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Archivio del Tag ‘Internet’

  • Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille

    Scritto il 30/10/15 • nella Categoria: idee • (11)

    «Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
    «Più lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel comparto pubblico, oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato (l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso. «L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo: recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.
    Sulla mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg, le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il “debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad immaginare questo». Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.
    Sotto il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario: uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare, nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio, ma anche un delitto: «Se c’è crisi, se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa, non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco», disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di imprese e famiglie».
    L’eventuale futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt, baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso, che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo: «Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi posti di lavoro». A questo punto, aggiunge Bellisario, è giusto ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano, «concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai limiti dell’umano”».
    Se uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un “contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo: tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere. Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento, mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni). Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove  si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere. Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».

    «Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».

  • Il web abbatterà il capitalismo: è la fiaba di Paul Mason

    Scritto il 25/10/15 • nella Categoria: Recensioni • (2)

    «E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».
    Ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale «è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri», scrive Demichelis su “Micromega”. «Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica». Quale alternativa, dunque, «se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0)»? Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel “Postcapitalismo” che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. Mason propone «un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine, beni e servizi a costi marginali nulli». Si torna al tempo in cui il web, agli inizi, «già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa», una macchina «capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling» in grado di «abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico».
    Leggere Mason, continua Demichelis, fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Jeremy Rifkin, alla wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’Internet delle cose, all’ascesa del “commons collaborativo” e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Toni Negri e Michael Hardt del Comune (2010), «per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste».
    La loro soluzione per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia, quindi condivisione e libera circolazione delle idee – è in contraddizione con la natura stessa della tecnologia, «ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola)», visto che proprio la tecnologia permette al capitalismo «di sopravvivere alle sue contraddizioni», mentre il capitalismo non è che «la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono». Paradossale, aggiunge Demichelis, è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (“totalitaria” la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescersi, possa giocare contro se stessa liberandosi dal capitalismo che la sostiene. «Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi e tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie». Come le nuove tecnologie di vent’anni fa «ci affascinano e ci promettono molto, e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede». Illusioni: «Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo».
    Giornalista economico di simpatie laburiste, in questo “Postcapitalism” (che uscirà in Italia nei prossimi mesi), Mason scrive che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e mercantile – avrebbe i giorni contati: la rivoluzione informatica determinerebbe una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, mettendo in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e inaugurando una nuova economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità. «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita», scrive Mason. «Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire». Il capitalismo «non sarà abolito con una marcia a tappe forzate», bensì «grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».
    Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti: nuove tecnologie, informazione dal basso, produzione condivisa. Le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione. Inoltre, annota Demichelis, «cancellando la distinzione tra vita e lavoro», le nuove tecnologie hanno prodotto «una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente». E l’informazione? «Sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare, perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente».
    Assolutamente falso, protesta Demichelis: «Il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete», e quindi «usa proprio le nuove tecnologie per farlo». Altrettanto sbagliato è «credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza)». Di fatto, «la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più, e perché è nella natura di un capitalismo non controllato». Quanto alla «crescita spontanea della produzione condivisa», con «beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale», Demichelis ribatte: «Anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi».
    «Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato – aggiunge Mason – interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi». Favole, replica Demichelis: in verità, da anni, le migliori reatà restano ai margini, senza riuscire a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo. E intanto «i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo». Secondo Mason, «Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi, e aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma in realtà “l’intelletto generale” di Marx «non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione», e soprattutto «non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso», sia esso «uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione».
    Ci vuole ben altro, per uscire dal tecno-capitalismo: per Demichelis, «occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica)», nonché «una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione», e poi «un anticonformismo digitale, una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo, una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine, posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro». Soprattutto, conclude l’analista di “Micromega”, è indispensabile «una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Viceversa, contrariamente al Mason-pensiero, non esiste uscita di sicurezza dal tecno-capitalismo globalizzato che sta destabilizzando il mondo e minando la società occidentale.

    «E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».

  • Gli Usa? Mai neppure tentato di colpire l’Isis: ecco le prove

    Scritto il 13/10/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così  assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.
    Quando gli Usa fanno sul serio, la loro force de frappe è devastante per intensità e potenza; invece quando, come accade in Siria contro l’Isis, si limita a dei raid dimostrativi, significa che la vittoria finale non è la vera priorità e le operazioni hanno più che altro fini mediatici.
    Chi invece vuole vincere è Putin. E la differenza è evidente. Il Cremlino sta colpendo molto duramente i gruppi armati salafiti in Siria, persino con missili di lunga gittata. E che tali gruppi appartengano all’Isis o al Qaida o ad altre organizzazioni islamiche è francamente risibile: i ribelli armati moderati in Siria di fatto non esistono, sono tutti estremisti islamici della peggior risma. Sia chiaro: al sottoscritto non piacciono né le bombe americane né quelle russe e vorrei, come ha scritto Ron Paul, che nessun ordigno insanguinasse la Siria.
    Sun Tzu insegna che la guerra è la soluzione estrema, a cui bisogna ricorrere solo in casi estremi, e il fatto che si sia arrivato a tanto rappresenta una sconfitta per tutti i grandi paesi, a cominciare da quelli occidentali, dall’Arabia Saudita e dalla Turchia, responsabili per la destabilizzazione della regione. Ma una volta che è dichiarata va combattuta senza se e senza ma, soprattutto avendo ben chiari gli obiettivi: l’America dice di voler sconfiggere l’Isis ma la sua priorità è di far cadere Assad ovvero l’uomo che si oppone all’Isis. E non sembra per nulla preoccupata dalla conseguenza ultima delle sue manovre che è quella di consegnare al neocaliffato e/o ad Al Qaida l’area tra Siria e gran parte dell’Iraq, ovvero a un regime violento, settario, retrogrado; il peggio che si possa immaginare e ben lontano dai valori di democrazia, libertà, diritto che Washington difende e promuove in altre parti del mondo. Capire le logiche di questa America è davvero molto difficile.
    (Marcello Foa, “Ecco la prova che l’America non sta bombardando l’Isis”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’8 ottobre 2015).

    Navigando su internet ho trovato un documento molto interessante, anche perché la fonte è insospettabile: il Council on Foreign Relations, ovvero il think tank di altissimo livello che forma le élites sia del partito democratico che di quello repubblicano destinate a governare il paese. Molti lo considerano, non a torto, il vero pensatoio della politica estera statunitense. Uno dei suoi ricercatori, Mikah Zenko, ha paragonato i bombardamenti degli americani nelle grandi missioni militari degli ultimi vent’anni con quelli in Siria. Vediamoli. Da quando un anno fa è stata lanciata la campagna militare contro l’Isis, il Pentagono ha sganciato 43 bombe al giorno, mentre in Irak nel 2003 ne lanciò 1.039, in Afghanistan 230, in Kosovo 364 e nel 1991 nella prima guerra addirittura 6.123. E ricordatevi la polemica di qualche mese fa, di cui ho dato conto su questo blog, quando i piloti statunitensi protestarono con il Pentagono per le regole di ingaggio a cui dovevano sottostare, regole così  assurde e burocratiche che di fatto vanificavano la possibilità di colpire seriamente ed efficacemente le truppe del califfato islamico.

  • Mini: è tutto falso, in questa guerra (mondiale) per bande

    Scritto il 26/8/15 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.
    Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla Seconda Guerra Mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.
    Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità  sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.
    Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».
    Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così  un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare.  Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.
    La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe)  pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo Stato.
    Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: «E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello  comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.
    La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili.
    Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia  siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.
    In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo).
    Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: «Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione  forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.
    La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo  per  una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito ( e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione.  In Grecia, come altrove,  queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.
    Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Iraq e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.
    (Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica Scientifica” del 6 agosto 2015.  Generale di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo, Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a.”, Einaudi, 171 pagine, 12 euro).

    Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.

  • Ci rubano il tempo, così non pensiamo: ecco il complotto

    Scritto il 09/5/15 • nella Categoria: idee • (12)

