Archivio del Tag ‘Hotel Metropol’
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Moncalvo: perché Salvini continua a tacere su Moscopoli?
«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.Secondo Moncalvo, Salvini – con le vele gonfiate dai sondaggi e ora anche dall’esito delle regionali in Umbria – potrebbe sempre dichiararsi vittima di un’ingiusta persecuzione, da parte delle toghe, nel caso in cui “Moscopoli” dovesse esplodere, carte giudiziarie alla mano, alla vigilia delle prossime elezioni politiche. Pietra dello scandalo, a livello televisivo, il servizio realizzato da Giorgio Mottola per “Report”, in cui – fra l’altro – si evidenzia il legame tra Salvini e l’oligarca russo Konstantin Valeryevič Malofeev, ultra-tradizionalista, a capo di un vero e proprio impero editoriale. Malofeev è impegnato in una crociata contro i gay, definiti «sodomiti, pederasti», letteralmente. «La paura sbianca il volto di Salvini quando, a Pontida, Mottola gli domanda se conosce Malofeev». Risultato: scena muta. «Ma Salvini – prosegue Moncalvo – si è rifiutato di parlare con “Report” anche in seguito: Mottola infatti aveva chiesto per ben tre volte, alla sua segreteria, di organizzare un incontro per consentire al leader della Lega di replicare, dandogli l’opportunità di offrire la sua versione su ogni aspetto del servizio televisivo trasmesso da RaiTre il 21 ottobre».Le polemiche della Lega indurranno “Report” a trasmettere altro materiale sul tema, aggiunge Moncalvo, che rivela che il servizio fu realizzato già a luglio, quando Salvini era ancora ministro dell’interno e vicepremier. Moncalvo mette in relazione “Moscopoli” con la repentina scelta di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde, sorprendendo lo stesso Giancarlo Giorgetti. «Salvini ha deciso tutto da solo, e neppure Giorgetti conosceva il motivo di quella decisione», dice Moncalvo, che nel servizio di “Report” svolge un ruolo di primo piano: ricorda di quand’era direttore de “La Padania” e tentò inutilmente di allontanare Salvini. «Pur essendo giornalista – afferma Moncalvo – Salvini non ha mai scritto un articolo in vita sua». Lo tratteggia come un opportunista sfrontato e ambizioso. All’epoca – ha raccontato lo stesso Moncalvo di fronte alle telecamere di “Report” – ebbe ripetuti scontri con Salvini, definito assenteista e pronto a che a gonfiare la sua nota spese. Un giorno, l’allora leader dei giovani leghisti affrontò il direttore della “Padania” con queste parole: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente».Che ci siano vecchie ruggini, tra Moncalvo e Salvini, appare evidente. Altrettanto palese, per contro – come sottolinea il giornalista – è l’impenetrabile silenzio del leader leghista su “Moscopoli”. Reticenza? «Alle domande – insiste Moncalvo – Salvini non ha mai voluto rispondere, in nessuna sede». Spesso, Salvini è ricorso all’umorismo, o se l’è cavata con la formula: «Se ne sta occupando la magistratura». Giornalisti e avversari insistono: che ci faceva, Savoini, a Mosca? A che titolo avrebbe trattato una sorta di maxi-tangente su una fornitura di idrocarburi? A monte, è nota la difficoltosa situazione finanziaria della Lega, costretta – dalla magistratura genovese – a consegnare allo Stato 49 milioni di euro, a causa di vecchie irregolarità imputate alla gestione Bossi. Attenzione, avverte Luca Telese: non si tratta di soldi “rubati” dalla Lega. Di fronte all’originario ammanco accertato (un paio di milioni, forse meno), il partito è stato dichiarato – a posteriori – non idoneo a percepire finanziamenti. Diversi giuristi hanno trovato insolita la condanna: per colpa del mini-buco della Lega Nord di Bossi, alla nuova Lega di Salvini si è chiesto di “restituire” altri soldi, quelli ricevuti successivamente (e regolarmente spesi per l’ordinaria gestione politica, gli stipendi dei funzionari e le spese elettorali). Questo – si domanda qualcuno – potrebbe aver spinto Salvini a spedire Savoini a Mosca in cerca di finanziamenti russi in vista delle europee?Quello su cui invece “Report” evita accuratamente di indagare è la fonte del presunto scandalo: quale servizio segreto avrebbe intercettato Savoini, per poi far pervenire gli audio del Metropol alla magistratura milanese? Servizi russi? Americani? Italiani, addirittura, su ordine di Conte? La domanda è di importanza capitale, perché permette di mettere a fuoco la regia di quella che appare come una classsica “imboscata”, dunque il movente politico e i