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Archivio del Tag ‘India’

  • Ribellarsi all’Europa, reportage finanziato dai lettori

    Scritto il 02/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che  minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».
    Non mancano gli euro-rassegnati come Tonio, «convinto che, senza l’Europa, pur con alcuni errori, staremmo molto peggio». Il rimedio? «Imparare a saper spendere meglio e di più i fondi europei assegnatici». Senza contare che «l’Europa ci ha garantito circa 70 anni di pace, dopo le 2 terribili e atroci guerre mondiali con milioni di morti». Per Alessandro, quella di Tonio è una nota «banalissima», peraltro «propagandata da coloro che ci vogliono tenere incatenati all’euro». Gli eurocrati italiani? «Vogliono finire di distruggere il fior fiore dell’industria che hanno ereditato, nel settore energetico, produttivo, sanitario, scolastico, abitatativo, pensionistico, innovativo che aveva l’Italia». La pensa così anche Gianmario: «Credo che tutti gli uomini di buona volontà che amano la libertà, non debbano sottrarsi dal combattere, con qualsiasi mezzo, questa politica europea che ci porterà a una disastrosa rovina. Pensate agli ultimi gravi eventi che questi pagliacci, includendo Obama, hanno ispirato e realizzato: sto parlando della Libia, delle primavere arabe, della Siria e ora della questione Ucraina. Lo avete visto Kerry, il pollo americano, correre a riconoscere il governo fantoccio messo su dalla Ue? Dobbiamo fermarli!».
    «L’Europa – fa eco Cosimo – risponde a “Capitan America” con un film mozzafiato, “L’impero s’è desto”, ambientato nel 2058: il conflitto mondiale tra gli alleati (Usa, Gb, Canada e Australia) contro i confederati (Cina, India e l’Eurussia)», cioè «il grande impero dove non tramonta mai il sole, che si estende dall’Atlantico al Pacifico, fondato dalle nuove generazioni dalle ceneri della vecchia Unione Europea che non seppe soddisfare le aspettative economiche e democratiche». I lettori dimostrano di capire cosa significhi l’euro-rovina nel bel mezzo delle tensioni mondiali Usa-Russia, con sullo sfondo la Cina e le emergenze economiche, climatiche, energentiche. Nel fanta-film geopolitico di Cosimo, la nuova guerra sarebbe scoppiata «perché gli Usa, dopo aver stabilito il controllo sulle risorse energetiche siberiane, del Medio Oriente e quelle minerarie dell’Africa, vogliono accaparrarsi anche lo sfruttamento del sistema delle piogge monsoniche a ridosso dell’Himalaya, che rappresenta ormai l’unica grande riserva di acqua potabile». Torna a bomba Andrea Pacini: «L’ Europa così come noi l’abbiamo vista nascere non esiste più, lo spirito della sua nascita si è dissolto».
    «E’ desolante e sconfortante – aggiunge Andrea – vedere come il genuino impegno di uomini politici d’altri tempi si sia vanificato, dissolto davanti a interessi che, più che di semplice natura economica, definirei di depravato potere economico che non guarda in faccia a nessuno». Le conseguenze? «Sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo veramente bisogno di questa Europa genuflessa ai grandi poteri, sopratutto di oltreoceano?». Risponde, nel modo più diretto possibile, Dimitriye Popovic: quale Europa, scusate? «E’ tutto ancora come prima, per l’uomo che lavora per sostenere la propria famiglia». Storia personale: «Non mi è entrato in tasca un bel nulla, anzi le tasche me l’hanno svuotate». Adesso non si fanno più guerre? «Con le armi no, ma c’è una guerra più cruenta che fa morti bianche: forse, allora, è meglio morire traffitti da una palla di piombo». E, detto per inciso alla redazione del “Giornale” che lancia il crowdfunding per il reportage sulla rivolta contro gli euro-orrori,  Dimitriye quasi si scusa: «Non posso contribuire, perchè non ho una carta di credito».

    Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che  minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».