    Il rapporto tra la velocità e il tempo è cambiato solo negli ultimi quattro secoli: alla velocità è stato assimilato un significato di efficacia, di efficienza, mentre alla lentezza viene attribuito un coefficiente simbolico di ritardo e inefficienza. Una persona che ha dei problemi la chiamiamo “ritardata”: tendiamo a considerare poco efficiente chi, magari, una cosa la capisce dopo – chi risponde dopo, chi reagisce dopo. E’ un ritardo, che per noi oggi è automaticamente un’inefficienza, un’inabilità. Quante volte usiamo l’espressione “perdere tempo”? I latini dicevano “festina lente”, cioè “affrettati lentamente”. Per circa due secoli è stato il motto di case nobiliari nonché del veneziano Aldo Manuzio, il primo editore del mondo. Già nella favola di Fedro, la tartaruga batte la lepre. Il “festina lente” lo ritroviamo nei testi più misteriosi, all’origine del rosacrocianesimo, e in Giordano Bruno, nel famoso dialogo de “La cena delle ceneri”. Manzoni, nei “Promessi sposi”, lo cambia in “adelante, cum judicio”: veloce, ma con prudenza.
    La velocità percepita come virtù è un’acquisizione molto recente. Attribuire alla velocità un valore positivo e alla lentezza un valore negativo può non essere una cosa utile, in senso assoluto: chi ha detto che il boia che dice “domani” è peggio del boia che dice “subito”? Nel film “Non ci resta che piangere”, con Benigni e Troisi, Leonardo è un ritardato. Leonardo era lento, molte commissioni gli sono state tolte perché non finiva in tempo i lavori: per fare le cose si prendeva i suoi tempi. Era lento, ma questo non gli ha impedito di scrivere 13.000 pagine di studi. Impegnava il tempo secondo i suoi principi. Il tempo è un bene collettivo, ma anche individuale. Il tempo è denaro, si dice, ma non è vero: il tempo non è denaro. Il denaro è fungibile, il tempo no: se ti rubo 100 euro potrai sempre recuperarli, ma se ti rubo un’ora non te la ridarà nessuno. E questo è fondamentale per capire qual è la chiave di volta a cui siamo arrivati, nel nostro sviluppo evolutivo. Il sistema, l’intero sistema di potere mondiale, è fondato sulla sottrazione del nostro tempo.
    Il tempo ci dev’essere sottratto, ci dev’essere tolto: perché, in quanto moneta infungibile, diventa la vera risorsa del sistema di potere. Quindi la vera risorsa non sono i nostri soldi, ma il nostro tempo. La sottrazione del nostro tempo è mirata a trasformare l’uomo in consumatore: l’essere umano pensante deve essere trasformato in consumatore. Meno si pensa, e più si consuma. Il miglior consumatore è quello non pensante. Quindi, sottraendovi il tempo, voi non pensate. In tempi andati, fino a 70-80 anni fa, la gente teneva dei diari. Quella di racchiudere delle cose in un racconto è un’esigenza naturale dell’uomo, una narrazione destinata anche a se stessi. E quella stessa narrazione era un modo anche per pensare – perché non è che si pensa in compagnia, si pensa da soli. Il pensiero, l’introspezione, è individuale. Si può pregare in compagnia, ma non pensare. Il pensiero è veramente la radice della nostra essenza. Se un grande filosofo come Cartesio ha scritto “cogito ergo sum” (penso, dunque sono) ci sarà pure un motivo, no?
    E quindi il sistema ci deve togliere il tempo per non farci pensare. Ma dato che noi abbiamo l’esigenza del racconto, ci dà Facebook – che è un modo di sottrarre il tempo, evitando però di pensare: chi è che si va a riguardare le scemate che ha scritto in precedenza? Facebook non è un libro, un quaderno. E poi a un certo punto ti impedisce di andare indietro. E’ l’ennesimo sistema costruito ai fini del grande progetto: la sottrazione del tempo. Noi non pensiamo, perché il tempo ci viene sottratto. E siccome non pensiamo, non partecipiamo. Chi di noi partecipa al sistema politico? Chi di noi si iscrive al partito che ha votato, andando a rompere i coglioni ai congressi e facendo causa per averli, i congressi? Certo, nessuno nega che anche Facebook abbia anche i suoi aspetti positivi, la capacità di veicolare idee. Del resto, nessuna cosa è mai interamente negativa. In una rivisitazione del “Dottor Jekyll”, Mister Hide deve fare un’azione malvagia, pesca un pesciolino dalla boccia e dice “adesso lo do al gatto”, ma poi ci ripensa: “No, così il gatto gode”. Avrebbero mai dato uno Stato a Israele senza i 6 milioni di ebrei sterminati da Hitler?
    Resta però il fatto che, se facciamo la somma del tempo sottratto, a tutti quanti, scopriamo che tutti gli espedienti sono indirizzati alla sottrazione del tempo. La sottrazione del tempo opera attraverso un concetto che si chiama “astrazione del gesto”: è il modo in cui si sono fondate tutte le operazioni di business criminale dell’umanità. Se ti convinco, una tantum, a fumarti un sigaro particolare, tu non diventi un fumatore. E non sei un fumatore se ti fumi quattro sigari all’anno, nelle ricorrenze. Quand’è che diventi un fumatore? Quando io ti fabbrico l’oggetto astratto – l’astrazione di un piacere – che è la sigaretta: te la fumi, senza più neppure accorgerti che stai fumando. Devi arrivare al gesto per cui tu compri senza pensare a quello che stai comprando. Mangi, senza sapere che stai mangiando. Devono toglierti quello che c’è dietro alle cose, ai gesti – mangiare, fumare. Non necessariamente sarebbero morte di cancro migliaia di persone. Una volta il tabacco non lo si fumava, lo si annusava. Nessuno sarebbe morto di cancro, ma non sarebbe neanche nata la Philip Morris.
    Le cose devono funzionare in quel modo: la sottrazione del tempo significa astrazione del contenuto dei gesti, e quindi eliminazione della scelta. Non facciamo più le cose per scelta, ma perché le abbiamo fatte ieri e quindi le rifaremo domani. E’ stato costruito uno schema per cui la quantità dei nostri gesti automatici è oggi infinamente superiore a quella dell’uomo di 400 anni fa. Oggi, i nostri gesti automatici sono il 90% della giornata. L’uomo del ‘400 non ti diceva “ok, lo faccio subito”, ma “lo faccio dopo”: era la difesa del principio in base al quale lui sceglieva come destinare il proprio tempo. Su questo presupposto, il vero atto rivoluzionario è riappropriarsi del tempo. Ognuno di noi lo può fare. E’ semplice, ed è alla base di tutto: adottare un certo tipo di alimentazione, costruire un vissuto diverso. Alla base di tutto ci dev’essere la riappropriazione del tempo. E’ vero che lavoriamo 8 ore, ma poi tendiamo a perdere anche le altre. Il tempo non è perso se ho visto una cosa che non mi è piaciuta, se ho scelto di vederla, perché anche quella è un’esperienza. Il tempo è perso se sono a una conferenza noiosa e non l’ho deciso io, di andarci. E il tempo perso non è restituibile.
    Anche all’interno dello schema della società odierna, noi potremmo riappropriarci di una serie di cose. Rispetto ai concetti più complicati di consapevolezza e rivoluzione personale, questa è una cosa più semplice da spiegare, da far capire. Se a un certo punto ognuno di noi, nel suo piccolo, fa questa operazione su se stesso e la stimola nelle persone che gli sono vicine, scopre che questo è l’unico modo – vero – per recuperare energie per poi rifare progetti e rimettersi in moto. Dalla fine del ‘900 stiamo vivendo nel picco più basso, a livello di consapevolezza. E’ il più alto tecnologicamente, ma non ci serve a nulla. Perché la tecnologia è stata sviluppata? Per fotterci il tempo. Esce il telefonino nuovo e te lo devi comprare, esce il computer nuovo che ti fa risparmiare del tempo, ma quel tempo lo perdi lavorando come un matto per trovare i soldi necessari a quegli acquisti. Quando dirigevo “Pc Magazine” scrissi un editoriale nel quale dicevo: non comprate l’ultimo modello, perché vi fa risparmiare un’ora di lavoro ma ve ne fa perdere dieci per pagarlo. Il direttore italiano di Cisco ci tolse la pubblicità e inviò una lettera di fuoco, di tre pagine. Risposi con due parole: “Sopravviveremo entrambi”.
    Tutto è costruito per fotterci il tempo. La macchina da 50 milioni di euro, che può essere il sogno della mia vita, convive col divieto di superare i 130 chilometri orari. Che me ne faccio, allora, di una Ferrari? Eppure la gente continua a comprare le Ferrari: l’automatismo è formidabile, è un sistema micidiale. A chi non piacerebbe una bella casa, con parco e piscina? Ho un amico industriale che ne ha una così, vicino a Milano, ma è stata costruita su una vena radioattiva che risale all’evento di Chernobyl. Un umanista come Leon Battista Alberti per prima cosa domanda: dove la fate, la casa? Chi si pone mai il problema del “dove”, dell’orientamento fatto in modo serio? Il Feng Shui dell’80% degli architetti italiani è una truffa, ma il vero Feng Shui si fonda sullo stesso principio del Padre Nostro, “così in cielo così in terra”, in alto come in basso. Ci sono energie che vengono da sopra e energie che vengono da sotto. Quelle che vengono da sotto vennero studiate a tutti i livelli: da egizi, persiani, alchimisti. E si chiama tellurismo. Ora, studiare la ragnatela del tellurismo, la ragnatela geo-magnetica, non è semplice. Se uno la conoscesse davvero, potrebbe prevenire i terremoti.
    Io ho un caro amico, Giampaolo Giuliani, che i terremoti li prevede. Ci ha sempre azzeccato, perché rileva il radon, cioè l’espressione del tellurismo: è il gas che circola e viene liberato quando le vene, i canali in cui viaggia si rompono, e quindi sale. Ma non c’è pericolo che gli architetti “chic” ne sappiano qualcosa, di tellurismo: anche a loro hanno tolto il tempo. Le forze che vengono dall’alto, invece, sono alla base del simbolismo astrologico, il cui significato non è quello divinatorio, di stabilire i caratteri dei segni. Il simbolismo astrologico nasce come ancestrale collocazione in un ordine, da parte degli antichi, delle energie che provengono dalle stelle. Il testo base della difesa dell’astrologia l’ha scritto Firmico Materno, è un romano del 100 dopo Cristo. La prima cosa che scrive è che l’astrologia non serve per divinare. Tralasciando i fabbricanti di oroscopi, se invece studiamo come questa simbologia ha cercato di raffigurare i potenziali energetici delle varie costellazioni, non dico che possa essere una cosa esatta, ma è una cosa storica, mentre l’astrologia di oggi è come il Reiki, che non è una disciplina tradizionale e nasce per fottere soldi alla gente, su invenzione di un americano del secolo scorso.
    Le discipline tradizionali non necessariamente sono esatte, ma hanno una storia. Trovate molte differenze tra il rosario cristiano e il mantra degli indiani? La scansione dei tempi comporta un esercizio di respirazione. E’ la “novena della Vergine” o qualcos’altro? Certo che è qualcos’altro: l’hanno teorizzato i benedettini, si chiama Esicasmo ed è lo Yoga dei cristiani. E’ uguale: serve a regolare la respirazione per raggiungere un determinato stato di meditazione, solo che i preti si guardano bene dallo spiegare una cosa del genere. C’è nel Cristianesimo qualcosa che andrebbe approfondito, ma non te lo dicono, perché per loro non è questo il business. Idem per la massoneria: la dottrina massonica non è un business, mentre l’organizzazione massonica lo è. Se voglio fare il business mi interessa l’organizzazione, non la teoria. Poi, certo, mi serve qualcosa di appiccicaticcio per convincere la gente che è una cosa seria – ma come fumo negli occhi, non come materia da approfondire.
    Il problema è che la sottrazione del tempo è innanzitutto è un’operazione di consapevolezza individuale: ci ha reso aggressivi e vendicativi. Noi abbiamo un altissimo coefficiente di aggressività, vendicatività e incapacità di subire un torto. Alla fine, subire un piccolo torto non è la fine del mondo: se uno ti passa davanti nella coda, e tu non hai fretta, che te ne importa? Noi litighiamo anche quando non abbiamo fretta: perché? Perché la sottrazione del tempo ci ha reso ipersensibili anche in questo senso. Siamo convinti che non dobbiamo essere fregati. E non capiamo che, in una vita sociale, un poco dobbiamo essere fottuti tutti quanti. Siamo esseri sociali, dopotutto. E allora è molto meglio stabilire un limite entro il quale sopportare, e reagire solo quando quel limite è oltrepassato. Invece, la maggior parte di noi reagisce sempre. Succede quando ti tolgono il tempo, quando non hai più il tempo di pensare a quello che stai facendo, il tempo di contare fino a dieci.
    Se tu potessi contare fino a dieci, se fossi abituato a prenderti il tempo, non t’incazzeresti. Ma siccome non sei più abituato a prenderti il tempo, t’incazzi. Questo è il meccanismo. I primi che si fottono il tempo da soli siamo noi. Se al posto di Facebook avessimo un diario serio, lo scopriremmo che ci fottiamo il tempo. Il problema vero, centrale, è che rispetto a tutte le scelte – alimentazione, qualità della vita, piccole rivoluzioni personali – la prima cosa che dobbiamo fare è riprenderci il tempo. L’alta velocità? Assurda. Cos’era il senso del viaggio, 500 anni fa? Se Marco Polo fosse potuto andare da Venezia in Cina in aereo, avrebbe mai scritto il “Milione”? Il senso del viaggio qual è? Chi si organizza le vacanze lo fa, il ragionamento sul senso del viaggio? No, certo, perché gli hanno fottuto il tempo. La sottrazione del tempo coinvolge ogni aspetto della vita. “L’ozio e il negozio” dei latini si colloca perfettamente in questo quadro: tutte le cose in cui bisognava pensare erano delegate all’“otium”, non al “negotium”. Seneca dice che, se non fai un buon “otium”, ti va male il “negotium”: se non pensi le cose giuste, mentre fai l’“otium” con calma, poi nel “negotium” ti prendi le mazzate.
    In realtà c’è questo respiro, tra le cose che devi fare entro certi schemi e le cose che devi fare fuori dagli schemi. Se tu questo equilibrio lo alteri, e fai tutto dentro gli schemi, la tua creatività è morta. Le nostre energie sociali, la capacità di avere progetti, di scoprire cose, di scoprire nuovi modi di vivere, sono zero. Diventiamo degli ottimi consumatori: alla Coop, all’Esselunga. Da anni, altri ci fanno fare quello che vogliono loro, e noi non ce ne preoccupiamo. Anche Sant’Agostino diceva “fa’ quel che vuoi”. La gente lo fraintendeva, e pensava che fosse epicureo. Poi nella “Città di Dio” l’ha spiegato: “fa’ quello che vuoi” significa che devi fare quel che vuoi veramente, non quello che ti spingono a fare. “Fa’ quel che vuoi” non significa andare a cercare tutti i piaceri del mondo, perché potresti scoprire che non è quel che vuoi, se ci pensi bene. Era anche quello che diceva Epicuro: «La felicità è semplice, basta inseguire il piacere; però è quasi impossibile, perché bisogna capire qual è il piacere».
    (Gianfranco Carpeoro, estratti della conferenza “Il grande complotto: la sottrazione del tempo” tenutasi a Milano nel giugno 2012, ripresa in video su YouTube. Massone, già gran maestro del Rito Scozzese italiano, Carpeoro è stato avvocato e pubblicitario. Giornalista e scrittore, allievo di Francesco Saba Sardi, è considerato uno dei massimi studiosi di esoterismo e linguaggio simbolico).

