LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘infrastrutture’

  • Escobar: la Nato può solo sognare di battere i missili russi

    Scritto il 10/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Roulette russa. Un gioco pericoloso, soprattuttto per l’Occidente. Perché Mosca è in grado di neutralizzare qualsiasi attacco, anche nucleare, proveniente dagli Usa e dalla Nato. Lo sostiene un osservatore internazionale come Pepe Escobar: il Pil occidentale non potrebbe nulla contro le capacità di difesa dei russi, che al vecchio arsenale atomico sovietico hanno aggiunto armamenti midiciali, capaci di annullare qualsiasi attacco aereo e missilistico. Armi strategiche che verrebbero prontamente impiegate per difendere la Federazione Russa se anche Ucraina e Bielorussia dovessero passare alla Nato, disintegrando l’ultimo residuo diaframma di sicurezza rappresentato dalla “shatterbelt”, zona-cuscinetto che separa «l’aquila tedesca e l’orso russo». Mentre l’élite di Washington e Wall Street preme per far precipitare la crisi fino alla guerra con la Russia, incoraggiata da Kiev, Varsavia e paesi baltici, «gli americani informati si chiedono il motivo per cui gli Usa dovrebbero pagare per la difesa dell’Europa quando il Pil europeo è più grande di quello degli Usa». Specie se la Russia, finora, non ha fatto altro che difendersi. Ma attenzione: quello degli Usa è un bluff.
    «I missili balistici intercontinentali russi armati di testate multiple Mirv viaggiano a una velocità di circa 18 Mach», scrive Escobar in un post ripreso da “Megachip”: quei missili sono «fondamentalmente imbattibili», perché «assai più veloci di qualsiasi cosa presente nell’arsenale Usa». Poi c’è il «doppio guaio» rappresentato dai missili S-400 e S-500: «Mosca ha accettato di vendere il sistema missilistico S-400 terra-aria alla Cina», e questo «renderà Pechino impermeabile alla potenza aeronautica degli Usa, ai loro missili balistici intercontinentali nonché ai missili Cruise». La Russia, da parte sua, si sta già concentrando sugli S-500 di ultimissima generazione, «che sostanzialmente fanno sì che il sistema anti-missile Patriot sembri un V-2 della Seconda Guerra Mondiale». Senza contare il missile russo Iskander, che viaggia a Mach 7, con un raggio di 400 chilometri, e trasporta una testata da 700 chili di diverse varietà, e con una probabilità di errore pari a 5 metri. «Traduzione: un’arma letale finale contro aeroporti e infrastrutture logistiche. L’Iskander può raggiungere obiettivi nel profondo dell’Europa». Quanto al duello aereo, il super-caccia Sukhoi T-50 “Pak Fa”, nuovissimo stealth russo, promette di sovrastare largamente l’F-35.
    «I pagliacci della Nato che sognano una guerra alla Russia», scrive Escobar, dovrebbero giungere ad avere «un sistema ferreo per mettere fuori gioco gli Iskander, ma non ne hanno alcuno». Inoltre, «dovrebbero affrontare gli S-400, che i russi possono distribuire a tutto spettro: pensate a una pesante partita di S-400 posizionati nell’enclave russa di Kaliningrad; essa trasformerebbe le operazioni aeree della Nato in profondità all’interno del’Europa in un incubo assolutamente orrendo». La difesa missilistica russa potrebbe distruggere «centinaia di caccia», a spese di una Ue «già finanziariamente devastata e impestata fino alla morte dall’austerity». Come se non bastasse, aggiunge Escobar, nessuno conosce l’esatta portata delle capacità strategiche della Nato, di cui Bruxelles infatti non parla. «Fuori dall’ufficialità, queste capacità non sono esattamente una meraviglia. E l’intelligence russa lo sa». Se la Nato divesse insistere nella scommessa bellica, «Mosca ha già fatto capire chiaramente che la Russia farebbe uso del proprio impressionante arsenale costituito da 5.000 o più armi nucleari tattiche – e qualsiasi altra cosa occorresse – per difendere la nazione contro un attacco convenzionale Nato. Inoltre, alcune migliaia di S-400 e S-500 sono sufficienti a bloccare un attacco nucleare Usa».
    Ce n’è abbastanza, aggiunge Escobar, per disegnare un «orripilante scenario da “Apocalypse Now”», e senza ancora tener conto della nuova alleanza tra Russia e Cina, che è «il maggior fattore di cambiamento di gioco nella storia eurasiatica». Pechino, infatti, «sta investendo massicciamente in sistemi di rimbalzo laser satellitare, in missili in grado di colpire i satelliti, sottomarini silenziosi che emergono accanto a portaerei Usa senza farsi rilevare». In più, c’è anche un nuovo missile anti-missile “made in China” che può colpire in movimento un satellite più velocemente di qualsiasi missile balistico intercontinentale “Icbm”. «In poche parole: Pechino sa quanto la flotta di superficie degli Stati Uniti sia obsoleta – e indifendibile. E non c’è bisogno di aggiungere che tutti questi sviluppi cinesi modernizzatori stanno procedendo modo più velocemente di qualsiasi altra cosa negli Stati Uniti». Mosca minaccia l’Europa? Falso. Semmai è vero il contrario: è la Nato che si sta avvicinando alla frontiera russa. Ma con un armamento fatto più di propaganda che di armi letali. «Quel che è realmente accaduto – scrive Escobar – è che Mosca ha abilmente voluto vedere il bluff ispirato da Brzezinski in Ucraina, con tutte le sue sfumature: nessuna meraviglia che l’Impero del Caos sia furioso».
    Secondo il giornalista, per «disinnescare l’attuale corsa isterica verso la logica di guerra» basterebbe, letteralmente, “disfare Stalin”, cioè le frontiere artificiosamente ridisegnate alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Urss «si prese la Prussia orientale dalla Germania e trasferì la parte orientale della Polonia all’Ucraina». L’Est Ucraina, invece, «era originariamente della Russia: è parte della Russia e venne data da Lenin all’Ucraina». Per “cancellare Stalin” dalla carta geografica europea bisognerebbe quindi “restituire” alla Germania la Prussia orientale, oggi polacca, e alla Russia le regioni orientali dell’Ucraina. Una “restituzione” simile a quella della Crimea, storicamente russa e “regalata” all’Ucraina da Khrushev all’epoca dell’Urss. Niente più confini arbitrari? I cinesi la definirebbero «una situazione “a vittoria tripla”», che premierebbe tutti e allontanerebbe la guerra, perché «non ci sarebbe più un caos manipolato al fine di giustificare una crociata contro una “aggressione” russa fasulla». Una mossa del genere, ovviamente, oggi sarebbe impensabile, contrastata fino alla morte dall’“Impero del Caos”. A meno che non sia la Germania, in primis, a sganciarsi dalla carovana della guerra.

    Roulette russa. Un gioco pericoloso, soprattuttto per l’Occidente. Perché Mosca è in grado di neutralizzare qualsiasi attacco, anche nucleare, proveniente dagli Usa e dalla Nato. Lo sostiene un osservatore internazionale come Pepe Escobar: il Pil occidentale non potrebbe nulla contro le capacità di difesa dei russi, che al vecchio arsenale atomico sovietico hanno aggiunto armamenti midiciali, capaci di annullare qualsiasi attacco aereo e missilistico. Armi strategiche che verrebbero prontamente impiegate per difendere la Federazione Russa se anche Ucraina e Bielorussia dovessero passare alla Nato, disintegrando l’ultimo residuo diaframma di sicurezza rappresentato dalla “shatterbelt”, zona-cuscinetto che separa «l’aquila tedesca e l’orso russo». Mentre l’élite di Washington e Wall Street preme per far precipitare la crisi fino alla guerra con la Russia, incoraggiata da Kiev, Varsavia e paesi baltici, «gli americani informati si chiedono il motivo per cui gli Usa dovrebbero pagare per la difesa dell’Europa quando il Pil europeo è più grande di quello degli Usa». Specie se la Russia, finora, non ha fatto altro che difendersi. Ma attenzione: quello degli Usa è un bluff.