relativi mandanti. In attesa che la questione si chiarisca, Moncalvo ribadisce: il silenzio di Salvini è imbarazzante e inaccettabile, qualunque cosa sia avvenuta a Mosca. Sempre Moncalvo, nel servizio di “Report”, traccia un profilo non entusiasiamente del rapporto tra Salvini e il fido Savoini, descritto come animato da simpatie per l’iconografia nazista e a lungo frequentatore dell’estremista di destra Maurizio Murelli. Per Moncalvo, addirittura, fu proprio Savoini a “plasmare”, letteralmente, il giovane Salvini, dando una sorta di formazione politico-culturale a quello che allora era poco più che un semplice militante, con scarsa dimestichezza con i libri. In ogni caso, sostiene Moncalvo, Salvini farebbe meglio a parlare, fornendo finalmente agli italiani la sua versione sulla storia del Metropol.(Gigi Moncalvo è un giornalista di lungo corso: ha lavorato al “Corriere della Sera”, a “L’Occhio” e al “Giorno”, collaborando con Piero Ottone, Maurizio Costanzo e Guglielmo Zucconi (la sua direzione della “Padania” è relativa al periodo 2002-2004). A lungo impegnato nelle reti berlusconiane, è poi approdato in Rai (fino al 2008 è stato dirigente, capostruttura dell’informazione di RaiDue). Letteralmente esplosivi i saggi pubblicati a partire dal 2009 da Vallecchi: “I lupi e gli Agnelli: ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia, “Agnelli segreti” e “I Caracciolo: storie, misteri e figli segreti di una grande dinastia italiana”. Libri stranamente scomparsi dalle librerie poco dopo l’uscita, specie quelli sulla “real casa” torinese: pagine in cui Moncalvo racconta come John Elkann sia stato aiutato ad acquisire l’eredità di Gianni Agnelli, in una Fiat sostanzialmente in mano alla finanza Usa, dal primissimo dopoguerra all’imposizione di Marchionne. Nel mirino di Moncalvo, ora, è finito Salvini).«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.
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Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana
Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
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Il silenzio di Conte, l’avvocato delle spie: cosa ci nasconde?
È accaduto tutto così velocemente che ancora non tutto è chiaro. Il passaggio in 20 giorni da una coalizione orientata a destra, a un’altra di un colore opposto, è stato un tale cambio, e talmente improvviso, da non aver ancora sedimentato tutte le risposte sulle sue radici e ragioni – perché si è sgretolato il potere di Salvini proprio al suo culmine? Cosa ha rotto l’unità del governo? Come mai è sopravvissuto alla crisi della sua coalizione Giuseppe Conte, arrivando a guidarne una seconda di segno opposto? Le risposte sono tante e vanno dalle più fantasiose e oscure (doppi e tripli complotti) alle più politologiche, passando per l’inevitabile visita al sofà degli psicanalisti. Le rivelazioni del “New York Times” e del “Washington Post” sulle visite e gli incontri segreti avuti nel nostro paese dagli alti rappresentanti dell’amministrazione Trump con rappresentanti dell’intelligence italiana aggiungono ora altre domande, molto più inquietanti: come mai il presidente Conte non ha informato nessuno di questi contatti con gli americani e della loro missione in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? O la sua è stata una opaca manovra, che ha in qualche modo interferito sul corso stesso della crisi e della sua composizione?Conte dovrà ora rispondere a queste e ad altre domande davanti al Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, che lo ha convocato. Dopo questa audizione, il premier risponderà poi anche pubblicamente, come lui stesso ha annunciato in queste ore. Ma basta rimettere in fila gli avvenimenti che hanno portato all’avvitarsi di questa crisi per nutrire più di un dubbio, se non un sospetto, sulla segretezza con cui questi contatti fra Palazzo Chigi e gli americani sono stati protetti. Dal calendario, infatti, risulta evidente, come si diceva, che la crisi si avvita in maniera velocissima, in primavera, e che a un certo punto incrocia vari appuntamenti. Prendendo a misura i rapporti di Salvini con la Russia, possiamo risalire al 15-16 luglio del 2018, il viaggio a Mosca per i mondiali di calcio del leader leghista. Il 17-18 ottobre del 2018 va di nuovo in Russia. Son i giorni anche del famoso incontro all’Hotel Metropol di suoi collaboratori con tre russi per un presunto finanziamento di 65 milioni per la Lega. L’incontro del Metropol