    Il rapporto tra la velocità e il tempo è cambiato solo negli ultimi quattro secoli: alla velocità è stato assimilato un significato di efficacia, di efficienza, mentre alla lentezza viene attribuito un coefficiente simbolico di ritardo e inefficienza. Una persona che ha dei problemi la chiamiamo “ritardata”: tendiamo a considerare poco efficiente chi, magari, una cosa la capisce dopo – chi risponde dopo, chi reagisce dopo. E’ un ritardo, che per noi oggi è automaticamente un’inefficienza, un’inabilità. Quante volte usiamo l’espressione “perdere tempo”? I latini dicevano “festina lente”, cioè “affrettati lentamente”. Per circa due secoli è stato il motto di case nobiliari nonché del veneziano Aldo Manuzio, il primo editore del mondo. Già nella favola di Fedro, la tartaruga batte la lepre. Il “festina lente” lo ritroviamo nei testi più misteriosi, all’origine del rosacrocianesimo, e in Giordano Bruno, nel famoso dialogo de “La cena delle ceneri”. Manzoni, nei “Promessi sposi”, lo cambia in “adelante, cum judicio”: veloce, ma con prudenza.

  • Carpeoro: pensiero magico, così il potere ci tiene prigionieri

    Scritto il 26/4/15 • nella Categoria: idee • (20)

