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Erik Olin Wright: democrazia, per erodere questo capitalismo
In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.Il potere oggi è più difficile da limitare, a causa della globalizzazione e della finanziarizzazione del capitale. E poi emergono due questioni. La prima è quella della riforma democratica: quali sono le politiche che possono estendere la democrazia nell’economia e nella società civile? Come creiamo una società democratica? E la seconda è quella economica: come creiamo le condizioni per una vita economica che sia più geograficamente radicata, nei territori, invece di essere globalmente mobile? Transizione a una società post-capitalistica? Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo. Si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?Non c’è una ragione intrinseca per cui uno Stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-Stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di Stati sovrani di medie dimensioni, che dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri Stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli Stati membri e ci liberassimo dell’Ue. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.Parlando di globalizzazione, che relazione c’è, oggi, tra le lotte nel mondo occidentale e quelle sul piano globale? Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno. Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.Bisogna cominciare da qualche parte. L’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla. Questo chiaramente è più importante se si pensa alla trasformazione come rottura: giovedì avremo un’isola felice in Italia, e poi potremo provare ad avere un mondo felice domenica. Questa è la logica della rottura, non quella del processo. Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei Comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative.Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali; ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.La strategia di erosione del capitalismo che io propongo ha al centro la democrazia, con l’idea che se si riesce a rendere il capitalismo subordinato alla democrazia, si creano le condizioni per sviluppare alternative al capitalismo. Tradizionalmente, la forma di espressione della democrazia nell’era moderna è stata lo Stato. Sto proponendo che per democratizzare l’economia dobbiamo lavorare per un nuovo ruolo dello Stato nell’economia, o sto immaginando forme di democrazie che non sono basate sulle istituzioni rappresentative? Penso a entrambe le cose. Abbiamo bisogno di uno Stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello Stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo Stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri.Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo Stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento. Se fosse vero che lo Stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo Stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno Stato democratico, perché la democraticità dello Stato sarebbe un’illusione.In questo senso lo Stato non sarebbe solo uno Stato capitalistico, sarebbe uno Stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello Stato soddisfacente. Penso che lo Stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo Stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello Stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello Stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello Stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello Stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello Stato nazionale, due ministeri che non collaborano.Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo Stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello Stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo Stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno. I sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials negli Stati Uniti e la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo: un’ondata di anticapitalismo? Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan “Il capitalismo non funziona, un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza e l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle.Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosione perché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.(Erik Olin Wright, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Zamponi e Marta Fana per l’intervista “Estendere la democrazia per erodere il capitalismo”, pubblicata da “Micromega” il 5 luglio 2017. Sociologo marxista statunitense, attento osservatore delle diamiche di trasformazione della società, Erik Olin Wright insegna all’università del Wisconsin).In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.
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Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.