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Cure proibite, per lanciare i vaccini: spiegata la strage
Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.Piccolo particolare: in attesa dei vaccini, l’Italia ha ufficialmente registrato 120.000 morti. Quanti di questi pazienti sarebbero ancora vivi, se ai medici fosse stato permesso di curarli con i farmaci nel frattempo individuati come rimedio efficace? Nel video-denuncia “Covid, le cure proibite”, Mazzucco documenta i capi d’accusa che ormai emergono in modo schiacciante: tutte le terapie vincenti (almeno una decina) sono state regolarmente oscurate e combattute per poter presentare il vaccino come unica soluzione, e – sempre per imporre la vaccinazione di massa – sono state imposte le peggiori restrizioni: lockdown, coprifuoco, zone rosse. Un ricatto: tornerete liberi solo quando vi sarete vaccinati. Ma attenzione, si tratta dell’ennesimo imbroglio: è infatti prevista una vaccinazione periodica e frequente, dall’incubo non si uscirà mai. E naturalmente: le terapie salva-vita, quelle che renderebbero superfluo il vaccino, restano nel cassetto.Nel suo reportage, Mazzucco non entra nel merito del piano vacciale più controverso della storia. Quelli somministrati sono farmaci “genici” sperimentali, impropriamente chiamati vaccini: non immunizzano completamente il corpo, e lasciano che il soggetto vaccinato possa restare contagioso. Non solo: presentano un serio rischio fisico immediato, in termini di reazioni avverse, mentre non si conoscono le conseguenze a lungo termine di un inoculo Rna-Dna che va a insediarsi nelle cellule, interagendo con il genoma umano. In questo caso, Mazzucco – autore di video-reportage che hanno fatto storia, come quelli sull’11 Settembre, trasmessi anche da “Canale 5″ in prima serata – si concentra sul più pazzesco degli scandali: quello delle “cure proibite”. Un copione invariabile, drammatico: scoperta la terapia, viene immediatamente screditata e poi messa al bando. Una dopo l’altra, le autorità sanitarie italiane hanno regolarmente respinto tutte le cure – efficaci – che i medici avevano scoperto, per contrastare il Covid.L’elenco è avvilente, grida vendetta: e a protestare (inutilmente, finora) sono proprio i medici, cui è stato materialmente sottratto lo strumento terapeutico per guarire i pazienti. Incredibilmente, il protocollo nazionale parla ancora di Tachipirina – farmaco inutile, in caso di Covid, se non dannoso – e si limita a raccomandare la “vigilante attesa”. Di cosa, se non dell’aggravamento? Mazzucco cita i vip prontamente curati e guariti nel 2020, non proprio giovanotti: Berlusconi, Briatore, lo stesso Trump. Rimessi in sesto in pochissimi giorni, nonostante la loro età avanzata. Come? Non certo con la “vigile attesa”: li hanno curati tempestivamente, con i farmaci adatti. Quelli a cui il cittadino normale continua a non avere accesso, visto che ai medici di famiglia non è ancora stato affidato un protocollo idoneo. Attenzione: si tratta di farmaci normalissimi. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, spiega come “domare” l’incendio Covid ricorrendo a semplici antinfiammatori: funzionano purché si agisca celermente, cioè dopo i primi sintomi.I medici dell’associazione Ippocrate, che curano il Covid in modo volontaristico data la latitanza delle autorità sanitarie, hanno messo a punto un prontuario specifico: precisi farmaci (di uso comune) per ogni singola fase della malattia. I numeri sono dalla loro parte: si parla di migliaia di guarigioni da casa, evitando il ricovero. A Roma, il dottor Mariano Amici dimostra di aver guarito il 100% dei suoi pazienti – non meno di 2.000 persone – con la somministrazione, in fase precoce, di normali antinfiammatori. Nel video-reportage di Mazzucco, sul tema intervengono i sanitari dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna: le morti per Covid sono finite, assicurano, quando hanno cominciato a curare i pazienti direttamente nelle loro case, rinunciando cioè alla “vigile attesa” (che determinava il ricovero di malati ormai in gravi condizioni). Carta vincente, le cure precoci domiciliari: quelle che il ministero di Speranza ha appena chiesto e ottenuto, dal Consiglio di Stato, di non autorizzare.Mazzucco rievoca le tappe del calvario. Capitolo primo, le vitamine: consigliate da molti medici come sostanze utili per la prevenzione e, in dosi elevate, per la guarigione. Ma guai a dirlo: contro la “bufala” delle vitamine anti-Covid si sono scatenati prima i virologi televisivi, e a ruota i media. Risultato: vitamine bocciate. Ma non per tutti: Mazzucco esibisce un documento dei carabinieri che (già a marzo 2020) invitava i miltari dell’Arma ad assumere ogni mattina le vitamine C e D. Lo schema si ripete in modo scandaloso di fronte a ogni altra scoperta medica: anziché essere incoraggiati, i sanitari che hanno individuato una terapia efficace vengono zittiti, oscurati, screditati e boicottati. Succede a Giuseppe De Donno (Mantova), il primo ad aver sperimentato la plasmaferesi: guarigioni garantite, in poche ore, a chi riceve trasfusioni con il sangue dei pazienti guariti. Niente da fare nemmeno per Elena Campione dell’università romana di Tor Vergata, che ha scoperto i benefici della lattoferrina: sostanza naturale e antivirale, contenuta nel latte materno, che spiega il motivo per cui i bambini non vengono colpiti dall’infezione.Un caso-limite è quello dei cortisonici: nell’aprile 2020, sempre Roberto Speranza non ha degnato di risposta i 30 luminari italiani che gli segnalavano i grandi risultati ottenuti con farmaci a base di cortisone. Ironia della sorte, due mesi dopo è stata la stessa Oms a complimentarsi coi medici inglesi, che a loro volta avevano scoperto le virtù del Desametasone. Ma niente da fare, la consegna è sempre la stessa: negare l’evidenza per affossare le cure. E pazienza, se nel frattempo i malati – lasciati a casa in “vigile attesa” – continuano a morire, o arrivano in ospedale con la salute ormai gravamente compromessa proprio perché rimasti per giorni senza cure. E’ così che ha funzionato, la macchina del terrore: negare le terapie è “servito” esattamente