  • Stampano moneta e comprano noi, poveri euro-fessi

    Scritto il 04/12/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.
    Se la moneta aggiuntiva viene usata per aumentare la produzione, quindi l’offerta di beni e servizi, allora non vi sarà inflazione monetaria (ossia aumento generalizzato dei prezzi), mentre vi sarà un aumento della ricchezza prodotta e del reddito, oltre che dell’occupazione. Certo, aggiunge Della Luna, questa moneta in più «bisogna spenderla bene, e una classe dirigente avida e idiota, come tale selezionata, non lo può fare». Se invece la moneta aggiuntiva viene usata per acquistare titoli finanziari e immobili, «allora vi sarà una salita dei valori delle Borse e degli immobili, e questo fa piacere a tutti gli investitori mobiliari e immobiliari». E se anche vi fosse, come conseguenza dell’immissione monetaria, una certa inflazione iniziale, «questa aiuterebbe i debitori (cioè gli Stati, molte imprese, molti privati) e danneggerebbe i creditori non indicizzati all’inflazione, mentre stimolerebbe le spese che oggi vengono differite perché si prevede un calo o una costanza dei prezzi, il che alimenta la deflazione». Quindi, nel complesso, «dopo la presente deflazione, una certa inflazione o reflazione sarebbe benefica».
    Oggi, continua Della Luna, il grosso dell’offerta monetaria è assorbito dal settore finanziario-speculativo, ossia da “prodotti” finanziari separati dall’economia reale (produzione, consumi). Sono “prodotti” producibili all’infinito, fino alla saturazione del mercato, cioè all’esaurimento «dell’abilità di collocarli, rifilarli o sbolognarli ai clienti ingenui, allorquando una bolla sta per scoppiare». Problema: questo settore dell’economia assorbe il grosso dell’offerta monetaria, «lasciando a secco della fisiologica liquidità il mercato dei beni-servizi reali e degli investimenti per produrli». Ed ecco il paradosso di oggi: «Da un lato un’esorbitante creazione-offerta di moneta, che le banche centrali creano e mettono a disposizione, in quantità enormi, non dell’economia reale ma delle banche universali per le loro speculazioni finanziarie, improduttive anzi distruttive, e dall’altro una carestia di moneta nell’economia reale, cui le medesime banche (in Italia) fanno sempre meno credito, con conseguente declino-insufficienza di domanda solvibile e di possibilità di investimento e occupazione – onde la deflazione».
    In altre parole, l’offerta di moneta «è eccessiva per il settore finanziario, da cui viene continuamente alimentata, mentre è gravemente insufficiente per quello reale, a cui viene continuamente ridotta». Primo passo: non solo «separare le banche di credito e risparmio da quelle speculative», ma anche «fare in modo che la liquidità del settore produttivo, dell’economia reale (quello da cui dipendono gli stipendi, il cibo, i servizi) sia assicurata e protetta dalle interferenze e distrazioni del settore finanziario, molto più grosso e turbolento». Della Luna Parla di «anemizzazione monetaria dell’economia reale», con detentori di liquidità che “tesaurizzano” gli investimenti anche all’estero, mentre il prelievo fiscale imposto dal Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, drena altro denaro dal sistema-Italia, insieme al regime di austerity europea che impone «la realizzazione forzata di avanzi primari del bilancio pubblico e il pagamento di alti interessi a detentori esteri di titoli del debito pubblico». Domanda: «In una situazione di recessione interna e fuga verso l’estero di imprenditori, lavoratori qualificati e capitali, che cosa potrebbe essere più demenziale che imporre tasse al paese per sostenere il debito pubblico di paesi in crisi (Spagna, Grecia) al fine puntellare una valuta, l’euro, che ostacola le esportazioni e induce la deindustrializzazione del paese?».
    «Eppure gli italiani hanno dato fiducia persino a chi ha fatto questo», continua Della Luna. «Si aggiunga, infine, a questo museo degli orrori dell’imbecillità politica, o dell’alto tradimento istituzionale – se preferite – il fatto che la deprivazione-anemizzazione monetaria del paese, di cui sopra, fa sì che gli asset produttivi migliori – industria, commercio, finanza, alberghi, terreni agricoli pregiati – si deprezzino e vengano massicciamente comperati da soggetti-capitali finanziari stranieri, e che quindi il reddito generato da questi asset esca dal reddito nazionale italiano, divenendo reddito dei paesi che li comperano». E l’auto-privazione monetaria, che produce tutti questi mali, non è che un trucco: perché la moneta sovrana «è solo un simbolo e non ha costi o limiti di produzione intrinseci», e i paesi stranieri che rastrellano le nostre migliori aziende «lo possono fare appunto perché fanno la scelta opposta all’auto-privazione monetaria, ossia perché scelgono di produrre a costo zero grandi masse di moneta-simbolo». Che dire: «Il quadro dell’idiozia totale è perfetto. Non resta che ringraziare i nostri governanti nazionali ed europei e le nostre banche centrali, e lusingarci per tutti i consensi, i voti, le tasse e gli onori che continuiamo tributare loro».

    Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.

  • Fine dei giornali? Solo se lo vorranno i Padroni dell’Occidente

    Scritto il 02/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.
    L’ipotesi c), per esempio, è attualmente in vigore nel caso di giornali che, barattando la loro visione “politica” ottengono, da parte di inserzionisti pubblicitari particolari, un occhio di riguardo. A tutt’oggi infatti il consenso politico su grandi temi strategici quali la guerra e la pace, il valore flottante delle monete di riserva planetaria, le questioni energetiche e farmaceutiche, gli investimenti nelle borse, viene ancora organizzato da “Big Press” e “Big Tv”, che stanno sopravvivendo alla crisi della pubblicità e anzi l’hanno usata come alibi per “asciugare” costi ritenuti superflui e dismettere giornalisti. Ciò non toglie che, all’interno del vasto mosaico dei media, il declino di gran parte della stampa classica e dei giornali online sia in corso. È sul suo decesso “inevitabile” però che si possono e devono esprimere dubbi, come quando all’avvento della Rivoluzione Industriale si espressero leciti dubbi sulla morte dell’artigianato. Esiste infatti un’ipotesi di sopravvivenza alla crisi della pubblicità, che tenterò di formulare in seguito.
    Casaleggio descrive poi una pratica pubblicitaria molto perversa che si svolge in rete: quella dell’uso dei “cookies”. E descrive i suoi effetti nefasti: monitoraggio degli accessi, dei comportamenti e del profilo dell’utente. Non possiamo che essere d’accordo. La questione è molto presente, nel dibattito internazionale, sulle linee guida che dovrebbero condurre a una futura governance di Internet, meno anarco-liberista di quanto non sia ora. Però c’è da dire che proprio in quelle sedi internazionali, dove la società civile riesce a manifestare un minimo la propria visione, la definizione “utente” è in via di superamento, per diverse ragioni: a) perché “utente” si impasta e si intreccia con “prosumer”, con “consumatore”, con “cliente finale” e con “utente inserzionista”, e ciò crea confusione; b) perché “utente” presuppone che la Rete sia “un servizio agli utenti”, e ciò contrasta con le più recenti visioni della “net neutrality”, per le quali la Rete è un’infrastruttura indispensabile alla Cittadinanza Digitale che, al dunque, è costituita da “persone”.
    Casaleggio afferma ancora: «In sostanza il rapporto tra consumatore e pubblicità non risiederà più nei siti editoriali, che ne perdono il controllo, ma negli inserzionisti digitali come Google o Facebook. Di fatto questo rovescia il rapporto economico attuale, in quanto la tracciabilità dell’utenza e l’uso dei dati personali sarà alla base di ogni futuro processo pubblicitario. La pubblicità sarà prevalentemente digitale e la proprietà del cliente verrà trasferita ai big del web. Questo comporterà una riattribuzione, già in atto, dei ricavi dai vecchi operatori (gli editori) a nuovi operatori, con un restringimento della filiera pubblicitaria». Anche qui ci sono da fare alcune considerazioni. Probabilmente Casaleggio allude alla “readership” che costituisce il parco lettori di una testata giornalistica e che viene “venduta” alle agenzie, o direttamente agli inserzionisti, dalla concessionaria della testata. La concessionaria dell’editore (e qui crediamo che parli di editori online) ne perde il controllo, che finisce nelle mani di soggetti quali Google e Facebook (i quali comunque, precisiamo: tutto sono meno che “inserzionisti digitali”). Allora: sì. È vero che le concessionarie e le sezioni marketing degli editori contano sempre meno, ma non è vero che la facoltà di vendita del parco lettori viene loro sottratta. Ciò che viene sottratto agli editori è la capacità di negoziare il prezzo del loro parco lettori. E quindi, in progress, pagandoli sempre meno, gli inserzionisti costringono gli editori a chiudere. Ma perché?
    Perché gli editori di giornali (e qui intendiamo tutti) non hanno capito il profondo valore della contrattazione del Costo Contatto e in dettaglio del Cost per Thousand, cioè il valore – negoziabile e non derivato – che l’inserzionista paga per raggiungere con il suo messaggio 1000 persone, e che regola la compravendita di spazi in tutti i media (incluso il web). Se gli editori sono l’offerta (di lettori/readership) e gli inserzionisti (non Google e Facebook) rappresentati dalle agenzie di pubblicità che comprano spazi, sono la domanda (di lettori/readership)… in un mercato vero ci dovrebbe essere contrattazione per fare il prezzo. Così invece non è! Il soggetto che genera l’offerta (gli editori) è frantumato, rissoso e ignorante, e invece di fare il cartello degli editori off-line e online, tende la mano e si accontenta di un Cost per Thousand che viene deciso dalla domanda, cioè dai compratori di spazi. In questo teatrino da accattoni, in cui si muovono gli editori privi di dignità, identità e capacità di marketing, si sono inseriti alla grande altri soggetti, quali Google e Facebook, che hanno assunto il ruolo di intermediatori e super-concessionarie del web perché “fanno il prezzo”, offrendo quantità illimitate di spazi a basso costo agli inserzionisti.
    Solo in alcuni tribunali nordeuropei la vicenda è stata affrontata (in parte) per ciò che è, ma poi, alla fine, impastata maldestramente insieme alla difesa dei diritti d’autore. È così che il dumping ai danni degli editori e anche dei “prosumers” e dei bloggers, si è sanato con un’elemosina (vedi caso francese). Allora: in questa vasta e complessa scena, Casaleggio, che è magna pars nella difesa dei diritti dei cittadini digitali e dei (mi auguro) piccoli e medi editori digitali, perché non riflette meglio su come avviene la contrattazione sul Cost per Thousand? Ci sembra infatti che dia per scontato che questo sia un valore da misurare “a monte” della compravendita e delle pratiche di inserimento pubblicitario tra soggetti Over the Top. Invece il Cost per Thousand è un valore da fissare “a valle”, cioè prima della compravendita, in quanto rappresenta la capacità potenziale di acquisto di 1000 componenti del parco lettori. Al dunque la pubblicità è soprattutto compravendita di “persone”, non solo di spazi promozionali. Ricordiamolo.
    Casaleggio menziona poi la torta pubblicitaria. Bene! La sua consistenza – che attualmente dipende dagli interessi del Consiglio di Amministrazione della Iaa – International Advertising Agency di Madison Avenue – NON DEVE ESSERE non deve essere quella offerta agli editori; ma DEVE ESSERE deve essere quella negoziata e richiesta dal cartello degli editori per la loro dignitosa sopravvivenza. Così fa il cartello dei grandi tv-broadcasters statunitensi. Se ne frega dei budget offerti e CHIEDE e OTTIENE chiede e ottiene annualmente ciò che serve a loro per vivere. Cioè sono i media che devono fare e difendere il prezzo della loro audience, non gli intermediari. Per capirci: gli inserzionisti consegnano alle agenzie di pubblicità circa 3 trilioni di dollari l’anno. Il 60% di queste risorse viene dato ai media dei Brics e dei paesi emergenti perché sono considerati mercati in crescita. Il rimanente 40% viene dato ai media dei paesi del vecchio Occidente allargato. Ma nel 2009 era il contrario e l’inversione venne decisa in un Cda dell’Iaa. Ciò dà un’idea dello strapotere degli inserzionisti pubblicitari sui media tutti e dimostra come la crisi dei media sia solo imputabile a decisioni non contrastabili per assenza di facoltà di negoziazione.
    In difetto di contrattazione, però, un soggetto come Casaleggio – e per estensione, mi auguro, il “Movimento 5 Stelle” – dovrebbe lanciare parole d’ordine al morente mondo degli editori per incitarli a negoziare al meglio ciò che hanno (i loro lettori) e per convincerli a non accontentarsi della semplice raccolta di ciò che viene loro offerto, e in continuazione rattrappito, dalle aziende inserzioniste. Casaleggio poi se la prende con Google. Benissimo Recentemente abbiamo tentato di spiegare che Google, Facebook e gli altri soggetti simili, non sono alla sommità della piramide, ma lavorano, a loro volta, per qualcun altro. Per CHI chi? Ma è ovvio: per gli inserzionisti, per le corporations che poi pagano le campagne politiche dei futuri leader (e anche per i servizi segreti, nel caso di cessione di Big Data). Allora? Se i giornali muoiono è perché gli inserzionisti non pagano un equo prezzo per fare la pubblicità delle loro merci e servizi. Ma chi deve contrattare il prezzo? È ovvio: i produttori di contenuti (“contents”) in grado di ospitare inserzioni, cioè gli editori di giornali on line tutti, i bloggers e i “prosumers”.
    Il “Movimento 5 Stelle” dovrebbe lanciare un appello a tutti questi soggetti per costruire una syndication – auspicabilmente su scala europea – che assuma il ruolo di soggetto collettivo in grado di negoziare autorevolmente il prezzo della pubblicità sui territori sia fisici che digitali. Se non piace la definizione “syndication” si può parlare di ConfEditori on line, di Content Providers Association, o altro. Attenti!… Berlusconi, De Benedetti e Rizzoli-“Corsera” recentemente hanno annunciato la nascita di una superconcessionaria del web italiano. Ciò vuol dire che il prezzo della pubblicità sul territorio (web) italiano lo faranno loro, solo loro e nient’altro che loro. Signor Casaleggio, la vicenda è passata nel silenzio dell’opposizione. Come mai? Se il gettito di risorse pubblicitarie nel web, che dovrebbe remunerare il lavoro svolto in Rete dalla cittadinanza digitale, viene deciso senza alcun dibattito, l’opposizione ancorata al mondo digitale che ci sta a fare?
    Per concludere: Google, è vero, è un bel puzzone, ma approfitta dell’ignoranza e dell’ignavia dei politici e dei “content providers” e della loro frantumazione. Non è (solo) Google il carnefice dei “giornali”. Il mandante è sempre e solo il Cartello delle Corporations/Inserzionisti, gli utenti pubblicitari associati globalizzati, lo stesso del resto con il quale Beppe Grillo mirabilmente se la prendeva tanti anni fa quando accendeva i riflettori su Giulio Malgara, a quel tempo presidente dell’Upa, e in quanto tale grande finanziatore di Berlusconi e Dell’Utri. Quell’intuizione era quella giusta, talmente giusta che gli costò il rapporto con la Tv. Rilanciamo quel dibattito, signor Casaleggio, magari anche a costo di perdere qualche inserzionista. Tanto, la stragrande maggioranza di loro persegue un modello di sviluppo che non è quello del suo Movimento.
    (Glauco Benigni, “Casaleggio, non hai capito chi fa il prezzo”, da “Megachip” del 27 novembre 2014).

    Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.

  • Boicottare Wall Street, il piano di Putin per un mondo libero

    Scritto il 30/11/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito  di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. Unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. Indebolire dall’interno la “nuova Roma”;  3. Privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perchè ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.
    Tuttavia gli Usa non mancano di problemi interni, che ultimamente peggiorano e si espandono, vedasi l’affare Ferguson. In tal maniera, il mezzo più efficace di opporsi agli Usa è il privarli di risorse, rifiutando tutti i prodotti-chiave americani. Ciò andrebbe a scapito del dollaro, che è il mezzo con cui Washington opera la ridistribuzione delle risorse. Per trattare questo argomento bisogna allontanarsi dagli assalti dell’isteria mass-mediatica. Innanzitutto, bisogna smettere di comprare le obbligazioni Usa ed europee, che succhiano le riserve dei fondi russi. Dal primo gennaio, i fondi che erano utilizzati per l’acquisto di queste obbligazioni dei “partner occidentali” saranno utilizzati per i bisogni del Tesoro. In seguito, nelle strutture profonde del partito “Russia Unita” si prepara una rivoluzione economica a partire dai piani alti. In terzo luogo si persegue l’approccio con la Cina, sulla quale è utile soffermarsi in modo più preciso. Oltre che la messa in moto del memorabile progetto dell’oleodotto “Forza siberiana” si persegue un lavoro comune, determinato e coordinato, del rafforzamento dei mezzi militari, oltre che lo stabilizzare i partner dell’Asia centrale.
    Per esempio, la Cina appare essere uno degli investitori principali nel Tagikistan. Tutta una serie di progetti comuni tra Russia e Cina sono stati intrapresi, come l’inaugurazione d’un infrastruttura aeronautica comprende anche gli elicotteri. In relazione a ciò, sta venendo fatto pure un lavoro fondamentale di distacco dal dollaro americano negli scambi commerciali. È utile sottolineare che gli Usa, con le loro azioni ad Hong Kong, hanno decisamente irritato Pechino: il livello di sostegno della popolazione cinese è passato dal 47% al 66% in un solo anno, in seguito al suo confronto con l’Occidente. Durante la diciottesima sessione della commissione russo-cinese per la preparazione degli incontri governativi, il vicepremier ministro Wang Yang ha dichiarato come «sbagliate» le sanzioni occidentali contro la Russia e ha esortato sia la Russia che la Cina a dare una risposta appropriata ai paesi occidentali. Durante il forum economico russo-cinese, il presidente della banca centrale cinese, quinto istituto finanziario al mondo, ha dichiarato che «è indispensabile rafforzare la cooperazione in materia di tali operazioni e mettere fine al monopolio del dollaro». I meccanismi per disgregare l’egemonia del dollaro sono stati oramai concepiti.
    L’11 ottobre la stampa ha confermato che la Russia e la Cina hanno concluso un accordo sulle operazioni “swap” (ossia le operazioni di scambi) per le esportazioni in rubli e yen. Senza dubbio, dopo aver firmato quest’accordo “swap”, il numero dei candidati che intendono astenersi dal dollaro dovrebbe aumentare, perchè anche la Turchia ne é interessata. Intanto si rafforza l’approccio con l’Iran. Teheran  e Mosca studiano una transazione nota come “petrolio in cambio di centrali elettriche”. Dato che l’Iran resta vincolato dalle sanzioni,  le banche commerciali russe stanno inaugurando una serie di collaborazioni con la Persia, e sta venendo anche effettuato uno studio per stabilire una banca comune per il mutuo finanziamento dei progetti economici e commerciali. E tutto ciò senza parlare delle attività ininterrotte per l’inaugurazione dello spazio economico eurasiatico, al quale s’aggiunge anche l’Armenia e a cui prenderà parte anche il Kirghizistan prima della fine dell’anno. Insomma, il piano strategico di Putin, il cui fulcro è la cooperazione con coloro che sono stanchi dell’egemonia degli Usa, mira a privare gli Stati Uniti delle loro risorse e a rinforzare la propria economia evitando di ricorrere al dollaro per le transazioni. E tutto ciò senza che la Russia e la Cina rischino di incappare nei tranelli che sono tesi loro, sotto forma di “paracaduti gialli” o di prese di posizioni radicali nella guerra civile ucraina. La nuova Roma, senza dubbio, crollerà.
    (Ivan Lizin, estratti dall’intervento “Il diabolico manuale di Putin, piccolo manuale di combattimento contro l’impero mondiale”, pubblicato da “Reseau International” il 17 ottobre 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito  di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. indebolire dall’interno la “nuova Roma”;  3. privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perché ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.

  • Gli scienziati: folle Ue, taglia la ricerca e suicida il futuro

    Scritto il 28/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
    Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.
    Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del Pil sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.
    Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.
    Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.
    Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.
    (“Senza ricerca non si esce dalla crisi”: l’appello, ripreso da “Micromega”, è stato lanciato da importanti scienziati europei come Amaya Moro-Martín, astrofisico dello “Space Telescope Science Institute di Baltimora”, Usa, nonché di “EuroScience” di Strasburgo e del Digna, per la Spagna; Gilles Mirambeau, virologo Hiv della Sorbona di Parigi oltre che dell’Idipbas di Barcellona e di “EuroScience”; Rosario Mauritti, sociologo dell’Iscte e del Cies-Iul di Lisbona; Sebastian Raupach, fisico tedesco; Jennifer Rohn, biologa cellulare dell’University College di Londra; Francesco Sylos Labini, fisico del Centro Enrico Fermi e del Cnr di Roma; Varvara Trachana, biologa cellulare dell’Università di Thessaly a Larissa, Grecia; Alain Trautmann, immunologo e oncologo del Cnrs e dell’Institut Cochin di Parigi; Patrick Lemaire, embriologo del Cnrs e dell’Università di Montpellier).

    I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.

