Archivio del Tag ‘Gibuti’
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Geopolitica del coronavirus: è bioterrorismo, made in Usa
Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.Ci sono volute poche ore perché la crisi si trasmettesse ai titoli di Stato italiani, ed è molto probabile che il circolo vizioso (panico, crisi economica, crisi del debito) debba produrre ancora i suoi effetti peggiori. L’Italia è infatti il “ventre molle” dell’Eurozona, e l’attacco bioterroristico angloamericano mira soprattutto a destabilizzare l’Eurozona e l’Unione Europea nel suo complesso: l’operazione è facilitata anche dalle dinamiche messe in moto dal virus: la tentazione di ripristinare le frontiere in Europa e procedere in ordine sparso è fin troppo evidente. Va da sé che un collasso violento dell’Unione Europa, con la conseguente crisi politica ed economica, rallenterebbe non poco il tentativo cinese di “agganciare” il Vecchio Continente alla Via della Seta. Già, perché il coronavirus sembra proprio studiato per destabilizzare non soltanto l’Europa, ma la massa afro-euro-asiatica nel suo complesso, massa che Russia e Cina stanno tentando di organizzare con una rete di infrastrutture sempre più fitta ed intricata.Il primo e più potente colpo è stato sferrato dagli angloamericani ovviamente in Cina (80.000 casi) che, per fare fronte al propagarsi dell’epidemia, ha dovuto adottare contromisure senza precedenti: come nel caso italiano, i danni umani sembrano contenuti, ma quelli all’attività economica sono ingenti e si attende per questi mesi un brusco calo dell’attività produttiva: il sistema-paese non dà comunque segni di cedimento, grazie alla solidità della macchina statale centralizzata e alla consapevolezza, molto diffusa tra tutti gli strati della popolazione, di dover fronteggiare un vero e proprio assalto statunitense. Ovviamente le ripercussioni economiche sono pesanti anche per gli Stati Uniti, ma è errato in questa nuova fase storica attribuire troppa importanza al “business”: la geopolitica, intesa come duello tra colossi continentali e potenze marittime, domina ormai l’agenda di Washington e Londra, e una destrutturazione violenta della globalizzazione (velocizzata da un collasso delle piazze finanziarie che si fa giorno dopo giorno più concreto) coincide perfettamente con i piani delle potenze anglosassoni, accortesi di aver perso il primato economico in troppi campi (dal 5G ai treni superveloci).Tra Italia e Cina, i principali focolai di coronavirus agli estremi opposti dell’Eurasia, due paesi risultano essere stati particolarmente colpiti, attraverso i soliti canali “misteriosi” dietro cui si celano attacchi biologici mirati: Iran e Corea del Sud. Sull’Iran (90 morti e 2.900 casi), specie dopo il recente omicidio del generale Souleimani, si è troppo scritto per doverne parlare ancora: ci basti qui dire che Teheran è un ottimo fornitore di greggio alla Cina, è parte integrante del corridoio centrale della Via della Seta che dovrebbe unire le regioni occidentali cinesi all’Europa via Istanbul, consente alla Russia di affacciarsi, se necessario, all’Oceano Indiano. Più interessante, perché ne abbiamo sinora parlato meno, è il dilagare del coronavirus nella Corea del Sud, dove sinora si contano circa 5.000 casi ed una trentina di vittime ed il governo di Seul si è visto costretto a dichiarare “guerra” al virus. Colpire l’Italia per destabilizzare l’Europa e punirla per aver aderito alla Via della Seta, colpire l’Iran perché un tradizionale nemico, ma perché colpire anche la Corea del Sud?Chi avesse seguito la politica dell’Estremo Oriente in questi ultimi anni, dominata dalle tensioni attorno al nucleare nordcoreano, avrà certamente notato il progressivo “ritorno” (perché così è stato per millenni) anche della Sud Corea nell’orbita cinese. Il dislocamento nella penisola coreana del sistema antimissilistico Thaad, uno strumento neppure troppo velato di “contenimento” della Cina, aveva inasprito nel 2017 i rapporti tra Pechino e Seul; da allora, fungendo da mediatore tra le due Coree, Pechino si è riavvicinata al piccolo, ma altamente industrializzato, paese asiatico, sino alla decisione del dicembre 2019 di “normalizzare” i rapporti, chiudendo i recenti dissapori dovuti al dispiegamento del Thaad. Seul, come molti altri paesi del sud-est asiatico, sta dunque anch’essa convergendo verso l’Impero Celeste e non ha alcuna intenzione di fungere da “testa di ponte” degli angloamericani sul continente asiatico: come molti altri paesi del sud-est asiatico (si veda il caso della Malesia), anche la Corea del Sud ha quindi avuto la sua “punizione”. Il coronavirus, appunto.Chiudiamo la nostra analisi sulla geopolitica del coronavirus con un accenno all’Africa. Nelle ultime settimane, prima che il virus si diffondesse in Italia, si è molto parlato del rischio di un’epidemia in Africa, dove peraltro mancherebbero le strutture per contenerla. Pare che il clima caldo disincentivi il propagarsi della malattia e ciò metterebbe dunque almeno parzialmente al sicuro le regioni africane tropicali: non c’è alcun dubbio, infatti, che se gli angloamericani dovessero sferrare un attacco biologico anche nel Continente Nero, sceglierebbero certamente il Corno d’Africa e la regione compresa tra Gibuti e l’Etiopia: i paesi, cioè, toccati dal corridoio marittimo della Via della Seta.(Federico Dezzani, “Geopolitica del coronavirus”, dal blog di Dezzani del 4 marzo 2020).Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.