ad alzare il numero dei ricoveri, delle terapie intensive, permettendo ai politici, ai media e agli “scienziati di corte” di recitare all’infinito il mantra della paura e dell’attesa messianica dell’unico possibile rimedio, il vaccino.Per questo, aggiunge Mazzucco, nonostante i risultati lusinghieri sono state biocciate tutte le altre soluzioni terapeutiche nel frattempo emerse: la quercetina scoperta dal Cnr, l’ozonoterapia praticata con successo all’ospedale di Udine, l’adenosina (introdotta a Reggio Calabria dai medici Sebastiano Macheda e Pierpaolo Correale), e persino un antiparassitario come l’ivermectina, che ha permesso alla Repubblica Ceca di veder crollare di colpo i decessi per Covid. Tradotto: a Praga si è smesso di morire, in Italia no. Culmine della vergogna, il caso dell’idrossiclorochina associata a un antibiotico come l’azitromicina: terapia sperimentata con successo in Francia dal professor Didier Raoult, uno dei maggiori virologi al mondo, ma poi abbandonata dopo uno studio (falsato da dati inventati) pubblicato sul “Lancet”. Poi la rivista si è corretta, scusandosi: quello studio era da buttare, la clorochina (antimalarico in uso da decenni) non è affatto pericolosa, in dosi appropriate. Ma il divieto di usarla, in Italia, è rimasto: anche dopo la scoperta della frode scientifica del “Lancet”.Domanda: quale organizzazione criminale potrebbe mai progettare e attuare un piano simile, fondato sulla disinformazione e sul boicottaggio delle guarigioni, a costo di provocare decine di migliaia di morti? Qualunque ne sia l’origine, dice Mazzucco, ne conosciamo il coordinatore: Big Pharma. Anche in Italia, tutti i decisori sono strettamente controllati dalle farmaceutiche, che ottengono il consenso dei media a suon di milioni in termini di pubblicità. In cambio, giornali e televisioni fanno parlare – come oracoli – solo e sempre determinanti esponenti del mondo scientifico (i vari Bassetti, Pregliasco, Crisanti, Galli, Burioni e Lopalco, perfettamente funzionali al business farmaceutico-vaccinale). Ferreo anche il controllo sul governo, esercitato da un Comitato Tecnico-Scientifico composto da dirigenti dell’Aifa, del ministero della salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, tutti «baroni legati a Big Pharma, che non si sognerebbero mai di contraddire le farmaceutiche».Nel Cts, ricorda Mazzucco, c’erano anche Ranieri Guerra, indagato per il piano pandemico non aggiornato né applicato, e lo stesso Walter Ricciardi, consulente di Speranza. «Due anni fa, Ricciardi dovette dimettersi da direttore dell’Iss dopo che emersero i suoi conflitti d’interesse con le case farmaceutiche». Questi, sottolinea Mazzucco, sono i personaggi che stabiliscono cosa chiudere, e fino a quando: il controllato e il controllore sono lo stesso soggetto, Big Pharma, che agisce attraverso i suoi ramificati canali, anche istituzionali. «La stessa Ema è zeppa di dirigenti che provengono da Big Pharma, tramite il meccanismo delle “porte girevoli”: l’attuale direttrice, Emer Cooke, quella che ripete che “i benefici dei vaccini superano i rischi”, viene dalla lobby europea delle industrie farmaceutiche». E’ vero, purtroppo: la Cooke è stata a lungo in forza alla Efpia, European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations.Nell’Epfia, conferma Wikipedia, Emer Cooke ha lavorato per 8 anni come lobbysta delle “Big 30″, incluse Pfizer, AstraZeneca, Novartis e Johnson & Johnson. «Secondo voi chi l’ha messa a dirigere l’Ema, Gesù Bambino?». Non solo: «Credete che sia l’Unione Europea, coi nostri soldi, a finanziare la sua agenzia del farmaco? Errore: l’agenzia vive di fondi pubblici solo per il 16%, dato che l’84% del denaro che serve al suo funzionamento proviene dalle aziende farmaceutiche, sotto forma di autorizzazioni per i medicinali». Domanda retorica: qualcuno può davvero pensare che l’Ema (da cui di fatto dipende anche l’Aifa) sia un ente autonomo e quindi scientificamente affidabile, indipendente, che ha a cuore solo la salute dei cittadini, e non invece – anche e soprattutto – quella dei bilianci miliardari del complesso industriale farmaceutico che la foraggia quasi completamente?Tragedia e farsa si sommano, nell’impietosa ricostruzione di Mazzucco, fino all’epilogo tanto atteso: lo sdoganamento anticipato dei famosi “vaccini genici”. «Per i preparati vaccinali, la procedura d’emergenza (quindi con sperimentazione molto limitata) può avvenire solo a certe condizioni». Una su tutte: «Non deve esistere nessuna cura disponibile, per la malattia in questione, altrimenti il vaccino non la può ricevere, l’approvazione d’emergenza». Vale per la statunitense Food and Drug Administration: a febbraio, nell’autorizzare i vaccini-Covid, la Fda ha ricordato che non deve esistere «una adeguata, approvata e disponibile alternativa al prodotto». Idem l’Ema: il vaccino «deve rispondere a una necessità medica non soddisfatta, ovvero una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o cura autorizzato dalla comunità (o, anche se questo metodo esistesse, il nuovo prodotto medicinale deve rappresentare un importante vantaggio terapeutico per i malati)».E dato che «nessun vaccino potrà mai rappresentare un importante vantaggio terapeutico, rispetto a una medicina che agisce subito», ecco che «le medicine normali non vengono autorizzate», scandisce Mazzucco. «Abbiamo svelato l’arcano: le cure non sono mai state riconosciute non perché non funzionino, ma perché sapevano fin dall’inizio che – riconoscendo una qualunque cura valida – non si sarebbe potuta ottenere l’autorizzazione d’emergenza per il vaccino». Ragiona il reporter: «Se per ipotesi i vaccini non esistessero (cioè, se non fossero mai stati “inventati”), secondo voi come si competerebbe la sanità, rispetto al Covid? Ovvio: curerebbe i malati senza indugi, con tutte le terapie disponibili, e anzi rafforzandole con ulteriori ricerche (proprio quelle che finora sono state accuratamente evitate, privando i medici di sperimentazioni su vasta scala)». Insiste Mazzucco: «Paradossalmente, il vaccino non è la soluzione: è il problema». Vero, se è stato la vera causa del rifiuto di somministrare terapie salva-vita.