viene svelato il 24 febbraio del 2019 dal settimanale “L’Espresso”. Il 17 giugno 2019 Salvini vola in Usa per incontrare Trump, ma vede solo il vicepresidente Pence e il segretario di Stato, ex capo della Cia fino al marzo, Mike Pompeo. Il 4 luglio Putin è a Roma in visita ufficiale. Il 10 luglio il sito “Buzzfeed” pubblica l’audio dell’incontro al Metropol fra i leghisti e i russi. Da quel momento assistiamo a una accelerazone.Il 17-18 luglio Salvini va a Helsinki per il vertice dei ministri dell’interno Ue e attacca l’alleanza di governo in Italia: «Con i 5 Stelle non c’è più fiducia, nemmeno personale», e evoca per la prima volta il voto anticipato. Il 31 luglio la riforma Bonafede viene approvata “salvo intese” da un diviso Cdm. Il 6 agosto il decreto sicurezza-bis è legge. Il giorno dopo, il 7 agosto, al Senato M5S e Salvini sostengono due opposte mozioni sulla Tav. L′8 agosto la crisi si formalizza con una nota in cui il leader della Lega annuncia che non c’è più maggioranza. Entrano in scena nuovi attori. È il 15 agosto, e nella Roma infuocata del ferragosto arriva una delegazione da Washington. Altissimo livello: il General Attorney, il ministro di giustizia William Barr. Non sappiamo ancora esattamente cosa cerchino gli uomini di Trump. Sappiamo solo che cercano in Italia le prove che l’inchiesta Mueller sui rapporti di Trump con i russi per orientare le elezioni americane sia stata tutta una invenzione dei democratici Usa. La posizione di Washington in merito non è molto velata: l’idea è che intelligence di alcuni paesi europei, Inghilterra e Italia nello specifico, abbiano aiutato un attacco alla democrazia in America. Di tutto questo sappiamo davvero poco. Ma sappiamo che, di qualunque cosa si tratti, Conte autorizza gli incontri.Ripetiamo: è il 15 agosto. Esattamente 5 giorni dopo, il 20 agosto, Conte va in Senato e pronuncia il famoso discorso con cui scarica Salvini e consuma la rottura della coalizione. Nel discorso l’attacco all’ex alleato, il rapporto con la Russia del leghista, e la vicenda Metropol hanno un grande rilievo. Il 24 agosto Conte si reca al G7 di Biarritz su Iran, dazi, e Russia. Trump, appena giunto alla cena di apertura si ferma a parlare per una decina di minuti con il premier italiano. Un colloquio molto fitto, dicono fonti di Palazzo Chigi, durante il quale il tycoon ha testimoniato molta considerazione e attenzione personale nei confronti del professore, assicurando che «i rapporti personali vanno al di là degli incarichi». Il 27 agosto Trump si fa più esplicito: «Spero che Giuseppi Conte resti premier». Il 5 settembre giura il nuovo governo M5S-Pd, con premier lo stesso Conte. Venerdì 27 settembre, nuova visita della delegazione Usa, stesso scopo. Eccetto che stavolta nella nuova coalizione del governo Conte c’è il Pd. Neanche in questo caso, come il 15 agosto, Conte informa l’alleato. E se si può dire che forse con Salvini la crisi era già consumata a metà agosto, con il Pd si è in piena luna di miele.La prima domanda è dunque: avrebbe dovuto informare i suoi alleati? E, se verificato al Copasir che non l’ha fatto, la sua scelta rivela un elemento di mancata “opportunità” o di opacità bella e buona? Insomma c’è una sorta di colpevole silenzio? L’avvocato Conte ha sempre voluto, e conservato gelosamente, il suo ruolo di capo dei servizi. La legge affida infatti al presidente del Consiglio “l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni democratiche”. La legge 3 agosto 2007 n. 124 all’articolo 3 prevede che il presidente del Consiglio possa delegare talune sue prerogative (eccetto quelle sue esclusive) a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario di Stato alla presidenza. La legge dice che può, ma non che deve. E il gioco del delegare o meno è sempre entrato a far parte della tessitura di tutti i governi come parte del profilo che intende prendere. Alcuni premier così hanno delegato; gli ultimi due, Gentiloni e Conte, non hanno delegato. Conte si è tenuto la delega nella formazione del governo di coalizione dei giallorossi, soprattutto come bilanciamento a Salvini agli interni. Conte tuttavia non ha delegato nemmeno dopo, quando è rimasto capo del governo con la coalizione con il Pd.Tenendosi questa delega il premier attuale è di fatto il capo di ogni responsabilità attinente l’intelligence. Nulla può muoversi senza la sua decisione. Ma è obbligato a informare i suoi colleghi? O può/deve mantenere il silenzio assoluto? Gli esperti