  • Halevi: liquidare il Pd e l’euro-regime che taglia i salari

    Scritto il 28/4/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.
    Per poter permettere l’uscita soltanto dall’Ume sarebbe stato necessario includere nei Trattati una separazione tra Eurozona e Ue – cosa che non c’è, come non c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’unione monetaria. In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito disponibile secondo l’ultimo “economic outlook” dell’Ocse – è crollato per via della crisi aggravata dalle politiche di austerità, e quindi per via del connesso calo degli investimenti. Non si può tornare a Keynes, perché a Keynes non ci si è mai arrivati se non attraverso il “keynesismo militare” del periodo 1947-71 o forse ‘47-74. Infine, con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale attiva, finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la presidenza Usa non ha mai posto un veto alle proposte di espansione della spesa federale inoltrate dai repubblicani.
    Tutte queste spese hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa pubblica, e più mercato sono sbagliate. C’è stato più Stato e più capitale privato. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del mercato. Invece, per molti versi organismi statuali insindacabili (come quelli dell’Ue) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici, intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti.
    Infine si è dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e stagnazione dei salari, negli Usa prima e progressivamente anche in Europa, che ha spinto le famiglie a indebitarsi. Credo che la dinamica sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari, hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e – cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali. Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali – prima verso il Messico e poi massicciamente verso la Cina – sono andate di pari passo con l’indebolimento salariale e sindacale, che sono stati gli strumenti sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni.
    In parole povere: non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non fossero stati già in crisi profonda, tale da non poter offrire grande resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha controbilanciato la stagnazione salariale. È andato molto più in avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle classi di reddito più basse, che altrimenti non avrebbero potuto accedere ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli Usa è stata sostenuta la domanda effettiva mondiale: tramite le delocalizzazioni e con le conseguenti importazioni dal resto del mondo.
    A ben guardare, i paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno di questo nome sono Cina, India, Usa e pochi altri. Negli Usa il tasso di crescita pro capite è stato moderato, ma quello aggregato – che include l’aumento di popolazione – è stato maggiore che in Europa o Giappone. Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa sull’integrazione dei due aspetti, al punto che è impossibile fare delle distinzioni. A Keynes non si può ritornare perché non ci si è mai arrivati, né ci si arriverà. Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista americana “The New Republic” nel 1940. Keynes sostenne che le democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato, ma grazie al pilastro rappresentato dal keynesismo miltare.
    Oggi non è questione di andare oltre Keynes né di ritornarci, dato che le probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle politiche dette keynesiane si allontana sempre di più, a meno che non sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli Usa che l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali; mentre il lavoro dipendente, il precariato e i disoccupati non hanno espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front National in Francia. Ritorno ai cambi flessibili? L’horror story dell’euro non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. A mio avviso su questo terreno ha valore l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e protezionismo. Né l’uno né l’altro, sostenne Lenin, bensì monopolio statale sul commercio estero.
    Precaria la precaria posizione dei sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti e imboscati nei meandri della politica. Però sono necessari: senza di loro, come argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la schiavitù. Comunque, se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le corna: organizzare lotte con idee chiare in testa. Cioè la socializzazione pianificata degli investimenti e, necessariamente, per delle politiche monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali condizioni deve passare per una radicale trasformazione della Cgil e per la dissoluzione del Pd. I nuovi quadri dovranno inoltre essere altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso. Impossibile.
    (Joseph Halevi, estratti dall’intervista realizzata da “EuroTruffa” e ripresa da “Megachip”. Economista dell’università di Sydney, Halevi è autore con Riccardo Bellofiore del saggio “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”).

    Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia, la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania. L’euro ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. È questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale europeo. Se non fosse per quest’aspetto, l’euro sarebbe già saltato per reazione del resto dei paesi dell’Eurozona alle azioni unilaterali della Francia e della Germania, come ad esempio l’annuncio di Parigi e Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di Maastricht. E infatti Olanda e Austria protestarono, ma Francia e Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta, ovviamente. Purtroppo non si può uscire dall’unione monetaria se non si esce anche dall’Ue.