    La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.
    Il dominio è il rapporto tra la terra, la guerra e la religione: alla fine, configurano il potere. E’ chiaro che, per sfruttare gli altri, li devo manipolare: perché mai una persona non manipolata dovrebbe farsi sfruttare da me? Questo meccanismo si chiama pensiero magico. Nel momento in cui io sono uno che conosce, io sono un “magister”. La radice “Mg”, in sanscrito, significa “conoscere”. Nel momento io cui io conosco, per espandere il mio essere e accrescere la mia consapevolezza, io sono un “magister”; nel momento in cui utilizzo questa mia conoscenza non per l’essere ma per il potere, e quindi per cambiare il comportamento degli altri, allora io sono “magus”. Si passa dal “magister” al “magus”: il “magus” è l’elemento che caratterizza il potere, e quindi è l’elemento che manipola. E’ il “magus”, il pensiero magico, la fonte della manipolazione. Il pensiero magico stabilisce un’area all’interno della quale non valgono le regole vere, quelle dell’universo; valgono le regole del “magus”, e quel territorio si chiama “cerchio magico”. Il mago faceva un gesto, tracciava un cerchio, e all’interno di quel cerchio non valevano più le regole del mondo, valevano le regole per cui aveva ragione lui, essendo lui lo strumento del potere – che poteva essere sacerdotale, regale o di qualunque altra natura.
    Noi siamo talmente contaminati e impressi di pensiero magico che ne viviamo fin dalla prima infanzia. Non diciamo a nostro figlio “non fare questa cosa perché è sbagliata”, gli diciamo “non farla perché viene l’Uomo Nero”. Quello è pensiero magico, perché stabiliamo una regola diversa da quella della natura: nella natura non esiste, l’Uomo Nero. Sembra una cosa piccola, ma poi ci segna. Tutti quanti scegliamo le vie magiche: il Superenalotto che ci cambia la vita, la grande vincita, la fortuna, la sfortuna. Tutti quanti preferiamo disegnare itinerari che ci mettono in condizione di essere all’interno di cerchi magici, dove poi siamo manipolati: chi pone le regole di quel cerchio ci fa fare quello che vuole lui, senza che neanche ce ne accorgiamo. Il tonno Rio Mare, “così tenero che si taglia con un grissino”, ha dietro un’operazione magica: trasformare un difetto in una qualità. E’ magia. Un tonno non può essere tenero; se è tenero, è perché lo fanno con le frattaglie pressate. Ma è “così tenero che si taglia con un grissino”, e voi infatti lo comprate. Sono le manipolazioni della pubblicità, e sono operazioni magiche: io vi costringo ad accettare non le regole della natura, che imporrebbero di capire cos’è un tonno, ma le mie regole.
    Quando una certa ditta ha voluto vendere un famoso biscotto, ha detto: sono biscotti che potete comprare perché non c’è l’acido tartarico. Nessuno vi spiega che in nessun biscotto c’è l’acido tartarico. Perché dovrebbe essere una qualità? Avete mai visto vostra nonna che fa i biscotti con l’acido tartarico? Eppure, passa per una qualità. L’operazione magica non è fondata su una realtà; è fondata sulla manipolazione del soggetto passivo, che vede come realtà una cosa che realtà non è. Tecnicamente si chiama: stabilire un dogma. Significa farvi vedere le cose in modo diverso, anche rispetto alla loro effettiva connotazione. Quando la Chiesa disegna l’Immacolata Concezione – la Madonna, vergine nonostante abbia concepito – fa un’operazione magica, perché non vi porta in realtà sul vero problema. Da un punto di vista medico, sappiamo che per una donna è possibile concepire rimanendo vergine; la cosa veramente difficile è rimanere vergini dopo avere partorito. Ma non c’è l’Immacolato Parto. Neanche la Chiesa arriva a mettersi in contrapposizione con regole assolute, per cui rimane il mistero: la Madonna è rimasta vergine anche dopo aver partorito? Questo, tra i dogmi della Chiesa non c’è.
    Il dogma non è credere in qualcosa, è non poter discutere di qualcosa, e non accettare che ne discutano nemmeno gli altri. Nel momento in cui le Chiese sono diventate potere, hanno imposto un meccanismo dogmatico anche a chi non lo voleva. C’è gente che è finita sul rogo, per questo. In Europa, sono morte bruciate 600.000 streghe in trecento anni. Quando l’uomo possiede una fede, trattasi di religione; quando una fede possiede l’uomo, trattasi di setta. Una persona che ha una fede è libera, una persona che ha un dogma no, non è libera. Non è la religione a operare la manipolazione, ma la struttura. Non c’è scritto da nessuna parte che una Chiesa debba essere una struttura, che debba avere un tesoro, degli amministratori, dei beni, debba essere uno Stato, debba avere le Guardie Svizzere. Maometto aveva vietato all’Islam di diventare una Chiesa, aveva vietato di avere gli Imam. Gesù Cristo da nessuna parte ha detto che doveva nascere una Chiesa strutturata. Le strutture, se nascono, nascono per il potere, non per la fede. Alla fede non servono le strutture. Le cose buone le fanno gli fanno gli uomini, gli esseri umani, non le strutture. Le strutture – si chiamino massoneria, Chiesa, Stato – possono fare solo cose negative.
    Sono le strutture a manipolare, e voi trovate mille manipolazioni di questo tipo. Il Credo è una preghiera che nasce da un’operazione politica. Concilio di Nicea, 300 e rotti dopo Cristo, grande scontro tra eresia ariana e versione ortodossa: l’eresia ariana diceva che Gesù Cristo era un uomo, la Chiesa regolare diceva che Cristo era figlio di Dio, quindi era Dio. Siccome i due vescovi che dovevano mettere a posto questo complicato problema erano compagni di merende – si chiamavano Eusebio di Nicomedia e Eusebio di Cesarea – fanno un compromesso: voi oggi recitate una preghiera che è frutto di un compromesso. “Credo in Gesù Cristo, generato, non creato”. Gli uomini generano, Dio crea. Quindi, uomo: generato, non creato. E poi aggiungono: “Della stessa sostanza del padre”, ma non specificano il padre. Cioè fanno un’operazione in base alla quale ognuno può scegliere l’interpretazione più favorevole a sé. Nessuno ve la spiega così, quella preghiera. Ve la fanno dire automaticamente, perché il dogma è importante. Come l’Auditel, che in realtà è fondato su una convenzione.
    Ci sono 150 persone, in tutta Italia, che hanno una macchinetta che rivela i programmi che vedono. Il primo problema è statistico: uno mangia quattro polli, un altro non ne mangia nessuno, quindi ne mangiano due a testa. Così funziona la statistica. E poi: com’è gestita, questa cosa? Chi dovrebbe essere controllato in realtà controlla se stesso. Perché, chi sono i soci dell’Auditel? Le concessionarie. E’ come per le banche. Chi le controlla? I banchieri. In Italia chi controlla i magistrati? Altri magistrati. Da noi funziona tutto così. Il controllore dovrebbe essere avulso da ciò che deve controllare: in Italia, invece, il contollore controlla se stesso – per regola. Mentana, che sa benissimo cos’è l’Auditel, non fa nulla per l’Auditel, perché sa che molte cose sono concordate a monte. E sa anche di avere una professionalità, una simpatia, un appeal che gli consentono di evitare che gli vengano attribuite brutte figure. Il problema è: stabilire a quale cerchio magico risponde qualunque tipo di operazione. Perché nella nostra società non esiste nessuna operazione – di informazione, di finanza, di politica – che non risponda a un pensiero magico.
    Al pensiero magico si contrappone il pensiero simbolico, quello che ti spinge a chiederti “perché”. Il pensiero magico, che è funzionale a una società consumistica, ti spinge a chiederti solo “come”, non perché. Il perché è superato, non te lo devi chiedere. Tutti devono solo chiedersi come. Nessuno si deve chiedere perché comprare qualcosa, ma solo come comprarlo, come sbattersi per mettere insieme i soldi per comprare il modello nuovo sei mesi dopo, e così via. Nei meccanismi di manipolazione, il primo obiettivo è impedire alla gente di chiedersi perché. La manipolazione avviene perché quel gradino ve lo fanno saltare. Voi vi chiedete solo come, non perché. Ed è fondamentale, nel pensiero magico: non ti devi chiedere perché diventare ricco, ma come diventarlo. Non ti devi chiedere perché una donna si dovrebbe innamorare di te: al mago, tu chiedi come una donna si possa innamorare di te. Quel perché lo dovresti chiedere a te stesso, non al mago.
    L’uomo diventerebbe libero, se non ci fosse il pensiero magico, perché farebbe le domande a se stesso. Col pensiero magico non è libero, perché è costretto a fare le domande al mago. Immaginando la magia, siamo ancora legati al tipo col cappello a cono e le stelline, ma la magia è sofisticata. Bin Laden è l’Uomo Nero. Noi disegnamo scenari in base ai quali, per interi decenni, pensiamo che tutto il problema sia legato a una persona. Ci hanno spiegato che il problema dell’Italia era Sindona, poi Sindona è sparito ma i problemi sono rimasti. Poi ci hanno detto che era Gelli, ma – via Gelli – i problemi son rimasti. Poi Craxi, idem. Ma perché? Perché noi siamo costretti a immaginare la logica dell’Uomo Nero, che applichiamo dall’inizio. E’ connaturata in noi, col modo in cui abbiamo costruito questa società, che è costruita sul pensiero magico.
    La nostra società è costruita sul mito secondo cui qualsiasi cittadino americano possa diventare presidente degli Stati Uniti. Ma anche fosse, perché un americano dovrebbe voler fare il presidente? Sarebbe felice? Sulla libertà, abbiamo costruito un dogma del piffero. La libertà non è poter fare tutto quello che vuoi. La libertà è sapere quello che veramente vuoi. Potete pensare una donna meno libera di una che voglia diventare madre? Sicuramente, dopo che fa dei figli, una donna può sembrare meno libera. Ma non è vero che sia meno libera, se l’ha scelto lei. In una democrazia si può essere meno liberi che in una monarchia. Il problema è a monte, ma non si risolve col dogma. Va risolto a livello individuale: sta nel chiedere il perché a stessi, e non il come al mago. Noi concepiamo una società dove calpestare i nostri diritti è normale, è fisiologico, perché siamo permeati di pensiero magico.
    Prima di combattere gli effetti, esaminiamo le cause. La manipolazione non nasce come un fungo in un prato, è il frutto di una costruzione di società: qualcuno decide che può stare meglio se gli altri stanno peggio. Ma nemmeno nel potere c’è libertà. La libertà è nell’essere, nella realizzazione di se stessi, nei modi e coi tempi di ciascuno.
    Abbiamo costruito una società del pensiero magico, basata sulla velocità: se una cosa la capisci dopo, sei ritardato. Ma siamo sicuri che capire subito sia un valore? Siamo certi che chi capisce dopo non capisca meglio? Il nostro concetto di tempo non è legato a cose che abbiamo deciso noi, sono altri che hanno deciso che dobbiamo fare in fretta. E questo, perché noi non dobbiamo avere tempo per pensare, per scegliere. Sono meccanismi assolutamente magici. La prima cosa che ci dev’essere sottratta è il tempo. La seconda è la linearità del desiderio. Nei supermercati, a mezzogiorno diffondono profumo di pane per stimolarci a comprare di più. Fa tutto parte del pensiero magico: stabilisco il cerchio, che è la mia area commerciale, decido che tu devi comprare più roba e quindi utilizzo il meccanismo di manipolazione, che è l’odore del pane. Dobbiamo conoscere, non esistono scorciatoie: può cose uno conosce, più è in grado di capire all’interno di quali cerchi magici si trova, come ne può uscire e come può evitare di entrarne in altri. Ma la conoscenza ha bisogno di tempo. E noi quanto tempo dedichiamo a conoscere?
    Internet può essere una fonte di conoscenza, ma richiede tempo (e ce ne sottrae) perché ormai è diventato talmente vasto da essere dispersivo. In più, Internet elimina la conoscenza casuale. Se da Napoli vai a Milano in auto, Bologna la vedi. Se ci vai in aereo, te la perdi. Voglio il passo del Paradiso dove si parla dell’aquila? Digito, e mi compare direttamente quel passo. Senza Internet, no: te la devi leggere, la Divina Commedia. E intanto che leggi, conosci. Non bisogna fare di niente un valore assoluto. Via i paraocchi: tutto, interpretato in chiave assoluta, ci preclude delle possibilità. Se Internet ci preclude la possibilità di leggere la Divina Commedia, allora non va bene. Ognuno di noi, tanti anni fa, teneva un diario, che conservava per anni. Avete mai provato a scoprire su Facebook cos’avete scritto un anno fa? In pratica, il sistema vi si blocca: pensate a cosa vi toglie, tutto questo. Poi, per conoscere, la seconda cosa che conta, oltre al tempo, qual è? La memoria. Senza memoria non si conosce nulla. Per conoscere, archiviamo dati che poi colleghiamo. Se non archiviamo, non possiamo collegare. Cosa ci ha tolto Facebook? La memoria. Senza accesso al passato, non posso rileggere i fatti oggi ed evitare di commettere gli stessi errori di ieri.
    Facebook è una delle conseguenze dell’11 Settembre. Doveva essere una mega-progetto della Cia per schedare tutti gli americani. Ma costava un sacco di soldi, perché bisognava raccogliere i dati. Al che, un cervello della Cia si è alzato e ha detto: “Ma perché i dati li dobbiamo raccogliere noi? Facciamoceli dare”. E hanno risparmiato non so quanti miliardi di dollari. Hanno trovato un nazistello, Zuckerberg, a cui hanno intestato la cosa e gli hanno detto “fai i quattrini”, e hanno schedato tutto il mondo. Perché spendere miliardi per quei dati? Meglio se faccio in modo che i dati vengano a me. E’ un pensiero magico, no? Il ricercatore è il “magister”, quello a cui piovono le cose nel piatto è il “magus”. Questa società deve vendere: è basata su una produzione posticcia, esigenze posticce, un mercato posticcio. Una società normale, agricola, rurale, non mangiava carne ogni giorno: McDonald’s sarebbe fallito. Ma anche i vegani sono schiavi del pensiero magico: disegnano quello che non si può fare (tutto il mondo che diventa vegano) anziché quello che si può fare (consumi gradualmente più responsabili).
    Chi pensa a soluzioni radicali esprime il pensiero magico: nessuna soluzione può essere radicale, in un cerchio diverso dal cerchio magico. Il radicalismo porta a rimanere dove si è. Se invece usciamo dal recinto, di giorno in giorno possiamo porci degli obbiettivi raggiungibili. Se di ogni cosa che facciamo ci chiediamo il perché, possiamo evitare di essere vittima di un cerchio magico. E’ successo anche alla massoneria, quando ha accettato di diventare un organismo unico e centralizzato. Un progetto di potere: pensiero magico. Non sono gli uomini che fanno progetti di potere. E’ il potere che fa progetti di uomini. Il potere è un meccanismo, non è identificabile con la persona. Nel momento in cui la società è vocata al potere, al pensiero magico, questa società – indipendentemente da Sindona, Gelli o Totò Riina – va avanti così. E’ lo schema, che si riproduce, non le persone. Puoi arrestare Provenzano, ma poi ti ritrovi Messina Denaro: la regola vale per la mafia, per la politica, per la religione, per tutte le aggregazioni umane. Ed è una società che può peggiorare. Ve l’immaginate, cent’anni fa, un camorrista che seppellisce scorie tossiche dove gioca il figlio?
    Nonostante la scelta di essere delinquente, un mafioso non avrebbe mai potuto seppellire scorie nucleari dove giocano i figli. Adesso invece è immaginabile. Perché le scelte di potere sono solo peggiorative, non sono mai un’evoluzione positiva. Il massone del ‘700 è comunque meglio del massone di adesso. Perché il potere peggiora, corrompe. Abbatte valori, limiti, paletti, confini. Questa riflessione, oggi, è l’unico atto rivoluzionario che possiamo fare. La vera rivoluzione che possiamo fare è minare il sistema consumistico dalle sue radici, e le sue radici sono il potere. Nella misura in cui riusciamo a sottrarci al potere – al potere che ci vuol far comprare, al potere che ci toglie il tempo e non ci fa pensare – noi facciamo un’operazione realmente rivoluzionaria, dove non c’è bisogno di spargere del sangue. C’è bisogno però di faticare noi, di fare un percorso di conoscenza e di consapevolezza – faticoso, lento. Ma dobbiamo entrare nell’ottica per la quale tutto deve essere fatto per noi stessi, non per la proiezione che questa società fa di noi stessi.
    La new age oggi vende la “regola dell’attrazione”, che spinge ancora una volta a mettersi al centro del mondo, ma nessuno di noi è il centro del mondo. E’ un’operazione magica, mettersi al centro del mondo – per questo il mago disegna il cerchio: lui è il centro del cerchio. Smettiamo di disegnare cerchi, e cominciamo a pensare che esiste un unico, grande cerchio di cui noi siamo parte. E cominciamo anche a immaginare che la legge vera non è quella dell’attrazione (per cui noi attraiamo o respingiamo le cose) ma è la legge della complementarietà, per cui noi combaciamo con tutto il resto. Vi siete mai guardati allo specchio? Vi mostra come vi vedono gli altri. E se non mettete assieme come vi vedete voi e come vi vedono gli altri, non vedrete mai come siete veramente. Solo portando nell’ambito della conoscenza tutto quello che non conoscete, potere avere la vera dimensione del vostro essere. Siamo tessere di un mosaico (meraviglioso, peraltro) che, se stanno nei loro limiti, ci entrano perfettamente, in quel buchetto. Ed entrando in quel buchetto concorrono a una grande bellezza.
    (Gianfranco Carpeoro, estratti dall’intervento al convegno “La manipolazione dell’informazione e delle coscienze” tenutosi il 20 dicembre 2014 a Ercolano, con relatori come Paolo Franceschetti e Massimo Mazzucco. Giornalista e saggista, già avvocato e pubblicitario, Carpeoro è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù; studioso di esoterismo, è un grande esperto di storia antica e linguaggio simbolico).

