone ombelicale. «Tutto ciò compromette non solo lo sviluppo fetale, ma comporta un crescente, inesorabile aumento nell’incidenza del cancro nell’infanzia nonché disturbi neuropsichici e cognitivi, e condiziona quello che sarà lo stato complessivo di salute anche da adulti, creando danni che addirittura possono trasmettersi, attraverso le cellule germinali, nelle generazioni successive».
    Giornalista freelance specializzato sui temi cruciali della sostenibilità ambientale, dopo anni di impegno al “Fatto Quotidiano”, ora Bertaglio collabora con “La Stampa”. Ha alle spalle una stretta collaborazione con Maurizio Pallante, nonché libri sul tema della decrescita, sulla scomparsa del futuro per i giovani, sul fardello inquietante delle scorie nucleari italiane di cui nessuno parla mai. Dalla salute dell’ambiente a quella della persona, il passo è breve. «Ho scritto questo libro – racconta Andrea – perché mi sono reso conto, nell’arco degli anni, di essere entrato in contatto con parecchi medici e realtà del settore sanitario molto a disagio con quello che è ormai diventato il loro campo». Con un certo stupore, Bertaglio si è accorto tempo fa che «ci sono sempre più medici che non hanno più intenzione di sottostare a certe dinamiche di mercato, che non sopportano più di vedere l’interesse economico venire prima della salute». Medici “ribelli”, «stanchi di dover mettere il guadagno delle grandi case farmaceutiche davanti alla vita dei pazienti, magari bambini».
    Così, Andrea Bertaglio ha raccolto le loro testimonianze, mettendo a fuoco «l’insano intreccio fra profitto e salute», in quest’Europa su cui incombe la progressiva e minacciosa “americanizzazione” del sistema sanitario. «Che cosa ho imparato? Moltissime cose, a partire dalla mole enorme di soldi che ruota intorno al settore farmaceutico», confessa. «Mi ha impressionato l’arbitrarietà con cui si decide se le persone sono malate o meno (cosa che avviene soprattutto in ambito psichiatrico). Mi ha disgustato la semplicità con cui, soprattutto negli Usa ma tendenzialmente anche in Europa, si preferisce dare uno psicofarmaco a un bambino, piuttosto che educarlo o amarlo. E mi ha colpito come molta gente, oggi, persa nel paradosso di una società che si crede molto informata, sia convinta di sapere anche più del proprio medico cosa sia opportuno prescrivergli».
    (Il libro: Andrea Bertaglio, “Medicina ribelle”, Edizioni L’Età dell’Acquario, 146 pagine, 12 euro).

    “Big Pharma”, l’industria farmaceutica mondiale, impiega un terzo dei ricavi e un terzo del personale per collocare nuovi medicinali sul mercato. Pionieri di questo nuovo approccio verso la salute sono gli Stati Uniti, dove tra il 1996 e il 2001 il numero dei venditori di farmaci è cresciuto del 110%, passando da 42.000 a 88.000 agenti. Per promuovere i suoi nuovi prodotti, questo settore spende ogni anno da 8.000 a 13.000 euro per ogni singolo medico. Sono le cifre di un big business, che si trasforma in guerra ai pazienti: si specula sulla loro pelle. Lo scrive, senza giri di parole, un giovane giornalista come Andrea Bertaglio, nel suo ultimo libro, “Medicina ribelle”. Racconta gli abusi del sistema, ma anche le prime clamorose ribellioni. Come quella della dottoressa Patrizia Gentilini, oncologo di Forlì: «Sono un medico, ho lavorato per più di trent’anni in un reparto di oncologia. Sono qui avendo nel cuore la sofferenza, la disperazione, le lacrime – quelle versate e quelle nascoste – dei miei pazienti, delle mogli, dei mariti, dei figli e dei genitori». Domanda: «Perché tanto dolore? Era proprio ineluttabile? Davvero la ricerca e le terapie sempre più mirate e “intelligenti” risolveranno il problema del cancro?».