  • Caro Michele Serra, non sono i No-Tav i ladri del 25 Aprile

    Scritto il 26/4/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.
    Una verità consolidata quanto comoda, secondo cui l’ultima fu una unificante e corale lotta di un intero popolo contro un manipolo di feroci ma minoritari fascisti rimasti fedeli agli “invasori” nazisti, quindi in quanto tali alieni… Serra non è notoriamente un frequentatore del nostro “cortile”. Se lo invitassimo ad una delle nostre serate non verrebbe di sicuro, per timore di restar contagiato dal virus incurabile che ha aggredito Erri De Luca. Ma è un peccato (per lui, s’intende): intanto perché, restando appollaiato nella sua Milanodabere (& prossimamente da mangiare, grazie all’Expo) non può ritenersi al riparo dalla propagazione di una epidemia che ha dimostrato di poter colpire a distanza come è successo – ad esempio – al suo “ex collega”  Stefano Benni. Ma soprattutto perché, se avesse frequentato anche solo i “nostri” tre giorni a cavallo del sessantanovesimo anniversario della Liberazione, avrebbe faticato a trovare un rassicurante confine all’invasività (benefica) del nostro cortile: cimentarsi in un elenco è quanto di più temerario perché si rischia di riempire pagine senza garantirsi di non incorrere in gravi dimenticanze.
    Provo allora con alcuni esempi di iniziative particolarmente significative, anche per il forte valore simbolico che hanno avuto, suggerendo al famoso corsivista erede di Fortebraccio alcuni spunti che avrebbe potuto trarne, perché la sua vena non abbia prima o poi ad esaurirsi (con irreparibili conseguenze, visto l’impegnativo modo che ha scelto per guadagnarsi il pane): fosse stato a Bussoleno – alla Libreria del Sole – il pomeriggio del 24 avrebbe potuto ascoltare una antagonista NoTav come Ermelinda Varrese leggere alcune pagine del diario partigiano di Ada Gobetti.Una lettura attenta e sensibile nel sottolinearne l’umanità e la tolleranza che fecero di lei (che fu forse l’unica o una delle poche donne congedata con il grado di maggiore dell’esercito) un raro esempio di chi ha praticato come metodo la disponibilità a capire le ragioni degli altri, anche nei terribili frangenti di una guerra civile! E Gigi Richetto spiegare la contraddizione solo apparente della ostinazione del marito – Piero Gobetti – nel collocare nella rivoluzione liberale di Benedetto Croce e Luigi Einaudi il ruolo della classe operaia di Antonio Gramsci! E il racconto lucido, “didattico” di Ugo Berga, classe 1922, partigiano combattente e commissario politico della 106^ Brigata Garibaldi, che – senza ombra di retorica, né di “appartenenza” – ha spiegato il percorso coerente che portò Ada ad aderire alle formazioni di “Giustizia e Libertà” e la sua capacità di fare causa comune coi “comunisti” sulle nostre montagne.
    Le nostre montagne luogo di confine come le acque che circondano Lampedusa cantate da Giacomo Sferlazzo a Venaus in una continuità ideale con la “filiazione” sul tema migranti che il Valsusa Film Fest – alla sua diciottesima edizione – ha voluto con l’isola più distante dal nostro profondo nordovest, promuovendovi qualche anno fa una rassegna che ormai cammina sulle sue gambe. Un “favore” che i lampedusani hanno voluto quest’anno “restituire” offrendoci il loro apprezzato concerto; e non in una serata qualsiasi, ma al termine della ormai tradizionale fiaccolata in memoria della Resistenza dei sindaci e dei cittadini di valle che Piera Favro, sindaco di Mompantero, Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus e Sandro Plano, presidente di una Comunità Montana sciolta dall’uomo dalle mutande verdi, ma più unita che mai, hanno chiuso con un saluto a quattro ragazzi che – in attesa che le gravissime accuse a loro carico vengano provate – stanno scontando mesi di carcere duro e preventivo.
    Le nostre montagne avvolte da nuvole cariche di pioggia anche nel pomeriggio della ricorrenza, quando le mura che delimitano il cortile in cui Serra ci vorrebbe reclusi sono del tutto svanite per accogliere due alberelli spediti sin qui – il primo a Susa e il secondo a Venaus – rispettivamente da Hiroshima e Nagasaki. Due “esseri viventi” sopravvissuti all’olocausto nucleare “alleato” che Elso, uno dei partigiani che il brillante editorialista (del giornale fondato dell’ex guf Scalfari) descrive – forse perché non li frequenta – come sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi, ricorda non essere ancora stato “giustificato” neppure su un piano strettamente militare. E lo fa di fronte agli scolari di Venaus che si sono fatti carico di accudire la pianticella di kaki: il “dono”, come spiega con etimologia virtuosa il loro maestro Paolo Bertini, venuto da tanto lontano e non solo per regalarci i suoi frutti dorati – quando sarà divenuto un albero robusto a dispetto della morte totale da cui fu circondato il suo “progenitore”.
    Un albero che Tiziana Volta, pacifista bresciana, ha ormai diffuso in tanti luoghi-simbolo del nostro paese e il cui percorso verso la Valle di Susa, come ha ricordato, è iniziato timidamente e in punta di piedi oltre due anni fa. Una pianta cui farà compagnia una scultura di Daniela Baldo. Un “fiore dell’acqua” realizzato non per caso in legno – un antico trave proveniente dal tetto di una vecchia casa – che è stato scolpito e decorato con la collaborazione degli stessi scolari. Un venticinque aprile che si è chiuso idealmente il giorno dopo a Villar Focchiardo con la consegna, alle madri-coraggio della Terra dei Fuochi, del premio intitolato al partigiano Bruno Carli, primo orgoglioso presidente del Valsusa Film Fest, voluto proprio per collegare memoria storica e difesa della terra. Con buona pace del Serra “distante” che – dolcemente cullato dal dondolio della sua amaca – pare non essersi accorto di chi della Resistenza ha fatto e fa continuamente un uso ben più spregiudicato di quello che lui addebita ai “movimenti: quello di chi, per esempio, dopo averci costruito una carriera politica “ricca” e longeva è arrivato, quest’anno, quasi a paragonarne gli eroi rimasti uccisi e a cui dobbiamo la libertà, a due uccisori che – arruolati in difesa di una nave mercantile –  hanno scambiato pescatori per pirati al largo delle coste di un oceano ben lontano dal “mare nostrum”.
    Forse per collocarsi nel solco inaugurato da un suo – sin qui – mancato delfino (il più fedele dei suoi “saggi”) che fu capace di inventarsi, disinteressatamente in pieno ventennio berlusconiano, una pari dignità tra i morti partigiani e quelli repubblichini. Né pare essersi indignato, il graffiante opinionista, per “l’uscita” del prefetto di Pordenone che ha ritenuto,  prima di una retromarcia quasi più indecorosa del suo stesso editto, cagionevole per l’ordine pubblico e la sicurezza che si intonasse “Bella ciao” durante la manifestazione in ricordo della Resistenza! Perché la resistenza, caro Serra, è stata e resta sanamente divisiva. L’unità è una necessità, ma non è detto che sia una virtù. Perlomeno fin tanto che chi stette dalla parte sbagliata non ha l’onestà e la dignità di ammetterlo. Ma forse i grandi giornali non sono il luogo migliore per farsene una ragione. Perché sono luoghi molto più angusti del più piccolo dei cortili.
    (Claudio Giorno, “(25) aprile, dolce dormire”, dal blog di Giorno del 26 aprile 2014).

    Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.

  • Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia

    Scritto il 22/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
    Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.
    Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.
    In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e  dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.
    Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).
    Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.
    Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).
    Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.
    (Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).

    Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.

  • Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro

    Scritto il 26/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
    Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.
    «Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.
    «Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.
    «E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.

    La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.