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Sapelli: Usa inerti, ma così l’Italia affonda nel Mediterraneo
Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).Proprio i francesi, aggiunge Sapelli, hanno sconvolto antichi equilibri di potenza post-coloniali (anche per contenere la crescente influenza cinese, da Gibuti a Suez, fino a Tripoli). Dal canto suo, Pechino si protende nel Mediterraneo, dove sembra propensa a negoziare con la Russia e con l’Egitto «per aver meglio a disposizione la via verso l’Alto Adriatico passando per Suez e continuare così sino all’Artico indebitando Stati e impiegando il lavoro forzato in infrastrutture mai finite e pericolose». E l’Italia? «E’ il vaso di coccio tra i vasi di ferro», scrive Sapelli. «La stella di Mattei brillò quando gli Usa si allearono con Nasser e scacciarono gli inglesi dal Mediterraneo, proteggendo di fatto gli italiani in Libia e in Algeria: provocarono l’odio e la vendetta francese, di cui l’eroico e mai compreso Enrico Mattei fu la vittima sacrificale». Ora, secondo Sapelli, la storia si ripete: Russia e Cina si riavvicinano con manovre militari, a cui gli Usa non oppongono alcuna strategia di contenimento. «L’unica via utile alla sicurezza mondiale sarebbe un’alleanza nordamericana con la Russia contro la nascente egemonia cinese, ma questo è assai difficile».Secondo Sapelli, «la Cina crolla egemonicamente in Asia perché disvela un volto imperialista, ma trionfa ancora in Europa grazie ai Quisling innumerevoli di cui dispone nell’eurocrazia e in molte nazioni europee, Francia e Italia in testa». Gli Usa? «Sono troppo divisi nel loro establishment per poter condurre una politica di potenza che comprenda l’importanza strategica del Mediterraneo». La prima nazione a patirne – va da sé – è proprio l’Italia, «stretta appunto tra la sua borghesia “vendidora” che vive sull’erosione della sovranità e del potenziale di ciò che dovrebbe essere la patria, e invece per costoro è un suk con clienti stranieri». Per questo, pesa ancora di più l’assenza strategica degli Stati Uniti: «Solo l’Italia può garantire gli Usa per un nuovo equilibrio di potenza in Africa del nord e nell’Africa sub-sahariana». Per Sapelli, è assolutamente necessaria una urgente discussione pubblica su questo tema, visto che «rischiamo la decadenza dell’Italia».Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).
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L’Italia che difende i marò non aprì bocca dopo il Cermis
Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».Basta osservare le foto del Saint Antony, il battello da pesca colpito dai fucilieri: «Accettereste un passaggio – anche gratis! – su una simile bagnarola?». Nei luoghi “classici” della pirateria, come lo Stretto di Malacca, le imbarcazioni usate dai pirati sono potenti e veloci, si dispongono in tandem a prua della preda, tendendo una cima fra le due imbarcazioni pirata: così è la prua stessa della vittima, incocciando nella cima, a tirarsele sottobordo. Non è il caso del Saint Antony, che nel frattempo è affondato («Non c’è da meravigliarsi!»). Il peschereccio, continua Bertani, poteva raggiungere al massimo gli 8-9 nodi, contro i 12 della Enrica Lexie. «Le due imbarcazioni procedevano quasi su rotta di collisione», prua contro prua. «Una delle vittime – il timoniere – fu trovato morto “appeso” al timone: s’ipotizzò addirittura che dormisse, all’atto dei luttuosi eventi». Domanda: perché il comandante del mercantile, Umberto Vitelli, se era in dubbio riguardo alle intenzioni del peschereccio, non ha fatto bloccare il timone e aumentare la velocità? E perché non ha richiamato il personale dalla plancia? E’ è tutta a vetri, e se si spara si può essere colpiti.«Qualora il peschereccio avesse messo il “turbo” (cosa risultata a posteriori impossibile, perché era solo una vecchia carretta da pesca), a quel punto si poteva prendere in esame la risposta armata», scrive Bertani. «Quando ho parlato di “grilletto facile” non ho blaterato a vanvera». I due morti sul Saint Antony furono colpiti da munizionamento Nato (presenti i carabinieri italiani all’autopsia). E la barca «era ridotta a un colabrodo, mentre nessun colpo aveva raggiunto la Enrica Lexie, anche perché gli indiani erano disarmati». Dove avvenne lo scontro? Secondo la perizia del “collegio capitani”, a circa 20,5 miglia nautiche dalla costa, all’esterno delle acque territoriali ma all’interno della “zona contigua”, che l’India ha ratificato con la convenzione di Montago Bay, che recita: «La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale, sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione». L’India, conclude Bertani, aveva dunque pieno diritto di effettuare l’arresto.