«Pensateci: potremmo tornare a vivere tranquillamente, domattina, riaprendo tutto e curando le persone appena si ammalano, con le varie terapie ormai disponibili (lasciando libere di vaccinarsi, ovviamente, le persone che lo desiderano)». E invece, questo non accade. «Quello che non è accettabile – ripete Mazzucco – è che il vaccino sia imposto come unica condizione per riavere le nostre libertà. Si chiama ricatto, e si chiama anche crimine: perché nel frattempo muoiono mogliaia di persone che si potrebbero salvare». E’ così: «Le nostre libertà ci vengono negate intenzionalmente, proprio per obbligarci ad accettare la vaccinazione come unica via d’uscita». Lo dice apertamente la professoressa Leana Wen, docente di politiche della salute alla George Washington University. «La Wen è tra i “top doctors” americani, scrive sul “Washington Post” e appare spesso come commentatrice televisiva. E’ stata anche premiata dal Forum di Davos tra i “giovani leader globali”».Una grande opinion maker, Leana Wen: nel 2019, “Time Magazine” l’ha definita “una delle 100 persone più influenti del mondo”. Di fronte al fatto che Stati come Florida e Texas stanno già riaprendo tutto, anche con pochi cittadini vaccinati, alla “Cnn” si è lasciata scappare la seguente ammissione: «Ci sono milioni di persone che per qualche ragione temono i vaccini, e non capiscono quale possa esserne il vantaggio, per loro. Noi dobbiamo spiegargli bene che il vaccino è il loro lasciapassare, per tornare alla vita com’era prima della pandemia. E la finestra di tempo per farlo si sta restringendo, per legare le riaperture alla situazione vaccinale: altrimenti, se si riapre tutto, quale sarà la “carota”?». La carota: il premio. «Come faremo a incentivare le persone a farsi vaccinare? Ecco perché il Cdc e l’amministrazione Biden devono affermare con forza: se sarete vaccinati, guardate quante cose potrete fare, quante libertà potrete riavere. Viceversa, la gente tornerà a godersi queste libertà in ogni caso».Capito, come funziona? Massimo Mazzucco lancia un appello severo e accorato ai giornalisti, finora reticenti o addirittura complici del sistema “bastone e carota”, fatto di cure negate, migliaia di vittime e “terrorismo sanitario” per spingere il popolo bue verso l’imbuto previsto fin dall’inizio, quello del vaccino. «Voi, che continuate a chiamare “negazionista” chiunque protesti per questa situazione assurda, finirete per passare alla storia come i nuovi collaborazionisti», dice Mazzucco agli operatori dei media. «Gli uomini di Vichy sono passati alla storia per aver aiutato il nazismo in Francia; voi passerete alla storia per aver aiutato il vacci-nazismo che si sta cercando di instaurare: e come c’è stata una Norimberga per i nazisti, ci sarà sicuramente una Norimberga anche per voi». E dunque: «Smettetela di fare i servi delle case farmaceutiche, e tornate a mettervi dalla parte dei cittadini, prima che sia troppo tardi».Il secondo messaggio, al termine del suo lungo video, Mazzucco lo dedica a tutti quelli che dicono: «Non vedo l’ora di vaccinarmi, così almeno questo incubo finirà». Magari. «Non illudetevi: non finirà. Il tira e molla delle restrizioni continuerà all’infinito». Facile profezia: «Ci faranno respirare un po’ quest’estate, e poi in autunno arriverà la “quarta ondata”, così imporranno nuove restrizioni e magari daranno la colpa a quelli che si saranno “divertiti troppo” durante l’estate. Incolperanno anche i non vaccinati, per cercare di metterci gli uni contro gli altri». Mazzucco è pessimista: «State tranquilli che non basterà una sola vaccinazione, per farla finita: ci saranno i richiami, perché ci saranno mille, nuove meravigliose “varianti”, e dovremo abituarci a vaccinarci tutti, ogni anno». Non ci credete? Male. «Ci sarà una terza dose, poi il richiamo annuale», dice Albert Bourla, presidente della Pfizer. «Deve diventare un’abitudine: una volta all’anno dovremo vaccinarci», conferma l’immunologo genovese Matteo Bassetti.E se qualcuno aveva sperato che con Mario Draghi sarebbe finita, la colossale farsa, si deve amaramente ricredere: «Dovremo continuare a vaccinarci, per gli anni a venire – ha appena annunciato il nuovo primo ministro – perché ci saranno delle varianti, e quindi i vaccini andranno adattati». Che caso: la Pfizer intanto ha già previsto rincari del 900%. «Una dose costerà fino a 175 dollari: che pagheremo noi, con in soldi delle nostre tasse». Pfizer e Moderna – aggiunge Mazzucco – hanno appena cominciato le sperimentazioni su bambini di 6 mesi, ed entro novembre sarà pronto il vaccino per il neonati (e i bambini fino a 11 anni)». Chiosa il reporter: «Questa idea di vaccinarsi pur di uscire dall’incubo è una pia illusione: significa uscire dalla gabbia del lockdown per entrare nella gabbia più grande, quella delle vaccinazioni permanenti. Che poi è il sogno di Big Pharma: una società in cui tutte le persone sane si abituino comunqe a vaccinarsi regolarmente, a tutte le età, una o più volte all’anno, pena la restrizione delle loro libertà. Questo è quello che vogliono ottenere, e stanno per riuscirci».Quindi, conclude Massimo Mazzucco, vedete voi in che mondo volete vivere: «Un mondo libero, dove ci vengono garantite da subito delle cure valide (e dove chi vuole potrà anche vaccinarsi, se lo desidera), oppure un mondo di schiavi, ricattati dalle continue restrizioni e condannati a circolare con il passaporto vaccinale in tasca per andare allo stadio, in discoteca, a trovare i parenti anziani nelle case di risposo». Violando la Costituzione, il governo Draghi ha già imposto il vaccino ai sanitari: in teoria, la Carta proibisce di sottoporre cittadini a Tso con farmaci ancora sperimentali. Il grande avvocato tedesco Reiner Fuellmich, insieme a mille colleghi e 10.000 medici di tutto il mondo, sta preparando le carte per ottenerla, la Nuova Norimberga. Nella geografia della strage, spicca l’Italia di Giuseppe Conte e Roberto Speranza: alle cure negate (”proibite”, per dirla con Mazzucco) corrisponde un numero spaventoso di vittime, abbandonate in “vigile attesa” della morte.Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.
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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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“Mai a Est”, così la Nato mentì a Gorbaciov. Ecco le prove
Prima di perdere il potere, Gorbaciov ricevette ampie e ripetute assicurazioni, tra il 1990 e il 1991, sul fatto che la Nato non sarebbe stata estesa ai paesi est-europei. È la verità che emerge dalla pubblicazione, all’inizio dello scorso dicembre, di documenti desecretati contenuti nell’archivio della Sicurezza Nazionale depositato nella George Washington University, spiega Giulietto Chiesa. «Qui è dimostrato che l’Occidente mentì, come si suol dire, per la gola», e cioè: promise ai dirigenti sovietici che la sicurezza nazionale dell’Urss non sarebbe stata minacciata, ma – una volta incassato il bottino politico – non tenne fede alla parola data. I documenti, resi pubblici da due ricercatori (Svetlana Savranskaja e Tom Blanton) svelano questa verità storica in modo inequivocabile: «Fu una congiura, perché a promettere non fu uno solo: lo fecero tutti». E questo, scrivono i due, «è basato sulla fondatezza di documenti scritti e di dispacci scambiati ai più alti livelli». Aveva dunque le sue ragioni Vladimir Putin quando, durante la conferenza di Monaco sulla sicurezza, nel 2007, chiese: «Cosa ne è delle assicurazioni che i nostri partner europei diedero dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Dove sono finite quelle dichiarazioni? Sembra che nessuno se ne ricordi, ma mi permetto di ricordare a questo pubblico ciò che venne detto allora».Putin, ricorda chiesa in un post su “Sputnik News”, citò una precisa dichiarazione del segretario generale della Nato di quel momento, Manfred Woerner. A Bruxelles, il 17 maggio 1990, Woerner aveva detto, testualmente: «L’Unione Sovietica ha una solida garanzia di sicurezza dal fatto che non siamo intenzionati a dislocare un esercito della Nato al di fuori del territorio tedesco». Davvero? «Dove sono oggi queste garanzie?», aveva esclamato Putin, tra lo scandalo dei massimi leader europei e americani. «Tutti sembravano avere dimenticato che già nel 1997 la Nato aveva offerto a Ungheria, Polonia e all’allora Cecoslovacchia di entrare nella Nato», annota Chiesa. Storica la frase che il segretario di Stato Usa, James Baker, rivolse a Gorbaciov il 9 febbraio 1990: «La Nato non si espanderà ad est nemmeno di un centimetro». Per la verità, scrive Giulietto Chiesa, Baker usò la misura inglese dell’inch, «ma adesso è noto che qualche miliardo di inches è già stato percorso a est dalle truppe e dagli armamenti della Nato». Una grande menzogna, fin dall’inizio: «L’elenco dei bugiardi che seguirono le orme, in inches, di James Baker è davvero lungo, a leggere gli archivi della Washington University. Ne fecero parte il presidente George Bush padre, il ministro degli esteri tedesco Genscher, il cancelliere Kohl, il presidente francese Mitterrand, Margaret Thatcher, il premier inglese John Major, il capo della Cia Robert Gates, il ministro degli esteri britannico Douglas Hurd».In base al trattato siglato con la sconfitta tedesca della Seconda Guerra Mondiale, Gorbaciov avrebbe avuto nelle sue mani il diritto di veto per impedire la riunificazione tedesca, ricorda Chiesa. E invece, grazie alle bugie sulla Nato, l’ultimo leader dell’Urss «fu indotto ad accettare un patto con l’Occidente, che l’Occidente non ha rispettato». E non si tratta soltanto di documenti d’archivio, precisa Chiesa: in alcuni casi c’è la testimonianza di partecipanti diretti, autori di quelle “promesse da marinaio”. Come Rodric Braithwaite, allora ambasciatore inglese a Mosca, che riferisce di un colloquio tra il premier britannico Major e lo stesso Gorbaciov, avvenuto il 5 marzo 1991, in cui il primo disse al secondo: «Io penso che i suoi sospetti sul ruolo della Nato nella presente situazione siano il risultato di un fraintendimento». Noi non stiamo pensando a un rafforzamento della Nato, giurò il diplomatico inglese: stiamo solo «coordinando gli sforzi per migliorare i rapporti tra l’Unione Europea e la Nato». Secondo le memorie di Robert Gates, allora assai critico verso il trattamento cui veniva sottoposto Gorbaciov, il leader sovietico fu «indotto a credere» alle promesse «mentre si stava preparando in gran fretta e in segreto l’estensione a est della Nato».Due le opzioni occidentali: attendere che l’Urss si afflosciasse da sola o costringerla subito alla resa. Giulietto Chiesa definisce la prima ipotesi «abbastanza sincera». Il suo più convinto sostenitore? Bush. «Non voleva accentuare le dimensioni del crollo sovietico, anche nel timore che una troppo grande umiliazione avrebbe potuto provocare contraccolpi nazionalistici in Russia». Meglio dunque «lasciare la Nato dove stava, accontentandosi di una Germania unificata dentro la Nato, ma senza andare oltre». Tesi che, peraltro, «Kohl e Genscher nettamente preferivano». L’altra opzione era invece «dettata dall’uso spregiudicato dei rapporti di forza», e dunque: rapido allargamento a Est della Nato. «Ma la differenza tra le due opzioni era assai labile», secondo Chiesa: «Era una questione di tempi di realizzazione dello stesso disegno», perché «quelli che oggi definiremmo i “moderati” dell’Occidente» erano semplicemente convinti che l’Unione Sovietica non sarebbe crollata così velocemente, come poi invece avvenne alla fine del 1991. «Erano disposti ad aspettare più a lungo, ma avrebbero fatto la stessa cosa che i secondi (i falchi di Washington) volevano fare subito». L’unico a dirlo a Gorbaciov fu Valentin Falin, dirigente del Pcus: «L’Occidente ci sta prendendo in giro». Avvertimento tardivo e inutile: «I rapporti di forza erano già definiti. E, quando l’Urss crollò, fu ovvio dimenticare le promesse fatte a Gorbaciov, che non era più sulla scena».Prima di perdere il potere, Gorbaciov ricevette ampie e ripetute assicurazioni, tra il 1990 e il 1991, sul fatto che la Nato non sarebbe stata estesa ai paesi est-europei. È la verità che emerge dalla pubblicazione, all’inizio dello scorso dicembre, di documenti desecretati contenuti nell’archivio della Sicurezza Nazionale depositato nella George Washington University, spiega Giulietto Chiesa. «Qui è dimostrato che l’Occidente mentì, come si suol dire, per la gola», e cioè: promise ai dirigenti sovietici che la sicurezza nazionale dell’Urss non sarebbe stata minacciata, ma – una volta incassato il bottino politico – non tenne fede alla parola data. I documenti, resi pubblici da due ricercatori (Svetlana Savranskaja e Tom Blanton) svelano questa verità storica in modo inequivocabile: «Fu una congiura, perché a promettere non fu uno solo: lo fecero tutti». E questo, scrivono i due, «è basato sulla fondatezza di documenti scritti e di dispacci scambiati ai più alti livelli». Aveva dunque le sue ragioni Vladimir Putin quando, durante la conferenza di Monaco sulla sicurezza, nel 2007, chiese: «Cosa ne è delle assicurazioni che i nostri partner europei diedero dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Dove sono finite quelle dichiarazioni? Sembra che nessuno se ne ricordi, ma mi permetto di ricordare a questo pubblico ciò che venne detto allora».
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Antenati misteriosi: chi è Homo Naledi, l’Uomo delle Stelle?
Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».La pubblicazione, aggiunge Parravicini, ha avuto risonanza in tutto il mondo, anche per via di un’abile operazione di marketing. Situato nell’area dove si trova la cosiddetta “Culla dell’umanità”, un sito dichiarato patrimonio dell’Unesco dal 1999 e che ha restituito parecchi resti di forme ominine, “Rising Star” è un intricato complesso di grotte a circa 50 chilometri da Johannesburg, in Sudafrica. Tra queste grotte, una camera posta a una trentina di metri di profondità e raggiungibile solo attraverso uno stretto pertugio si è rivelata una miniera d’oro per gli studiosi di evoluzione umana. In essa, chiamata “Dinaledi chamber”, il team di Lee Berger dell’Università Witwatersrand ha rinvenuto più di 1.550 ossa umane, appartenenti ad almeno 15 individui (se si contano solo le ossa associate tra loro, e non le innumerevoli altre appartenenti a parecchi altri individui). Scoperta che «coincide con il più grosso ritrovamento di ossa di ominini mai avvenuto, un vero e proprio giacimento, che permetterà agli scienziati di condurre uno studio esteso e approfondito, con un confronto tra le parti anatomiche di molti individui diversi, maschi e femmine, vecchi e giovani».Dai primi studi è emerso subito chiaramente che le ossa appartenevano tutte a una nuova specie umana, l’Homo Naledi per l’appunto. Mostra una conformazione di tratti “a mosaico”, antichi e più recenti, spiega Parravicini: siamo di fronte a una specie dalla morfologia «sconcertante, con una statura di circa un metro e mezzo per un peso di 40-55 kg, con una conformazione del cranio simile agli altri Homo ma con un cervello molto piccolo, grande un terzo del nostro (560cc nei maschi), con spalle e mani adatte all’arrampicata e ad afferrare rami, con dita ricurve ma pollici lunghi e solidi, e polsi e palmi dotati, come i nostri, di adattamenti per la manipolazione fine e la presa di precisione». Anche i piedi e gli arti inferiori sono simili a quelli dell’uomo moderno. «E non c’è dubbio che, da quanto si è inferito dalle conformazioni del tarso, dell’alluce e dall’articolazione della caviglia, Homo Naledi fosse in grado di camminare e di mantenere la stazione eretta», anche se «la presenza di falangi prossimali ricurve fa pensare a una forma particolarmente idonea all’arrampicamento sugli alberi». Infine, «la meccanica dell’anca e la conformazione del bacino ricordano quelle degli australopitechi, ma la mandibola debole e i denti piccoli sono caratteristiche derivate». L’impressione, osserva Parravicini, è quella di trovarsi di fronte a una forma di transizione tra l’australopiteco e forme più recenti come Homo Habilis», vissute circa 2 milioni di anni fa, insieme a Homo Rudolfensis e Homo Ergaster.Ma in che modo quelle migliaia di ossa trovate a Rising Star sono finite in quell’anfratto recondito e buio, a molti metri di profondità e difficilmente raggiungibile da chiunque? Su “eLife”, Paul Dirks e colleghi escludono che siano state cause accidentali ad accumulare una massa di resti ossei così ingente: improbabile un cataclisma. Forse, ipotizzano gli studiosi, «siamo di fronte a una deposizione intenzionale e ripetuta di corpi, o a un qualche tipo di sepoltura», anche se non per forza un comportamento “ritualizzato” o con significati simbolici. «Io penso che dev’esserci un’altra spiegazione, solo che non l’abbiamo ancora trovata», afferma Bernard Wood, paleoantropologo della George Washington University. Qualcuno ha anche proposto che quell’accumulo impressionante di corpi possa essere la conseguenza di omicidi per via di guerre o sacrifici: sarebbe il