  • Banca Mondiale e maxi-dighe, ma l’Africa resta al buio

    Scritto il 22/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.
    Già dal luglio 2013 la Banca Mondiale ha adottato un nuovo programma energetico che prevede appunto di aumentare i prestiti ai grandi progetti idroelettrici e ai gasdotti. Ha finanziato più di 600 grandi dighe in 60 anni e supporta attualmente 150 progetti in corso nel settore idroelettrico. La metà di essi sono in Africa e nel Sudest Asiatico. Questi progetti sono tuttavia meno colossali rispetto alla prossima generazione di opera che si preannuncia.
    Un esempio è costituito dalle dighe Inga 1 e 2 costruite sul fiume Congo. Dopo che un gruppo di finanziatori ha speso miliardi in questi progetti, l’85% dell’elettricità della Repubblica Democratica del Congo è destinata a grandi industrie forti consumatrici di energia e… alla popolazione urbana!  Mentre meno del 10% della popolazione delle zone rurali ha accesso all’elettricità.
    La Banca ha scelto nel luglio 2013 di finanziare il progetto Inga 3 sempre sul fiume Congo per 12 miliardi di dollari, il più costoso mai proposto in Africa, oltre a due progetti di parecchi miliardi sullo Zambesi. Queste tre opere dovrebbero servire a produrre elettricità per le compagnie minerarie e i consumatori delle classi abbienti dell’Africa del Sud. Le Ong che lavorano sulla dipendenza energetica sono allarmate per questa scelta, fatta in uno dei paesi più poveri e più corrotti dell’Africa. I progetti Inga 1 e 2 non hanno portato alcuno sviluppo economico, ma hanno aumentato il peso del debito e in un periodo di fragilità idrogeologica le grandi dighe aumenteranno la vulnerabilità climatica dei paesi poveri.
    A chi paventa e prevede disastri ecologici e tragedie umane per le popolazioni private di terra e sostentamento e costrette a sfollare, la Bm si difende. «Non si tratta più delle dighe dei vostri nonni», ha detto infatti Julia Bucknall, responsabile del settore idrogeologico dell’istituto internazionale. Cosa cambia rispetto alle dighe “dei nostri nonni”? Soltanto il fatto che vengono pubblicati miriadi di rapporti sull’impatto ambientale che, così come le dighe stesse, verranno addebitati ai paesi che ne “beneficiano”, il cui debito aumenterà e con esso la loro dipendenza dalle grandi industrie e istituzioni finanziare occidentali. La diga Lom Pangar in Camerun è un esempio di medio progetto finanziato dalla Banca. Inonderà 30.000 ettari di foresta tropicale tra cui il parco nazionale Deng Deng, un rifugio per gorilla, scimpanzè e altre specie minacciate. Il progetto è destinato ad alimentare un’industria di alluminio, che consuma già la maggior parte di energia del Camerun. E tutto quell’alluminio non serve di certo al Camerun. Magari servirà per le lattine delle nostre bibite.
    Soluzioni migliori esistono già. In questi ultimi dieci anni a livello mondiale i governi e gli investitori privati hanno prodotto più energia dall’eolico che dalle dighe. Anche il solare ha reso più degli investimenti idroelettrici. Queste due fonti di energia sono più efficaci delle dighe per rifornire l’Africa sub sahariana. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha dimostrato che l’elettrificazione in rete ottenuta dai grandi progetti idroelettrici non è efficace per le zone rurali, che non sono densamente popolate. Sono efficaci invece le energie rinnovabili e decentrate. Queste presenterebbero il triplo beneficio di aumentare l’accesso all’energia, proteggere l’ambiente e non incentivare il cambiamento climatico. L’Agenzia raccomanda che più del 60% dei fondi siano investiti nelle energie rinnovabili. Ma la Banca Mondiale tra il 2007 e il 2012 ha accordato 5,4 miliardi di dollari per le dighe contro  2 miliardi complessivi per eolico e solare. Il programma si concentra sempre su progetti di grandi opere idrauliche. Ne sorgeranno anche in Nepal, nella fragile regione dell’Himalaya, con l’obiettivo di esportare l’energia in India.
    E in Italia? Il nostro territorio fortemente antropizzato non consente di realizzare progetti di grande portata ed è ormai finita l’era delle dighe che, complice lo sviluppo industriale ed economico, sono state realizzate in gran parte dagli anni 50’ alla fine degli anni 90’. Ma se nel nostro paese non ci sono più vallate e fiumi da sfruttare in maniera massiccia, le aziende del settore non stanno con le mani in mano. Infatti Enel collabora nella costruzione di grandi dighe nel mondo a discapito di popoli indigeni e di patrimoni naturalistici, come nel caso degli enormi impianti da realizzare in Cile e in Guatemala. Se l’acqua è un diritto per tutti i cittadini del mondo, ne consegue che nessuno dovrebbe avere il diritto  di sciuparla, deviarla, imbrigliarla nel nome del profitto monetario ed energetico; ma si sa, in questi tempi di globalizzazione i diritti degli alberi, dei popoli primitivi e dei fiumi sono sempre meno considerati, soprattutto da istituzioni il cui scopo è salvaguardare e incrementare ad ogni costo i profitti dei potenti, come la Banca Mondiale.
    (Martino Danielli, “Alla Banca Mondiale piacciono le grandi dighe”, da “Il Cambiamento” del 5 marzo 2014).

    La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.