«Si è fatto molto chiasso su questa vicenda, cercando d’aggrovigliare le miglia marine come fossero capelli – aggiunge Bertani – ma ci si dimentica che gli israeliani assalirono la Mavi Marmara (mercantile della Freedom Flotilla) a 40 miglia dalle loro coste, in piene acque internazionali, e nessuno mosse un baffo. Quello fu, a tutti gli effetti, un vero atto di pirateria». La vicenda dei marò è intricatissima, perché in India vige la pena di morte: più volte, però, magistrati e politici indiani hanno precisato che “per quel tipo di reato non è prevista la pena di morte”. Le autorità indiane, inoltre, hanno spiegato che ai militari italiani potranno infliggere ogni sentenza «eccetto la pena di morte, l’ergastolo e l’imprigionamento per un periodo eccedente 7 anni». Insomma, il massimo (per due omicidi, secondo gli indiani) sono 7 anni di reclusione: quasi come in Italia. «C’è da dire – continua Bertani – che la pazienza indiana è stata più volte messa a dura prova dalle intemperanze dell’allora presidente Napolitano – che ricevette i due marines come se fossero stati due eroi – e dalle “scommesse” dell’allora ministro degli esteri Terzi, il quale dichiarò che i due militari non sarebbero più tornati in India, dopo uno dei molti “permessi” che l’India concesse, senza esser tenuta a farlo».Tutt’altra storia quella del Cermis, la catastrofe innescata dai “Prowler” dei marines, impegnati in manovre spericolate per “passare sotto i cavi della funivia”. La faccenda fu spiegata con le confessioni dell’equipaggio e di altri membri dello staff americano e italiano: era stata una scommessa. L’aereo, già in fase di cabrata, “tagliò” la cima d’acciaio della funivia come la lama di un coltello. «Eppure, in quella vicenda, non ci fu un solo giorno di prigione per i militari americani, che si appellarono alla famosa convenzione che regola le missioni Usa all’estero: giudicati in patria, dove diedero loro un buffetto». Tutto il personale tornò a volare in breve tempo, appena le acque si furono chetate. «Chi chiede il giudizio in Italia per i due marò, dimentica un piccolo particolare: l’India non è un paese Nato! Quella sentenza, quel modo di trattare degli statunitensi, ci sta bene? Ne siamo soddisfatti?». A ben vedere, continua Bertani, «l’India non ha fatto altro che chiedere un’equanimità di giudizio (pur in presenza di sistemi giuridici diversi), comprendendo che fu un tragico incidente dovuto alla paura e alla carenza di comando e controllo del personale militare imbarcato: l’ufficiale più vicino alla Enrica Lexie era a Gibuti!».Piuttosto, insiste Bertani, «gli italiani dovrebbero indagare e punire chi lasciò soli nelle loro mortale decisione i due fucilieri: il sergente che comandava la squadra? Il comandante Vitelli? Un ufficiale distante tremila miglia marine?». Niente da dire: «Siamo dei veri specialisti nel creare procedure fumose, le quali finiscono per lasciare il cerino in mano all’ultima ruota del carro». E non si può pretendere che un simile pasticcio sia compreso e “perdonato” in India, «paese dal solido impianto giuridico, mutuato dal sistema britannico». In fondo, cos’ha fatto l’India? «Ha chiesto quello che dovevamo chiedere, noi italiani, all’indomani della tragedia del Cermis: si è comportata da paese sovrano. Siamo noi che ci comportiamo da paese subalterno agli Usa». Peraltro, resta completamente irrisolto il problema della pirateria, da quando i mercantili rifiutano di essere equipaggiati con armamento a disposizione del personale di bordo.Secondo Bertani, basterebbe dotare le navi di un cannoncino a tiro rapido, «che consentirebbe di avvertire il bersaglio con una raffica davanti alla prua, come si faceva un tempo». Armi precise, automatiche, facili da usare. Ma i marinai, i comandanti e gli armatori non ne vogliono sapere. Così, nei guai ci finiscono i marò, lasciati senza ordini e costretti a prendere decisioni, da soli, in pochi secondi. «L’unica cosa da non fare è trasformare un evento luttuoso, uno sbaglio, in una questione internazionale d’orgoglio patriottico, peraltro incomprensibile in simili frangenti», conclude Bertani. «Lasciamo che i due marò trascorrano la loro pena in ambasciata, in India (ciò che resterà da scontare dei 7 anni), e faremo una figura onorevole. Siamo ancora in tempo per rimediare, ricordando che l’India poteva comportarsi in ben altra maniera: altro che 7 anni!».Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».