  • Precari, classe esplosiva: spettro che si aggira per l’Europa

    Scritto il 14/4/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Uno spettro si aggira per l’Europa, quello del precariato: è clamoroso, sostiene Domenico Tambasco, che a mobilitarsi contro la propria cassa di previdenza siano addirittura gli avvocati, costretti a minimi contribuitivi che prescindono dai loro redditi. Difficoltà inedite, per una professione tradizionalmente prestigiosa, che ora denuncia «gravi forme di sfruttamento» veicolate «dalla finzione della partita Iva». E un clamoroso ribaltamento della tradizionale equazione democratica: non più “lavorare per avere reddito”, ma “avere reddito per poter lavorare”. Attenzione: «I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure dal muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance». Per Tambasco, ora il re è nudo: la povertà minaccia anche professioni ieri rappresentate come “caste”, triturate anch’esse da un’élite che oggi «accumula, con voracità sempre maggiore, immani guadagni e privilegi». La maggioranza, al contrario, «non può che assistere con sempre maggiore frustrazione all’aumento dei debiti nel deserto dei diritti».
    I giovani avvocati e i giornalisti freelance non fanno parte dello stesso ceto dei titolari degli studi e dei loro direttori, ma ne sono gli schiavi. Lungi dal limitarsi a rivendicazioni corporative, scrive Tambasco su Megachip, la mobilitazione degli avvocati ha coinvolto anche giornalisti, parafarmacisti, architetti, ingegneri, segretari comunali e provinciali, geometri e archivisti. «Si tratta di una prima forma di mobilitazione di quello che è stato definito il “Quinto Stato”», ovvero «una mescolanza di situazioni sociali opposte e di culture del lavoro spesso divergenti, accomunate tuttavia dal fatto di rappresentare forme lavorative apparentemente “indipendenti”», eppure «ugualmente colpite dal tarlo della precarietà e della quasi totale assenza di strumenti di protezione sociale». Calano le tutele e le garanzie, e in più aumentano gli oneri contributivi verso le proprie casse previdenziali, inclusa l’Inps. Guai seri, poi, in caso di maternità, infortunio e disoccupazione, «con la prospettiva di pensioni che, se conosciute nel loro reale e miserrimo importo, porterebbero ad un vero e proprio “sommovimento sociale”, come dichiarò a suo tempo l’ex presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua».
    Dal precariato universale che sta dilagando, continua Tambasco, sembra emergere il prototipo di quella che Guy Standing ha definito la “classe esplosiva”, il precariato: è proprio lo strato cognitivo del precariato a dover prendere l’iniziativa. Si tratta di «persone istruite, precipitate in un’esistenza precaria dopo che era stato loro promesso l’esatto opposto: una brillante carriera fatta di crescita personale e soddisfazioni». In prima linea, i giovani lavoratori subordinati, «figli delle famiglie operaie vissute nel sogno della stabilità e della mobilità sociale» e oggi affogati nel mare di una precarietà «vissuta come deprivazione», relativa «ad un passato reale o immaginario». E’ dunque la precarietà, sintetizza Tambasco, «il codice genetico di queste nascenti “coalizioni sociali”». E’ il cardine attorno a cui ruota l’azione dei lavoratori precari da sempre o precipitati nella precarietà dalle “riforme” come il Jobs Act, che fanno esplodere la flessibilità, cioè il “lato oscuro” del neoliberismo globalizzatore, sfruttatore, delocalizzatore. Conseguenze: mercificazione del lavoro, erosione dei salari, insicurezza sociale ed esistenziale.
    «L’azione di contrasto di questi movimenti – scrive Tambasco – sembra indirizzarsi verso la critica all’ormai invalsa teoria mercatista del lavoro come bene liberamente scambiabile sul mercato indipendentemente dal “valore” dell’uomo che lo presta, all’assioma del lavoro-merce il cui prezzo e la cui quantità è liberamente determinata dalla legge della domanda e dell’offerta cui seguirebbe, conseguentemente, la libera fluttuazione del salario rimessa alla contrattazione individuale, la libera licenziabilità ai fini dell’adeguamento della “forza-lavoro” alle contingenti esigenze del mercato e la libera gestione del “capitale-umano”, demansionabile ad libitum in ragione di semplici “modifiche degli assetti organizzativi aziendali”». Una critica «espressa nella severa denuncia del “lavoro povero”, ossimoro che evidenzia un altro aspetto della precarietà, cui si rivolgono questi movimenti nella loro richiesta di retribuzioni “degne”, adeguate ad un’esistenza libera e dignitosa», non certo costretta ad “avere reddito per lavorare”. Milioni di lavoratori sono finiti nella “società del rischio”, espressione che sintetizza «l’impossibilità di programmare la propria esistenza individuale e familiare a causa dell’instabilità del presente». Come nel medioevo, «ogni minimo imprevisto può ridurre chiunque in rovina». La mobilità sociale? «Orientata dall’alto verso il basso».
    Decenni orsono, Karl Polanyi prefigurò la nascita di contromovimenti sociali orientati al ripristino dei meccanismi di protezione sociale «dell’uomo in quanto lavoratore, in quanto individuo sociale», collocato «in un ambiente dalle risorse esauribili». Da queste istanze, conclude Tambasco, derivano le nuove richieste di “correttivi solidaristici al sistema contributivo”, di “pensione minima di cittadinanza”, di “estensione universale del welfare” per malattia, maternità, ammortizzatori sociali. E poi “reddito di base”, aliquote contributive sostenibili, restituzione del valore al lavoro. «Quello che sta accadendo in questi mesi in Italia, tra sorrisi sprezzanti, post sarcastici e tweet sardonici, è il fisiologico accumulo di pressioni e spinte sociali provenienti dalla frontiera su cui si sta combattendo la “guerra del lavoro”: è il preannuncio della possibile esplosione, nella generale indifferenza, della “classe esplosiva”».

    Uno spettro si aggira per l’Europa, quello del precariato: è clamoroso, sostiene Domenico Tambasco, che a mobilitarsi contro la propria cassa di previdenza siano addirittura gli avvocati, costretti a minimi contribuitivi che prescindono dai loro redditi. Difficoltà inedite, per una professione tradizionalmente prestigiosa, che ora denuncia «gravi forme di sfruttamento» veicolate «dalla finzione della partita Iva». E un clamoroso ribaltamento della tradizionale equazione democratica: non più “lavorare per avere reddito”, ma “avere reddito per poter lavorare”. Attenzione: «I giovani avvocati che aspettano sulle scale dei tribunali di Napoli o Milano i migranti che hanno bisogno di rinnovare il permesso di soggiorno, e guadagnano quindici euro per ogni pratica, non vivono una condizione molto diversa dall’operaio in cassa integrazione oppure dal muratore disoccupato che lavora come piastrellista o falegname freelance». Per Tambasco, ora il re è nudo: la povertà minaccia anche professioni ieri rappresentate come “caste”, triturate anch’esse da un’élite che oggi «accumula, con voracità sempre maggiore, immani guadagni e privilegi». La maggioranza, al contrario, «non può che assistere con sempre maggiore frustrazione all’aumento dei debiti nel deserto dei diritti».