  • Col Ttip gli Usa ci arruolano nella guerra contro la Cina

    Scritto il 19/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del  Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.
    Lo scopo del trattato che Washington e Bruxelles stanno mettendo a punto, lontano dai riflettori e con “l’assistenza” di 600 super-lobbysti, è quello di creare la maggiore zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. L’area formata da Usa ed Europa rappresenta quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale e un terzo del commercio mondiale. L’Ue è la principale economia del mondo, ricorda Ramonet in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: i suoi 500 milioni di abitanti dispongono in media, pro capite, di 25.000 euro di entrate all’anno. «Ciò significa che l’Ue è il maggior mercato mondiale e il principale importatore di manufatti e di servizi, dispone del maggiore volume di investimenti all’estero ed è il principale ricettore planetario di investimenti stranieri». L’Unione Europea è anche il primo investitore negli Usa, la seconda destinazione dell’esportazione statunitense e il maggior mercato per l’esportazione statunitense di servizi.
    La bilancia commerciale dei beni destina alla Ue un attivo di 76.300 milioni di euro; e quella dei servizi, un deficit di 3.400 milioni. Gli investimenti diretti dell’Ue negli Usa, viceversa, si aggirano sui 1.200 miliardi di euro. Washington e Bruxelles vorrebbero chiudere il trattato Ttip in meno di due anni, prima che scada il mandato del presidente Barack Obama. «Perché tanta fretta? Perché, per Washington, questo accordo ha un carattere geostrategico. Costituisce un’arma decisiva di fronte all’irresistibile crescita della potenza cinese», accompagnata da quella degli altri Brics, ovvero Brasile, Russia, India e Sudafrica. «Bisogna precisare che tra il 2000 e il 2008 il commercio internazionale della Cina si è più che quadruplicato: le sue esportazioni sono aumentate del 474% e le importazioni del 403%. Conseguenze? Gli Stati Uniti hanno perso la loro leadership come prima potenza commerciale del mondo che ostentavano da un secolo». Prima della crisi finanziaria del 2008, gli Usa erano il socio commerciale più importante per 127 Stati del mondo; la Cina lo era solo per 70 paesi. Questo bilancio si è invertito: oggi, la Cina è il socio commerciale più importante per 124 Stati, mentre gli Usa solo per 76.
    «Pechino, al massimo in dieci anni, potrebbe fare della sua moneta, lo yuan, l’altra grande divisa dell’interscambio internazionale e minacciare la supremazia del dollaro», spiega Ramonet. «È anche sempre più chiaro che le esportazioni cinesi non sono solo più di bassa qualità a prezzi accessibili grazie alla sua manodopera conveniente. L’obiettivo di Pechino è alzare il livello tecnologico della sua produzione e dei suoi servizi per essere leader domani anche nei settori (informatica, finanza, aereonautica, telefonia, ecologia) che gli Usa e altre potenze tecnologiche occidentali pensavano di poter preservare». Per tutte queste ragioni, ed essenzialmente per evitare che la Cina diventi la prima potenza mondiale, Washington desidera «blindare grandi zone di libero scambio dove i prodotti di Pechino avrebbero difficile accesso». Lo si sta facendo anche nel Pacifico, con un trattato gemello come la Tpp, Trans-Pacific Partnership.
    Tema cruciale, ma escluso dall’agenda-news dei grandi media: i cittadini “non devono sapere”, in modo che i tecnocrati di Bruxelles possano procedere indisturbati, cioè in modo opaco e non democratico, obbedendo ai “consigli” delle più grandi multinazionali del pianeta. Obiettivo finale: abbattere tutti i vincoli che oggi in Europa tutelano i consumatori, esponendo gli Stati al rischio di pesantissime penali – inflitte da tribunali speciali formati da legali d’affari – nel caso in cui le grandi compagnie accusassero i governi di “ostacolare il business” difendendo i lavoratori, l’ambiente, la salute pubblica, la sicurezza alimentare, la sopravvivenza di servizi non privatizzati. Pia Eberhardt, della Ong “Corporate Europe Observatory”, denuncia che i negoziati si sono tenuti senza alcuna trasparenza democratica: con la Commissione Europea solo impresari e lobby, esclusi tutti gli altri: giornalisti, ambientalisti, sindacati, organizzazioni per la difesa del consumatore. Un grande pericolo, denuncia Eberhardt, viene «dagli alimenti non sicuri importati dagli Usa, che potrebbero essere transgenici, o i polli disinfettati con cloro, procedimento proibito in Europa».
    Altri critici temono le conseguenze del Ttip in materia di educazione e conoscenza scientifica, inclusi i diritti intellettuali. In questo senso, la Francia, per proteggere il suo importante settore audiovisivo, ha già imposto una “eccezione culturale”, in modo che l’industria della cultura francese sia esclusa dal trattato. «Varie organizzazioni sindacali – continua Ramonet – avvertono che, senza dubbio, l’Accordo Transatlantico sprofonderà nei tagli sociali, nella riduzione dei salari, e distruggerà l’impiego in diversi settori industriali (elettronica, comunicazione, attrezzature dei trasporti, metallurgia, carta, servizi per le imprese) e agrari (pastorizia, agrocombustibili, zucchero)». Gli ecologisti europei spiegano inoltre che il Ttip, eliminando il principio di precauzione, potrebbe facilitare l’eliminazione di normative per la difesa dell’ambiente o di sicurezza alimentare e sanitaria.
    Alcune Ong ambientaliste temono che anche in Europa si incominci a introdurre il fracking, ossia l’uso di sostanze chimiche pericolose per le falde acquifere, per poter sfruttare il gas e il petrolio di scisto. Il maggior pericolo del Trattato Transatlantico resta il capitolo sulla “protezione degli investimenti”, che metterebbe fine alla residua sovranità degli Stati, costretti a piegarsi per non pagare sanzioni esorbitanti, inflitte per il “reato” di “limitazione dei profitti”. «Per il Ttip i cittadini non esistono», conclude l’analista di “Le Monde Diplomatique”: «Ci sono solo consumatori e questi appartengono alle imprese private che controllano i mercati. La sfida è immensa. La volontà civica di fermare il Ttip non deve essere da meno».