  • Val Susa, Gaglianone: anche se i NoTav avessero torto

    Scritto il 24/11/14 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).
    In val di Susa invece non è scomparsa, o è ricomparsa, in questi 25 anni di opposizione al progetto, la politica intesa come incontro fra gente che discute sul proprio presente e sul proprio futuro, fra gente che si ritrova per porre delle domande insieme e insieme a cercare delle risposte. Ma nel frattempo una questione politica, sociale ed economica è stata fatta slittare sul piano inclinato dell’ordine pubblico. La questione non è più treno sì, treno no, ma è diventata sistema – questo sistema – sì, sistema no. E allora, sempre di più, il rapporto tra cittadino e Stato si riduce alla sola relazione con un agente in tenuta antisommossa. Per alcuni tutto questo non fa che svelare con evidenza la truffa di un sistema di fisiologica prevaricazione; per altri è la crisi inaccettabile e umiliante della fiducia nella democrazia. Non sono nodi che riguardano solo la val di Susa: nel nostro paese sono sempre più numerosi i fronti in cui tutto sembra ridursi a una faccenda da sbrigare chiamando la polizia.
    “Qui” è una parola che viene pronunciata spesso, durante i racconti presenti nel documentario. Indica che qui e ora, in questo posto e in questo preciso momento, sta accadendo qualcosa. Indica un luogo in cui si vive e si subisce qualcosa che è vissuta come un’ingiustizia ma indica anche una possibilità di vivere qualcosa di unico e irripetibile. Siamo qui e non altrove. Siamo in val di Susa e non in un altro posto. Eppure, anche se tutto rimanda a fatti e ambienti molto concreti, i racconti svelano, dietro l’urgenza dell’accadimento e dell’attualità, una dimensione che trascende le stesse cause scatenanti del conflitto: e allora “Qui” non è altrove: è ovunque. Le cose narrate, i volti (amareggiati arrabbiati, tristi, allegri e di un’allegria inconsueta, liberatoria e liberata) che le raccontano al di là delle parole, le parole stesse, si rivelano anche come un’astrazione, una riflessione su una condizione che non è solo quella di chi si trova laggiù, in un angolo di mondo: è la intensa consapevolezza di trovarsi di fronte a una contraddizione profonda del nostro modo di vivere che riguarda tutti, anche quelli che pensano che laggiù (qui), questi NoTav son solo degli imbecilli, dei disadattati, dei recalcitranti disfattisti, dei montanari bifolchi e anche egoisti, dei sabotatori cripto-terroristi che non vogliono piegarsi allo “Stato democratico” e al “volere della maggioranza”.
    E allora, dopo aver fatto un documentario come questo, può suonare paradossale scrivere che le persone incontrate durante la visione potrebbero persino avere torto: la Torino-Lione è “utile e necessaria”. Io credo nelle ragioni dei protagonisti del documentario. Ma alla fine, a me come regista di questo film, non è più questo che importa, il torto o la ragione. A me importa che, alla fine di questo viaggio, chi ha guardato questi volti e ascoltato queste voci comprenda che è possibile trovarsi nella loro condizione e fare le loro scelte, e che tutto questo, “qui e ovunque”, merita molto rispetto. E anche tanta gratitudine.
    (Daniele Gaglianone, autopresentazione critica al documentario “Qui”, dedicato alla valle di Susa alle prese con la vertenza NoTav,

    A volte bisogna aggrapparsi alle parole: chi le pronuncia e chi le ascolta. Quando sembra che non restino che quelle perché il resto non c’è più ed è finita, oppure quando si sente che solo da quelle si può ricominciare. Nei ritratti di questo documentario un gruppo di persone si racconta attraverso parole e silenzi. Con vissuti tra loro lontani e con attitudini distanti, si sono ritrovati dalla stessa parte ad abitare la stessa lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione che dovrebbe passare in valle di Susa, una valle già attraversata da due statali, un’autostrada e una linea ferroviaria dove transitano i Tgv, Train à Grande Vitesse. Per alcuni, questa nuova linea pare rappresentare la linea Maginot del futuro del paese; per altri è un’opera inutile economicamente, devastante per l’ambiente e per le finanze pubbliche. Nel corso degli anni la politica – quella mediaticamente intesa come politica dei partiti – sembra essere scomparsa intorno al problema, incapace di gestire una situazione lasciandola incancrenire (oppure scientemente convinta di doverla gestire esattamente così).

  • Zero disoccupazione: via l’euro, e 2 milioni di assunzioni

    Scritto il 20/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.
    Nel regime dell’euro, caso unico al mondo – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, dunque ostaggio delle banche – si saldano due pulsioni egemoniche negative, quella “imperiale” atlantica (che proprio con l’euro ha azzoppato l’Europa, partner potenziale della Russia dopo la caduta dell’Urss), e quella neoconservatrice europea incarnata dall’élite post-coloniale franco-tedesca, fondata sul mercantilismo del super-export (lavoro a basso costo, salari da fame) e sul neoclassicismo, che pretende di estendere allo Stato l’antica dottrina di David Ricardo, risalente all’epoca napoleonica: prima di poter investire, anche lo Stato deve “risparmiare”, come se fosse un’azienda qualsiasi anziché l’unica istituzione democratica abilitata a emettere moneta a costo zero, in regime di monopolio. Di qui la politica di rigore preparata per decenni, a partire dal divorzio tra Tesoro e banche centrali, e culminata oggi nella catastrofe dell’Eurozona a guida tedesca, con un paese come l’Italia retrocesso oltre le prime 20 posizioni nella graduatoria dei redditi Ocse, e alle prese con una disoccupazione spaventosa.
    Con l’euro, risalire la china è materialmente impossibile: l’intera costruzione della non-moneta europea è stata concepita in base al preciso scopo politico di impedire allo Stato di continuare a sostenere l’economia nazionale, mettendola in crisi e ripristinando condizioni di dominio neo-feudale. Oggi infatti sono i pesi massimi del business euroatlantico a speculare sul disastro, anche con le privatizzazioni, acquisendo a prezzi stracciati beni, aziende, servizi e infrastrutture, cioè il patrimonio sviluppato nei “decenni del benessere” in regime di sovranità monetaria, prima della grande globalizzazione americana. Lo Stato piange perché non può più reggere i conti in rosso – non avendo più il debito pubblico denominato in moneta propria – e quindi non può fare altro che tagliare i servizi e aumentare le tasse, fino a provocare il progressivo collasso dell’economia. Non potendo più svalutare la moneta, né immetterla liberamente nel sistema, né tantomeno utilizzarla come in passato per investimenti strategici, nel regime padronale dell’Eurozona non resta che svalutare il lavoro, seppellendo in questo modo qualsiasi residuo fondamento dell’economia marxista e riducendo il lavoratore ad automa sempre meno pagato, intercambiabile al ribasso sul nuovo mercato dei migranti precari globalizzati.
    Per questo ha carattere apertamente rivoluzionario la proposta sovranista sviluppata da Warren Mosler e diffusa in Italia da Paolo Barnard: restituire la moneta allo Stato, cioè alla generalità dei cittadini, significa sottrarla al monopolio abusivo del sistema finanziario, che ha “sequestrato” la fondamentale leva monetaria agli Stati europei proprio quando la Russia cessava di essere un avversario formale della Nato. Inaffidabili, per il super-potere di Wall Street, le democrazie europee col loro welfare e le loro tutele sindacali. Un modello funzionante, pericolosamente prossimo alle nuove frontiere dell’Est Europa, da mettere in crisi – con il “golpe” monetario – prima ancora che la crisi della crescita e la finanziarizzazione dell’economia esplodessero in modo dirompente e palese. Secondo il “programma di piena occupazione” della Mmt, il semplice recupero sovrano della moneta può dare ossigeno a un singolo sistema-paese, a prescindere dal contesto internazionale, posto che esistano ovviamente le condizioni politiche per sfidare i poteri forti al punto da “restituire” ai cittadini, insieme alla moneta, un assetto economico funzionale e sociale: il denaro a disposizione del lavoro, e non viceversa. Si tratta dunque di un programma tecnico, in attesa di adozione. Primo punto: tamponare la voragine e dare un lavoro a tutti, subito. Come? Pagando uno stipendio a qualsiasi disoccupato disposto a lavorare e produrre l’equivalente del reddito ricevuto.
    Il salario sarebbe leggermente inferiore al compenso garantito dai contratti del settore privato. E sarebbe transitorio, cioè assicurato soltanto fino al momento in cui il disoccupato non viene assunto da un’impresa privata. Si tratterebbe in ogni caso un impiego produttivo, ma in campi che non creano concorrenza al settore privato (esempio: la tutela idrogeologica). Dotato nuovamente di moneta propria, lo Stato potrebbe ampliare la base monetaria nazionale, aumentando subito il deficit: dall’attuale 3% del Pil si passerebbe immediatamente all’8-10%. Prima conseguenza: taglio immediato della pressione fiscale, ridotta di almeno il 5%, agendo sull’Iva e sulle tasse sul lavoro. Valore della manovra: 75 miliardi, pari a 2 milioni di posti di lavoro. In parallelo, investimenti annuali da 30-40 miliardi per pilotare una riconversione sostenibile dell’economia: e quindi istruzione, risparmio energetico, sicurezza idrogeologica, ambiente e salute, con ricadute a cascata sul sistema delle aziende e sull’occupazione. Detassazione e investimento pubblico: con moneta sovrana (e politici onesti e capaci) si può fare. Senza moneta sovrana, la missione sarebbe fuori della portata del miglior politico. All’orizzonte, in ogni caso, non se ne vedono. Il che induce ormai molti economisti a ipotizzare che l’uscita dall’euro, giudicata inevitabile e prossima, avverrebbe attraverso un crollo del sistema, con conseguenze disastrose, non esistendo una struttura politica capace di sostenere un piano di salvezza nazionale come quello tracciato dalla Mmt di Mosler.