primo, antecedente al Neolitico; finora, i reperti rinvenuti nel Paleolitico – secondo gli studiosi – non suggeriscono la presenza della guerra, mancando ritrovamenti di più corpi nello stesso luogo, con segni evidenti di violenza (cranio sfondato).La precisa datazione dei reperti è stata recentemente stabilita dall’équipe di Paul Dirks della James Cook University, in Australia, combinando differenti metodologie di analisi. «Lo studio ha ottenuto risultati davvero sorprendenti, che assegnano Homo Naledi allo scenario meno prevedibile: esso risalirebbe a un periodo collocabile tra 236.000 e 335.000 anni fa, quando i primi umani moderni stavano emergendo in Africa e i Neanderthal stavano evolvendo in Europa». Questo significa che «un omino con un cervello grande un terzo rispetto al nostro e una corporatura tipica di forme di più di 2 milioni di anni fa, pur esibendo qui e là caratteri sorprendentemente moderni, si aggirava nelle stesse zone in cui stavano emergendo umani già pienamente moderni». Una datazione, osserva Parravicini, che pone agli studiosi di evoluzione non pochi problemi. Dirks colloca Homo Naledi «in un momento in cui troviamo molti strumenti in Africa. E ciò significa che non è più possibile dare per scontato che questi strumenti siano stati costruiti dai primi Homo Sapiens».Un’ulteriore scoperta, aggiunge Parravicini, è stata fatta in un’altra grotta del complesso di Rising Star. Nella Lesedi Chamber, posta a un centinaio di metri dalla Dinaledi Chamber e a trenta metri di profondità, sono stati trovati altri 131 reperti fossili associati a Homo Naledi, appartenenti almeno a tre individui, due adulti e un individuo molto giovane, presumibilmente di età inferiore a 5 anni. Da questi ultimi ritrovamenti è emerso «uno dei più completi scheletri mai scoperti, tecnicamente più completo del famoso fossile di Lucy grazie alla conservazione del cranio e della mandibola». Accedere alla Lesedi Chamber è ancora più difficile rispetto alla Dinaledi. E questo, rileva John Hawks, antropologo all’Università di Wisconsin-Madison, «dà peso all’ipotesi che Homo Naledi sfruttasse luoghi scuri e remoti per conservare i suoi morti». Un comportamento analogo a quello ipotizzato per i 6.500 resti umani trovati a Sima de los Huesos, nella Sierra de Atapuerca in Spagna, in cui pare che anche Neanderhtal occultasse i propri compagni morti già 400.000 anni fa. «Ma l’aspetto sconcertante – osserva Parravicini – è che questo comportamento, profondamente tipico di noi esseri umani, di prenderci cura dei nostri simili anche dopo la loro morte, possa essere condiviso da una forma umana da un cervello grande come quello di un gorilla».Ma, in definitiva, cos’è questa bizzarra specie umana vissuta alle soglie della storia? E come va collocata all’interno dell’intricato cespuglio dell’evoluzione umana? Secondo Chris Stringer del National History Museum di Londra, Homo Naledi potrebbe essersi originato in un’epoca vicina all’emergere del genere Homo, più di 2 milioni e mezzo di anni fa, suggerendo che si tratti di una “specie fossile”, un relitto evolutivo isolato che ha mantenuto molti tratti primitivi sviluppati parecchio tempo prima. Qualcosa di analogo potrebbe essere accaduto anche a Homo Floresiensis, un’altra misteriosa specie rinvenuta sull’isola di Flores, in Indonesia, denominata “hobbit” per il corpo piccolo ed esile, i cui più recenti rappresentanti sono vissuti fino a 60.000 anni fa, forse «diretti discendenti di una popolazione di antenati di Homo Habilis». Tuttavia, fa notare Stringer, le condizioni di isolamento dello “hobbit” di Flores (Isole della Sonda) hanno senz’altro contribuito alla sua grande longevità, mentre nel caso del Naledi lo scenario è quello sudafricano, aperto, in cui si aggiravano altre forme ben più “avanzate” di esseri umani, dal cervello molto più grande. Lee Berger e colleghi accarezzano l’idea che Homo Naledi possa addirittura essere «il frutto di un’ibridazione tra una specie tarda di australopitecina e una popolazione più simile a una specie umana». Quel che è certo, conclude Parravicini, è che la storia evolutiva del nostro genere diventa sempre più intricata e complessa: in altre parole, quel che credevamo di sapere non era esatto.Sono passati meno di due anni dall’annuncio della scoperta di una nuova specie umana, l’Homo Naledi, in una grotta sudafricana contenente più di 1.500 reperti fossili. La morfologia di questa specie, scrive Andrea Parravicini su “Micromega”, è un sorprendente mix di caratteri “trattenuti”: un cervello piccolo, una corporatura somigliante a un’australopitecina (come la famosa Lucy) o ai primi rappresentanti del genere Homo, mescolata a caratteri “derivati”, più “moderni”, come le mani adatte a manipolare oggetti o i piedi da camminatore bipede. Recenti studi collocano questa specie in un’epoca sorprendentemente recente, contemporanea all’emergere dei primi umani moderni, e che confermano la possibilità di comportamenti complessi, o addirittura simbolici, da parte di questa strana ed enigmatica creatura. Nel ssettembre 2015, la rivista scientifica “eLife” annunciava la scoperta, avvenuta circa un anno e mezzo prima. In lingua Sotho, “Naledi” significa “stella”: «Una stella nel firmamento dell’evoluzione umana che oggi, a distanza di quasi due anni, continua a brillare intensamente, soprattutto per via dei nuovi dettagli e di ulteriori scoperte che alimentano interesse e curiosità riguardo a questo nostro misterioso “cugino”».
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Olocausto: abbiamo sterminato 4 milioni di musulmani
Negli ultimi 25 anni, l’Occidente ha commesso una sorta di genocidio: a partire dal 1990, attraverso le cosiddette “guerre al terrore” sono stati sterminati qualcosa come 4 milioni di cittadini musulmani. Lo afferma Nafeez Ahmed, giornalista investigativo impegnato sui media internazionali. L’ultima notizia la fornisce la Prs di Washington: l’associazione “Physicians for Social Responsibility”, composta da medici e Premi Nobel per la Pace, in un rapporto di 97 pagine dichiara che il solo decennio seguito all’11 Settembre «è costato la vita a circa 1,3 milioni di persone, forse anche 2 milioni», calcolando il numero di vittime civili mietute dagli interventi militari statunitensi in Iraq, Afganistan e Pakistan nel quadro delle “operazioni contro il terrorismo”. Il rapporto Psr è stato realizzato da un team interdisciplinare di esperti in salute pubblica, tra cui il dottor Robert Gould, direttore del Centro Medico di educazione e ricerca medica dell’Università della California, e il professor Tim Takaro della facoltà di medicina della Simon Fraser University. «Eppure, è stato praticamente oscurato dai canali anglofoni d’informazione».La denuncia, continua Ahmed in un post su “Middle East Eye”, ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata completamente ignorata dal mainstream nonostante rappresentasse il primo sforzo di un’organizzazione internazionale di medici nel produrre un calcolo scientificamente provato del numero delle persone uccise nella “guerra al terrore” condotta da Stati Uniti e Gran Bretagna. Hans von Sponeck, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite, descrive il rapporto Psr come «un contributo importante nel coprire il divario che esiste tra il numero reale delle vittime civili della guerra in Iraq, Afganistan e Pakistan e le cifre fittizie, manipolate e talvolta anche fraudolente che vengono fatte circolare». Il rapporto esegue una revisione critica delle stime precedenti delle vittime civili della “guerra al terrore”. E mette in crisi la cifra più citata dai maggiori canali d’informazione, che parla di “appena” 110.000 persone cadute in Iraq. Nella sola Najaf, dall’inizio della “guerra” sono stati seppelliti 40.000 corpi, mentre i vecchi dati ufficiali ne contavano solo 1.354. Il rapporto verità-menzogna è di 1 a 30, e sale a 1 a 40 nel caso degli attacchi arei: solo 3 per il mainstream nel 2005, ben 120 per il rapporto dei Nobel.Sempre secondo lo studio Psr, il tanto contestato rapporto di “Lancet” che ha stimato 655.000 morti iracheni fino al 2006 (e oltre un milione fino ad oggi, per estrapolazione) era probabilmente molto più accurato dei dati forniti dall’Ibc, la conta ufficiale dei morti (“Iraq Body Count”). Negazione politicizzata, dunque: i Psr, continua Ahmed, ha anche rivisto la metodologia di altri studi che indicavano cifre più basse, come il documento pubblicato dal “New England Journal of Medicine”, che «ignorava le aree colpite da maggiore violenza, come Baghdad, Anbar e Ninive, basandosi su dati inesatti di Ibc». Inoltre, indicava “restrizioni politicamente motivate” nella raccolta e nell’analisi dei dati – le interviste erano state condotte dal ministero della salute iracheno, che era «completamente dipendente dal nuovo potere occupante» e si era rifiutato, su pressione Usa, di fornire i dati esatti dei morti iracheni. In generale, Psr conclude che il numero più vicino alla realtà dei civili morti in Iraq dal 2003 a oggi è di circa 1 milione. A cui si aggiungono circa 220.000 civili uccisi in Afganistan e 80.000 in Pakistan. Il conto finale parla di un minimo di 1,3 milioni di persone, fino a un massimo di 2 milioni attraverso ricognizioni definitive e complete.Tuttavia, aggiunhe Ahmed, anche lo studio Psr presenta dei limiti, perché «la guerra al terrore lanciata dopo il 9/11 non era una cosa nuova, ma l’estensione di politiche interventiste precedenti sia in Iraq sia in Afganistan», e poi perché «il numero piuttosto contenuto delle vittime civili afghane mostrato dal Psr indica che questo ha probabilmente sottovalutato il prezzo umano degli scontri in Afghanistan. Una storia di sangue, a senso unico, iniziata in Iraq nel 1991 con la prima Guerra del Golfo, seguita poi dal regime sanzionatorio delle Nazioni Unite. Un precedente rapporto di Beth Daponte, allora demografa dell’ufficio censimenti del governo americano, mostrava che le morti irachene causate direttamente e indirettamente dall’impatto della prima Guerra del Golfo fossero intorno alle 200.000, di cui la maggior parte civili. «Nel frattempo, quel suo studio fu fatto sparire dalla circolazione». Dopo la guerra, Usa e Regno Unito imposero all’Onu le durissime sanzioni, «con il pretesto di dover negare a Saddam Hussein i beni e le materie prime necessarie per poter costruire armi di distruzione di massa». Molti prodotti inclusi nella lista delle materie negate, in reatà, comprendevano anche beni di prima necessità: per l’Onu, «1,7 milioni di civili iracheni sono morti come conseguenza del regime sanzionatorio imposto dall’Occidente, e metà di questi erano bambini».Queste eliminazioni di massa appaiono come intenzionali, sottolinea Ahmed. Tra le merci vietate c’erano prodotti chimici e attrezzature essenziali per la depurazione delle risorse idriche nazionali. Un documento segreto dell’agenzia d’intelligence del ministero della difesa statunitense, scoperto dal professor Thomas Nagy della School of Business della George Washington University, indicava chiaramente le «intenzioni di genocidio del popolo iracheno». In un documento per l’Associazione degli Studiosi di Genocidi della University of Manitoba, Nagy spiega che il documento della Dia conteneva dettagli minuziosi di un metodo praticamente infallibile per far «degradare il sistema idrico di un’intera nazione» nel giro di una decina di anni. La politica sanzionatoria avrebbe creato «le condizioni per la diffusione delle malattie, comprese vere e proprie epidemie su vasta scala», causando «di conseguenza l’eliminazione di una vasta porzione della popolazione irachena». Questo significa che, solo in Iraq, la guerra condotta dagli Usa dal 1991 al 2003 ha ucciso 1,9 milioni di iracheni, conclude Nafeez Ahmed. Poi, dal 2003 ad oggi, un altro milione circa. «In totale, circa 3 milioni di iracheni morti nel giro di due decenni».Quanto all’Afganistan, la stima delle morti totali in base al rapporto Psr potrebbe anche essere «molto conservativa». Sei mesi dopo la campagna di bombardamenti successiva al 2001, il giornalista del “Guardian” Jonathan Steele rivelò che rimasero uccisi un numero tra i 1.300 e gli 8.000 afghani, ed altri 50.000 morirono come conseguenza indiretta della guerra. Nel suo libro “La conta dei morti: la mortalità che si sarebbe potuta evitare nel mondo dal 1950 ad oggi”, il professor Gideon Polya applicò la stessa metodologia utilizzata dal “Guardian” per i dati della divisione demografica delle Nazioni Unite sulla mortalità annuale, per calcolare cifre plausibili delle “morti in eccesso”, tutte evitabili. Biochimico in pensione della La Trobe University di Melbourne, Polya concluse che il totale delle uccisioni evitabili in Afganistan dal 2001, causate dalle privazioni imposte, ammontavano a circa 3 milioni di persone, di cui 900.000 bambini sotto i cinque anni. Il suo studio è raccomandato dalla sociologa Jacqueline Carrigan della California State University, che sul “Routledge Journal” lo definisce «un profilo ad alto contenuto di dati sulla situazione della mortalità infantile nel mondo».Come per l’Iraq, in Afganistan gli interventi statunitensi sono iniziati molto prima dell’11 Settembre, sotto forma di sostegno militare, logistico e finanziario segreto ai Talebani. Tutto questo, ricorda Ahmed, dal 1992 in poi. Decisivo, il supporto Usa, per la «belligeranza talebana», consentendole di conquistare il 90% del territorio afghano. In un rapporto del 2001 della National Academy of Sciences su migrazioni forzate e mortalità, l’illustre epidemiologo Steven Hansch, direttore di “Relief International”, osservò che la mortalità evitabile totale in Afganistan causata dagli impatti indiretti delle guerra nel corso degli anni ’90 potrebbe attestarsi ovunque tra i 200.000 e i 2 milioni di morti. «Anche l’ Unione Sovietica, naturalmente, ne fu responsabile, per il suo ruolo nella distruzione intenzionale delle infrastrutture civili afghane, causando indirettamente moltissime morti. Tutto questo – scrive Ahmed – suggerisce che, nel complesso, il numero totale di morti afghane conseguenza diretta e indiretta dell’intervento statunitense nel paese a partire dai primi anni ’90 fino ad oggi, potrebbe raggiungere i 3,5 milioni». Un bilancio spaventoso: 2 milioni in Iraq e altri 2 in Afghanistan. Da 4 milioni di morti, il totale «potrebbe raggiungere i 6/8 milioni, contabilizzando anche le stime superiori delle morti evitabili in Afganistan».Sono cifre che probabilmente superano la realtà, continua Nafeez Ahmed, ma questo non lo sapremo mai con certezza: «Le forze armate degli Stati Uniti e del Regno Unito, per una questione di politica, si rifiutano di tenere traccia del numero di vittime civili nelle operazioni militari – considerate solo degli inconvenienti irrilevanti». A causa della grave mancanza di dati certi in Iraq, della quasi totale assenza di informazioni per l’Afganistan e dell’indifferenza dei governi occidentali riguardo alle morti civili, è letteralmente impossibile determinare la reale portata delle perdite di vite umane. In assenza della possibilità di conferme certe, queste cifre «forniscono stime plausibili sulla base di metodologie statistiche standard». Pur non fornendo un dato preciso, danno una chiara indicazione della portata della distruzione in queste aree. «Gran parte di queste morti viene giustificata nel contesto della lotta contro la tirannia e il terrorismo. Tuttavia, a causa del silenzio dei maggiori mezzi d’informazione, la maggior parte delle persone non ha idea della reale portata distruttiva della guerra al terrore protratta negli anni da Usa e Uk in Iraq e Afghanistan».Negli ultimi 25 anni, l’Occidente ha commesso una sorta di genocidio: a partire dal 1990, attraverso le cosiddette “guerre al terrore” sono stati sterminati qualcosa come 4 milioni di cittadini musulmani. Lo afferma Nafeez Ahmed, giornalista investigativo impegnato sui media internazionali. L’ultima notizia la fornisce la Prs di Washington: l’associazione “Physicians for Social Responsibility”, composta da medici e Premi Nobel per la Pace, in un rapporto di 97 pagine dichiara che il solo decennio seguito all’11 Settembre «è costato la vita a circa 1,3 milioni di persone, forse anche 2 milioni», calcolando il numero di vittime civili mietute dagli interventi militari statunitensi in Iraq, Afganistan e Pakistan nel quadro delle “operazioni contro il terrorismo”. Il rapporto Psr è stato realizzato da un team interdisciplinare di esperti in salute pubblica, tra cui il dottor Robert Gould, direttore del Centro Medico di educazione e ricerca medica dell’Università della California, e il professor Tim Takaro della facoltà di medicina della Simon Fraser University. «Eppure, è stato praticamente oscurato dai canali anglofoni d’informazione».