    Tra un paio d’anni potrebbe crollare il nostro attuale sistema democratico, se il potere supremo dovesse passare direttamente alle grandi multunazionali grazie all’approvazione del  Ttip, il Trattato Transatlantico destinato a lasciare al business l’ultima parola su lavoro, salute, sicurezza alimentare, acqua e beni comuni. Su “Le Monde Diplomatique”, Ignacio Ramonet rilancia l’allarme: quel trattato super-segreto fa paura, perché rivela la volontà degli Usa di trascinare l’Europa nello scontro geopolitico con la Cina. Il vero obiettivo dell’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, infatti, è fermare l’inesorabile avanzata di Pechino, che sta clamorosamente ridimensionando la leadership mondiale di Washington: tra una decina d’anni, al massimo, lo yuan potrebbe definitivamente scalzare il dollaro come valuta di scambio internazionale, mettendo fine a cent’anni di egemonia statunitense.

  • Brown: saremo 9 miliardi, grano e riso non ci basteranno

    Scritto il 03/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.
    «Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo», scrive Andrea Bertaglio su “La Stampa”, in un articolo che gli è valso il premio “Rendi l’informazione + Sostenibile”, al forum WiGreen di Milano. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono finiti», fa presente Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per aver sviluppato diversi “Piani-B” per salvare il pianeta. L’agricoltura sta frenando: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti. Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico: in India, paese che cresce ogni anno di 18 milioni di abitanti, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Un discorso, aggiunge Bertaglio, che ovviamente «vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina».
    In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività. La Fao sembra dar ragione a Knight: secondo il suo ultimo rapporto trimestrale, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 sarebbe aumentata di circa il 7% rispetto all’anno precedente, portando la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però Brown, preoccupato per la “scarsità” che ci attende: limitate risorse idriche, consumo di suolo, rese in calo e instabilità crescente dovuta al global warming.
    Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Ogm. La pensano così il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. «Nonostante i massicci sforzi, però – rileva Bertaglio – i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana». Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari, che dilagano nonostante la crisi. «Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati Fao, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone».

    Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.