    Disoccupazione zero. Uno slogan politico, che riassume il programma di piena occupazione messo a punto per l’Italia dai sostenitori della Mmt, Moderm Money Theory, partendo da un presupposto imprescindibile: il controllo pubblico e sovrano della moneta, senza il quale ogni sforzo è vano perché, eliminato lo Stato, a dominare sono i mercati finanziari, i poteri forti mondiali. Padre fondatore di questa impostazione è John Maynard Keynes, cervello del boom economico occidentale del ‘900: il sistema funziona e produce benessere solo se, a monte, il potere pubblico investe denaro creato dal nulla, attraverso il deficit positivo. Per un altro colosso dell’economia democratica, Hyman Minsky, la missione dello Stato è quella di diventare “datore di lavoro di ultima istanza”. Concetti lunari, se riletti oggi in pieno neoliberismo terminale globalizzato, con in più il guinzaglio mortale dell’euro che, come prima missione, elimina dalla scena proprio l’attore fondamentale del processo democratico macroeconomico, lo Stato, costretto a dipendere dal sistema bancario. Una farsa le immissioni di liquidità pilotate dalla Bce, perché sono destinate alle banche, ai loro buchi di bilancio e alla loro speculazione finanziaria, anziché al credito per l’economia reale.

  • Aggirare l’euro: moneta sovrana a titolo di credito fiscale

    Scritto il 15/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».
    Gli italiani, aggiungono i due analisti su “Micromega”, stanno scoprendo sulla loro pelle che, senza moneta sovrana, lo Stato non può fare nulla per uscire dalla crisi. Uno come Renzi può solo fingere di ribellarsi, ma poi deve sottostare a tutti i diktat dell’austerity varata dai governi Monti e Letta, in esecuzione dell’euro-politica imposta dalla “moneta straniera” governata da Berlino. Retorica a parte, Renzi è un allievo modello: le sue riforme strutturali sono esattamente quelle dettate dalla politica dell’euro imposta da Bruxelles: giù il costo del lavoro, tagli al welfare, privatizzazioni dei beni pubblici, riforme istituzionali, tagli alla spesa pubblica. Tutto questo, riconoscono Cattaneo e Grazzini, avviene perché gli Stati, in particolare quelli dell’Eurozona, non hanno più il controllo della moneta, avendo perso la loro sovranità nazionale: «Solo controllando la moneta si può mettere in moto la spesa pubblica», quella che garantisce i servizi vitali e la salute dell’economia. «Se invece sono le banche private a creare e a controllare il denaro, allora lo Stato diventa inesorabilmente servo delle banche e della loro moneta».
    Non c’è vera democrazia, riconoscono Cattaneo e Grazzini, senza gestione nazionale della moneta da parte dello Stato e senza il controllo della società civile: «Quando uno Stato per finanziarsi dipende dal sistema finanziario nazionale o, peggio, dai mercati finanziari internazionali perché non crea e non controlla la sua moneta, allora diventa uno Stato subordinato e sostanzialmente eterodiretto, uno Stato costretto a servire i suoi creditori», coi cittadini costretti a pagare le tasse «per ripagare il debito alla finanza», senza poter godere dei servizi pubblici cui avrebbero diritto. La nostra è un’aberrante anomalia a livello planetario: «Non c’è nessun Stato che conta nel mondo che non stampi la sua moneta e non abbia la sua banca centrale per proteggere e governare la moneta nazionale. I grandi Stati e gli Stati emergenti – come Usa, Giappone, Gran Bretagna, Cina, India, Russia, Brasile, Corea, Svizzera, Israele – si basano sulla loro moneta nazionale». Con l’euro, invece, la Germania «impedisce le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti», esasperando gli squilibri a favore dei paesi con la bilancia commerciale in attivo.
    Nonostante, ciò – come i contestatori di sinistra, da Landini a Syriza fino alla formazione spagnola “Podemos” – anche Bossone, Gallino e Sylos Labini rinunciano ad affrontare la prospettiva di uscita dall’euro, che ritengono irrealistica e rischiosa, e preferiscono proporre l’emissione dei Ccf, una “quasi moneta” nazionale, parallela all’euro, capace di «aumentare la capacità di spesa dell’economia senza però creare nuovo debito, rispettando cioè i parametri (rigidi e assurdi) imposti dalla moneta unica». Un provvedimento intermedio, «in attesa di poter riformare radicalmente il sistema monetario europeo». Per i tre tecnici, i Ccf dovrebbero essere emessi dallo Stato a costo zero e distribuiti gratuitamente all’economia reale, cioè ai lavoratori e alle aziende, senza passare dal sistema bancario, espressione dell’élite finanziaria che ha spodestato la politica. Siamo o non siamo nell’era della post-democrazia? Nel regno feudale dell’Ue – grazie all’euro – è l’oligarchia finanziaria a esercitare un potere assoluto, attraverso la Bce e la Commissione Europea, che trasformano l’Italia in una colonia da comprare a prezzi stracciati, cominciando dal lavoro sottopagato delle maestranze.
    In più, oggi la Bce boccia le banche italiane e assolve quelle del Nord Europa, che invece «operano con leve finanziarie elevatissime, pari anche a circa 30 volte il loro capitale, e che si dedicano più di quelle italiane al trading speculativo». Così, le nostre banche «dovranno ricapitalizzarsi ricorrendo ampiamente al capitale estero». Cadranno anch’esse in mani straniere, «dopo che gran parte del sistema industriale nazionale – Fiat, Pirelli, Telecom – è migrato o sta migrando all’estero». L’economia italiana? «Si sta smembrando, e le banche italiane sono prede importanti». Inoltre la Bce sta favorendo la creazione di banche “troppo grandi per fallire”, cioè «sta esattamente creando le condizioni per la prossima grande crisi finanziaria in Europa (e la probabile rottura dell’euro)». E’ infatti chiaro che, «senza un comune fondo pubblico europeo – sul quale il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha posto il veto – qualsiasi grande banca europea in difficoltà non potrebbe essere salvata, e crollerebbe trascinando in rovina l’intero sistema bancario e l’eurosistema», aggiungono Cattaneo e Grazzini.
    Tutto questo, per un motivo semplicissimo: gli Stati dell’Eurozona non hanno più alcun controllo democratico sulla moneta, che ha cessato – con l’euro – di essere uno strumento a disposizione della comunità nazionale. La creazione di moneta “dal nulla” oggi è infatti prerogativa del sistema bancario privato: «Nelle economie moderne, il 95% della moneta è creata dalle banche con scrittura elettronica sotto forma di creazione di depositi». Ormai «sono le banche a creare denaro dal nulla, creando prestiti, cioè generando debiti». Nel mondo si contano 100 triliardi di debiti, «una somma insostenibile che non potrà mai essere ripagata». La moneta “fiat” «è diventata un bene privato delle banche per il profitto delle banche stesse». Continuano Cattaneo e Grazzini: «Queste semplici verità, ben conosciute dagli economisti, sono tanto incontrovertibili e clamorose quanto poco note al largo pubblico». Il meccanismo lo spiega un recente report della Bank of England: «Ogni volta che una banca fa un prestito, simultaneamente crea un deposito nel conto della banca del debitore, e perciò crea moneta». Di fatto, la banca crea dal nulla i depositi, «mentre normalmente si pensa che riceva dei depositi legati al risparmio delle famiglie, e che solo successivamente faccia dei prestiti».
    Più si deregolamenta il mercato finanziario, più il mercato mostra i suoi limiti: l’offerta monetaria delle banche è pro-ciclica, abbondante in caso di crescita e scarsa non appena c’è aria di crisi. «Quando i primi debiti cessano di essere ripagati, quando si verificano i primi fallimenti, improvvisamente il rubinetto delle banche commerciali cessa di fare fluire la moneta nell’economia e arriva allora la crisi». Con la crisi arriva anche la deflazione: «I prezzi stagnano o calano mentre la merce rimane invenduta e la produzione si ferma», così «la disoccupazione impedisce la ripresa dei consumi e della domanda finale». L’attuale caso europeo di “trappola della liquidità” è esemplare: la Bce cerca di dare ossigeno monetario al sistema – con i limiti imposti dal governo tedesco – ma le banche trattengono la liquidità e non fanno prestiti, in particolare alle piccole e medie imprese. Le banche? «Sono cariche di sofferenze, a causa della crisi economica». Inoltre, «preferiscono investire nei titoli di Stato o nella finanza per ottenere remunerazioni elevate piuttosto che rischiare prestando soldi all’economia reale». E’ così che «la moneta non circola, la domanda manca, le aziende chiudono e l’economia langue o va in recessione».
    Di qui le proposte di ritorno alla sovranità monetaria: la moneta come bene comune, gestito a costo zero dallo Stato democratico, rappresentante legittimo della comunità nazionale. Le banche commerciali, separate da quelle d’affari, dovrebbero mantenere il 100% dei depositi della clientela presso la banca centrale e fungere da intermediari puri. Oggi, sotto il dominio dell’Eurozona, si tratta di obiettivi impossibili da realizzare, Così, in attesa di riforme radicali del sistema finanziario, secondo Bossone, Gallino e Sylos Labini ci sarebbe la strada dei certificati di credito fiscale per rilanciare la domanda e immettere nuova liquidità nel sistema, ridare ossigeno ai consumi e agli investimenti privati e pubblici tagliando le tasse senza però ridurre la spesa pubblica destinata ai servizi. La proposta: emissione gratuita dei Ccf a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati e pensionati) e delle imprese. certificati «ad utilizzo differito, validi cioè a partire da due anni dopo l’emissione per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione: tasse, contributi, tariffe, multe».
    Secondo i proponenti, il governo italiano potrebbe emettere Ccf per 90-100 miliardi di euro il primo anno, da incrementare se necessario nei due anni successivi fino a un massimo di 200 miliardi annui, «almeno fino a quando non si verifichi una consistente ripresa della domanda e dell’occupazione». I Ccf sarebbero scambiabili sul mercato finanziario come qualsiasi altro titolo di Stato. Ed essendo appunto coperti da garanzia statale, «potrebbero essere utilizzati direttamente come mezzi di pagamento nel mercato interno». Risultato: «Aumenterebbero enormemente e immediatamente la capacità di spesa dei consumatori e delle aziende», che però è esattamente quello che gli oligarchi dell’Eurozona a guida tedesca non vogliono. Certo, la proposta sarebbe «compatibile con le regole e i vincoli posti dal sistema dell’euro», ma è difficile credere che Bruxelles, Berlino e Francoforte li accetterebbero, anche se la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta ma non sulla creazione di “quasi-moneta”, in questo caso nient’altro che sconti fiscali.
    A puro titolo di esempio, spiegano Bossone, Gallino e Sylos Labini, si supponga di assegnare gratuitamente, in tre anni, a partire dal 1° gennaio 2015, circa 70 miliardi di Ccf ai lavoratori, dipendenti e autonomi, in funzione inversa del loro livello di reddito, così da stimolare la spesa per il consumo, e di assegnare l’equivalente di 80 miliardi di euro ai datori di lavoro. «Quest’ultimo importo abbatterebbe del 18% circa il costo del lavoro, una percentuale equivalente alla differenza di competitività dell’economia italiana nei confronti della Germania. Si eviterebbe così che l’espansione della domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali con l’estero: l’aumento delle importazioni sarebbe infatti bilanciato dalla crescita delle esportazioni derivato dalla diminuzione del costo del lavoro e dall’aumento conseguente di competitività». Altri 50 miliardi di Ccf, aggiungono i proponentim, dovrebbero essere utilizzati per finanziare investimenti pubblici, forme di reddito garantito, iniziative ambientali e infrastrutture, incentivi per giovani e donne. Ovvio, aumenterebbe l’occupazione e riprenderebbe a crescere il Pil. L’Italia uscirebbe dalla depressione. Ed è esattamente quello che l’élite tedesca teme.

    Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».

  • Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia

    Scritto il 17/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».
    Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».
    Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».
    «Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».
    Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.

    «La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».

  • L’Ue: guerra alle porte? L’esercito contro chi sciopera

    Scritto il 19/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».
    «Nel quadro coordinato delle politiche di sicurezza – si legge – si stanno fondendo le responsabilità delle forze di polizia con quelle delle forze armate, e si stanno creando delle capacità comuni per affrontare le proteste sociali». La radio tedesca “Deutschlandfunk” ha appena parlato di questo studio, precisando che ufficialmente questo “progetto” dovrebbe riguardare solo interventi in paesi al di fuori della Ue. «Ma ai sensi dell’articolo 222 del Trattato di Lisbona, esiste una base giuridica, creata appositamente per il dispiegamento di unità militari e paramilitari all’interno di Stati membri della Ue, in crisi». Il trattato, spiega Krassnin in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato scritto da un gruppo di docenti universitari ed esperti nel settore della sicurezza europea, per la difesa e la politica estera. Nella prefazione, redatta dal “ministro degli esteri” dell’Ue, Catherine Ashton – sono definiti quali saranno i parametri a lungo termine che seguirà la politica di sicurezza dell’Unione Europea.
    Il contributo più ampio, dal titolo “L’Unione Europea e l’ambiente di sicurezza globalizzato”, riassume l’indirizzo del progetto: Tomas Ries, direttore dell’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali, indica che la Ue dovrebbe sempre «combattere i problemi sociali con mezzi militari». Durante la guerra fredda, racconta Krassnin, il professor Ries svolgeva mansioni di esperto di organizzazione per le forze armate del nord Europa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha rivolto le sue attenzioni allo studio della politica di sicurezza globale. Secondo Ries, la principale minaccia per la “sicurezza” europea si annida nella violenza di un prevedibile «conflitto provocato dalle disuguaglianze tra le classi socio-economiche che esistono nella società globale». Conflitti frutto di «asimmetriche tensioni verticali nel villaggio globale». In parole povere, conclude Krassnin, il principale “problema per la sicurezza” nell’economia mondiale globalizzata è la lotta di classe.
    Per illustrare queste “tensioni verticali asimmetriche”, Ries ha rappresentato le disuguaglianze sociali in un grafico. Nella parte superiore ci sono le multinazionali, il “Fortune Global 1000”, o le mille aziende che incassano la maggior parte del fatturato del mondo. Ha calcolato che, tutte insieme, queste multinazionali rappresentino in percentuale lo 0,001% della popolazione, cioè appena 7 milioni di persone. E ha evidenziato che tra loro e la grande massa della popolazione mondiale, quasi 7 miliardi di individui, esiste una distanza enorme, incolmabile. «Visivamente – aggiunge Krassnin, sempre citando Ries – appare evidente che saranno inevitabili conflitti sociali, economici e politici che scaturiranno da questa disuguaglianza». La ricetta di Ries? Semplice: il tecnocrate svedese «raccomanda di mettere la Ue “in simbiosi” con le multinazionali». Il potere di queste aziende «è in costante crescita nei settori della tecnologia e dell’economia», ma ormai «stanno acquisendo una forte influenza anche in altre aree». Dettaglio fondamentale: «Queste multinazionali hanno bisogno dello Stato e lo Stato ha bisogno di loro».
    Con la crisi finanziaria, osserva Krassnin, gli Stati hanno già fatto la loro parte per entrare “in simbiosi” coi super-poteri, facendo «pagare alla popolazione i debiti delle banche» e quindi peggiorando ulteriormente le condizioni di quella che un tempo si sarebbe chiamata “classe operaia”. «Come conseguenza di questi attacchi contro i fondamentali diritti sociali», aggiunge Krassnin, secondo Ries si svilupperanno inevitabilmente dei conflitti sociali che colpiranno importanti aree delle infrastrutture. Esempi: «Uno sciopero dei netturbini a Napoli, in Italia, uno sciopero dei vigili del fuoco a Liverpool, in Inghilterra, e dei controllori del traffico aereo negli Stati Uniti». In tutte queste situazioni, «l’esercito è già stato utilizzato per mantenere in funzione le infrastrutture». Anche se questo non era in realtà un lavoro di competenza dei militari, Ries avverte che nei prossimi anni l’esercito dovrebbe essere utilizzato a livello nazionale con sempre maggiore frequenza: il «lavoro di polizia» che dovranno svolgere le truppe sarà necessario sempre più frequentemente a causa di queste tensioni, si legge nel testo.
    «Dal momento in cui queste righe sono state scritte, i soldati sono già stati schierati contro i lavoratori in sciopero in Spagna e in Grecia ed è stata dichiarata la legge marziale per costringerli a tornare di nuovo al lavoro». Questo è “inevitabile”, perché «i ricchi dovevano essere protetti dai poveri», sostiene il professore. Dal momento che «la percentuale della popolazione povera e frustrata dovrà continuare ad essere molto elevata, le tensioni tra questo mondo e il mondo dei ricchi è destinata ad aumentare, con tutte le prevedibili relative conseguenze». E visto che «difficilmente entro il 2020 saremo in grado di superare il gap che causa questo problema», cioè i «difetti funzionali della società», ecco che «dovremo proteggere maggiormente la nostra incolumità». Chiaro? «Quando scrive “difetti funzionali”, Ries intende le conseguenze sociali del sistema di profitto globale, come anche le guerre che servono per garantire la funzionalità del sistema». Per Krassnin, «queste sono solo due delle componenti fondamentali del sistema capitalistico, che obbligano un numero sempre maggiore di persone alla povertà o a dover scappare dal proprio paese e diventare dei rifugiati».
    Proteggere i ricchi dai poveri? Ries la descrive come «una strategia contro i perdenti del sistema». Benché ammetta che sul piano morale tutto questo sia «estremamente discutibile», secondo Ries non ci sarà nessun’altra via d’uscita «se non saremo capaci di superare le origini di questo problema». La visione del professore è quella dell’élite, «disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi e le ricchezze contro l’opposizione del resto della popolazione», annota Krassnin. E attenzione: «Ries non propone solo un regime militare europeo per reprimere gli scioperi, ma anche un rafforzamento massiccio dei singoli Stati membri dell’Ue», in vista di una guerra. «Entro il 2020, al più tardi, la Ue dovrà espandere significativamente le proprie capacità militari», per affrontare «combattimenti ad alta intensità». La pace tra le grandi potenze, infatti, «dipende interamente dal funzionamento dell’economia mondiale: se il sistema dovesse rompersi, anche il tranquillo ordine politico andrebbe distrutto». Questo è dunque lo scenario a cui si prepara l’Unione Europea. Un ottimo modello operativo? Il golpe in Ucraina contro Mosca, che ha consegnato «poteri forti ai politici». Ulteriori sviluppi? Uno su tutti: «La guerra, all’estero e in patria».

    Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».

