Archivio del Tag ‘Giovanni Malagodi’
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I nostri leader nani: durano poco perché sono senza storia
Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.Venivano da qualcosa, in loro vedevi riflessa una storia, anche una storia collettiva, che magari era controversa, non ti piaceva, ti urtava o ti spaventava, ma c’era: la storia dei partiti e dei movimenti popolari di massa, la storia dei cristiano-democratici e dei socialisti e dei comunisti, dei missini o neofascisti e dei liberali e dei repubblicani; poi c’era la storia dei socialdemocratici, dei monarchici e di altre famiglie politiche e culturali, altre comunità con altri eroi, autori e simboli. Ciascuno non era giudicato a sé, in sé, ma come proveniente da una storia, ed erede di una cultura politica. Dietro di loro vedevi un simbolo, un tragitto, il riassunto di un albero genealogico. Invece, i dieci protagonisti odierni che abbiamo citato vengono praticamente da se stessi, non hanno storia e movimento politico; fanno parziale eccezione Zingaretti e la Meloni, che derivano quantomeno da tradizioni politiche seppur rifratte, di cui erano rappresentanti giovanili; ma gli altri no, sono parvenu o apolitici, apolidi, apatridi, self made man, mutanti, o come altro volete definirli. Pensate che sia una differenza da poco? Pensate che non conti nulla essere e sentirsi eredi e continuatori di una storia, di un modo di pensare, di un’ideologia, perfino, o comunque di una tradizione sociale, oltre che politica, di una comunità vivente oltre che di una collettività di interessi e valori? O solitari interpreti di una fase, attori che recitano a soggetto, personaggi in cerca d’autore e di target?Questa è la vera differenza e il vero salto nel buio che abbiamo fatto. La cosiddetta seconda repubblica fu ancora una via di mezzo, c’erano tradizioni politiche, storie di partiti che si spegnevano, si piegavano, mutavano nome e fattezze; ma qualche eredità ancora s’intravedeva di una storia comune venuta dal Pci, dalla Dc, dal Msi, e via dicendo. E restava in piedi sotto l’egida del bipolarismo, qualche richiamo alla destra o centro-destra e alla sinistra o centro-sinistra. Il primo parvenu della politica fu Berlusconi, che aveva, si, bazzicato molti leader ma da imprenditore, in cerca di protezioni, sponde, benefici reciproci per le sue aziende private. Con lui c’era Umberto Bossi, contro di lui ci fu Tonino Di Pietro. Ma la collocazione in un quadro bipolare rendeva riconoscibile la loro posizione e per certi versi risaltava un’appartenenza e una derivazione. Poi tutti gli altri avevano qualche precedente storico: D’Alema e Veltroni, Fini e Casini, in parte lo stesso Prodi, solo per citare i più eminenti; provenivano dal Novecento, perlomeno.Ora, invece, i leader sono autoreferenziali, traggono legittimazione da se stessi e dalle condizioni del momento, dai loro movimenti nuovi o sempre differenziati da ogni passato. I partiti aggiornano continuamente la loro app politica, cambiano ciclicamente nome, mission, struttura. Ma anche i leader devono rigenerarsi, hanno la durata di uno smartphone. Anzi è un male avere un curriculum, provenire da una storia, rivelare un’antichità. Preferibile essere marziani, extraterrestri, vergini, parvenu. Io sono il Nuovo. Ma è un’affermazione suicida nel medio periodo, perché il Nuovo invecchia in fretta e viene presto scavalcato dal più Nuovo. Per durare, il Nuovo deve scommettere sull’oblio, ovvero sulla perdita di memoria collettiva.Il populismo a questo punto diventa un’ancora per approdare nel presente e restare a tiro, in pole-position: non rappresento una storia ma un’opinione corrente, non rappresento radici ma umori diffusi. Il popolo tramite il sondaggio diventa il sostituto della tradizione e ben si sposa con la logica mercantile del nostro tempo riassunta nella formula “il cliente ha sempre ragione”. Ancor peggio del populismo è il suo nemico, il settarismo correttivo, ovvero l’assunzione di un canone ideologico obbligato rispetto a cui attenersi, che non deriva né dall’esperienza, cioè dalla realtà, dalla storia e dalla tradizione, né dal consenso popolare. Ma è mero bigottismo radical-progressista. Al di là delle specifiche stature dei dieci piccoli indiani citati come protagonisti della stagione politica in corso, a loro volta assai differenti, il paragone è disastroso perché non rappresentano altro che se stessi, in un determinato momento. Ed è questa la ragione per cui la loro parabola è breve, non lascia tracce, non si inscrive in nessuna storia ma solo in un presente che passa in fretta. Il precariato della politica, con i suoi fuochi fatui.(Marcello Veneziani, “Nani sulle spalle dei giganti”, da “Il Borghese” del febbraio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.