  • Forze speciali: la guerra segreta di Obama in 134 paesi

    Scritto il 24/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».
    All’epoca di George W. Bush, le forze speciali statunitensi dislocate in “appena” 60 paesi, saliti poi a 75 nel 2010, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del “Washington Post”. Per arrivare poi a proiettarsi in 120 nazioni nel 2011, come annunciato dal colonnello Tim Nye, portavoce del Socom, il Comando Operazioni Speciali. «Questa cifra oggi è già obsoleta», scrive Turse in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Nel 2013, le forze d’élite Usa erano dislocate in 134 paesi, secondo il colonnello Robert Bockholt ». Questo aumento del 123% durante l’amministrazione Obama «dimostra come, in aggiunta ai conflitti decennali convenzionali, alla campagna dei droni svolta dalla Cia, alla diplomazia e all’esteso controllo della cybersfera, l’America ha lanciato un ulteriore forma significativa di controllo nei paesi esteri». Una strategia «condotta per lo più con missioni-ombra svolte dalle forze d’elite», l’operazione «rimane per lo più sconosciuta ai media ed a ogni forma di controllo», proteggendo la Casa Bianca dalle ripercussioni di «conseguenze spesso catastrofiche e imprevedibili».
    Prima limitato a 32.000 unità, dopo l’11 Settembre il raggruppamento delle forze speciali è cresciuto in modo esponenziale, raggiungendo quota 72.000 soldati. Idem il costo: da 2,3 miliardi di dollari agli attuali 6,9 miliardi. Secondo ricerche di Tim Dispatch, nel biennio 2012-2013 le operazioni speciali si sono estese a 106 nazioni. Il comando Socom non chiarisce i dettagli sull’impiego di Berretti Verdi, Rangers, Navy Seals e Delta Force, ma alla fine ammette che sono ora impegnati in 134 paesi, in tutto il mondo. Il Pentagono sta «aumentando la propria rete globale», conferma l’ammiraglio William Mc Raven, collaborando con partner stranieri per «prevenire possibili minacce» ma anche «cogliere opportunità». Operativamente, «la rete rende possibile la presenza di piccole unità in posizioni critiche e ne facilita l’azione ove necessario o appropriato». L’aumento del 12% dei dispiegamenti – da 120 a 134 durante la gestione Mc Raven – secondo Turse rivela l’ambizione di «acquisire posizioni strategiche in ogni parte del pianeta», sia pure al riparo dall’opinione pubblica, che di fatto non è informata delle missioni segrete.
    Addestramenti a Gibuti, in Malawi e alle Seychelles. Poi la “guerra simulata” dei Navy Seals nel porto di Aqaba, in Giordania, insieme a unità irachene, giordane e libanesi. Nel luglio 2013, i Berretti Verdi si sono spostati a Trinidad e Tobago per addestrare forze locali. Un mese dopo, la stessa unità ha addestrato la marina dell’Honduras sull’uso di esplosivi. E a settembre si è svolta una maxi-esercitazione a Sentul, Java occidentale, coinvolgendo Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, India, Cina e Russia. Molto più scarse, invece, le informazioni sulla guerra “non simulata”: rapimenti di sospetti terroristi in Somalia, raid in Libia e nel Corno d’Africa, operazioni nel Sud Sudan e accanto all’esercito afghano. Non mancano missioni umanitarie, come quella condotta a novembre in soccorso ai sopravissuti dell’uragano Haiyan nelle Filippine. Particolare cura è dedicata alla promozione dell’immagine: propaganda affidata a siti web «su misura per l’utenza straniera» e «fatti in modo da sembrare attendibili punti d’informazione». Il cyber-spazio è anch’esso terra di conquista, da parte del Socom.
    «Anche se il presidente Obama raccolse milioni voti nelle passate elezioni del 2008 con la sua politica di disimpegno – rileva Turse – ha dimostrato di essere un comandante in capo alquanto interventista, le cui politiche hanno già causato innumerevoli di quelle che, nel gergo Cia, vengono definite “blowbacks”», cioè conseguenze inaspettate subite durante un’operazione clandestina di intelligence, che possono «portare violenze random verso forze o popolazioni ritenute amiche». La Casa Bianca ha anche battuto ogni record di Bush sull’impiego di droni: 330 missioni, contro 51. «Solo nello scorso anno gli Usa hanno diretto azioni di combattimento in Afghanistan, Libia, Pakistan, Somalia e Yemen». Di recente, le rivelazioni di Edward Snowden (fonte, Nsa) hanno svelato all’opinione pubblica «la vastità della sorveglianza elettronica, che sotto l’amministrazione del Premio Nobel della Pace ha raggiunto un livello globale».
    Nel frattempo, le “blowbacks” devastano intere regioni: a 10 anni dalla famosa “missione compiuta”, il nuovo Iraq voluto dall’America è in fiamme, in preda ai terroristi di Al-Qaeda schierati contro l’Iran. L’abbattimento di Gheddafi ha destabilizzato il Mali, minacciando anche l’Algeria e provocando «una specie di “diaspora del terrore” in tutta la regione».  E l’odierno Sud Sudan – nazione che gli Usa hanno artificialmente creato e che tuttora sostengono, nonostante l’impiego massiccio di bambini-soldato – viene utilizzato come base Hush-Hush, cioè segretissima, per operazioni speciali. Così, il paese «sta a letteralmente implodendo su stesso e scivolando verso una nuova guerra civile». Tutto questo, senza che gli americani abbiano la più pallida idea di quello che sta davvero avvenendo. Secondo l’ex colonnello Andrew Bacevich, docente all’università di Boston, l’utilizzo sempre più massiccio delle forze speciali «ha ridotto drasticamente la credibilità delle forze armate Usa, posto le basi per una “Presidenza Imperiale” e messo un piedi una guerra senza fine».
    L’utilizzo delle forze speciali per missioni-ombra, aggiunge Turse, «riduce la già sottile differenza fra politica e guerra». Così, sempre più spesso, «le conseguenze di queste operazioni segrete sono impreviste e disastrose». La storia insegna: Osama Bin Laden fu ingaggiato dalla Cia contro i sovietici in Afghanistan, prima di tornare sulla scena come protagonista (mediatico) dell’11 Settembre. «Stranamente, il Pentagono sembra non aver imparato nulla da quella devastante “blowback”», l’attacco alle Torri. Oggi, in Afghanistan e in Pakistan si vivono ancora strascichi da guerra fredda, «con la Cia che, per esempio, compie attacchi missilistici contro la rete Haqqani», network terroristico che, negli anni ‘80, la stessa Cia «aveva rifornito, appunto, di missili». Senza un quadro chiaro del mandato reale di queste forze, conclude Turse, il popolo americano non potrà neppure accorgersi del vero motivo di tanti “ritorni di fiamma”, ritorsioni per azioni “coperte” costate morti e feriti, terrore e sangue. In nome dell’America, forse, ma all’insaputa dei cittadini statunitensi.

    Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».

  • De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra

    Scritto il 23/2/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
    Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».
    Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».
    La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».
    Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».
    Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.
    In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”.  «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».
    La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist  «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».

    Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».

  • Dopo Marx, sarà l’ex terzo mondo a sfidare l’élite

    Scritto il 21/2/14 • nella Categoria: idee • (2)