    La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.

  • Rella: guerra alla memoria, per dominarci definitivamente

    Scritto il 25/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.
    Su Botticelli all’Expo non caleranno magli e martelli, ma orde di turisti a decretarne la sostanziale insignificanza culturale. Ancora una volta la barbarie dell’Isis è ultramoderna, spettacolare, cinematografica, o meglio da serie Tv. Ha scritto Arjun Appadurai che nel periodo della globalizzazione si sono moltiplicati episodi di violenza immane, che è penetrata con ferocia chirurgica all’interno dei corpi, dilaniandone le carni. Dalla Bosnia negli anni Novanta del secolo scorso, al Ruanda, e via via fino agli orrori attuali è stata una catena di delitti, una striscia ininterrotta di sangue. L’Isis è andato oltre. Ha massacrato centinaia e migliaia di persone, ma ha spettacolarizzato la singolarità. Una vittima, un coltello, un carnefice, un corpo senza testa. È una gestione sapiente dell’orrore. Si pensi come l’uccisione con una lama implichi un rapporto diretto, inequivocabile, carnale, tra i corpi della vittima e del carnefice.
    Bush è colpevole di molte cose. Già Bush padre con la Guerra del Golfo aveva trasformato, come aveva scritto Asor Rosa, un piccola guerra locale in una guerra mondiale: una guerra senza conflitto effettivo, una guerra dell’epoca della globalizzazione. Bush figlio ha proseguito. Ma non solo lui. Tutto l’Occidente si è trovato – dopo l’Iraq e dopo l’Afghanistan – a gestire conflitti per delega, anche quando, come in Libia, c’è stato intervento diretto. E ovunque ha lasciato dietro di sé caos e violenza. Oggi c’è chi chiede un intervento di polizia internazionale contro l’Isis. I pacifisti ironizzano sull’elmetto indossato dai fautori dell’intervento. Ora, al di là del pericolo paventato dall’Occidente, assistiamo a veri e propri etnocidi: intere tribù e intere popolazioni eliminate per il loro credo religioso o per la loro etnia. Era giusto intervenire contro Hitler e cercare di fermare l’Olocausto? Non era forse giusto magari intervenire anche prima?
    Il potere strega, affascina: chi lo esercita e chi lo subisce. Penso all’immane sforzo di Pier Paolo Pasolini per fronteggiare il potere in “Petrolio”, facendo stuprare il suo personaggio, trasformandolo in donna, sgretolando la forma stessa del romanzo, per concludere che anche organizzando il mondo in un’opera d’arte si esercita una forma di potere. Penso a Kafka che, come dice Canetti, ha combattuto il potere in tutte le sue forme, per riconoscere nelle lettere alla fidanzata, Felice, che egli era bensì, come lei, vittima, ma al tempo stesso era anche carnefice. Dunque esercitiamo sempre una qualche forma di potere, e sempre in qualche forma lo subiamo. Si tratta di essere costantemente vigili. Non piegarsi ad esso, riconoscerlo, resistere alla sua seduzione. Direi che la conoscenza è ormai così diffusa che rischia di diventare un rumore di fondo, di ottundere la nostra percezione dei conflitti e della loro durezza. Diventa perfino difficile, nell’iterazione degli omicidi dell’Isis, convincerci che quello che vediamo è sangue vero. Ho parlato della gestione del tempo e della memoria come un atto di potere e di dominio. Qual è il potere che gestisce oggi l’immane memoria della rete? A quale fine?
    Posso citare i nomi dei proprietari di Google, di Amazon, di Facebook. Non mi dicono nulla. Questa è l’epoca in cui uno dei più formidabili strumenti di potere della storia dell’umanità scivola nell’anonimato, si fa oscuro e indecifrabile. Si fa neutro. proprio come le operazioni di Borsa computerizzate che distruggono l’economia di una nazione, o creano profitti scandalosamente osceni per i singoli. Inoltre la rete spinge a vivere il tempo in istanti submicroscopici, tempi segmentati fatti solo di “ora”: da un’“ora” a un’altra “ora”, senza che questo tempo possa diventare una memoria individuale. Mi chiedo se non sia in atto un processo di desoggettivazione, in quanto il soggetto può dirsi tale soltanto se in possesso di una propria memoria e di un proprio tempo. La damnatio sarebbe in questo caso la cancellazione della memoria individuale. Foucault concludeva il suo ultimo seminario invitando alla “cura di sé”, a costruirsi come soggetti e a mantenersi soggetti. Foucault sapeva come questo processo di soggettivazione fosse sempre a rischio.
    (Franco Rella, dichiarazioni rilasciate a Monica Pepe per l’intervista “Morte della civiltà?” pubblicato da “ZeroViolenza” il 9 aprile 2015. Filosofo e saggista, Rella ha insegnato estetica allo Iuav di Venezia. È autore di saggi su arte, letteratura e filosofia, come “L’enigma della bellezza”, “La responsabilità del pensiero”, “Interstizi. Tra arte e filosofia”, “Ai confini del corpo”, “Forme del sapere. L’eros, la morte, la violenza” e “Figure del tempo”, introduzione al secondo volume dell’Enciclopedia delle Arti Contemporanee, a cura di Achille Bonito Oliva).

    Benjamin ha scritto che ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Una passeggiata nei Fori Imperiali a Roma ne è una straordinaria illustrazione. Certo, con il passare del tempo il monumento, eretto per celebrare una vittoria, e di converso una sconfitta, si allontana dall’occasione che lo ha generato. Non testimonia più un potere attuale, ma piuttosto l’opera del tempo che si deposita su di esso, lo modifica, spesso lo risignifica. Accanto al Monumentum, vale a dire a ciò che deve essere ricordato, c’è la damnatio memoriae, ciò che deve essere dimenticato. Dall’antichità ai nostri giorni la gestione della memoria e la gestione dell’oblio sono state strumenti politici, strumenti di potere. Nella distruzione dei monumenti di Mosul c’è però qualcosa che va oltre la damnatio memoriae. È una operazione di barbarie, ma di barbarie ultramoderna, addirittura postmoderna. I capolavori a cui l’uomo dovrebbe legare la sua memoria o addirittura la sua identità vengono spostati di qui e di là scopi turistici ed economici, o addirittura promozionali, o propagandistici, come lo sono le distruzioni di Mosul.