  • Sbanca-Italia, dal Vangelo secondo Matteo Cirino Pomicino

    Scritto il 04/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista. «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».
    Come i vecchi tempi, col bilancino: «Un tanto all’Abruzzo e altrettanto al Veneto, una strada alla Calabria e una ferrovia al Lazio, un appalto per le coop rosse e uno per Cl, nella migliore tradizione da “assalto alla diligenza” di prassi dorotea e di craxiana memoria». Dopo la diagnosi e l’analisi della forma, Luca Giunti passa al contenuto: «Limitiamoci all’articolo 1, per evitare noia e disperazione. Riguarda la ferrovia ad alta velocità Napoli-Bari. Se ne parla da almeno 10 anni. Compare con 3,8 miliardi nel 7° Dpef del 2009 perché “opera di nuovo inserimento a causa dell’avanzato stato progettuale” (testuale, non ridete). In precedenza era stata annunciata come “in corso di progettazione” (Dpef 2004) e poi “inseribile nelle opere strategiche della Legge Obiettivo” (Dpef 2007). Da notare che quei documenti parlano anche del collegamento, normale, Salerno-Potenza-Bari, tante volte scritto e mai realizzato. Ora, perché uno Stato decide di costruire una nuova ferrovia? Perché serve. Come lo dimostra? Con uno studio chiamato Analisi Costi-Benefici (Acb)».
    A quanto a pare è talmente fondamentale, questo approccio, che lo propone persino il commissario dell’Osservatorio sulla Torino-Lione, Mario Virano propone, nel semisconosciuto “Quaderno 9”: tutte le fasi progettuali di un’infrastruttura, scrive Virano, dovrebbero basarsi su un’Acb. «Appare insostituibile per la sua diffusione, sinteticità nei risultati e necessità da parte dei promotori di definire molti aspetti di importanza decisiva per gli stakeholder, compresa evidentemente la collettività che finanzia parte o la totalità dell’opera». E in ogni fase, le Acb «dovrebbero essere redatte da soggetti qualificati, utilizzare metodologia consolidate e/o raccomandate da organi autorevoli e fatte oggetto di verifica da parte di organismi terzi». E’ mai stata fatta per la Napoli-Bari? No. Anzi, molti autori ne hanno denunciano l’assenza, e soprattutto l’inutilità dell’opera, osserva Giunti «Infatti, come la Torino-Lione, la Milano-Genova e la Roma-Napoli, si affiancherebbe a ferrovie esistenti, sottoutilizzate e migliorabili con costi minori e denari più immediatamente circolanti».
    Non è difficile verificarlo: oggi si può benissimo andare in treno da Napoli a Bari. Secondo le opzioni proposte dal sito di Trenitalia, ci vogliono dalle 4 alle 5 ore, cambiando quasi sempre a Caserta. Sono circa 270 chilometri. «E’ necessario migliorare il collegamento? Si può fare subito. Intendiamoci: non occorre rinunciare al progetto nuovo. Ma intanto uno Stato serio offre ai propri cittadini una possibilità immediata. Convince le Ferrovie, ad esempio, a incrementare gli Intercity e a eliminare i cambi, magari richiamando in servizio l’onorato e mai dimenticato Pendolino (perfetto per l’Italia: andava forte – non fortissimo – sulle tortuose linee esistenti, in attesa di costruire quelle nuove più veloci ma molto più esigenti)». Ma poi, perché stupirsi? «Lo stesso decreto impone una nuova linea ad alta velocità tra Palermo, Catania e Messina (nella prima versione del decreto si fermava a Catania, ma poi le lobbies…)». L’aspetto più grave, però, non è nemmeno questo: è l’alta velocità del premier sulle grandi opere. «Renzi ha fretta, vuole aprire i cantieri entro un anno, anche se mancano ancora tutte le approvazioni previste dalle leggi. Allora cosa fa? Innanzitutto, dichiara gli interventi indifferibili, urgenti e di pubblica utilità. Poi nomina un commissario (un altro!) e gli dà poteri terribili».
    Il commissario renziano approva i progetti, rielabora quelli già approvati ma non ancora appaltati, bandisce gare anche sulla base dei soli progetti preliminari e provvede alla consegna dei lavori entro 120 giorni dall’approvazione dei progetti, anche adottando provvedimenti d’urgenza. «Appaltare i lavori in base al progetto preliminare – senza valutare il definitivo e l’esecutivo – è il sogno di ogni costruttore, onesto o criminale», osserva Giunti. «Gli inconvenienti, le varianti, gli imprevisti saranno innumerevoli. E il conseguente lucro, ingentissimo. Tanto, paga lo Stato. Povero Renzi: come un Pomicino qualsiasi…». Soprattutto, il Rottamatore «ordina imperiosamente che la conferenza di servizi è convocata entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti definitivi. Qualora il rappresentante di un’amministrazione sia assente o non dotato di adeguato potere di rappresentanza, la conferenza delibera a prescindere». Il dissenso manifestato in sede di conferenza dei servizi? «Deve essere motivato. E recare, a pena di non ammissibilità, le specifiche indicazioni progettuali necessarie ai fini dell’assenso».
    In caso di motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute dei cittadini, la determinazione finale «è subordinata ad apposito provvedimento del commissario entro sette giorni dalla richiesta». Sicché «i pareri, i visti e i nullaosta relativi agli interventi necessari sono resi dalle amministrazioni competenti entro trenta giorni dalla richiesta». Decorso inutilmente quel termine, «si intendono acquisiti con esito positivo». Domanda: «Cosa vuol dire questo burocratese?». Facile: «Che dell’ambiente, del paesaggio, del territorio, dell’arte e della salute, a Renzi e ai suoi sodali non gliene frega un cazzo, con buona pace della Costituzione, dei cittadini, degli annunci fatti in ogni occasione di rilanciare la cultura e tutelare il patrimonio italiano (eccola, l’“annuncite”), l’unico che nessun’altra nazione possiede. E con un insulto alla logica, alla geografia e alla storia: qualcuno può dubitare che scavando tra Bari e Napoli si troveranno molti resti archeologici?».
    D’altronde, fu lo stesso Renzi, in conferenza stampa, a parlare di «Soprintendenze che creano problemi». Aggiunge Giunti: «Tralascio per carità di patria le scempiaggini che ha detto riguardo le terre e le rocce da scavo». Basti ricordare che «l’Europa ha imposto norme vincolanti, l’Italia le ha eluse fino all’inevitabile procedura d’infrazione, si è corretta senza pentirsi e da tempo cerca di ritornare all’anarchia filo-mafiosa del passato: lo dimostra proprio questo decreto». Lo Sblocca-Italia prevede infatti «una Disciplina semplificata del deposito preliminare» e la «cessazione della qualifica di rifiuto» per i materiali di scavo, facilitando evidentemente il loro smaltimento senza bonificare i siti. Chiara la “prognosi” di un naturalista come Giunti: «Questo Renzi si è cucito addosso il ruolo di rottamatore e innovatore, ma le azioni che lui stesso prima annuncia e poi firma dimostrano che è vecchio, invece, vecchissimo». Matteo 7, 15.20: “Dai loro frutti li riconoscerete”. «Uguale preciso ai suoi predecessori: sono la causa della malattia e si spacciano per la cura. Dov’è la differenza con Monti, con Amato, con D’Alema? O con un Dini o un Colombo? Stringi stringi, sotto gli slogan trovi sempre calcestruzzo, bitume, impalcature e favori ai grandi costruttori, sia legali sia criminali». Se guariremo, non sarà «con queste medicine, decrepite e tossiche come pozioni di negromanti». Etica, partecipazione. E medici veri: «I decreti vecchi e i loro annunciatori vanno gettati via».

    «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete». Firmato: Matteo (non Renzi, ovviamente, ma l’altro, l’evangelista). «Non mi disturba la sindrome “annuncite” che affligge il primo ministro e i suoi sodali, la considero un attributo dei tempi in cui viviamo», scrive Luca Giunti. «Mi disturba molto, invece, l’“ipocrisite”, i cui sintomi leggeri sono gli annunci disonorati, mentre quelli gravi si manifestano con atti formali opposti a quanto dichiarato». Il fumo? «E’ sopportabile se poi c’è l’arrosto; in sua assenza, irrita la gola». I No-Tav valsusini, come il tecnico Giunti, ne sono vaccinati. E dietro al decantato decreto Sblocca-Italia scoprono «verità brutali», o meglio «banali», esattamente come quelle – marce, marcissime – della rottamata Prima Repubblica, finita nel tritacarne di Tangentopoli. Il decreto annunciato da Renzi il 29 agosto, infatti, «in realtà viene continuamente modificato dai parlamentari e ogni giorno tramonta su una bozza diversa: perché si tratta sostanzialmente di una finanziaria “vecchia maniera” che ogni lobby strapazza per sostenere i propri interessi».

  • Pritchard: via dall’euro, Italia salva. Renzi, che aspetti?

