Archivio del Tag ‘Hans Werner Sinn’
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Zoffi: la Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil
Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di sventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Michelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vipresesidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.
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Zingales a Mattarella: decide la democrazia, non i mercati
«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».Al contrario, scrive Zingales, «entrambi avrebbero dovuto invece essere elogiati per la loro previdenza». Ma ammettiamo pure che Mattarella avesse ragione, e che la nomina di Savona potesse scatenare il panico nel fragile mercato obbligazionario italiano. Allo stesso modo, aggiunge il professore, ammettiamo pure che la Costituzione gli desse il diritto di farlo. Sarebbe stata una buona scelta? È giusto che la paura dei mercati annulli il processo decisionale democratico? E’ vero, agli economisti piace l’efficienza dei mercati nell’allocazione delle risorse. «I buoni economisti, tuttavia, sanno che, per funzionare correttamente, i mercati dovrebbero operare in regime di piena concorrenza e che gli operatori sul mercato dovrebbero essere informati in modo simmetrico». Al contrario, «il mercato del debito sovrano in Europa non soddisfa nessuna delle due condizioni», sottolinea Zingales, nella riflessione ripresa da “Voci dall’Estero”: «In un mercato concorrenziale, ogni singolo attore dovrebbe essere un price-taker, ovvero la sua attività di scambio non dovrebbe avere alcun impatto sui prezzi di mercato. E invece, per sua stessa ammissione, la Bce ha un impatto sui prezzi di mercato». Si impegna infatti nell’acquisto di obbligazioni sovrane per ridurne il rendimento, pratica nota come “quantitative easing”.Di conseguenza, prosegue Zingales, il mercato obbligazionario europeo non si muove più in base al risultato delle decisioni di migliaia di operatori indipendenti è invece diventato «un “concorso di bellezza”, in cui si cerca di anticipare la prossima decisione della Bce». In un simile mercato, «la dichiarazione di un membro della Bce che il “quantitative easing” dovrebbe concludersi prima del previsto» (come ha fatto Sabine Lautenschläger, membro del comitato esecutivo della banca centrale europea) «può essere sufficiente per creare timore e aumentare lo spread tra obbligazioni italiane e tedesche». Si domanda Zingales: «È saggio vincolare le decisioni politiche di qualsiasi altro paese ai capricci di un simile mercato? Il presidente italiano, evidentemente, lo pensa. Ma farlo è pericoloso: sia dal punto di vista economico sia politico». È pericoloso dal punto di vista economico, sostiene Zingales, «perché gli economisti preparati sanno che il mercato delle obbligazioni sovrane può avere più punti di equilibrio. Di conseguenza, quando il rapporto tra debito e Pil è alto, è sufficiente che si sparga una voce per spostare il mercato obbligazionario da un punto di equilibrio a un altro, con il rischio di default».In generale, questa eventualità è impedita dalla banca centrale nazionale. «Quando è stata creata la Bce, tuttavia, i meccanismi necessari a una banca centrale non furono previsti appositamente, con lo scopo di lasciare ai mercati l’imposizione di un vincolo disciplinare ai paesi membri». Ma questa, osserva Zingales, «è stata una decisione cattiva dal punto di vista economico, che ha reso obbligatorio che la Bce alla fine fosse costretta a intervenire attivamente». Il risultato, per gli Stati, membri è che «non sono stati disciplinati da un mercato adeguatamente funzionante, ma dalla Bce – un’istituzione composta da individui che, anche se animati dalle migliori intenzioni, possono sbagliare». Il che, sempre secondo il professore, ci porta ai pericoli dal punto di vista politico. «Qualsiasi sistema istituzionale che attribuisca a un organismo non eletto come la Bce un ruolo prevalente rispetto agli organismi eletti, senza controllo, solleva seri problemi di legittimità», scrive l’economista. Immaginiamo l’ipotesi in cui il commento di un dirigente della Bce tedesco scateni involontariamente una crisi sul mercato obbligazionario italiano, che costringa l’Italia a ricorrere a un programma del Mes e del Fmi. «Che tipo di legittimità politica avrebbe un simile risultato in Italia? Anche un paese meno affascinato da poco plausibili teorie complottiste comincerebbe a sospettare una trama tedesca».Questo sospetto «diventerebbe poi certezza», scrive Zingales, «se un commissario europeo tedesco dichiarasse che i mercati finanziari insegneranno agli italiani a non votare per i populisti». Fortunatamente, aggiunge, quest’ultimo punto è ipotetico, ma non troppo: il commissario europeo alle finanze, Günther Oettinger, ha dichiarato che sperava che «lo sviluppo negativo dei mercati» fornisse «agli elettori un segnale di non votare per i populisti di destra o di sinistra». Precisa Zingales: «Sto negando il diritto dei partner europei degli italiani di essere preoccupati per il bilancio pieno di promesse (e nessuna misura per pagarle) concordato dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega? Assolutamente no. Mi associo anche alle preoccupazioni espresse dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn sul cosiddetto debito Target2 che l’Italia sta accumulando nel sistema dell’euro: debito che è il risultato di un maggior numero di investitori stranieri che vendono obbligazioni italiane piuttosto che acquistarle». Entrambe le preoccupazioni, tuttavia, «riflettono gli errori di concezione fondamentali dell’euro», sottolinea il professore. «Lo Stato dell’Indiana non si preoccupa di quanto è spendaccione lo Stato dell’Illinois, né del debito che la Federal Reserve Bank di Chicago accumula con la Federal Reserve centrale».L’Illinois è libero di scegliere i suoi governatori senza interferenze dell’Indiana (anche se alcuni conservatori fiscali preferirebbero diversamente), proprio come lo Stato dell’Illinois è libero di fare default senza trascinare con sé tutte le sue banche locali e l’intera economia locale. «Il motivo è che ci sono sufficienti istituzioni federali, dall’assicurazione contro la disoccupazione all’assicurazione sui depositi, per assorbire lo shock. E c’è un’autorità politica comune – in particolare, il Congresso degli Stati Uniti, in cui gli Stati più piccoli sono in proporzione più rappresentati – per risolvere eventuali controversie che potrebbero sorgere». Le tensioni politiche in Europa non sono quindi inevitabili, insiste Zingales. «La moneta comune europea, tuttavia, è stata creata prima delle istituzioni necessarie per sostenerla. La speranza – formulata esplicitamente da alcuni politici italiani – era che una crisi alla fine avrebbe accelerato la creazione di queste istituzioni. Ma quasi vent’anni dopo l’introduzione dell’euro e dieci anni dopo una crisi economica di quelle che si scatenano una volta in un secolo, i progressi verso la creazione di queste istituzioni in Europa sono stati minimi».Molti europei non sono d’accordo? E’ vero: considerano “incoraggianti” i progressi dell’ultimo decennio, soprattutto se confrontati con la totale immobilità dei primi dieci anni dell’euro. «Certo, per chi vive all’ultimo piano la costruzione di una pompa per drenare l’acqua non appare urgente come per chi vive in cantina. L’Italia, in Europa, vive in cantina: e sta affogando», scrive Zingales. Beninteso: «Nessun governo italiano può riformare l’Eurozona da solo». Eppure, aggiunge, «le riforme non si faranno, se non ci si prova». Il presidente francese Emmanuel Macron sembra disposto a spendere un po’ di capitale politico per promuovere una riforma dell’Eurozona, «ma ha bisogno di un alleato in Italia – la terza maggiore economia dell’area economica – per renderla una priorità». Questo, spiega Zingales, sarebbe il principale vantaggio di una coalizione tra Lega e 5 Stelle: «Entrambe le parti hanno promesso di combattere per le riforme in Europa – una promessa su cui scommettono il loro futuro politico». E quindi: «Piuttosto che criminalizzare le richieste di aiuto – conclude Zingales – l’Europa dovrebbe rimboccarsi le maniche e proporre un piano per il cambiamento. Altrimenti, non solo il “Belpaese” – come gli italiani chiamano la nostra patria – affonderà, ma affonderà l’idea stessa che nel continente si possa convivere in pace e prosperità».«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».
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Tsipras sbaglia tutto, esca dall’euro e faccia causa all’Ue
Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.D’altronde i precedenti e sempre più onerosi salvataggi non hanno fatto che aumentare la posizione debitoria del paese e non certo aiutato nel tirarlo fuori dall’impasse della drammatica situazione economica il cui destino ogni giorno appare sempre più irreversibile. La popolazione è allo stremo e francamente non ci sono più i presupposti e i margini di manovra per poter rendere l’euro una valuta idonea alle esigenze dell’economia greca. Il caso greco ha dimostrato, in tutta la sua drammaticità, come il trapianto forzato di una moneta possa alla fine degenerare in un inevitabile rigetto, distruggendo letteralmente un paese nonostante noti personaggi, che hanno costruito esclusivamente la propria carriera e credibilità asservendosi supinamente ai dogmi perversi della moneta unica, abbiano sostenuto fino a poco tempo fa che proprio il paese ellenico era la prova più tangibile del successo dell’euro. Il problema di fondo della Grecia pertanto rimane la permanenza nell’euro e le sue assurde e anacronistiche politiche economiche imposte a un paese che non ha mai avuto le possibilità, neanche remote, di poterle perseguire ed attuarle.Tutte le ricette provenienti dalla Troika sono state orientate esclusivamente a salvaguardare gli interessi dei creditori e non certo del “debitore”, producendo danni difficilmente quantificabili non solo nell’economia ma anche nel tessuto sociale, facendo sprofondare la Grecia in una devastante deflazione permanente. Proprio per questo la coalizione che governerà la Grecia dopo la consultazione elettorale prevista per il 25 gennaio prossimo, più che proporre tagli e ristrutturazioni del debito, dovrebbe intraprendere una seria azione risarcitoria nei confronti delle istituzioni europee per i danni subiti nel perseguimento delle politiche economiche che gli sono state imposte. L’aver di fatto commissariato il governo di Atene inducendolo a perseguire politiche e metodi completamente errati che hanno peggiorato continuamente la situazione inchioda, senza possibilità di attenuanti, le responsabilità della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea almeno sin dal 2010, anno in cui sono emerse in tutta la sua gravità sia l’effettiva posizione debitoria innescata dalla bomba a orologeria dei derivati contratti per ottenere il via libera all’entrata nell’Eurozona, sia l’insostenibilità che l’euro aveva prodotto nella sua crescita economica.Syriza chiede l’istituzione di una Commissione internazionale sulla falsariga di quella che portò all’accordo sul debito di Londra del 27 febbraio del 1953 dove fu cancellato il 50% del debito estero tedesco, ma i greci ora sottovalutano che la Germania di allora si avvantaggiò enormemente dell’accordo perché poté contare su una propria moneta e soprattutto su una politica economica perfettamente tarata per le proprie esigenze e non invece come quella odierna che rimarrebbe in ogni caso per la Grecia decisa altrove! Pertanto, se le nuove forze che assumeranno il potere ad Atene nei prossimi mesi intenderanno realmente fare gli interessi del paese con l’obiettivo di farlo risorgere economicamente e moralmente, dovrebbero perseguire una uscita dall’euro concordata e pianificata direttamente con i governi europei e promuovere contestualmente un’azione risarcitoria nei confronti della Troika per le responsabilità oggettive avute nella gestione delle crisi finanziarie avvenute negli ultimi anni.In particolare, se l’inesperienza e i grossolani errori profusi a più riprese dall’ex commissario europeo per gli affari economici e monetari Olli Rehn, trincerato sempre dietro vulgata dell’irreversibilità dell’euro, non avessero forzatamente fatto adottare alla Grecia politiche economiche con il pugno di ferro con il criterio del “bisogna punire chi non rispetta i patti”, non rendendosi minimamente conto che in questo modo stava segando il ramo dove invece erano seduti anche gli altri, lui compreso, il paese ellenico non sarebbe arrivato allo stato disastroso in cui versa attualmente. E’ giusto che vengano pertanto risarciti gli enormi danni perché gran parte delle colpe sono da imputare all’imposizione di politiche economiche completamente errate e con fini molto distanti dall’effettivo risanamento del paese: in questo modo si ristabilirebbe un criterio di giustizia nei confronti di palesi soprusi compiuti fra l’incompetenza e l’aver favorito interessi finanziari di parte.(Antonio Maria Rinaldi, “Grecia, perché Tsipras si sbaglia”, da “Sollevazione” dell’8 gennaio 2015).Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.