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Aerei-fantasma, la Puglia capitale europea dei droni
Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.Proprio ad Amendola, continua Mazzeo, già nel 2002 fu costituito il 28° Gruppo Velivoli Teleguidati (poi battezzato “Le Streghe”) per condurre operazioni aeree con i droni “Predator” acquistati dalla General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California. Il gruppo, con personale addestrato negli Usa, fu assegnato al 32° stormo dell’aeronautica di Amendola. «La missione fondamentale del reparto – spiegano i militari – ruota oggi intorno al supporto alla capacità d’intelligence, sorveglianza e ricognizione (Isr) alle componenti nazionali e delle forze alleate per la riuscita in sicurezza delle operazioni a terra in qualunque contesto operativo», incluse attività come «antiterrorismo e sorveglianza del fenomeno dell’immigrazione clandestina». Il battesimo del fuoco della prima batteria di “Predator”, ricorda Mazzeo, avvenne in Iraq nel gennaio 2005: dalla base di Tallil, i droni “italiani” iniziarono a operare in supporto del contingente terrestre nell’ambito della missione “Antica Babilonia”. Nel maggio 2007 i droni furono poi trasferiti anche nella base di Herat, sede del comando regionale interforze per le operazioni in Afghanistan, dove hanno continuato a operare sino ad oggi.Nel corso della campagna scatenata in Libia per rovesciare Gheddafi nella primavera-estate 2011, «i velivoli a pilotaggio remoto schierati ad Amendola ebbero un ruolo chiave nelle operazioni “Isr” dell’aeronautica italiana e dei partner della coalizione internazionale a guida Usa, volando in missione per un totale di 360 ore», riferisce Mazzeo. Le ultime missioni all’estero dei “Predator” risalgono invece a quest’anno: a metà agosto, due velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti, piccolo stato del Corno d’Africa, nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, ma opererebbero anche «a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie di Al Shabab». Nello scalo aereo di Kuwait City è invece stato avviato l’allestimento delle infrastrutture logistiche che consentiranno all’aeronautica militare italiana di schierare due velivoli a pilotaggio remoto appositamente riconfigurati per operare a favore della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq e Siria.Inoltre, nel 2008 il Parlamento italiano ha autorizzato l’acquisto di altri quattro ricognitori Rq-9 “Predator B”, noti anche come “Reaper”, con una spesa di 80 milioni di euro. Il “Reaper” può volare anche per 24-40 ore, a 15.000 metri dal suolo, può essere trasportato a bordo di un aereo C-130 ed essere reso operativo in meno di dodici ore. Può trasportare carichi sino a 1.800 chili (sensori, radar, telecamere), e soprattutto può essere armato con missili “Hellfire” e bombe a guida laser. Costo dell’armamento dei “Reaper” italiani, 14 milioni di euro. «Attualmente – aggiunge Mazzeo – i droni di Amendola sono operativi pure per la ricognizione aerea in Kosovo, a sostegno delle attività della forza militare internazionale a guida Nato (Kfor)», e sono stati impiegati anche nell’operazione “Mare Nostrum”. Esclusivi corridoi di volo per i “Predator” sono stati predisposti dall’aeronautica militare tra la Puglia e le basi aeree siciliane di Sigonella, Trapani Birgi e Pantelleria e il poligono sperimentale di Salto di Quirra e lo scalo di Decimomannu in Sardegna.La base di Amendola collabora con militari francesi e olandesi, ha ospitato addestramenti congiunti con forze armate di paesi come Egitto e Giordania e funziona anche come centro sperimentale i nuovi “dimostratori senza pilota” di Alenia Aeronautica (Finmeccanica) con compiti di osservazione, sorveglianza e ricognizione strategica del territorio. Lo scalo pugliese è stato usato nel ‘97 per la guerra in Bosnia e due anni dopo per sferrare raid contro obiettivi civili e militari in Serbia e Kosovo, nella guerra contro Milosevic. Dal 2009 gli Amx di Amendola alimentano a rotazione il “task group” di Herat, per il supporto del contingente italiano e alleato in Afghanistan. Di recente, i piloti hanno partecipato a importanti esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto e Israele. «All’orizzonte – conclude Mazzeo – c’è l’entrata in funzione del più costoso velivolo da guerra mai prodotto, il famigerato cacciabombardiere Lockheed Martin F-35: oltre a prepararsi a fare da scuola volo europea dei droni, Amendola sarà infatti la prima base aera italiana destinata ad ospitare gli F-35 che sostituiranno prima gli Amx e poi i Tornado».Il governo italiano candida la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari di tutta Europa nella gestione degli aerei senza pilota. «L’Italia è pronta a rendere disponibili le esperienze maturate e le infrastrutture tecniche ed addestrative realizzate per costruire insieme una soluzione europea nel settore dei droni», spiega Roberta Pinotti, ministro della difesa. Obiettivo: «Costituire in Italia la prima scuola di volo europea per aeromobili a pilotaggio remoto». Nel campo dei droni, osserva Antonio Mazzeo, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito continentale: a Sigonella, in Sicilia, operano da diversi anni i grandi velivoli senza pilota “Global Hawk” della marina Usa, mentre entro il 2016 sarà pienamente operativo l’Ags, il nuovo sistema di sorveglianza terrestre della Nato basato sull’ultima generazione di droni di produzione statunitense. Inoltre, le forze armate italiane sono state le prime in Europa ad acquisire i velivoli “Predator” per schierarli nei maggiori teatri di guerra internazionale: Afghanistan, Iraq, Libia e Corno d’Africa.