  • Dario Fo & friends: Re/Search Milano, ecco la città segreta

    Scritto il 30/3/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    L’alba contemplativa sulla Montagnetta di San Siro? «Siamo saliti anche noi sull’unico rialzo di Milano accessibile non solo da governatori o banchieri». Prodigio: «Il sorgere del sole su “smogville” ci ha dato superpoteri visionari, così abbiamo messo la mani sulla città smontandola pezzo dopo pezzo. Ora la stiamo ricomponendo a nostro piacimento, ma il lavoro non è ancora finito e per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto». Bastano anche solo 10 euro, per spingere i capitani coraggiosi dell’“Agenzia X” verso la meta, battezzata “Re/Search Milano”. Ovvero, la mappa interattiva e multimediale di una città fatta a pezzi: «L’incredibile guida alla Milano sconosciuta, quella più interessante e vivace ma puntualmente ignorata dalla segnaletica ufficiale», anche adesso alla vigilia dell’Expo. E’ la Milano più intima e segreta, raccontata da autori come Dario Fo, Aldo Nove, Manuel Agnelli, Mauro Pagani, Marina Spada, Max Guareschi, Giovanni Bai. Sguardi d’autore, ma anche percorsi, schede descrittive, associazioni, gruppi etnici. Una Milano mai vista, mai raccontata tutta insieme in un unico colpo d’occhio.
    Quella di “Re/Search Milano”, spiegano i promotori dell’operazione culturale, sostenuta da crowdfunding sociale, è una guida ipertestuale dedicata alla Milano più inattesa, quella dei luoghi dove si produce cultura indipendente e underground, dove si sperimenta ogni giorno nuove forme di vita e di socialità, partecipazione e divulgazione dei saperi. «Una guida in grado di smontare lo scheletro urbano in tanti piccoli pezzi, con i quali poi dare indicazioni utili per un viaggio controcorrente, erratico, denso di sorprese ed emozioni». Una topografia insospettabile, fatta di «percorsi d’autore tra psiche e territorio, intinerari narrativi scritti dalle migliori penne milanesi in un divertente gioco per indizi, collegamenti e casualità, ma anche di nuove connessioni in cui il lettore potrà divenire protagonista». Al progetto parteciperanno una moltitudine di ricercatori, artisti, studiosi e professionisti. Inoltre, insieme al proprio sito di mappe interattive, la guida permette a ciascuna realtà coinvolta di “traspassare” i propri ambiti di riferimento, interagendo con tutte le altre esperienze qui rappresentate.
    Le schede sono realizzate da un collettivo editoriale formato dai redattori di “Agenzia X” con molti giovani ricercatori e appassionati di letteratura che hanno individuato più di mille luoghi da esplorare. Hanno scelto circa 200 punti, su cui proporre una breve narrazione: «Duecento manufatti di scrittura creativa, realizzati grazie alle personali esplorazioni psico-geografiche degli stessi redattori o attraverso interviste o interventi dei gestori dei luoghi prescelti». Tragitti narrativi, guidati da «Ciceroni visionari», esperti di spazi a misura di bambino, ciclofficine, street art, architettura (Lucia Tozzi), musica live (“Rockit”), teatro (Gigi Gherzi), cinema (Alessandro Stellino). E ancora: storia e Resistenza (Maurizio Guerri), negozi di dischi ed etichette discografiche, cucina e alimentazione naturale. Marco Philopat, di “Agenzia X” (organizzatrice della grande kermesse di reading “Slam-X” guida il pubblico tra i centri sociali milanesi, mentre Uliano Lucas è il “cicerone” della fotografia e Rossella Moratto quella dell’arte contemporanea. E poi le minoranze (Marco Geremia, Lgbt friendly), il “viaggio situazionista” di Alessandro Abate, il femminismo (Lea Melandri e Viviana Nicolazzo). E ancora: la moda, la poesia, la “Milano Swing” di Martina Fragale, l’archeologia industriale della periferia nord raccontata da Massimo Bunny.
    Notevola chicca, gli “Sguardi d’autore” affidati a personaggi come Dario Fo: si tratta di brevi racconti realizzati appositamente dalle migliori penne milanesi, «ideati per il piacere dei lettori più esigenti, in cui l’arte dello scrivere diventa protagonista mentre viene messa in luce una particolare porzione di tessuto urbano». I testi, avvertono i promotori, «saranno a carattere autobiografico dove l’autore ci illustrerà aneddoti personali, fatti storici, pietre miliari e notizie riguardanti il passato o il presente, accompagnandoci negli angoli prescelti di Milano: scrittori, storici, poeti, musicisti ed esperti dei vari settori offriranno uno sguardo inedito su una zona o un particolare della città», inclusi i punti cardinali del meticciato, visto che «più di un quarto dell’odierna popolazione milanese proviene da altri paesi del mondo». Dai ragazzi dell’underground, giovani cittadini di prima o seconda generazione migrante, proviene una mappa della Milano che ciascuno di loro conosce e attraversa ogni giorno. Una Milano multicolore: il parco Trotter durante i week end estivi, i concerti e gli angoli delle strade dove si suona rap o si esprime la cultura hip hop, i campetti di calcio o basket, gli spot di skateboard, i luoghi di lavoro. «Alla fine della campagna – spiegano – la redazione di “Re/Search Milano” (oltre cento persone) accompagnerà i soci più generosi a contemplare l’alba sulla montagnetta di San Siro. Lassù verranno trasformati in supereroi per risistemare la metropoli a loro piacimento».
    (“Re/Search Milano” è un progetto multimediale, cartaceo e web: per sostenerlo con una donazione, in cambio di preziosi gadget, basta accedere alla piattaforma di crowefunding “Eppela”).

    L’alba contemplativa sulla Montagnetta di San Siro? «Siamo saliti anche noi sull’unico rialzo di Milano accessibile non solo da governatori o banchieri». Prodigio: «Il sorgere del sole su “smogville” ci ha dato superpoteri visionari, così abbiamo messo la mani sulla città smontandola pezzo dopo pezzo. Ora la stiamo ricomponendo a nostro piacimento, ma il lavoro non è ancora finito e per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto». Bastano anche solo 10 euro, per spingere i capitani coraggiosi dell’“Agenzia X” verso la meta, battezzata “Re/Search Milano”. Ovvero, la mappa interattiva e multimediale di una città fatta a pezzi: «L’incredibile guida alla Milano sconosciuta, quella più interessante e vivace ma puntualmente ignorata dalla segnaletica ufficiale», anche adesso alla vigilia dell’Expo. E’ la Milano più intima e segreta, raccontata da autori come Dario Fo, Aldo Nove, Manuel Agnelli, Mauro Pagani, Marina Spada, Max Guareschi, Giovanni Bai. Sguardi d’autore, ma anche percorsi, schede descrittive, associazioni, gruppi etnici. Una Milano mai vista, mai raccontata tutta insieme in un unico colpo d’occhio.

  • Taylorismo digitale, finta creatività e schiavitù informatica

    Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.
    Si è così iniziato a parlare di “taylorismo digitale”, ma questa metafora, al pari di quella – cara ai teorici post-operaisti – che parla di “vita messa al lavoro”, appare insufficiente a descrivere il salto qualitativo che il capitalismo si appresta a compiere a mano a mano che il mezzo di lavoro computer viene sostituito dagli smartphone e altre tecnologie “indossabili” (ma soprattutto dalle “app” che animano questi dispositivi). Per rendersene conto basta seguire il dibattito americano sul concetto di “Quantified Self” (letteralmente: sé quantificato, o misurato). Il termine è stato coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly, noto apologeta della “rivoluzione” digitale fin dalla metà dei ’90. Riferendosi alla capacità dei dispositivi in questione di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali e gestualità (oltre che sull’ambiente ad essi circostante) di coloro che li indossano, i due parlano della chance di attivare una sorta di autoanalisi della vita quotidiana per “migliorarsi” e aiutare gli altri (visto che i dati possono, anzi devono, essere condivisi) a fare lo stesso.
    Mikey Siegel, un ex ingegnere della Nasa laureatosi al Mit, è il guru di una versione New Age di questo “movimento”. Tenere traccia dei propri passi, consumo di calorie, sonno, numero di volte in cui si controllano le mail, sostiene Siegel, è un potente strumento per ottenere un allargamento della coscienza, un’attenzione focalizzata sul proprio sé complementare a quella che si può raggiungere attraverso la meditazione. Così, conclude, anche noi occidentali capiremo che le cause delle nostre sofferenze, paure, angosce, stanno nella psiche e non nel mondo che ci circonda (cioè in bazzecole come miseria, disuguaglianze, sfruttamento, violenza, oppressione dell’uomo sull’uomo). Se poi nemmeno così riusciremo a superare il disagio provocato dall’eccesso di alternative che una realtà iperconsumistica ci offre, rendendoci incapaci di scegliere, ecco venirci in soccorso un’altra generazione di nuove “app”, capaci di trovare sempre la soluzione migliore per noi.
    Per farla breve: qui siamo ben oltre il taylorismo digitale, andiamo verso uno scenario in cui si tenterà di garantire pace sociale, massimizzazione produttiva, autocontrollo e autodisciplina attraverso la disponibilità dei singoli soggetti di “godere” della consulenza operativa, psicologica e morale dei propri gadget e degli “spiritelli” che li abitano. Uno scenario in cui il capitale non si limiterebbe ad appropriarsi a posteriori della libera e spontanea creatività del lavoro cognitivo, ma ne spegnerebbe a priori ogni reale margine di autonomia (Marx avrebbe parlato di transizione dalla subordinazione formale alla subordinazione sostanziale del lavoro al capitale).
    Ma gli algoritmi non servono solo a disciplinare/controllare la vita messa al lavoro: sono al centro delle strategie di repressione delle “classi pericolose” escluse o confinate ai margini del processo produttivo. Come racconta Massimo Gaggi in un articolo (“L’algoritmo che anticipa in crimini?”) apparso sul “Corriere della Sera” dell’8 marzo, le polizie di 58 città americane pattugliano ormai solo le sezioni di territorio che il software della società Predictive Policing (un marchio sinistramente evocativo del racconto “Minority Report” di Philip Dick, che descrive un regime totalitario in cui i criminali vengono arrestati “prima” che possano delinquere) seleziona come quelle statisticamente più esposte a ospitare reati. E indovinate chi merita di finire sotto lo sguardo di questo Panopticon digitale? Neri e Latinos.
    (Carlo Formenti, “Le insidie del taylorismo digitale”, da “Micromega” del 9 marzo 2015).