  • Sbrighiamoci a morire, l’immortalità è solo per loro

    Scritto il 20/3/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Confondere il corpo umano con la merce, oltre che un orrore, può rivelarsi una dolorosa illusione. Eppure non può passare inosservata la notizia diffusa da alcuni media statunitensi come “Newsweek” o “Bloomberg”, secondo cui i miliardari stanno mettendo fretta e milioni di dollari alla ricerca della vita semi-eterna. Per loro, ovviamente. Bill Maris, manager di Google Ventures, ha ricevuto l’incarico di investire ben 425 milioni di dollari per finanziare studi contro l’invecchiamento, mentre Larry Elison, big boss di Oracle, considera “incomprensibile” la nozione della propria fine. Peter Thiel, patron del sistema di pagamenti PayPal, ha stanziato 3,5 milioni di dollari ad una fondazione privata per un progetto di riparazione e rigenerazione delle cellule. Dalle nostre parti il pensiero corre alle note incursioni di Berlusconi sul terreno dell’intervento sulle cellule per rallentarne l’invecchiamento. Gli scopi e i contorni di questa vicenda, come noto, corrono al confine tra la politica e il pecoreccio.
    Eppure questa illusione di poter vivere più a lungo, ma soprattutto molto più di tanti altri, ci dà la cifra di cosa significhi la prevalenza degli interessi privati su quelli collettivi, o meglio dell’appropriazione privata della produzione sociale, direbbe il grande barbone di Treviri. Nell’epoca in cui nella produzione sociale sono entrati a pieno titolo il “vivente” e la natura, per i grandi capitalisti anche il corpo umano non può che essere merce. Incluso il loro, ma a condizione che sia meno deteriorabile di quello di tutti gli altri. Vivere più a lungo, sogno ma anche incubo di ogni essere umano, come ci ricorda Simon De Beauvoir nel suo splendido “Tutti gli uomini sono mortali”, diventa così paradigmatico di un XXI Secolo in cui la disuguaglianza è tornata ad essere un valore e l’uguaglianza un disvalore.
    Sul nostro giornale abbiamo spesso evocato il “Dovete morire prima” come aspirazione neanche più troppo nascosta delle classi dominanti nel loro rapporto con le classi subalterne. Meccanismi concreti come l’innalzamento dell’età pensionabile, peggioramento delle condizioni di lavoro e abbassamento degli standard sanitari, indubbiamente puntano a ridurre quelle aspettative di vita cresciute nell’ultimo secolo ma oggi ritenute un “costo inaccettabile” (vedi i recenti documenti del Fmi). Su scala mondiale, dove nonostante le disuguaglianze l’aspettativa di vita era riuscita a crescere anche nei paesi meno sviluppati, non mancano i tentativi di intervento per ridurre la popolazione ritenuta in eccesso. Il caso storico è quello della Russia dove l’instaurazione del capitalismo, dopo la dissoluzione dell’Urss, ha portato ad una brusca riduzione della popolazione, un caso unico in un paese non investito da una guerra.
    Il problema è serio, estremamente serio, come hanno dimostrato alcuni interventi al recente forum di Bologna dedicato al “piano inclinato” su cui gli imperialismi hanno collocato il mondo in cui viviamo. Fabbriche completamente automatizzate, in cui la presenza del lavoro umano è ridotta a poche unità, rendono infatti eccedente molta forza lavoro, quel capitale umano – decisivo comunque per l’estrazione del plusvalore – che il capitalismo vorrebbe rendere variabile irrilevante e totalmente subalterna. Ma una umanità piena di capitale umano in eccesso sarebbe piena di uomini e donne ingombranti, non più funzionali al sistema produttivo e all’estrazione di valore, gente che oggi vive più a lungo di quanto sia utile al sistema dominante e che, ovviamente , avanza richieste ed esigenze per mantenersi in vita nel modo migliore possibile in società che hanno prodotto sistemi di cura e prevenzione adeguati allo scopo.
    Dunque per prima cosa le classi dominanti stanno dichiarando che non esiste più un diritto universale ed egualitario alla salute. La privatizzazione de facto dei sistemi sanitari (anche in Italia ed anche nelle ex regioni “rosse”, come sottolinea Ivan Cavicchi su “Il Manifesto”) attua questo primo step verso una società brutalmente gerarchizzata. Si cura chi può e chi può di più si cura meglio.Talmente meglio che, potendoselo permettere, può alimentare l’illusione di poter vivere più a lungo degli altri. Anzi, per molti aspetti a scapito degli altri, visto che la concentrazione della ricchezza in poche mani non può che avvenire in sottrazione della ricchezza collettiva. Fino a qualche decennio fa “il sistema” aveva fatto sì che lo sviluppo allargasse e distribuisse in qualche modo la ricchezza prodotta, anche sotto forma di servizi sociali universali. Ma oggi che allo sviluppo si è sostituito solo il “demone della crescita”, questo allargamento si è sempre più ridotto, così come le risorse disponibili dentro un globo che, per sua definizione è uno spazio limitato.
    Da questa consapevolezza del limite e dei limiti, le classi dominanti si guardano bene dal ricavarne una logica redistributiva delle risorse e della ricchezza disponibile, al contrario accentuano la centralizzazione, a tutti i livelli. E se tra queste risorse c’è anche il vivente e il capitale umano, viene applicata la medesima logica. “Mors vostra, vita nostra”, ci dicono. Fino ad alimentare l’idea che per alcuni si possa allungare la vita media oltre il limite fisiologico finora consentito. Ma, detto fra noi, dieci, quindici anni più si potranno anche rimediare, ma non evitano l’alzheimer. Ci troviamo così di fronte ad un cambio di passo anche sul terreno del conflitto sociale e di classe. Se negli anni del “modello sociale europeo” le classi subalterne entravano in campo rivendicando ed anche ottenendo quote di redistribuzione della ricchezza, oggi che questa possibilità viene negata sul lavoro come sulla salute da misure concrete. Come ci si approccia ad una lotta di clase che per molti aspetti somiglia a quella per la sopravvivenza? Qualcuno diceva che la “rivoluzione non è un pranzo di gala”. Sarà dunque il caso di cominciare a pensare, collettivamente e non invidualmente, al come sedersi a tavola senza complessi di inferiorità e liberi dalla sensazione di dover essere ancora la cena per il Mondo di sopra. Insomma: “Mors vostra, vita nostra?”.
    (Sergio Cararo, “La vita e la morte al supermercato”, da “Contropiano” dell’11 marzo 2015).

    Confondere il corpo umano con la merce, oltre che un orrore, può rivelarsi una dolorosa illusione. Eppure non può passare inosservata la notizia diffusa da alcuni media statunitensi come “Newsweek” o “Bloomberg”, secondo cui i miliardari stanno mettendo fretta e milioni di dollari alla ricerca della vita semi-eterna. Per loro, ovviamente. Bill Maris, manager di Google Ventures, ha ricevuto l’incarico di investire ben 425 milioni di dollari per finanziare studi contro l’invecchiamento, mentre Larry Ellison, big boss di Oracle, considera “incomprensibile” la nozione della propria fine. Peter Thiel, patron del sistema di pagamenti PayPal, ha stanziato 3,5 milioni di dollari ad una fondazione privata per un progetto di riparazione e rigenerazione delle cellule. Dalle nostre parti il pensiero corre alle note incursioni di Berlusconi sul terreno dell’intervento sulle cellule per rallentarne l’invecchiamento. Gli scopi e i contorni di questa vicenda, come noto, corrono al confine tra la politica e il pecoreccio.

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