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Stato e mafia: vent’anni senza verità per Ilaria Alpi
Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione umanitaria italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».Sebri dice di esser stato contattato in Italia da due personaggi-chiave della vicenda, il cui ruolo non è mai stato completamente chiarito: l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e il trasportatore Giancarlo Marocchino. Oggi, scrive Palladino, il racconto di Sebri va oltre, arrivando ad ipotizzare un ruolo attivo della mafia nel doppio omicidio, maturato nel caos della Somalia sconvolta da tre anni di guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, con la missione Unosom allo sbando e i caschi blu italiani ormai reimbarcati sulla nave Garibaldi. Ilaria e Miran caddero sotto i colpi di un commando composto da 7 persone. «Questa – sottolinea Palladino – è l’unica verità a distanza di vent’anni». Tutto il resto è «un’immensa nebulosa di depistaggi, di testimoni che spariscono, fuggiti o morti per overdose». Per le informazioni che aveva raccolto, Ilaria Alpi «era in grado di creare problemi enormi all’interno di governi e gruppi bancari», dice Sebri, che in tribunale sostenne che i servizi segreti gli avevano detto che quella giornalista era stata “sistemata”. Sebri venne querelato e infine prosciolto. Per Palladino, a pesare è «il silenzio dello Stato».La prima clamorosa contraddizione nasce proprio da un rapporto del Sismi: l’agente Alfredo Tedesco scrive che Ilaria Alpi è stata minacciata di morte a Bosaso il 16 marzo, e che l’attentato è stato pianificato con cura e poi eseguito da un commando ben addestrato. «Queste parole», scrive Palladino, «in buona parte spariranno», perché «una penna – ancora anonima – cancellò e modificò» i passaggi-chiave: scompaiono le minacce e quindi le tracce del movente. Il 24 marzo, lo stesso Tedesco accusa i militari dell’Onu: «Appare evidente la volontà dell’Unosom di minimizzare sulle reali cause». Ma l’agguato, dopo l’intervento della “mano anonima” che da Roma altera le carte, cambia natura: «L’Unosom sta orientando le indagini sulla tesi della tentata rapina». Ed ecco pronta la tesi di comodo, quella dell’incontro “sfortunato” con semplici banditi di strada. Ed è solo l’inizio: per quattro anni, le indagini non approderanno a nulla.Confusa anche la vicenda dell’unico ipotetico testimone rintracciato, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, che racconta di esser stato presente sul luogo dell’agguato e dice di riconosce uno dei componenti del gruppo di fuoco, Hashi Omar Assan, detto Faudo, tradotto in Italia e arrestato dalla Digos subito dopo la sua deposizione davanti alla commissione parlamentare. Gelle, il testimone-chiave, tre mesi dopo l’interrogatorio sparisce: non deporrà mai davanti ai giudici. Nel 2002 arriva la condanna per Hashi, ancora oggi in carcere scontando la pena di 26 anni di reclusione. Ma accade qualcosa di imprevisto: un giornalista somalo di “Rai International”, Mohamed Sabrie Aden, riceve una telefonata proprio da Gelle – o da qualcuno che si spaccia per il testimone – e dice: «Ho inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane». Interrogarlo di nuovo, rileva Palladino, sarebbe la prova del più clamoroso depistaggio. E soprattutto potrebbe portare a quelle “autorità” che hanno sempre avuto l’interesse a non far uscire la verità sull’agguato di Mogadiscio. «Eppure Gelle non si trova, spiegano gli uomini della Digos. Sanno che sta in Inghilterra, conoscono il suo nuovo nome, Abdi Ali Rage, il nome della moglie, il suo numero del sistema sanitario britannico, l’indirizzo dell’ufficio dove va a ritirare il sussidio ogni quindici giorni. Niente da fare, è una vera primula rossa per il governo italiano».L’elenco dei nodi irrisolti è infinito, come lo strano movimento di navi a Bosaso, proprio nei giorni del viaggio di Ilaria e Miran. Tra queste il peschereccio della compagnia italo-somala Shifco, sequestrato dai pirati della Migiurtina. Nel 2003, l’Onu indicherà la Shifco come una compagnia coinvolta nel traffico d’armi, ma la relazione verrà mai presa in considerazione dalla commissione d’inchiesta guidata da Carlo Taormina, che alla fine abbraccerà la tesi Unosom, l’omicidio casuale. Oggi, dopo una denuncia pubblica di “Greenpeace” e una petizione di “Articolo 21” per desecretare tutti i documenti, sul caso irrompono le dichiarazioni che Piero Sebri affida al libro di Palladino. «Ilaria Alpi era già stata minacciata e lei non se ne andava, anzi insisteva. E a mano a mano che andava avanti acquisiva sempre maggiori informazioni. A questo punto il lavoro del trafficante è di segnalare a chi di dovere, al politico, ai servizi: “Attenzione, che qua vanno a monte alcuni affari”. C’era solo una soluzione: eliminarla immediatamente».Secondo Sebri, nell’organizzazione