    Scritto il 27/8/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Renzi non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: in campagna elettorale ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, il commissariamento della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.
    «E’ un fatto incontrovertibile – scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – che il disastro che dura da 14 anni in Italia coincide con l’adesione all’Uem», l’unione monetaria europea. «L’Italia è in depressione da quasi sei anni». Un crollo «costellato da false riprese, sopraffatte ogni volta dai dilettanti monetari responsabili della politica Uem». L’ultima “ripresa” è svanita dopo un solo trimestre, e l’economia è di nuovo in recessione tecnica: la produzione crollata del 9,1% dal suo picco, «indietro a livelli di 14 anni fa», l’industria italiana «scesa a livelli del 1980». Incredibile: «Ci vogliono errori di politica economica madornali per realizzare un tale risultato, in una economia moderna». Basti pensare che l’Italia non aveva subito niente di simile neppure durante la Grande Depressione, «facendo segnare una crescita del 16% tra il 1929 e il 1939». Nemmeno Mussolini, aggiunge Pritchard, era così maniacale da perseguire i suoi deliri sul “gold standard”. Le autorità italiane che oggi intravvedono segnali di ripresa? Sono «come le guardie della fortezza nel “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati», ingannate «dalle illusioni ottiche dell’orizzonte senza vita».
    Bollettino della catastrofe: i prestiti bancari alle imprese sono ancora in calo, “Moody’s” dice che quest’anno l’economia si contrarrà dello 0,1%, “Société Génerale” dello 0,2 Il crollo del settore immobiliare non ha ancora toccato il fondo: se l’anno scorso per vendere una casa occorreva attendere in media 8,8 mesi, ora l’attesa è salita a 9,4 mesi. Precipita l’indice del peggioramento delle condizioni di mercato: in soli tre mesi è passato da 19,6 a 34,7%. «Non possiamo andare avanti più a lungo», protesta la filiale di Taranto di Confindustria, in una lettera aperta al presidente della Repubblica in cui segnala che la Puglia sta diventando un «deserto industriale», con le piccole imprese sull’orlo della chiusura e dei licenziamenti di massa. «Il mix letale di contrazione economica e inflazione zero sta portando la traiettoria del debito in Italia a crescere in maniera esponenziale, nonostante l’austerità e un avanzo primario del 2% del Pil», aggiunge Pritchard. Nel primo trimestre 2014 il debito è salito al 135,6%, dal 130,2% dell’anno prima. E si può arrivare al 140% entro fine anno, «in acque inesplorate per un paese che in realtà si indebita in D-Marks».
    «Nessuno sa quando i mercati reagiranno», dicono i banchieri italiani. La recessione, intanto, sta erodendo le entrate fiscali così gravemente che Renzi «dovrà venirsene fuori con nuovi tagli, dai 20 ai 25 miliardi di euro, per soddisfare gli obiettivi di disavanzo dell’Ue, perpetuando il circolo vizioso». Il compito, dice Pritchard, è senza speranza, come confermano tutti gli studi. Secondo il think-tank “Bruegel”, l’Italia dovrebbe realizzare un avanzo primario del 5% del Pil per stabilizzare il debito con un’inflazione al 2%. Avanzo che salirebbe al 7,8% a inflazione zero. «Qualsiasi tentativo di raggiungere questo obiettivo porterebbe ad una implosione autodistruttiva dell’economia italiana», avverte Pritchard. Ashoka Mody, già alto funzionario del Fmi in Europa, dice che è impossibile realizzare avanzi primari così abnormi, cioè tagli spaventosi alla spesa pubblica. E consiglia alle autorità italiane di «cominciare a consultare dei bravi avvocati, per garantire una ristrutturazione ordinata del debito sovrano». Avverte: «Non deve essere un cataclisma, ci sono modi di dilazionare gli obblighi di pagamento nel corso del tempo. Ma non c’è nessuna ragione di attendere fino a che il rapporto giunga al 150% del Pil. Dovrebbero andare avanti in questo senso da subito».
    Tutt’altra musica quella che suona Eugenio Scalfari, secondo cui l’Italia dovrebbe «mettersi sotto il controllo della Troika», cioè del boia. «Scalfari sembra pensare che la democrazia in Italia dovrebbe essere sospesa per salvare l’euro – replica Pritchard – e che il paese dovrebbe raddoppiare le politiche di terra bruciata, imbarcandosi in uno sforzo ancora più draconiano per recuperare competitività attraverso un svalutazione interna», cioè tagliando i salari e il welfare. Renzi di rifletta, insiste Pritchard: pensi a salvare gli italiani, non l’euro. Sono 14 anni che il paese è in sofferenza, ovvero da quando è nell’Eurozona, che «ha messo in moto una dinamica molto distruttiva per le particolari condizioni dell’Italia». Ed è altrettanto chiaro che ora l’Uem «impedisce al paese di uscire dalla trappola». Ci dimentichiamo, aggiunge Pritchard, che l’Italia registrava abitualmente un surplus commerciale nei confronti della Germania, prima dell’euro: «Le industrie italiane del nord erano viste come concorrenti formidabili, quando la lira era debole». Antonio Guglielmi, di Mediobanca, dice che l’Italia “teneva” benissimo, prima di agganciare la lira al marco nel 1996. Solo allora è entrata in una «spirale negativa della produttività».
    In un rapporto che è una condanna, Guglielmi mostra come negli ultimi 40 anni la crescita della produttività e della competitività in Italia abbia vacillato ogni volta che la valuta nazionale è stata agganciata a quella tedesca, mentre si è ripresa dopo ogni svalutazione. Ennesima conferma dell’avvertimento lanciato da storici e antropologi: economie profondamente differenti non avrebbero mai potuto convergere felicemente nell’Eurozona. E ora siamo arrivati al capolinea: «L’Italia è sopravvalutata del 30% rispetto alla Germania e non può recuperare attraverso la deflazione, in quanto la stessa Germania è vicina alla deflazione». Le élite dellìunità monetaria, aggiunge Pritchard, esortano l’Italia a “fare le riforme”, «un termine che viene buttato là liberamente». Tutte storie: «Le metriche del mercato del lavoro per la Germania e l’Italia non sembrano così diverse», precisa Modi, già direttore del Fmi a Berlino. «Non è più facile assumere e licenziare in Germania». Il problema, semmai, è la mancanza in investimento in capitale umano, denuncia il professor Giuseppe Ragusa, della Luiss “Guido Carli” di Roma: «Ciò che veramente colpisce è quanto siamo indietro nell’istruzione».
    I dati dell’Ocse mostrano che l’Italia spende solo il 4,7% del Pil per l’istruzione, rispetto al 6.3% di tutta l’Ocse. La quota di giovani che hanno completato gli studi superiori è del 21%, rispetto ad una media del 39%. Gli insegnanti sono pagati una miseria. «Questo è davvero un grosso problema strutturale, ma non può essere risolto dalle “riforme”, figuriamoci dall’austerità». Ciò di cui l’Italia ha davvero bisogno, dice Pritchard, è di «un New Deal, un massiccio investimento in infrastrutture e competenze, sostenuto da uno stimolo monetario per sollevare il paese dalla sua soffocante tristezza cosmica». Renzi? «Deve ormai aver capito che questo non può essere fatto sotto l’attuale regime dell’Uem». Improvvisamente, il premier italiano «si ritrova nella stessa situazione terribile di François Hollande in Francia: etrambi si ritrovano con il cappio al collo». La differenza «è che Hollande è oltre ogni possibilità di salvarsi», perché «il regime depressivo dell’Uem ha distrutto la sua presidenza». “Le Figaro” sta pubblicando una fiction estiva in cui si  esplora la possibilità di dimissioni anticipate. Renzi invece «non ha ancora bruciato il suo capitale politico, ed è un giocatore d’azzardo per natura», scrive Pritchard.
    Attenzione: «Non c’è più alcuna possibilità che Italia e Francia conducano una rivolta dei paesi latini, mettendo insieme una maggioranza in seno al Consiglio Europeo e alla Banca Centrale per imporre una strategia di rilancio a livello dell’Uem che cambi completamente il panorama economico». Con l’adesione alla Germania a tutti i costi, «la forza politica di Hollande è bruciata». E gli spagnoli pensano – sbagliando – di essere fuori dal guado, e di non avere bisogno di un “patto del Sud” con Italia e Francia. Così, «Renzi è solo». E si trova davanti una Bce «che ha sostanzialmente violato il suo contratto con l’Italia, lasciando cadere l’inflazione a 0,4% sapendo che questo avrebbe fatto andare in metastasi la crisi italiana». Poi c’è Juncker, a capo di una Commissione «che promette di attuare le stesse disastrose politiche economiche che si sono già dimostrate rovinose». In altre parole, «non vi è alcuno spazio di negoziazione», perché le istituzioni di Bruxelles non ammettono le loro responsabili nella catastrofe: «Sostenendo solo la volontà dei creditori, hanno messo a terra l’unione monetaria: non hanno più alcuna legittimità».
    «L’Italia deve badare a se stessa», conclude Pritchard. «Si può riprendere solo se si libera dalla trappola Uem, riprende il controllo dei suoi strumenti di politica economica e ridenomina i suoi debiti in lire, con controlli dei capitali fino a quando le acque si calmano». Missione tutt’altro che impossibile, precisa l’economista inglese: «L’Italia non si troverebbe ad affrontare una crisi immediata di finanziamento, dal momento che ha un avanzo primario di bilancio». La sua posizione patrimoniale netta sull’estero, inoltre, è al -32% del Pil, a fronte di un -92% della Spagna e -100% del Portogallo. «Il paese non soffre di eccesso di debito da un punto di vista fondamentale», dal momento che il debito ipotecario è molto basso, e che il debito aggregato (pubblico e privato) è circa il 270% del Pil, cioè «molto inferiore a quello di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Stati Uniti, Svezia e Paesi Bassi».
    Non c’è un modo “facile” di uscire dall’euro, perché «le strutture a incastro dell’unione monetaria sono andate ben oltre un aggancio di cambio fisso», e inoltre «gli interessi costituiti», quelli che hanno trasformato l’Eurozona in una sorta di lager economico cronicamente depresso, «sono potenti e spietati». Eppure non è impossibile, insiste Pritchard, secondo cui «la faccenda sicuramente precipiterà quando la traiettoria del debito italiano entrerà nella zona di pericolo». A quel punto, tutto sarà chiaro: restare nell’euro sarà il suicidio, uscirne sarà obbligatorio. Di fronte a una crisi molto forte, in autunno, «potrebbe non essere così evidente che il paese vuole essere salvato alle condizioni europee». Quindi, «Renzi può giustamente concludere che l’unico modo possibile per adempiere al suo compito», il famoso “Rinascimento” per l’Italia, «è quello di scommettere tutto sulla lira».

    Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica” e leader dell’establishment pro-euro, propone a Renzi di sacrificare l’Italia (cioè gli italiani) per salvare la moneta unica? Il premier non gli dia retta e faccia esattamente il contrario: salvi l’Italia e lasci affondare l’euro. Come? Tornando alla lira, e di corsa, scrive il prestigioso giornalista economico inglese Ambrose Evans-Pritchard. In fondo, osserva, Renzi era ancora minorenne all’epoca del “peccato originale”, lo sciagurato Trattato di Maastricht. Finora ha sbagliato tutto: prima ha promesso di contrastare l’austerity Ue, poi si è sottomesso a Bruxelles confidando nei suoi cattivi consiglieri, che parlavano di ripresa imminente. Ora ci siamo: l’Italia sta crollando e il debito pubblico rischia di arrivare al 150% del Pil, con l’incubo di tagli miliardari in autunno o, peggio, l’arrivo della Troika. Renzi, dice Pritchard, è ancora in tempo: può salvare l’Italia, uscendo dall’euro. Possibile: perché i conti dell’Italia – quelli veri – sono meno peggio di quelli di tanti altri paesi, inclusi Francia, Gran Bretagna, Giappone, Olanda e Stati Uniti.

  • Page 24 of 35
  • <
  • 1
  • ...
  • 19
  • 20
  • 21
  • 22
  • 23
  • 24
  • 25
  • 26
  • 27
  • 28
  • ...
  • 35
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo