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Archivio del Tag ‘Il Manifesto’

  • Gallino: il nemico è la democrazia autoritaria dell’Ue

    Scritto il 24/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
    La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina “Lancet”, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici.
    Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale.
    Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli. Martin Schulz? Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.
    Nel mio ultimo libro ho teorizzato un “colpo di stato” da parte di banche e governi. Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un “colpo di Stato”, dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire? Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico.
    Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia “market conform”.
    (Luciano Gallino, dichiariazioni rilasciate a Mattia Ciampicacigli per l’intervista “Il nostro nemico è la democrazia autoritaria” pubbicata da “Il Manifesto” e ripresa il 7 marzo 2014 dal sito “Lista Tsipras”).

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.

  • Spararono sulla folla a Kiev, erano cecchini della Cia

    Scritto il 15/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini della Cia coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante a Kiev dell’Unione Europea ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.
    Le drammatiche “rivelazioni” di Yakimenko, rilasciate alle televisioni russe? «Probabilmente non tutte innocenti, ma certo molto credibili», scrive Chiesa sil “Manifesto”. Tanto più che combaciano perfettamente con la famosa telefonata del ministro degli esteri estone Urmas Paet alla signora Catherine Ashton, capo della diplomazia europea: il ministro dell’Estonia disse che a sparare «anche» contro i dimostranti non fu la polizia ucraina, bensì i cecchini «assoldati dalle opposizioni». Le accuse, osserva Giulietto Chuiesa, «sono una più grave dell’altra, una più infamante dell’altra». E se le televisioni russe le riproducono con tanta ampiezza, «ciò vuol dire soltanto una cosa: che Vladimir Putin non solo non intende retrocedere di un millimetro, ma intende contrattaccare politicamente, diplomaticamente e anche dal punto di vista della comunicazione».
    Yakimenko ha chiamato in causa l’ex presidente ucraino Viktor Yushenko, il vincitore – con Julia Tymoshenko – della ormai sfiorita rivoluzione arancione. Sarebbe stato lui a «lasciar moltiplicare i campi paramilitari in cui si sono allenati al golpe i nazisti e gli estremisti nazionalisti seguaci di Stepan Bandera», l’uomo che nella Seconda Guerra Mondiale collaborò con Hitler, e la cui effigie è tornata – dopo tanti anni – sulla piazza Maidan. Quando arrivò Yanukovic, sempre secondo Yakimenko, i “campi paramilitari” non furono chiusi, ma spostati – in Polonia, Lettonia e Lituania. Neppure Yanukovic decise di chiuderli, osserva Chiesa: «Continuava il doppio gioco di un colpo al cerchio e di uno alla botte, per tenere buoni russi e americani», perché evidentemente «l’influenza degli Stati Uniti e dell’Europa erano già troppo forti per poter essere contrastate».
    Insomma, l’ex capo della polizia politica ucraina sostiene che l’eversione in Ucraina abbia origini lontane: non è stata né spontanea, né improvvisata. «Ha fatto parte di un piano strategico nato negli Stati Uniti e che ha avuto come esecutori materiali un gruppo di paesi dell’Unione Europea». Certo, continua Chiesa, «in piazza c’erano migliaia e migliaia di persone. Ma a guidarle e a imprimere una svolta eversiva sono stati uomini armati e bene addestrati da tempo, scatenati da una serie di comandi molto precisi. Fino alla tremenda sceneggiata, costata quasi un centinaio di morti e oltre 800 feriti, che servì a coprire di infamia il presidente Yanukovic, lordato di un sangue che non aveva voluto e saputo provocare, ma la cui fuga fu applaudita da tutto il “mondo libero”, indignato per la sua ferocia».
    Yakimenko sostiene che quei cecchini furono individuati: sparavano dal palazzo della Filarmonica, erano una ventina, «bene armati, bene equipaggiati, con fucili di precisione dotati di cannocchiale». Gli uomini della sicurezza ucraina erano nella piazza, mescolati alla folla e – dice Yakimenko – videro tutto e riferirono. Ma «non furono gli unici a vedere»: anche i leader di alcuni gruppi estremisti videro che quei cecchini sparavano sulla folla, e si allarmarono al punto da contattare lo stesso Yakimenko, «chiedendogli di porre fine alla mattanza facendo intervenire la sue “teste di cuoio”, il famoso o famigerato “Gruppo Alfa”». Yakimenko, continua Giulietto Chiesa, parla dunque di una trattativa che si svolse tra lui e i rappresentanti di “Svoboda” e di “Settore Destro”. Forse – dice – lo fecero per «crearsi un alibi». O forse perché non erano loro, ma altri, ad avere organizzato la mostruosa operazione diversiva. E nel frattempo un gruppo di persone, tutte decisive nel controllo delle forze di sicurezza, visitavano l’ambasciata Usa «tutti i santi giorni». Sono gli uomini che oggi incarnano il nuovo potere di Kiev.

    Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania: sarebbero le “pedine” utilizzate dagli Usa per destabilizzare sanguinosamente l’Ucraina, fino alla caduta del regime di Yanukovich. «L’Europa, in quanto tale – dice Giulietto Chiesa – sprofonda più che nella vergogna, nel ridicolo, trovandosi guidata da quattro repubbliche ex satelliti o ex sovietiche (anche se con l’autorevole copertura di Berlino, Londra, e Parigi) in un’avventura che non era stata nemmeno discussa. E che non è europea, ma americana». Dirompenti le dichiarazioni di Aleksandr Yakimenko, capo dell’intelligence ucraina con Yanukovic, ora riparato in Russia. Secondo Yakimenko, sarebbe stata la Cia a manovrare i cecchini che il 20 febbraio hanno fatto strage di dimostranti in piazza Maidan per poi poter accusare il regime. A dirigere l’operazione, uomini coordinati dall’ambasciata Usa di Kiev. Complici, il rappresentante dell’Unione Europea nella capitale ucraina ed emissari polacchi come Jan Tombinsky.

  • Appello alla Boldrini: fuori quel dossier su Ilaria Alpi

    Scritto il 14/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di stato, veline di regime.
    A combattere questa battaglia civile sono restati i familiari di Ilaria e di Miran, gli amici di sempre, le ragazze e i ragazzi del Premio Ilaria Alpi, giornalisti e legali coraggiosi che non hanno mai mollato la presa. Tra qualche giorno, in tutta Italia, ci saranno le iniziative per ricordare il 20 marzo di 20 anni fa, una delle più importanti si svolgerà alla Camera dei deputati, alla presenza di Laura Boldrini. Alla vigila di questa ricorrenza il legale della famiglia Alpi, Domenico D’Amati, che ha dedicato la vita a contrastare bavagli, censure, oscurità, ha rivolto un appello alle istituzioni affinché siano desecretati tutti gli atti relativi non solo a questo caso, ma anche al materiale acquisito dalla commissione parlamentare che ha indagato sul ciclo dei rifiuti tossici ed anche sui rapporti tra Italia e Somalia.
    Questo appello, raccolto da “Articolo 21”, é stato rilanciato dalla piattaforma “Change.org” e ha trovato l’adesione di migliaia di cittadine e di cittadini. La speranza è che, in occasione del ventennale, possa arrivare una risposta positiva che consenta alla Procura della Repubblica di Roma di acquisire documenti utili alla ricerca della verità e della giustizia. Non sappiamo se quelle carte contengano elementi dirompenti, ma abbiamo tutti il dovere di tentare il tentabile, di non fornire altri alibi ai depistatori, di provare ad illuminare quello che hanno voluto oscurare e cancellare. Per queste ragioni vi chiediamo non solo una firma, ma anche un aiuto a far conoscere e a condividere l’appello “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”.
    I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Erano in Somalia per indagare su un traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici illegali. Ed è per questa ragione che sono stati assassinati. Ma a venti anni di distanza siamo ancora in attesa di conoscere tutta la verità su quella vicenda. Questa verità potrebbe essere contenuta nella pila di carta (ottomila documenti) che i servizi di sicurezza militare, l’ex Sismi, oggi Aise, hanno accumulato su fatti che attengono all’esecuzione dei due giornalisti. Carte messe sotto chiave negli archivi della Camera a cui sembra essere stato negato l’accesso dall’Agenzia Aise – come rivela un’inchiesta de “Il Manifesto” firmata dai giornalisti Andrea Palladino e Andrea Tornago – che pare «abbia negato l’autorizzazione a un ufficio di Montecitorio che chiedeva la declassificazione dei documenti riservati acquisiti dalla Commissione parlamentare sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella».
    «E’ fondamentale che queste carte siano rese pubbliche e che ai cittadini sia data la possibilità di sapere», ha affermato sul sito di “Articolo 21” Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi. «C’è molto da fare e speriamo che tutti gli organi dello Stato collaborino. In primo luogo la Camera dei deputati che deve desecretare questi documenti fondamentali sui traffici dei rifiuti tossici». Per questo, facciamo appello al Presidente della Camera Laura Boldrini, di cui conosciamo e apprezziamo la sensibilità umana e civile, affinché si possa consentire l’accesso ai dossier, per squarciare “il muro di gomma” dei poteri che hanno ostacolato la ricerca della verità.
    (Giuseppe Giulietti, “Niente segreti sulla morte di Ilaria Alpi e sul traffico di armi e rifiuti”, da “Micromega” del 13 marzo 2014).

    Un grazie alle oltre trentamila persone, molte delle quali lettrici e lettori di questo giornale, che, in un solo giorno, hanno firmato la petizione per reclamare verità e giustizia sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le ragioni di questa iniziativa sono già state descritte, nel suo blog, dal direttore di “Articolo 21” Stefano Corradino. Tra qualche giorno, il prossimo 20 marzo, saranno passati 20 anni dal giorno della esecuzione di Ilaria e Miran. I due stavano portando a compimento una rigorosa inchiesta sul traffico di rifiuti tossici tra Italia e Somalia e, stando alle ricostruzioni, si erano “pericolosamente” avvicinati alla cupola che gestiva gli affari e alle connessioni tra il ciclo dei rifiuti, la criminalità organizzata, e i protettori politici. Le indagini e la vicenda processuale hanno ripercorso il copione già visto in tanti altri processi simili: depistaggi, amnesie, segreti di Stato, veline di regime.

  • Spinelli: per cambiare l’Europa bisogna rompere col Pd

    Scritto il 06/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.
    Sul “Manifesto”, la Spinelli prende nota degli auspici formulati da Stefano Fassina, che si augura un’inversione radicale di rotta sulla politica europea, ma poi non osa rompere col Pd, cioè il partito che ha sorretto il governo Monti, varato la riforma Fornero e votato il Fiscal Compact con l’inserimento (“consigliato”, ma non obbligatorio) del pareggio di bilancio in Costituzione – inserimento evitato dalla stessa Francia di Hollande. Il Pd – nel quale Fassina ancora milita – punta sul tedesco Martin Schulz per la presidenza della Commissione Europea? Male: Schulz si è appiattito sulle idee della Merkel e ha rifiutato gli eurobond per una politica europea più solidale. «Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo commissario». Inoltre, Fassina (e Civati) restano nel Pd di Renzi, un politico che si ispira apertamente a Tony Blair, cioè l’uomo che più di ogni altro ha «polverizzato» i valori identitari della sinistra, cioè l’uguaglianza e il bene pubblico.
    «Sostiene Stefano Fassina, e con ottime ragioni, che l’Eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd», scrive Barbara Spinelli. «A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg». Se dall’epoca Blair ha sinistra ha tradito i suoi elettori, «è all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo». Con Renzi, «l’involuzione del Pd non subisce battute d’arresto». Che senso ha, dunque, restare in quel partito? Barbara Spinelli vede una possibile alleanza trasversale, a Strasburgo, tra sinistra radicale, Verdi, socialisti «contrari al patto con la destra», eurodeputati grillini e persino liberaldemocratici come Guy Verhofstadt.
    Fino a quando i Fassina resteranno nel partito renziano, sostiene Spinelli, sarà difficile sperare che dalle parole si possa passare ai fatti, specie «nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd», ovvero «un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta)». Conclusione: «Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle “divine sorprese” di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni». Per contro, Spinelli sembra davvero credere che basterà il nuovo Parlamento Europeo ad imporre la democratizzazione dell’Unione Europea. Scelte essenziali: la conversione dell’euro in moneta sovrana, la Bce costretta a fare da prestatrice agli Stati, la fine delle politiche di austerità, l’abbandono del Fiscal Compact e dello strapotere della Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi. «No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile». Non ultimo, il no al Ttip, il Trattato Transatlantico in via di elaborazione, se in nome dell’interesse delle multinazionali Usa dovesse scavalcare «le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia».
    Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.
  • Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia

    Scritto il 28/2/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
    Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.
    Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.
    Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.
    Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.
    E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.
    Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.
    Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.
    Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.
    Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.
    (Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).

    Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.

  • Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari

    Scritto il 22/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
    Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.
    Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.
    Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.
    Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.
    I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.
    E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.
    (Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).

    L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.

  • Grazzini: la Germania sta per mangiarsi le nostre banche

    Scritto il 03/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    «Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».
    L’unione bancaria europea, spiega Munchau, «è esattamente quella voluta dal ministro delle finanze Wolfgang Schäuble», il super-falco di Angela Merkel. «I contribuenti tedeschi non pagheranno nulla per la ristrutturazione delle banche estere e nessuna banca tedesca verrà mai chiusa». Sicché, «la Germania ha ottenuto tutto quello che voleva senza concedere nulla», proprio come per il Fiscal Compact: «Ha imposto la disciplina fiscale a tutta l’Europa in cambio di niente». Munchau è sconcertato: tutti i ministri – tra cui ovviamente il nostro Fabrizio Saccomanni – hanno gridato alla “svolta storica” «solo per non perdere la faccia di fronte al loro completo fallimento», perché «nulla di quello che avevano proposto è stato accettato». Volevano un fondo pubblico europeo in grado di provvedere alle ristrutturazioni bancarie in caso di “crisi sistemiche” e di garantire i correntisti? Niente da fare. La verità, dice Munchau, è che non hanno ottenuto nulla «semplicemente perché non sono in grado di coalizzarsi contro i diktat della Germania – la quale non vuole nessun fondo comune che metta a rischio le sue finanze per coprire i problemi altrui».
    I governi del sud Europa non hanno fiducia l’uno dell’altro, dice Munchau: non vogliono coalizzarsi, e quindi il governo Cdu-Spd riesce facilmente a imporre la sua ferrea volontà. «Il dramma è che non esiste alcuno statista europeo in grado di opporre una cooperazione solidale ed efficace di fronte alla visione unilaterale tedesca». L’unione bancaria «è la dimostrazione di come il governo tedesco delle larghe intese vuole l’Unione Europea: una unione centralizzata, diretta dalle élite finanziarie tedesche, a vantaggio esclusivo della Germania e a svantaggio degli altri paesi deboli e debitori del sud Europa. Una unione foriera di crisi senza fine». Perché il governo italiano dovrebbe rifiutare questa unione bancaria? «Perché non solo non risolve nulla – annota Grazzini su “Micromega” – ma potrebbe avere un micidiale effetto boomerang, ovvero amplificare le difficoltà delle banche». Non a caso, Draghi ha già avvertito che «con l’esame della Bce le banche deboli dovranno chiudere».
    A monte, la trappola è sempre la stessa e si chiama euro: l’impossibilità di emettere moneta sovrana costringe i governi a ricorrere ai titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico (il debito funzionale e fisiologico, quello che serve per garantire i servizi e quindi sostenere l’economia vitale), e questo alla lunga – il caso di insolvenza – mette in pericolo le banche che quei titoli pubblici detengono. In teoria, ricorda Grazzini, il progetto di unione bancaria doveva servire a questo: spezzare il legame tra il rischio rappresentato dalle grandi banche sistemiche e quello degli stati dell’Eurozona – ovvero non indebolire le banche del Sud Europa, piene di titoli di Stato dei loro paesi. L’unione, inoltre, sarebbe dovuta servire a proteggere i risparmiatori europei con un fondo comune europeo di garanzia (per evitare la fuga all’estero dei correntisti in caso di una crisi nazionale), garantendo anche l’uniformità delle condizioni del credito: oggi le aziende italiane pagano tassi d’interesse bancari più alti rispetto a quanto pagano le aziende tedesche alle banche del loro paese. Bene, nessuno di questi regionevoli obiettivi sarà raggiunto, sostiene Grazzini: l’unico risultato sarà un ulteriore vantaggio dell’economia tedesca a spese di quella del resto d’Europa.
    Schäuble ha rifiutato in partenza ogni meccanismo di mutualizzazione con copertura di fondi pubblici, togliendo ossigeno a qualsiasi possibilità anti-crisi. E i ministri europei delle finanze «hanno deciso quello che perfino Draghi aveva implorato segretamente la Commissione Europea di non fare – cioè far pagare gli obbligazionisti e i creditori – per non rischiare di far precipitare le crisi bancarie», secondo il modello Cipro. Così, grazie a Schäuble, i privati (azionisti, obbligazionisti e correntisti con oltre 100.000 euro di deposito) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, e solo in seconda battuta interverranno i fondi nazionali: non sostenuti con moneta sovrana – missione impossibile nell’Eurozona – ma creati grazie a nuove tasse. In ultimissima istanza, tra dieci anni, interverrebbe «un esiguo fondo europeo di 55 miliardi, sempre di origine bancaria – cioè solo lo 0,2% circa del patrimonio complessivo delle banche europee – anche se si prevede che le banche dovranno ricapitalizzarsi per circa 100 miliardi».
    L’accordo fa acqua da tutte le parti, insiste Grazzini: appena una banca sarà percepita in difficoltà, «i correntisti, gli azionisti e i creditori fuggiranno, creando un circolo vizioso di diminuzione del valore e di ulteriore fuga». Il caso Cipro insegna: «Si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». In Italia, continua l’analista, ci sono 2,7 miliardi di bond bancari subordinati in scadenza nel 2014 e 4,6 nel 2015. Gli investitori a rischio reagirebbero al timore di essere colpiti vendendo i bond. Interverrebbero allora gli speculatori e i fondi-avvoltoio per “salvare le banche”. Probabilmente nascerebbe una serie infinita di ricorsi in tribunale. Al che, «per evitare il fallimento delle banche e la corsa al ritiro dei depositi, gli Stati nazionali dovranno intervenire» nell’unico modo ormai possibile, ovvero «con i soldi dei contribuenti», ottenuti a suon di tasse. Risultato: «I paesi deboli si indeboliranno ancora di più e si avvicineranno all’orlo del baratro».
    Ma c’è di più, continua Grazzini: Draghi sta avviando gli stress test (ovvero degli esami preventivi di solvibilità in caso di crisi) su circa 130 banche europee, tra cui 13 italiane – ma sono escluse le casse di risparmio tedesche, che Schäuble non ha voluto comprendere negli stress test – per verificare se sarebbero in grado di sopportare un grave peggioramento della situazione economica. E quali saranno i criteri applicati dalla Bce per gli stress test? I fattori di rischio che potrebbero portare le nostre banche al fallimento sono sostanzialmente tre. Pirmo: la leva finanziaria troppo elevata rispetto al capitale proprio – leva che di solito viene usata dalle banche per speculare sui mercati finanziari “ombra”, come quello dei derivati e dei titoli tossici. Secondo: l’acquisto di titoli di debito sovrano di paesi con elevato debito pubblico, come l’Italia. Terzo: i crediti in sofferenza e inesigibili.
    «Le banche del nord Europa, in particolare quelle tedesche e francesi, hanno una leva spropositata. Hanno un attivo pari a 30-40-50 volte il loro capitale». Per intenderci: «Deutsche Bank e Credit Suisse hanno una leva di circa 50, la francese Crédit Agricole del 62, contro una leva di circa 18 di Intesa e Unicredit. La leva – legata a capitali presi a prestito – amplifica enormemente i rischi sistemici e delle singole banche, anche perché serve soprattutto a investire nel trading, cioè su titoli obbligazionari, azionari e derivati ad alto rendimento ma, appunto, molto volatili e ad alto rischio. I ricavi di Deutsche Bank derivano per esempio al 75% circa dal trading, e non da prestiti alle imprese e alle famiglie. In pratica gran parte dei maggiori istituti europei fanno le banche d’affari invece di prestare denaro alle imprese e alle famiglie». Al contrario, «le banche del sud Europa (Italia compresa) fanno meno attività speculativa, hanno in pancia meno titoli tossici, ma hanno invece il problema di avere investito molto sui titoli pubblici del loro paese e di avere molti crediti in sofferenza, a causa della crisi economica pesante attraversata dai loro paesi: in Italia le banche hanno in pancia circa 450 miliardi di titoli pubblici e hanno sofferenze per circa 150 miliardi».
    Domanda: quanto peseranno i diversi fattori di rischio negli stress test? La Bce considererà più rischioso – come dovrebbe essere – avere una leva abnorme e molti titoli tossici, o avere invece investito sui titoli pubblici del proprio paese? «Se, come sembra possibile, verrà sottovalutato il rischio derivato dalla leva finanziaria, dal trading e dalla speculazione, le banche del nord Europa si salveranno e supereranno l’esame senza troppe difficoltà. Se invece sarà considerato molto rischioso detenere titoli di debito pubblico del proprio paese, allora parecchie banche dei paesi del sud Europa verranno praticamente condannate (insieme ai bilanci pubblici dei loro paesi)». A quel punto, «le banche del sud che non supereranno l’esame della Bce dovranno ricapitalizzarsi, cioè aumentare ulteriormente il loro capitale», ma è facile immaginare che «troverebbero pochi capitalisti nazionali pronti a mettere il loro denaro in banche in difficoltà».
    Ecco allora che «le banche meno solide del sud Europa potrebbero semplicemente fallire, come ha avvertito Draghi. O potrebbero essere facilmente acquisite a poco prezzo da quelle del nord Europa». Così, «parte del risparmio nazionale potrebbe finire in mano alle banche estere dei paesi “meno stressati”». Ecco perché questa unione bancaria non s’ha da fare: certo «non risolve il problema del credito alle imprese e alle famiglie», e inoltre «rischia di premiare le banche maggiori che speculano e di bocciare le banche che investono nell’economia reale». Verità sanguinosa: il problema delle banche italiane – il debito pubblico – sarebbe risolvibile di colpo, all’istante, uscendo dall’euro o trasformando l’euro in moneta sovrana. «Ma la sinistra raramente si accorge delle minacce che vengono dalla Ue», avverte Grazzini. «Sull’unione bancaria perfino il “Manifesto” riportava: “Certo a volte è meglio qualcosa invece di niente ed è forse meglio tardi che mai”». Ora basta, però: è tempo di «abbandonare una visione idilliaca della Ue e di avere un approccio più realistico sull’egemonia tedesca». C’è solo da augurarsi che l’offerta politica alle elezioni europee di maggio riesca almeno a mettere a fuoco il problema, da cui dipende il futuro di tutti.