di un traffico internazionale, la mafia è prima di tutto la garanzia assoluta dell’affidabilità di un’operazione delicata. «Se io sono in Somalia, e la giornalista non se ne va, io informo i politici, informo chi di dovere, magari gli stessi servizi. Anzi, magari sono proprio loro che m’informano, dicendo che c’è un problema. Mi dicono: attenzione, noi giriamo la faccia dall’altra parte… E adesso basta – mi dicono – questa persona va eliminata. A quel punto la questione è: a chi la faccio eliminare? Io, la elimino? Ma neanche per sogno. La faccio eliminare da un somalo? Può anche essere, ma devo avere la certezza assoluta che Ilaria Alpi e Hrovatin siano eliminati. Non si può sbagliare. Se fossero stati in quattro, dovevano essere eliminati in quattro, se erano in dieci ne ammazzavano dieci, non gliene fregava nulla».Da parte della mafia, dunque, una sorta di supervisione in un territorio ostile. «Se il somalo incaricato dell’omicidio – per ipotesi – sbaglia, ci deve essere una persona della mafia presente in quel posto. E chi è questo tipo di persona presente in quel momento a Mogadiscio? Qual è l’unica persona che ha dei debiti, ha delle cambiali personali nei confronti dell’organizzazione che stava agendo in quei mesi? Un’organizzazione di trafficanti, che a sua volta è in debito con i referenti politici italiani, che coprivano quei traffici». Il terreno, avverte Palladino, a questo punto diventa minato. Sebri pronuncia senza timore i nomi: personaggi che furono analizzati solo superficialmente dalla commissione parlamentare e mai interrogati dalla magistratura. Eppure, «secondo alcuni documenti attendibili, si trovavano nell’area di Bosaso nei giorni cruciali che hanno preceduto la morte di Ilaria Alpi. E – secondo alcune testimonianze – furono gli ultimi ad incontrare la giornalista del Tg3, poco prima dell’agguato, nella hall di un hotel».«Il nome che Sebri pronuncia – scrive Palladino – è quello di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto del 2011». Cammisa, originario di Mazara del Vallo, nella comunità Saman fondata da Cardella e Mauro Rostagno era entrato come tossicodipendente, per sottoporsi a un programma di recupero. Dopo l’omicidio di Rostagno – avvenuto il 26 settembre 1988 – divenne il braccio destro di Cardella, che prese in mano l’amministrazione di Saman. Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola, imprenditore edile legato a Cosa Nostra già inquisito da Giovanni Falcone, alla Procura di Trapani descrisse Cammisa come «un buon conoscitore del procedimento di raffinazione dell’eroina», che per suo conto aveva pedinato anche un maresciallo dei carabinieri. Accusati di aver organizzato l’uccisione di Rostagno, Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti: secondo la Dda di Palermo, Rostagno sarebbe stato ucciso da una cosca di Trapani, città utilizzata da Cosa Nostra come piattaforma logistica per i traffici illeciti con il Nord Africa.«Del possibile coinvolgimento di alcuni esponenti della Saman nei traffici illeciti non parla solo la Digos», scrive Palladino. «Tra gli atti acquisiti dalla commissione Alpi c’è un documento del Sismi – desecretato nel 2006 – che ipotizza il coinvolgimento della comunità terapeutica guidata da Cardella in rotte riservate verso la Somalia». L’ammiraglio Gianfranco Battelli, allora direttore dell’intelligence militare, nel 2000 scriveva che Cardella era proprietario di una motonave che nel 1994 aveva raggiunto la Somalia «con un carico di cibo e medicinali», dopo aver effettuato a Malta una strana riparazione che il Sismi definisce “riservata”. Sempre il servizio segreto militare smentisce l’esistenza della missione umanitaria che Saman dichiara di aver attrezzato a Las Korey, a cento chilometri da Bosaso. Su quella missione di aiuti – aggiunge Palladino – nulla risulta neppure dalla documentazione sulla cooperazione italiana in Somalia acquisita dalla commissione Alpi.Bosaso è una città cresciuta grazie alla cooperazione governativa italiana. Il porto e la principale strada di collegamento – la Bosaso-Garowe – nonché i pozzi per l’acqua potabile sono infrastrutture realizzate negli anni ‘80, all’epoca del governo di Siad Barre, dalle principali imprese italiane specializzate in infrastrutture. «Colossi come la Techint, la Lodigiani, la Federici, la Montedil e la Lofemon hanno lavorato per anni in questa zona strategica del Corno d’Africa». Dietro all’ufficialità della cooperazione, si domanda Palladino, si potrebbe nascondere «un intreccio micidiale tra traffico di armi e di rifiuti, che avrebbe utilizzato il porto della capitale della Migiurtinia come luogo riservato per affari segreti»? Per la Direzione investigativa antimafia di Genova, la provincia di Bosaso «è la zona interessata allo scambio di armi e di scaricamento di rifiuti nucleari e industriali». Un’area che già nel 1993 «era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani».Piero Sebri associa la presenza di Cammisa in Somalia nel marzo del 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Secondo Palladino, risulta che il braccio destro di Cardella si trovasse nella zona di Bosaso proprio in quei giorni: un documento a lui intestato comprova che la comunità Saman importò dagli Emirati Arabi una Mitsubishi che sarebbe stata trasferita nel Corno d’Africa entro il 12 marzo 1994, cioè una settimana prima dell’agguato. «Ma c’è di più. Sempre negli archivi della Saman c’è un fax inviato da Gibuti – paese confinante con il Nord della Somalia – diretto a Francesco Cardella». Nel fax, firmato da un certo Omar e da Jupiter (il soprannome di Cammisa) si dice i due sarebbero partiti l’indomani, 16 marzo, «per Bosaso e oltre». Riassumendo: «L’8 marzo il braccio destro di Cardella importa negli Eau un’automobile, che trasporta – come? – in Somalia il 12 marzo. Il 15 marzo è a Gibuti, pronto per viaggiare il giorno dopo verso Bosaso “e oltre”. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano intanto giunti a Bosaso, per l’ultimo reportage, per quel “caso particolare” che non riuscirono poi a raccontare».Uccisa da un somalo o da un killer di Cosa Nostra, incaricato di freddare la giornalista che aveva “scoperto troppo” sui traffici di armi e rifiuti tossici attorno al porto di Bosaso, protetto dalla cooperazione italo-somala? Sono gli interrogativi che, vent’anni dopo la morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, solleva l’ex trafficante Piero Sebri, che oggi milita nella “carovana antimafia” a nord-ovest di Milano. Per la prima volta, Sebri ne parla apertamente, su “L’Espresso”, con Andrea Palladino, autore del saggio “Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti” (Laterza), di cui “Micromega” pubblica un estratto sconvolgente. «Io non posso dimenticare Ilaria Alpi, perché so quello che è accaduto: so che se una giornalista fa troppe domande in giro la devi fermare, costi quel che costi». Sebri sostiene di conoscere il gruppo che il 20 marzo 1994 alla periferia di Mogadiscio freddò la Alpi e Hrovatin, lei con un colpo esploso e distanza ravvicinata, lui probabilmente con un Kalashnikov. Di ritorno da Bosaso, Ilaria aveva appena avvertito il Tg3: «Lasciatemi spazio questa sera, ho roba grossa».
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Forze speciali: la guerra segreta di Obama in 134 paesi
Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».All’epoca di George W. Bush, le forze speciali statunitensi dislocate in “appena” 60 paesi, saliti poi a 75 nel 2010, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del “Washington Post”. Per arrivare poi a proiettarsi in 120 nazioni nel 2011, come annunciato dal colonnello Tim Nye, portavoce del Socom, il Comando Operazioni Speciali. «Questa cifra oggi è già obsoleta», scrive Turse in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Nel 2013, le forze d’élite Usa erano dislocate in 134 paesi, secondo il colonnello Robert Bockholt ». Questo aumento del 123% durante l’amministrazione Obama «dimostra come, in aggiunta ai conflitti decennali convenzionali, alla campagna dei droni svolta dalla Cia, alla diplomazia e all’esteso controllo della cybersfera, l’America ha lanciato un ulteriore forma significativa di controllo nei paesi esteri». Una strategia «condotta per lo più con missioni-ombra svolte dalle forze d’elite», l’operazione «rimane per lo più sconosciuta ai media ed a ogni forma di controllo», proteggendo la Casa Bianca dalle ripercussioni di «conseguenze spesso catastrofiche e imprevedibili».Prima limitato a 32.000 unità, dopo l’11 Settembre il raggruppamento delle forze speciali è cresciuto in modo esponenziale, raggiungendo quota 72.000 soldati. Idem il costo: da 2,3 miliardi di dollari agli attuali 6,9 miliardi. Secondo ricerche di Tim Dispatch, nel biennio 2012-2013 le operazioni speciali si sono estese a 106 nazioni. Il comando Socom non chiarisce i dettagli sull’impiego di Berretti Verdi, Rangers, Navy Seals e Delta Force, ma alla fine ammette che sono ora impegnati in 134 paesi, in tutto il mondo. Il Pentagono sta «aumentando la propria rete globale», conferma l’ammiraglio William Mc Raven, collaborando con partner stranieri per «prevenire possibili minacce» ma anche «cogliere opportunità». Operativamente, «la rete rende possibile la presenza di piccole unità in posizioni critiche e ne facilita l’azione ove necessario o appropriato». L’aumento del 12% dei dispiegamenti – da 120 a 134 durante la gestione Mc Raven – secondo Turse rivela l’ambizione di «acquisire posizioni strategiche in ogni parte del pianeta», sia pure al riparo dall’opinione pubblica, che di fatto non è informata delle missioni segrete.Addestramenti a Gibuti, in Malawi e alle Seychelles. Poi la “guerra simulata” dei Navy Seals nel porto di Aqaba, in