    Com’è noto, l’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata da Taylor consisteva in una serie di pratiche di quantificazione/misurazione di ogni gesto lavorativo – pratiche che servivano a definire (e successivamente imporre) il “modo migliore” (cioè più veloce, efficiente e produttivo di valore per l’impresa) di effettuare una determinata mansione. Negli ultimi anni è prevalsa la convinzione che lo spirito del taylorismo sia tramontato assieme alla fabbrica fordista, sostituito da un modo di produrre che – grazie alle tecnologie di rete – si fonda sulla creatività e sull’autonoma capacità di cooperare dei lavoratori autonomi. Questa visione ottimista è andata in crisi a mano a mano che ci si è resi conto del fatto che le tecnologie digitali – in particolare gli algoritmi del software – incorporano una serie di regole, procedure e schemi cognitivi che sono in grado di controllare/disciplinare i comportamenti del lavoro “creativo” (più o meno “autonomo”) in misura non inferiore a quella in cui la catena di montaggio subordinava il lavoro dell’operaio fordista.

  • Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Sì, purtroppo

    Scritto il 10/3/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.
    Renzi è stato giustamente massacrato dal popolo di Internet. Sono fioriti gruppi su Facebook che grondano indignazione per quella che viene considerata una presa per i fondelli. Ma a interessarmi non è tanto la sua giravolta, che può sorprendere solo chi ancora non ha capito la natura del personaggio e la sua inconsistenza politica, quanto le sue tecniche di comunicazione. Ascoltatelo bene. Renzi parte sempre evocando un luogo comune, un sentore comune, scandendo bene le parole, come se stesse parlando al bar. Conquistato l’assenso implicito dell’ascoltatore, lancia il suo proclama presentandolo sempre come la cosa più ovvia del mondo, o meglio la cosa giusta da fare per chi – ovviamente come lui – persegue il bene del paese. E lasciando intendere che lui è di quella idea da sempre. Renzi è un parlatore innato ma ha evidentemente affinato la propria oratoria con tecniche di persuasione tipiche degli spin doctor. Sa che la gente ha la memoria cortissima e che da sempre, anche in Italia, si lascia incantare da chi parla bene; anzi da chi la vende bene. La bufala, ben inteso.
    In America a lungo i candidati presidenziali per screditare i propri rivali hanno chiesto agli elettori: comprereste un’auto usata da quest’uomo? Aggiorno lo slogan. E voi, di Renzi? E’ superfluo che indichi la mia risposta. Ma gli italiani? Se non fosse stato per il servizio di Riccardo Iacona e della sua squadra, il clamoroso dietrofront di Renzi sarebbe passato inosservato. In realtà è passato comunque inosservato, perché gli altri media non hanno ripreso il servizio di “Presa Diretta”, che ha avuto eco solo su Facebook, raggiungendo alcune centinaia di migliaia di persone. Troppo poco per cambiare il percepito degli elettori. E allora la risposa è: sì, gli italiani ancora gli credono. E continueranno fino a quando non scopriranno che l’auto comprata con tanto entusiasmo da quel simpatico venditore toscano che assomiglia a Mister Bean e fa le smorfie mentre parla, li avrà lasciati a piedi. Ma a quel punto sarà troppo tardi per recriminare. E il danno ormai compiuto.
    (Marcello Foa, “Tagli pensioni d’oro: Renzi rinnega Renzi, ma gli italiani se ne accorgono?”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 febbraio 2015).

    Su Facebook sta furoreggiando un video di Matteo Renzi, colto in palese contraddizione sulle pensioni d’oro dalla trasmissione “Presa Diretta”, che ha trasmesso un’intervista rilasciata a Bruno Vespa un anno e mezzo fa quando Renzi era in corsa per la leadership del Partito democratico e poi, sempre a Vespa, qualche tempo fa, nelle vesti di premier. La contraddizione è palese: il Renzi del dicembre 2013 cavalca l’onda dell’antipolitica e proclama la necessità di tagliare senza pietà le pensioni sopra i 3.500 euro netti. Il Renzi premier, nemmeno un anno dopo, nel settembre 2014, afferma esattamente il contrario, ovvero che pensioni oltre i 2.800 euro non sono d’oro e non vanno assolutamente tagliate. Cambia anche l’entità della manovra. Prima Renzi assicurava che tagliando le pensioni d’oro si potevano risparmiare addirittura dai 4 ai 12 miliardi di euro, poi il beneficio per le casse pubbliche si riduce ad appena 100 milioni di euro.

  • Che gioia scoprire che Obama legge le mie email (e le tue)

    Scritto il 24/2/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.
    Mi fa molto piacere che il presidente Obama si interessi alla mia vita privata e professionale, coinvolgendo il premier britannico Cameron, ma non è accettabile che tutti i miei messaggi, come i tuoi, caro lettore, siano copiati istantaneamente e memorizzati in un gigantesco database. In questi giorni sto rileggendo, a distanza di trent’anni, “1984” di Orwell e pagina dopo pagina rabbrividisco: alcune delle misure di controllo sociale del Grande Fratello, immaginate dal grande scrittore inglese, oggi sono realtà. Schedare tutto quel che viene scritto da un cittadino, mappare la sua rete di contatti (sanno a chi scrivo le email, sanno quali sono i miei amici su Facebook, hanno accesso alla mia agenda telefonica tramite WhatsUp) era il sogno di qualunque dittatore, da Hitler a Stalin a Mao; ora è diventata realtà per mano di una potenza che fino a ieri era il baluardo contro la dittatura e ora, con il pretesto della lotta al terrorismo, si sta trasformando in un invasivo inquisitore.
    E’ un gioco da ragazzi affinare la ricerca nel database e mappare fino a “targetizzare” ognuno di noi. I dati selezionati e affinati possono essere usati per fini impropri o politici da parte di un paese che non dimostra più grande considerazione per lo Stato di diritto, né in patria né fuori. Snowden, l’agente della Nsa che ha svelato la gigantesca rete di spionaggio dell’intelligence americana, ci aveva avvertiti. Ora il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler conferma l’esistenza di una silenziosa, sistematica violazione della libertà e della sovranità di tutti gli Stati. Altro che Isis. La vera minaccia è altrove. Ci stanno portando via tutto, con la silenziosa compiacenza di masse che nemmeno si rendono conto del pericolo e del regresso di civiltà. State all’erta. Il Grande Fratello è proprio lì nel vostro computer. E un giorno tutto quel che scrivete potrà essere usato contro di voi. Rilancio la domanda: va bene così?
    (Marcello Foa, “Che gioia sapere che Obama spia le mie email, e anche le tue”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2015).

    Qualche giorno fa ho presenziato a un incontro insolito per gli standard italiani: una conferenza pubblica con il capo dei servizi segreti svizzero Markus Seiler. A Bellinzona, senza particolari misure di sicurezza, con la consueta semplicità elvetica, introdotto dal direttore del Dipartimento delle Istituzioni, Norman Gobbi (il ministro degli interni ticinese, tradotto nel gergo italiano). Serata interessante, pacata nei toni, durante la quale Seiler ha dichiarato, testuale: «Oggi l’80% delle email fanno una rapida tappa a Washington e a Londra dove vengono copiate e archiviate. Solo le email criptate o protette da particolari misure di sicurezza sfuggono a questo gigantesco setaccio». Seiler si è ovviamente ben guardato dall’esprimere valutazioni politiche, però il tono del suo intervento era chiaro. Era come se chiedesse al pubblico presente: a voi va bene? Non sono un diplomatico ma un giornalista. E posso permettermi di rispondere. No, non va bene.