    «Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».

  • Sinistra italiana senza il coraggio di sostenere Tsipras

    Scritto il 22/1/14 • nella Categoria: idee • (4)

    «Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza, ovvero di quella resistenza laica e ferma che, dalla Grecia, costituisce il peggior incubo per i governanti continentali dell’austerità.
    La seconda è che la Sinistra Europea, a dispetto degli sterili psicodrammi, ai fatti ha avuto ragione pressoché su tutto in questi ultimi 25 anni, a iniziare dai temi più cruciali, dalla critica all’accelerazione monetarista dei Trattati (da Maastricht in poi) al no alle guerre della Nato. La sinistra c.d. “radicale” aveva ragione; gli altri, “moderati” inclusi (senza eccezione per i socialdemocratici), torto. Sarebbe il momento dell’“incasso” elettorale, e invece si cede lo scettro della critica – e della rappresentanza – agli anti-europeisti, populisti e intolleranti, in una parola alla destra. Il primo a tirarsi fuori – spiace sottolinearlo – è stato Nichi Vendola, che al “Manifesto” ha dissimulato con un elogio a Tsipras la propria scelta politica: Sel non si candiderà per Tsipras o per la Linke bensì, assieme al Pd, per Martin Schulz e il New Labour. Gli altri italiani? Praticamente il nulla, come ha denunciato la leader tedesca della Sinistra Europea Gabi Zimmer (mia intervista per “Il Fatto Quotidiano”) il 13 dicembre scorso.
    Qualcosa per la verità poi si è mosso e, da Barbara Spinelli a Paolo Flores d’Arcais ad Alessandro Gilioli, non passa oramai quasi giorno senza che qualche intellettuale lanci il suo appello per realizzare anche da noi una lista per Tsipras, rompendo seppur tardivamente la solitudine di chi da tempo si era speso per la sua candidatura, come l’ex capogruppo della Sinistra europarlamentare Roberto Musacchio. Le strade sarebbero almeno due. Una sarebbe quella indicata da Giulietto Chiesa, ovvero un’assunzione di responsabilità dei movimenti più popolari (quali Emergency), che però per statuto o antica scelta difficilmente lo faranno. Ci sarebbe Azione Civile, che per ora esita a uscire dai generici appelli dato il recente scotto elettorale. Ci sono già Alba e Alternativa, degli stessi Musacchio e Chiesa, ma ovviamente non basta.
    L’altro possibile “primo passo” potrebbero farlo gli stessi partitini che sostengono Tsipras, a iniziare da Rifondazione. «Prendiamo atto della catena di batoste, ci sciogliamo e mettiamo modestamente a disposizione quel po’ di struttura, esperienza e militanza per ricostruire la sinistra italiana ben al di là del nostro esiguo perimetro», potrebbero dire, anziché rimanere nel feudo e perpetuare il settarismo di cui sopra. Non sarebbe così difficile, in fondo: il volto c’è, ed è quello di Tsipras; il logo pure, quello della “Gue”. In italiano si legge “Sinistra Unitaria Europea”. Non sono tre brutte parole. E’ vero che la “sinistra” italiana è morta, ma permangono alcuni milioni di elettori di sinistra che stabilmente disertano le urne. Cari partitini e movimenti, davvero non interessa?
    (Alessandro Cisilin, “Elezioni 2014, Sinistra Europea occasione italiana?”, da “Megachip” del 7 gennaio 2014).

    «Loro son troppo marxisti. O troppo poco. Troppo massimalisti. O troppo poco. Troppo pacifisti. O troppo poco. Troppo anti-berlusconiani. O troppo poco. Troppo giustizialisti; o troppo poco». Non servono raffinate sociologie per riconoscere la crisi letale della sinistra nella demenza autoreferenziale del suo dibattito interno. Non è un problema solo dell’ultimo quarto di secolo, s’intenda, né solo del nostro paese. Da noi tuttavia il pregresso del più grande partito comunista d’Occidente ha ingigantito quella sindrome autocritica capace di demolire tutto salvo ciò che andava demolito davvero: il proprio settarismo, il prendersela anzitutto con qualche categoria interna di “altri”, di “compagni che sbagliano”. Peccato, perché l’occasione sarebbe a portata di mano, qui e ora, per almeno due ottime ragioni. La prima è che la Sinistra Europea ha lanciato un’eccellente candidatura, quella del giovane ingegnere Alexis Tsipras, leader di Syriza

  • Fusione Chrysler: ci guadagna solo la Fiat, non l’Italia

    Scritto il 20/1/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto «facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti». Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché “Il Sole 24 Ore”, che parla di «successo del sistema Italia». Successo «del tutto relativo», secondo Vincenzo Comito, vista la quasi-estinzione della decantata “italianità” della Fiat: da tempo, un colosso come Fiat Industrial (camion, trattori, ruspe) «veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni». Ora tocca all’auto. «Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaio di posti di lavoro a Torino». Del resto, le vendite e la produzione in Italia sono briciole, mentre il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.
    Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese, scrive Comito sul “Manifesto” in una riflessione ripresa da “Micromega”, il management confermerà per l’Italia un po’ di investimenti per la produzione di alcuni modelli. Il governo ne approfitterà per chiedere almeno notizie sul destino di Mirafiori e Cassino, come degli altri stabilimenti italiani? A prima vista, i gestori delle “larghe intese” sembrano «occupati in ben più importanti faccende». In ogni caso, oltre a sviluppare singergie produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat di «mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa», sperando che questo le consenta di investire anche in Italia. «Più che di un successo del sistema Italia – scrive Comito – si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno».
    Quanto alla presunta abilità negoziale di Marchionne, il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre il manager Fiat aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. «Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana». Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda torinese dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo. Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore. «Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni».
    Il gruppo resta forte in Brasile e resiste negli Usa, mentre è assente nel mercato più importante del mondo – l’Asia – e anche in Russia, area che diventerà la prima in Europa, scavalcando la Germania. La gamma di fascia alta include l’Alfa Romeo e soprattutto la Maserati, la cui proiezione parla di 50.000 vetture l’anno, mentre Mercedes, Bmw e Audi veleggiano ormai su milioni di unità. Nella fascia mediana reggono i pick-up della Crhysler (che però fatica sulle berline), mentre nella fascia bassa la Fiat presidia il mercato con pochissimi modelli, come la Panda e la Cinquecento. Per farcela, secondo Comito, Fiat-Chrysler dovrebbe cercare un alleato strategico in Asia, altrimenti «la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni», a partire dal 2014 che si annuncia «molto movimentato per i lavoratori del gruppo».

    L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto «facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti». Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché “Il Sole 24 Ore”, che parla di «successo del sistema Italia». Successo «del tutto relativo», secondo Vincenzo Comito, vista la quasi-estinzione della decantata “italianità” della Fiat: da tempo, un colosso come Fiat Industrial (camion, trattori, ruspe) «veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni». Ora tocca all’auto. «Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaio di posti di lavoro a Torino». Del resto, le vendite e la produzione in Italia sono briciole, mentre il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.