Giordania, insieme a unità irachene, giordane e libanesi. Nel luglio 2013, i Berretti Verdi si sono spostati a Trinidad e Tobago per addestrare forze locali. Un mese dopo, la stessa unità ha addestrato la marina dell’Honduras sull’uso di esplosivi. E a settembre si è svolta una maxi-esercitazione a Sentul, Java occidentale, coinvolgendo Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, India, Cina e Russia. Molto più scarse, invece, le informazioni sulla guerra “non simulata”: rapimenti di sospetti terroristi in Somalia, raid in Libia e nel Corno d’Africa, operazioni nel Sud Sudan e accanto all’esercito afghano. Non mancano missioni umanitarie, come quella condotta a novembre in soccorso ai sopravissuti dell’uragano Haiyan nelle Filippine. Particolare cura è dedicata alla promozione dell’immagine: propaganda affidata a siti web «su misura per l’utenza straniera» e «fatti in modo da sembrare attendibili punti d’informazione». Il cyber-spazio è anch’esso terra di conquista, da parte del Socom.«Anche se il presidente Obama raccolse milioni voti nelle passate elezioni del 2008 con la sua politica di disimpegno – rileva Turse – ha dimostrato di essere un comandante in capo alquanto interventista, le cui politiche hanno già causato innumerevoli di quelle che, nel gergo Cia, vengono definite “blowbacks”», cioè conseguenze inaspettate subite durante un’operazione clandestina di intelligence, che possono «portare violenze random verso forze o popolazioni ritenute amiche». La Casa Bianca ha anche battuto ogni record di Bush sull’impiego di droni: 330 missioni, contro 51. «Solo nello scorso anno gli Usa hanno diretto azioni di combattimento in Afghanistan, Libia, Pakistan, Somalia e Yemen». Di recente, le rivelazioni di Edward Snowden (fonte, Nsa) hanno svelato all’opinione pubblica «la vastità della sorveglianza elettronica, che sotto l’amministrazione del Premio Nobel della Pace ha raggiunto un livello globale».Nel frattempo, le “blowbacks” devastano intere regioni: a 10 anni dalla famosa “missione compiuta”, il nuovo Iraq voluto dall’America è in fiamme, in preda ai terroristi di Al-Qaeda schierati contro l’Iran. L’abbattimento di Gheddafi ha destabilizzato il Mali, minacciando anche l’Algeria e provocando «una specie di “diaspora del terrore” in tutta la regione». E l’odierno Sud Sudan – nazione che gli Usa hanno artificialmente creato e che tuttora sostengono, nonostante l’impiego massiccio di bambini-soldato – viene utilizzato come base Hush-Hush, cioè segretissima, per operazioni speciali. Così, il paese «sta a letteralmente implodendo su stesso e scivolando verso una nuova guerra civile». Tutto questo, senza che gli americani abbiano la più pallida idea di quello che sta davvero avvenendo. Secondo l’ex colonnello Andrew Bacevich, docente all’università di Boston, l’utilizzo sempre più massiccio delle forze speciali «ha ridotto drasticamente la credibilità delle forze armate Usa, posto le basi per una “Presidenza Imperiale” e messo un piedi una guerra senza fine».L’utilizzo delle forze speciali per missioni-ombra, aggiunge Turse, «riduce la già sottile differenza fra politica e guerra». Così, sempre più spesso, «le conseguenze di queste operazioni segrete sono impreviste e disastrose». La storia insegna: Osama Bin Laden fu ingaggiato dalla Cia contro i sovietici in Afghanistan, prima di tornare sulla scena come protagonista (mediatico) dell’11 Settembre. «Stranamente, il Pentagono sembra non aver imparato nulla da quella devastante “blowback”», l’attacco alle Torri. Oggi, in Afghanistan e in Pakistan si vivono ancora strascichi da guerra fredda, «con la Cia che, per esempio, compie attacchi missilistici contro la rete Haqqani», network terroristico che, negli anni ‘80, la stessa Cia «aveva rifornito, appunto, di missili». Senza un quadro chiaro del mandato reale di queste forze, conclude Turse, il popolo americano non potrà neppure accorgersi del vero motivo di tanti “ritorni di fiamma”, ritorsioni per azioni “coperte” costate morti e feriti, terrore e sangue. In nome dell’America, forse, ma all’insaputa dei cittadini statunitensi.Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».
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Gaza, crimini di guerra: l’Onu condanna Israele
Condanna a Israele, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Da Ginevra, con 25 voti a favore, il Consiglio per i diritti umani dell’Onu denuncia il governo di Tel Aviv: uso sproporzionato della forza, violenze a Gerusalemme Est e disumana punizione collettiva inflitta ai palestinesi di Gaza. Dopo nove mesi, il 16 ottobre la comunità internazionale ha adottato il Rapporto Goldstone, emettendo la prima sentenza sui 22 giorni dell’operazione Piombo Fuso, scandita dal lancio di bombe al fosforo bianco che hanno trasformato Gaza in un inferno: «Una grave violazione del diritto umanitario internazionale».