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Carpeoro: quelli che santificano Moro e dimenticano Curcio
“Santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.L’altolà di Moro di fronte all’arresto di Freato anticipa il successivo «non ci sto», pronunciato da Oscar Luigi Scalfaro, non ancora promosso al Quirinale e sospettato della gestione di fondi “fantasma” transitati al ministero dell’interno. Aldo Moro “di sinistra”? Meglio: non ostile, possibilista. Democristianamente parlando: coltivò con Berlinguer l’ipotesi di co-gestione del paese e si avvalse dell’alleanza coi socialisti, ma al tempo stesso – ricorda Carpeoro, in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – coinvolse un fiero liberale come Giovanni Malagodi nonché il Pri di Ugo La Malfa, autorevole esponente della destra economica italiana, trafficando persino con il Msi di Almirante per l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della repubblica. Non era “uno come gli altri”, tutt’altro: ma anche Moro operava in quell’Italia, con quelle regole. «E i democristiani, così come i comunisti, furono assolutamente risoluti e coesi nel difendersi – non come i socialisti, rassegnati a sacrificare i loro leader così come i socialdemocratici, nel caso di Pietro Longo». Moro non era una scheggia impazzita, in quel sistema di potere: lo conosceva benissimo, ne faceva parte a pieno titolo. Aveva tutte le credendiali per tentare, semmai, di utilizzarlo in modo diverso, per mettere la politica italiana al passo con una società che, dopo il Sessantotto, stava cambiando alla velocità della luce. Né poteva ignorare che i suoi avversari l’avrebbero atteso al varco. Fino al punto di assassinarlo nel modo più infame?Nel libro-inchiesta “Il puzzle Moro” (Chiarelettere), che fa seguito alle clamorose rivelazioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni, un giornalista di razza come Giuseppe Fasanella – basandosi anche sull’archivio di Stato britannico – mette a fuoco con precisione gli attori del dramma: killer, mandanti e moventi. Londra decisa (con Parigi) a fermare la politica mediterranea e filo-araba dell’Italia, gli Stati Uniti allarmati dalla prospettiva – nel cuore del sistema Nato – di un governo con il Pci, alleato dell’Urss, e a sua volta l’Unione Sovietica spaventata dall’eurocomunismo di Berlinguer, sempre più critico con Mosca. Tanti servizi segreti, all’opera, per impedire che Moro venisse salvato. Tranne uno, forse: il Mossad. Secondo Carpeoro, l’intelligence di Israele si muove in due modi: agisce a pagamento, su commissione, o per tutelare interessi vitali del sionismo. Nulla, in teoria, con cui avesse direttamente a che fare Moro, sequestrato agevolmente dalle Br, grazie anche a evidenti coperture. Non è strano, dice Carpeoro, che oggi gli ex brigatisti siano liberi: «Se i servizi segreti li hanno coperti all’epoca, è logico che li devono tutelare». Fa eccezione Renato Curcio, il sociologo fondatore delle Br, finito in carcere (sepolto vivo da svariati ergastoli) prima che cominciasse la sanguinosa mattanza degli anni di piombo. «Non si è mai lamentato, non si è mai dipinto come vittima: aveva dichiarato guerra allo Stato e ne he pagato in modo durissimo le conseguenze, restando sempre in silenzio». Un giorno, sostiene Carpeoro, la storia dovrà rivalutare «il profilo etico e intellettuale di Curcio», uomo totalmente estraneo al caso Moro.A chi serve “santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.
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Perché in Italia un vero leader non viene mai eletto al Colle
Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».Un analista “eretico” come Marco Della Luna sostiene che il profilo “defilato” della classe dirigente italiana, specie degli esponenti politici chiamati a rivestire le cariche istituzionali più eminenti, non è casuale: un leader forte, capace di incarnare una vertenza sovranista in nome del futuro della comunità nazionale, sarebbe percepito come un pericolo, sia in sede europea che sul versante atlantico. Le eccezioni – da Mattei a Moro – non sono arrivate all’età della pensione: qualcuno le ha tolte di mezzo. Prevale il grigio: in generale, la nomenklatura italiana si segnala per l’alto tasso di corruzione, clientelismo e degrado delle strutture partitiche. Più che ovvio, sostiene Della Luna: solo una partitocrazia corrotta, e quindi debole perché ricattabile, può “obbedire” senza fiatare alle direttive e ai diktat che provengono dai poteri forti che risiedono all’estero. Dopo il “golpe dello spread” architettato per l’insediamento di Monti e il varo definitivo dell’austerity, l’economista Nino Galloni ha svelato la vana ma serrata resistenza condotta da Giulio Andreotti per evitare che l’Italia finisse nella morsa dell’euro, che l’avrebbe condotta alla catastrofe economica. Galloni racconta che il governo subì fortissime pressioni dalla Germania, operate direttamente dal cancelliere Kohl.Un altro studioso “fuori ordinanza”, l’insigne esoterista Gianfranco Carpeoro, sostiene che Bettino Craxi fu liquidato in modo brutale proprio dai poteri che già allora puntavano a demolire la sovranità italiana: un leader troppo ingombrante col quale fare i conti. Nel libro “Il golpe inglese”, edito da Chiarelettere, Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino evocano il ruolo costante di potenze straniere come quella britannica nel destino politico del Belpaese. E un altro libro di Chiarelettere, l’esplosivo “Massoni” di Gioele Magaldi, illumina il grande retroscena massonico di ogni decisione storica, mettendo in fila nomi come quelli di Mario Draghi, Giorgio Napolitano e Mario Monti. La sorte dell’Italia viene sempre decisa lontano da Roma? Lo sostiene anche Paolo Barnard: nel saggio “Il più grande crimine” documenta la “svendita” del paese da parte dei tecnocrati del centrosinistra, cooptati dall’élite finanziaria europea prima ancora che la classe dirigente della Prima Repubblica venisse spazzata via dal ciclone Mani Pulite. L’Italia del boom economico “doveva” piegarsi ai tormenti di Maastrich e alle torture imposte dall’euro, pareggio di bilancio e Fiscal Compact, riforme strutturali (azzeramento del welfare) e taglio della spesa pubblica, cioè demolizione – mediante crisi – del tessuto socio-economico nazionale.Chiedetevi perché non si fa mai “la cosa giusta”, suggerisce Barbard: scoprirete che i partiti, specie quelli del centrosinistra, sono stati tutti reclutati dal “vero potere”, quello dell’oligarchia neo-aristocratica, per sabotare lo Stato e servire gli interessi delle multinazionali finanziarie. Questo spiega l’altrimenti incomprensibile, cronica mediocrità del ceto politico italiano. Sul “Giornale”, alla vigilia dell’elezione di Mattarella al Quirinale, Marcello Veneziani riflette sullo strano veto che impedisce l’accesso al Colle ai leader più carismatici. Veneziani passa in rassegna i presidenti finora succedutisi: «Il più autorevole fu Einaudi e prima di lui De Nicola, entrambi monarchici; e poi notabili democristiani da Gronchi a Scalfaro, o Segni, Leone e Cossiga, su cui si esercitò la macchina del fango; esponenti come Saragat e Napolitano, capi partigiani come Pertini o banchieri come Ciampi. Ma nessun vero leader o statista, nessun leader di partito di massa o di grande popolarità, nessun riformatore con significative esperienze di governo, se non di governi di transizione o balneari (e nessun romano, lombardo o adriatico)». Per Veneziani, «è questa l’anomalia della Repubblica italiana: senza presidenzialismo niente capi alla De Gaulle o Mitterrand, alla Kennedy o Nixon, solo gregari o notabili. Così sarà pure stavolta. Il galletto è Renzi, per il Colle cercano la gallina».Tra le mille dietrologie fiorite attorno all’anomala elezione di Mattarella, si segnala per inappuntabile coerenza la spiegazione fornita da Francesco Maria Toscano, stretto collaboratore di Gioele Magaldi: Renzi avrebbe “mollato” Berlusconi dopo aver promesso obbediente devozione al “venerabile” Mario Draghi, vero padre del rigore europeo. Il Patto del Nazareno? Un bluff di Renzi per alzare la posta: accoglietemi a corte, o rimetto in gioco l’odiato Berlusconi. Detto fatto: secondo Toscano, a Renzi sarebbe stato finalmente accordato l’accesso al mondo ultra-riservato delle “Ur-Lodges”, le massime strutture di potere della massoneria internazionale, di cui Draghi sarebbe uno dei leader più importanti, insieme alla presidente del Fmi, Christine Lagarde. In pegno, come garanzia di sottomissione, il mite Mattarella sul Colle. Un uomo destinato a non ostacolare il manovratore Renzi, in realtà mero esecutore dei diktat di Bruxelles? E’ presto per dirlo, ovviamente. Ma certo è da interpretare il primo gesto del neo-presidente: che evoca il nazismo alle Fosse Ardeatine per lanciare un monito contro “il terrorismo”, e non il nuovo nazismo della Troika Ue che governa col ricatto e senza più ombra di democrazia, piegando i popoli al volere di ristrettissime élite neo-feudali.Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».