  • Gallino: i partiti vogliono neoliberismo, non democrazia

    Scritto il 19/12/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.
    I sindacati hanno capito come contrastare questa strategia? Non mi pare si sia fatto abbastanza. Lo sciopero è storicamente nato per recare danno ad un’impresa. Con la gravissima crisi in cui sprofonda l’Europa (e il mondo intero) è paradossale constatare che questa astensione conviene alle imprese che soffrono di un eccesso di capacità produttiva. Questa concomitanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione politica contro i sindacati che nel nostro paese reggono ancora in qualche modo, mentre in altri paesi le iscrizioni sono crollate. Ciò non toglie che i sindacati abbiano responsabilità non da poco nella loro difficolta a chiamare a raccolta i lavoratori. Scioperi come quelli auto-organizzati dai tramvieri a Genova hanno avuto un obiettivo specifico e importante: cercare di interrompere la folle corsa verso la privatizzazione, per modificare le politiche gestionali o per fare cassa, come è accaduto anche a Torino. Genova ha richiamato una notevole attenzione, anche se non mi pare abbia influito sul governo, il cui chiodo fisso è privatizzare.
    Contrapporsi oggi alle privatizzazioni significa battersi contro una forma di lotta politica che la classe dirigente del nostro paese conduce contro i beni pubblici, i beni comuni e la possibilità di partecipare in qualche modo alle decisioni politiche. In queste lotte, non mi pare che la Cgil abbia battuto con forza il pugno sul tavolo. Oggi non c’è più la domanda aggregata: anche per questo lo sciopero diventa un’arma spuntata. Nel frattempo, sembra definitivamente saltato il classico legame tra partito e sindacato, tra Cgil e Pd. Già ai tempi di Cofferati c’erano problemi, figuriamoci adesso che il rapporto è evanescente, visto che per quello che si sa, le proposte economiche e sul lavoro di Renzi vanno in direzione di un ulteriore allontanamento. Quel po’ di sinistra che esisteva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cambiamenti si sia ridotta ulteriormente. Il sindacato, parlo soprattutto della Cgil, ha bisogno di un partito a cui appoggiarsi. Se non c’è un riferimento culturale o politico, si ritrova solo. Con la segreteria di Renzi quel po’ di sostegno che nonostante tutto c’era nel Pd scenderà ulteriormente.
    Le lotte contro le grandi opere e per i beni comuni? Servono, figuriamoci. In più abbiamo la necessità di pensare a migliaia di piccole opere per ridare un certo pregio alle cose che sono degenerate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimensione strutturale del capitalismo non c’è o è molto pallida. Queste lotte hanno un’utilità per certi scopi specifici, come si è visto con il referendum sull’acqua, anche se poi i Comuni se ne sono infischiati. Lo si è visto nello sciopero dei trasporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Bisogna però chiedersi perché i politici insistono per dare sempre più spazio alla vulgata neoliberale. Ci sono eccezioni, ma la maggioranza dei Comuni è dominata dall’ideologia neoliberale che domina nel governo e nei partiti politici, nessuno escluso, o quasi. Dunque, insieme alla ricerca di forme di protesta alternative bisogna partire da una battaglia culturale che contrasti l’ideologia dominante.
    (Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a “Il Manifesto” per l’intervista “Se lo sciopero non basta più”, ripresa da “Megachip” il 12 dicembre 2013).

    Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.

  • Revelli: in piazza l’ex ceto medio rovinato dalla crisi

    Scritto il 16/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ceto medio impoverito: indebitati, esodati, falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni e costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori e “padroncini” con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla. E ancora: disoccupati, ex muratori e manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite Iva divenute insostenibili. E precari, naturalmente: lavoratori non rinnovati per colpa della riforma Fornero ed espulsi dai cantieri e dalle piccole aziende chiuse. Così Marco Revelli legge il “popolo” sceso in piazza, nella protesta spontanea che i media hanno chiamato “dei forconi”. Le riconosci dai vestiti, dall’espressione, dal modo di muoversi: sono «le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova». Sono le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, «fino a un paio di anni fa ancora sottili», ma oggi «in rapida, forse vertiginosa espansione».
    Unica frase ripetuta: non ce la facciamo più. Folla in emergenza, annota Revelli sul “Manifesto” in un intervento ripreso da “Micromega”. Connotato comune: «Una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità-ostilità alla politica». Nient’altro che «un pezzo di società disgregata», straziata dalla crisi. La domanda vera? E’ chiedersi perché si è materializzato questo popolo, fino a ieri invisibile. Epicentro della protesta è Torino, capitale italiana degli sfratti per “morosità incolpevole”, cioè impossibilità di pagare l’affitto: 4.000 provvedimenti esecutivi solo nel 2012, il 30% in più rispetto all’anno precedente, mentre altri 1.000 sono già in arrivo. “Maglia nera”, il capoluogo piemontese, anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno in città hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) mentre in provincia hanno sprangato 626 esercizi, di cui 344 tra bar e ristoranti). E altri 1.500 esercizi erano “morti” l’anno prima. Altra strage per le piccole imprese, 16.000 scomparse nell’ultimo anno.
    Letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, scrive Revelli, a franare è la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della sub­fornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa. «Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto». La protesta nelle piazze? “Brutta e cattiva”, perché «la povertà non è mai serena». Eppure, questa rabbia è «più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie o nei talk show televisivi».

    Ceto medio impoverito: indebitati, esodati, falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni e costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori e “padroncini” con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla. E ancora: disoccupati, ex muratori e manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite Iva divenute insostenibili. E precari, naturalmente: lavoratori non rinnovati per colpa della riforma Fornero ed espulsi dai cantieri e dalle piccole aziende chiuse. Così Marco Revelli legge il “popolo” sceso in piazza, nella protesta spontanea che i media hanno chiamato “dei forconi”. Le riconosci dai vestiti, dall’espressione, dal modo di muoversi: sono «le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova». Sono le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, «fino a un paio di anni fa ancora sottili», ma oggi «in rapida, forse vertiginosa espansione».

  • Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo

    Scritto il 30/11/13 • nella Categoria: Recensioni • (3)

    Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
    Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.
    A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.
    Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».
    Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.
    (Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).

    Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.

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