    “Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.
    Nel blog “Foreign Policy”, Kenny ricorre alla rivisitazione del marxismo: «Nella sua lotta di classe, Marx vide una logica apocalittica. E la battaglia della grande massa contro la piccola plutocrazia aveva una conclusione inevitabile: lavoratori 1, ricchi 0». Marx pensava che l’impulso rivoluzionario proletario fosse soprattutto globale, che le classi lavoratrici sarebbero state unite in tutto il mondo dalla loro comune esperienza di povertà devastante e dall’alienazione della vita in fabbrica. Ragionevole, per l’epoca. Secondo Branko Milanovic, economista della Banca Mondiale, quando nel 1848 fu scritto il “Manifesto” comunista la maggior parte della disuguaglianza del reddito a livello globale dipendeva dalla differenza fra classi su base nazionale. Sebbene alcuni paesi fossero più ricchi di altri, il reddito che poteva rendere un uomo ricco o confinarlo alla povertà in Inghilterra si sarebbe tradotto nella stessa cosa in Francia, negli Stati Uniti e persino in Argentina.
    Ma, mentre la Rivoluzione Industriale prendeva piede, quella parità mutava drammaticamente durante il secolo successivo: una ragione per la quale la predizione di Marx circa una rivoluzione proletaria globale si rivelò errata. Solo pochi anni dopo la pubblicazione del “Manifesto”, i salari dei lavoratori cominciarono a crescere in Inghilterra. La tendenza proseguì nel resto d’Europa e in Nord America, mentre divennero abissali le differenze col resto del mondo: «Centoquarant’anni fa l’africano medio era ricco un quinto del suo compagno inglese. Oggi, vale meno di un decimo». Mentre l’Occidente decollava verso una crescita continua, scrive Kenny in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, le differenze di reddito fra paesi sovrastavano il divario di reddito all’interno dei paesi stessi. Ovvero: «Una segretaria a tempo determinato nell’Est di Londra può ancora avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ma se la mandi a Lagos potrà vivere come una regina». Lo stesso Milanovic stima che il reddito medio del 5% più ricco dell’India equivale a quello del 5% più povero degli Usa.
    I lavoratori municipali di più basso grado in Europa e negli Stati Uniti sono ben più ricchi dei loro omologhi nei paesi poveri in via di sviluppo, e stanno comunque meglio della gran parte degli occupati in quei paesi. Vero, la povera gente in Europa e in America fa parte dell’élite reddituale, secondo gli standard del Sud Asia o dell’Africa. Questo perché «i lavoratori di tutto il mondo non si sono ancora uniti», conclude Kenny. Nel 1920, l’Internazionale Comunista condannò il “tradimento” di molti socialisti europei e americani durante la Prima Guerra Mondiale, quando difesero la madrepatria per camuffare il “diritto” della loro borghesia di schiavizzare le colonie. Per i comunisti, la diffidenza generata nel resto del mondo poteva essere sradicata solo abbattendo l’imperialismo nei paesi avanzati e riscattando l’economia del terzo mondo. Oggi, il colonialismo si chiama globalizzazione. Ma secondo Kenny «è ancora un processo in fase di cambiamento», perché «a mano a mano che i mercati globali diventano sempre più interconnessi, i redditi medi convergono». Dati alla mano, «gli ultimi dieci anni hanno visto i paesi in via di sviluppo crescere molto più rapidamente dei paesi ad alto reddito, diminuendo la differenza fra redditi medi».
    Un altro economista, Arvind Subramanian, prevede che la Cina nel 2030 sarà ricca come l’intera Unione Europea oggi. E lo stesso Brasile non sarà molto indietro, attestandosi a un Pil pro-capite di 31.000 dollari, seguito a breve distanza da paesi come l’Indonesia e la Corea del Sud. «Semplicemente – annota Kenny – questo significa che, nello spazio di una generazione al massimo, una buona porzione del mondo sarà presto ricca, o come minimo solidamente classe media». Secondo le previsioni sviluppate in collaborazione con Sarah Dykstra di “Global Development”, Kenny rileva che circa il 16% della popolazione della Terra vive in paesi tanto ricchi da poter essere considerati dalla Banca Mondiale “ad alto reddito”. Se i tassi di crescita continueranno come nella decade passata, il 41% della popolazione mondiale si troverà entro il 2030 nella fascia “ad alto reddito”. «Quindi, se i paesi in via di sviluppo continueranno a crescere al ritmo che abbiamo visto di recente, la disuguaglianza fra nazioni si ridurrà, e la disuguaglianza all’interno delle nazioni tornerà la componente dominante della disuguaglianza globale».
    Ciò significa che Marx aveva ragione, con due secoli di anticipo? «Non esattamente», sostiene Kenny. «La realtà è che questa nuova classe media avrà una vita che la classe lavoratrice dell’era vittoriana poteva solo sognare. Lavoreranno in negozi e uffici illuminati da led piuttosto che in oscure e infernali fabbriche. E vivranno quasi 40 anni più a lungo della persona media nel 1848, secondo l’aspettativa di vita alla nascita». Ma la vera domanda è: condivideranno la causa con i loro compagni operai che sono ad un oceano di distanza? «Forse, ma non perchè le barricate sono l’unica opzione praticabile. Marx ha predetto che la classe lavoratrice globale si sarebbe unita e ribellata perché ovunque i salari sarebbero stati portati a livelli di sussistenza. Ma, a mano a mano  che i salari crescono e si livellano in tutto il mondo, la brutta situazione del proletariato – lavoro duro, paga bassa – oggi più che mai significa lavoro più semplice e paga migliore».
    Solo in Cina, questo sviluppo sta portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. «Proprio perché il ricco e il povero di Lagos e di Londra si somiglieranno, sarà più probabile nel 2030 un’unione dei lavoratori di tutto il mondo». Mentre la tecnologia e il commercio livellano il campo di gioco e uniscono l’umanità, i previsti 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo potranno capire quanto hanno in comune rispetto alle super-ricche élite dei propri paesi. Secondo Kenny, i nuovi esponenti della mid-class mondiale «faranno pressioni sui governi per collaborare al fine di assicurare che il loro sudore e il loro sangue non arricchiscano troppo una piccola globale élite capitalista, ma siano diffusi più largamente». E magari «lavoreranno per fermare i paradisi fiscali dove i plutocrati del mondo nascondono i loro guadagni, e sosterranno i trattati per prevenire le corse al ribasso sui diritti del lavoro e nelle politiche fiscali pensate e stilate per attrarre le compagnie». Uno stile di vita globale, non solo per i più ricchi. Rivoluzione in vista? «La prossima decade – profetizza Kenny – non vedrà tanto la povertà disperata affrontare la plutocrazia, quanto la classe media riprendersi quanto le spetta».

    “Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.

  • Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro

    Scritto il 15/1/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
    Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.
    Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».
    E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato  – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».
    Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.
    L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).
    La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».
    Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».

    Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.

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