  • Martin Luther King e Charlie Hebdo, stesso killer: Gladio

    Scritto il 22/2/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Il 19 gennaio è  stato il Martin Luther King Day, festa nazionale. King era un leader per la difesa dei diritti civili assassinato il 4 aprile 1968, 47 anni fa, all’età di 39 anni. James Earl Ray fu condannato per l’omicidio. Inizialmente Ray si proclamò colpevole, seguendo, a quanto detto, il consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, ma Ray ritrattò la sua confessione e richiese inutilmente un processo con giuria. I documenti ufficiali sulle indagini rimarranno segreti fino al 2027. Come riporta Wikipedia, “la famiglia King non crede che Ray abbia a che fare con l’omicidio di Martin Luther King”. “La famiglia King e altre persone credono che l’assassinio sia stato portato avanti da una cospirazione da parte del governo americano e che James Earl Ray sia stato un capro espiatorio. Questa conclusione è stata confermata da una giuria in un processo civile del 1999 contro Loyd Jowers e cospiratori anonimi”. Il dipartimento americano di giustizia concluse che la testimonianza di Jower, che influenzò la giuria civile durante il processo, non era attendibile.
    Dall’altra parte non vi è alcuna soddisfacente spiegazione del perché alcuni documenti sulle investigazioni su Ray furono messe sotto chiave per 59 anni. Ci sono molti punti oscuri sulla storia dell’assassinio di King, così come ce ne sono per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e di Bobby Kennedy. Non sono abbastanza i sospetti e le informazioni per cambiare le storie ufficiali. I fatti non contano abbastanza per cambiare le storie ufficiali. Molti americani continueranno a credere che, visto il fallimento del governo nell’averlo etichettato come comunista e donnaiolo, la classe dirigente decise di eliminare un leader emergente e scomodo, assassinandolo. Molti neri americani continueranno a credere che il giorno di festa nazionale sia il modo in cui il governo ha voluto coprire il suo crimine, incolpando il razzismo per l’omicidio di King. Di sicuro il governo non avrebbe dovuto fomentare il sospetto accordandosi con un patteggiamento per un omicidio del genere. Ray era un evaso da un penitenziario di Stato ed è stato arrestato all’aereoporto londinese di Heathrow mentre stava cercando di fuggire in Africa. Sembra improbabile che stesse mettendo a rischio la sua fuga per andare a sparare a King con delle motivazioni razziali.
    Dovremmo tenere a mente i numerosi dettagli in sospeso sull’assassinio di Martin Luther King con cui siamo stati bombardati dai media, con quelli che Finian Cunningham definisce «politici emotivamente dinamici che stupiscono il pubblico facendo domande necessariamente dure», i dettagli sugli omicidi di “Charlie Hebdo”, e inoltre quelli del bombardamento alla maratona di Boston, e tutti gli altri attentati che sono risultati essere molto convenienti ai governi. Questi ingenui cittadini che credono che «i nostri governi non ucciderebbero mai la propria gente», devono informarsi di più su cose come l’Operazione Gladio e il Progetto Northwoods, argomenti sui quali sono presenti molte informazioni nella rete, investigazioni parlamentari e documenti segreti resi pubblici. Il Progetto Northwoods fu presentato al presidente Kennedy dallo stato maggiore americano. È stato portato in appello per la sparatoria contro civili per le strade di Washington e Miami, per aver abbattuto aerei di linea americani (reali o simulazioni) e aver attaccato navi di rifugiati che arrivavano da Cuba al fine di creare un terribile caso contro Castro, che avrebbe assicurato il supporto dell’opinione pubblica per una invasione che avrebbe portato al cambio del regime a Cuba.
    Il presidente Kennedy non accettò la teoria del complotto e fece rimuovere il capo dello stato maggiore, un provvedimento che alcuni ricercatori pensano abbia portato al suo assassinio. L’Operazione Gladio fu invece rivelata dal primo ministro italiano nel 1990. Si trattava di un’operazione segreta coordinata dalla Nato in cooperazione con la Cia e i servizi segreti britannici. Investigazioni parlamentari in Italia, Svizzera e Belgio, insieme a testimoni dei servizi segreti, hanno stabilito che la Gladio, originariamente costituita come un esercito segreto per resistere all’invasione sovietica, era utilizzata per portare a termine bombardamenti sulle popolazioni europee, in particolare contro donne e bambini, con il fine di incolpare i comunisti ed evitare che questi ultimi ottenessero maggiorepotere politico in Europa durante il periodo della Guerra Fredda. Rispondendo all’interrogatorio dei giudici a proposito della strage alla stazione centrale di Bologna del 1980, dove vi furono 85 morti, Vincenzo Vinciguerra disse: «In Italia è presente una forza armata parallela a quella dell’esercito, composta da civili e militari. Una grande organizzazione con un grande rete di comunicazione, armi ed esplosivi che portano a termine azioni omicide in nome della Nato e prevengono una caduta a sinistra nell’equilibrio politico del paese. Questo è quello che hanno fatto, con l’appoggio dei servizi segreti, della classe politica e delle forze armate».
    In un’intervista al “Guardian”, Vinciguerra disse che «ogni singolo attentato avvenuto dopo il 1969 rientra in un unico grande contesto, mobilitato per una battaglia contro la strategia comunista, non creata con organizzazioni devianti dalle istituzioni del potere, ma dall’interno degli Stati stessi, in particolar modo all’interno degli ambiti delle relazioni tra gli Stati dell’Alleanza Atlantica». Non vi è alcun dubbio sull’esistenza dell’Operazione Gladio. La Bbc nel 1992 ha realizzato un documentario di due ore e mezza sull’organizzazione terroristica della Nato. Oltre alle investigazioni parlamentari e a testimonianze dei partecipanti, ci sono molti libri, articoli e resoconti sul tema. C’è ragione di credere che, sebbene siano stati scoperti, Gladio sia ancora in attività e sia dietro ad attacchi terroristici in Europa, come quello a “Charlie Hebdo”. Ovviamente oggigiorno Washington ha il totale controllo sull’Europa, quindi non vi saranno investigazioni parlamentari analoghe a quelle che vi sono state per l’Operazione Gladio.
    Con la documentata e ufficiale ammissione dell’esistenza delle tante cospirazioni governative contro le proprie popolazioni e la conseguente morte di molte persone, solo agenti governativi consapevoli e inconsapevoli rispondono alle osservazioni sui sedicenti attacchi terroristici, cercando di mettere a tacere coloro che ricercano la verità. L’obbiettivo di mettere a tacere i sospetti sulle storie ufficiali è stato portato a termine in maniera egregia dai principali mezzi di comunicazione del mondo occidentale, stampa e tv. Alla prostituzione dei mezzi di comunicazione si è unita quella dei tabloid del web, come “Salon” ad esempio, e altri siti web che in questa maniera ottengono guadagni e vantaggi. I soldi arrivano a chi appoggia la classe dirigente. Molti siti Internet contribuiscono involontariamente al potere di quell’1% che controlla le spiegazioni, e screditano chi ricerca la verità. Questa è la principale funzione della sezione dei commenti sui siti Internet, creati appositamente da persone pagate per “trollare”.
    Alcuni studi hanno portato alla conclusione che la maggior parte della popolazione si sente troppo insicura per prendere una posizione diversa dai propri simili. La maggior parte degli americani non ha sufficienti informazioni per sentirsi abbastanza sicura da assumere un’opinione autonoma. Seguono la massa e si fidano dei loro simili che dicono loro cosa è meglio pensare. Chi crea i “troll” è assunto con lo scopo di denigrare e formulare degli attacchi personali a chi non è d’accordo con l’opinione comune. Per esempio, nella sezione dei commenti del mio sito, vengo continuamente attaccato in termini personali da individui che si nascondo dietro un nome o un nickname. Altri assumono persone che odiano Ronald Reagan o gli ideali di sinistra per screditarmi su un piano che solo persone deboli e perfide possono fare. Molte delle persone che mi screditano, baciano il pavimento dove cammina Hillary Clinton. Oggigiorno nelle cosiddette “democrazie occidentali” è permesso essere politicamente scorretti nei confronti dei musulmani, o evocare parole di disprezzo e denigrazione nei loro confronti, ma non è permesso criticare il governo di Israele per gli attacchi omicidi indiscriminati contro i cittadini palestinesi.
    La posizione della lobby israeliana e la sua obbediente e minacciata “stampa della prostituzione”, è quella che qualsiasi critica ad Israele sia un sintomo di antisemitismo e il segnale che l’opinione pubblica voglia un nuovo Olocausto. Questo sforzo di mettere a tacere tutte le critiche sulle politiche di Israele viene applicato anche sugli israeliani e sugli stessi ebrei. Gli israeliani e gli ebrei che leggitimamente criticano le politiche israeliane con la speranza di far cambiare direzione allo Stato sionista, di portarlo lontano dall’autodistruzione, vengono etichettati dalla lobby israeliana come persone che odiano gli stessi ebrei. La lobby ha dimostrato il suo potere distruggendo la libertà accademica, arrivando all’interno delle università cattoliche private e quelle statali, bloccando e ritirando le nomine di ruolo dei candidati, ebrei e non, che non avevano ottenuto l’approvazione della lobby israeliana.
    Vedo Martin Luther King come un eroe. Qualsiasi siano stati i suoi fallimenti familiari, se ce ne sono stati, ha sempre combattuto per la giustizia e per la sicurezza di ogni razza e genere nel rispetto della legge. King credeva veramente nel sogno americano e voleva che si realizzasse per il bene di tutti. Sento di aver esaminato la vita di King con occhio critico; avrebbe preso in considerazione il mio caso e avrebbe risposto onestamente, a prescindere dal potere che poteva avere su di me. Non posso aspettarmi la stessa considerazione da nessun governo occidentale o dalle persone che “trollano” i miei commenti con la speranza di fomentare i propri lettori. I creduloni e gli ingenui sono incapaci di difendere la propria libertà. Sfortunatamente queste sono le caratteristiche principali delle popolazioni occidentali. La libertà occidentale sta crollando davanti ai nostri occhi, e ciò rende assurdo il desiderio degli oppositori russi di Vladimir Putin di integrarsi al collasso degli Stati occidentali.
    (Paul Craig Roberts, “Martin Luther King, un eroe americano: dov’è il sostituto?”, da “Global Research” del 20 gennaio 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).

    Il 19 gennaio è  stato il Martin Luther King Day, festa nazionale. King era un leader per la difesa dei diritti civili assassinato il 4 aprile 1968, 47 anni fa, all’età di 39 anni. James Earl Ray fu condannato per l’omicidio. Inizialmente Ray si proclamò colpevole, seguendo, a quanto detto, il consiglio del suo avvocato per evitare la pena di morte, ma Ray ritrattò la sua confessione e richiese inutilmente un processo con giuria. I documenti ufficiali sulle indagini rimarranno segreti fino al 2027. Come riporta Wikipedia, “la famiglia King non crede che Ray abbia a che fare con l’omicidio di Martin Luther King”. “La famiglia King e altre persone credono che l’assassinio sia stato portato avanti da una cospirazione da parte del governo americano e che James Earl Ray sia stato un capro espiatorio. Questa conclusione è stata confermata da una giuria in un processo civile del 1999 contro Loyd Jowers e cospiratori anonimi”. Il dipartimento americano di giustizia concluse che la testimonianza di Jower, che influenzò la giuria civile durante il processo, non era attendibile.

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