sostengono che eccetto per il segreto di Stato, che riguarda però gravi emergenze, potenziali danni gravi che potrebbero derivare per il paese, vale per il resto una “opportunità” politica che spinge a informare l’apposito comitato ristretto del Consiglio dei ministri. In questo caso la “opportunità politica” non era forse tale da spingere/obbligare Conte a informare? La domanda si fa tanto più urgente se, come è il caso, si tratta non di uno ma di ben due esecutivi, di natura fra loro completamente diversa, con cui si è scelto il silenzio. Per semplificare: se è possibile che Conte abbia scelto di non informare Salvini sulla visita di Barr il 18 agosto perché ormai in piena rottura, perché non ha informato (o lo ha fatto ?) della visita il 27 settembre in piena luna di miele con il Pd? È, come si diceva, un intreccio di scelte e date che lascia inquieti: il rapporto fra Conte e l’amministrazione americana avviene infatti con tempi tali da sollevare almeno il dubbio che ci sia una forte relazione fra la crisi italiana, la conferma del premier e il consenso americano. Si intravvede uno scambio, e forse questo scambio c’è o forse no, ma Conte ci deve sicuramente una spiegazione. Il silenzio con cui ha custodito questi contatti è forse, infatti, l’elemento più inquietante di questa vicenda.(Lucia Annunziata, “L’avvocato delle spie”, articolo pubblicato dall’“Huffington Post” e ripreso da “Dagospia” il 4 ottobre 2019).È accaduto tutto così velocemente che ancora non tutto è chiaro. Il passaggio in 20 giorni da una coalizione orientata a destra, a un’altra di un colore opposto, è stato un tale cambio, e talmente improvviso, da non aver ancora sedimentato tutte le risposte sulle sue radici e ragioni – perché si è sgretolato il potere di Salvini proprio al suo culmine? Cosa ha rotto l’unità del governo? Come mai è sopravvissuto alla crisi della sua coalizione Giuseppe Conte, arrivando a guidarne una seconda di segno opposto? Le risposte sono tante e vanno dalle più fantasiose e oscure (doppi e tripli complotti) alle più politologiche, passando per l’inevitabile visita al sofà degli psicanalisti. Le rivelazioni del “New York Times” e del “Washington Post” sulle visite e gli incontri segreti avuti nel nostro paese dagli alti rappresentanti dell’amministrazione Trump con rappresentanti dell’intelligence italiana aggiungono ora altre domande, molto più inquietanti: come mai il presidente Conte non ha informato nessuno di questi contatti con gli americani e della loro missione in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? O la sua è stata una opaca manovra, che ha in qualche modo interferito sul corso stesso della crisi e della sua composizione?
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Enrico Letta e l’agguato francese teso a Salvini in Russia
Più ci si addentra nell’affaire russo e più si capisce una cosa: c’è chi ha sperato e forse ancora si illude di far fuori Matteo Salvini con lo stesso metodo con cui è stato fatto fuori Heinz-Christian Strache, leader di “Freihitliche Partei Osterreichs”, l’austriaco Partito delle Libertà. Lo afferma Maurizio Belpietro su “La Verità”, evocando l’ombra di una vecchia conoscenza – Enrico Letta – come candidato in pectore per guidare un ipotetico “governo tecnico” post-salviniano. Per Strache, ricorda Belpietro, fu costruito un trappolone con promesse di soldi russi, proprio come si sarebbe voluto fare con Salvini. Invitato in una villa a Ibiza da misteriosi emissari di un oligarca presentato come “vicino a Putin”, Strache fu filmato mentre discuteva di petrolio e finanziamenti al suo partito. Il video a un certo punto comparve in Germania, sui siti di alcuni giornali, tra cui l’equivalente tedesco dell’“Espresso”, costringendo il vicecancelliere viennese alle immediate dimissioni. «Ecco, con Salvini lo schema doveva essere identico», scrive Belpietro: «Farlo partecipare a un incontro, per poi incastrarlo». Qualcosa però dev’essere andato storto, perché «all’Hotel Metropol, luogo di mille intrighi, invece del capitano leghista si è presentato solo Gianluca Savoini».Belpietro lo descrive come «un ex giornalista della “Padania” che da anni ruota intorno alla Lega attribuendosi un ruolo di consigliere». Savoni? «Un tipo in grigio, sempre pronto a partecipare, soprattutto quando si parla di Russia», paese di cui «si sente un grande esperto, per via di una moglie nata da quelle parti». Grande esperto? Lo smentisce Irina, l’interprete moscovita utilizzato dal “grande consulente”, il quale «non spiccica una parola di russo». In un’intervista al “Corriere della Sera”, per spiegare il personaggio Irina dice che un giorno Savoini le fece una scenata perché si era dimenticata di citarlo in un’intervista. Commento di Irina: se uno è davvero potente come vuole far credere, certo non se la prende se non è citato. «Qualcuno però deve aver creduto che Savoini fosse un personaggio chiave per incastrare Salvini, e così è scattata la trappola del Metropol», osserva Belpietro. «Una hall aperta al pubblico e alle orecchie indiscrete per concludere un affare riservato da 65 milioni. Tonnellate di petrolio, le prime delle quali avrebbero dovuto arrivare via mare già nel novembre scorso. Dove sono finite queste navi, che avrebbero dovuto rifornire l’Eni, nessuno lo sa. La società petrolifera smentisce di aver mai stretto accordi commerciali del genere; ma questo è solo un dettaglio, per il circo mediatico che punta alle dimissioni di Salvini per scardinare la Lega».Nessuno, poi, si interroga su chi abbia avuto interesse a registrare il colloquio e poi a renderlo pubblico. Nessuno si chiede se i giornalisti dell’“Espresso”, che per primi parlarono di questa storia, davvero ascoltarono dal tavolo di fianco la conversazione tra Savoini e i suoi misteriosi emissari. «Possibile captare un discorso in lingue diverse senza destare sospetti e riuscire a riportarlo senza errori? I colleghi del settimanale debenedettiano sono in grado di dimostrare di non essere stati loro a registrare il colloquio e di non essere stati loro a consegnarlo alla Procura? E in questo caso, se la registrazione non arriva da loro, che pure hanno dichiarato di essere stati presenti, chi altri ha realizzato l’audio per poi consegnarlo alla magistratura?». Ancora: «Come è poi possibile che la segretissima operazione che doveva pompare milioni nelle casse della Lega fosse nota ai giornalisti e anche ad altri che poi precostituirono una prova fonica delle registrazione? Le domande, per ora – conclude Belpietro – sono destinate a restare senza risposta, soprattutto fino a che non sarà chiaro come sia stata acquisita la registrazione da parte della Procura».Nel frattempo, s’è scoperto che uno dei partecipanti all’incontro è un avvocato massone, affiliato a una loggia francese. «E guarda caso i francesi sono anche i più acerrimi nemici di Salvini, perché sull’Europa, sull’Italia e sulla Libia, Emmanuel Macron ha progetti che non coincidono esattamente con quelli del capitano leghista», scrive il direttore de “La Verità”. «Far cadere il vicepremier, ossia l’unico uomo forte italiano rimasto su piazza, per l’Eliseo sarebbe un gran colpo». Belpietro intanto nota che per ora, proprio da Parigi, è tornato a farsi vivo «un desaparecido della politica, ossia quell’ Enrico Letta che, oltre a dirigere in Francia una scuola politica e ad aver conquistato una Legion d’onore transalpina, è anche una possibile risorsa da mettere a Palazzo Chigi in un eventuale governo tecnico dopo quello pentaleghista». In un’intervista a “Repubblica”, indovinate che cosa dice, Letta? «Ovvio, no? Chiede le dimissioni di Salvini. La trappola per l’Italia, insomma, è pronta».Più ci si addentra nell’affaire russo e più si capisce una cosa: c’è chi ha sperato e forse ancora si illude di far fuori Matteo Salvini con lo stesso metodo con cui è stato fatto fuori Heinz-Christian Strache, leader di “Freihitliche Partei Osterreichs”, l’austriaco Partito delle Libertà. Lo afferma Maurizio Belpietro su “La Verità”, evocando l’ombra di una vecchia conoscenza – Enrico Letta – come candidato in pectore per guidare un ipotetico “governo tecnico” post-salviniano. Per Strache, ricorda Belpietro, fu costruito un trappolone con promesse di soldi russi, proprio come si sarebbe voluto fare con Salvini. Invitato in una villa a Ibiza da misteriosi emissari di un oligarca presentato come “vicino a Putin”, Strache fu filmato mentre discuteva di petrolio e finanziamenti al suo partito. Il video a un certo punto comparve in Germania, sui siti di alcuni giornali, tra cui l’equivalente tedesco dell’“Espresso”, costringendo il vicecancelliere viennese alle immediate dimissioni. «Ecco, con Salvini lo schema doveva essere identico», scrive Belpietro: «Farlo partecipare a un incontro, per poi incastrarlo». Qualcosa però dev’essere andato storto, perché «all’Hotel Metropol, luogo di mille intrighi, invece del capitano leghista si è presentato solo Gianluca Savoini».