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Archivio del Tag ‘Internet’

  • Golpe europeo contro la libertà del web, l’Italia si opponga

    Scritto il 25/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.
    Un gesto orwelliano, da tirannide asiatica d’altri tempi: è il 2018, eppure l’Unione Europea è questa. Non riconosce cittadini, vuole soltanto sudditi. E ha una paura maledetta che i sudditi si ribellino, ridiventando cittadini. Il killer prescelto per l’operazione è ovviamente tedesco e risponde al nome di Günther Oettinger, il simpaticone che – all’indomani del voto italiano del 4 marzo – spiegò che sarebbero stati “i mercati”, o meglio i signori occulti dello spread, a insegnare agli italiani come votare nel modo giusto, evitando cioè di rinnovare la loro fiducia a gentaglia come Salvini e Di Maio. Come sempre, Bruxelles cerca di ammantarsi di una parvenza di legalità: la Commissione Europea, organismo non-eletto e forte di poteri paragonabili a quelli delle “giunte militari” di sudamericana memoria, stavolta utilizza la foglia di fico del Parlamento Europeo (eletto, ma senza potere) per ricevere l’ipotetica legittimità politica dell’abuso, che verrebbe incoraggiato con il voto di Strasburgo il 4 luglio. Da qui il conto alla rovescia della petizione lanciata da Claudio Messora su “ByoBlu” e ripresa da “Change.org”, che in pochi giorni ha raccolto quasi mezzo milione di firme, in Italia, per tentare di convincere gli europarlamentari a non votare il piano Oettinger, in base al quale non sarebbe più possibile far circolare, su blog e social, i testi, le idee e le immagini che in questi anni hanno fatto informazione.
    L’intento è evidente: “spegnere” le fonti che hanno sopperito al colpevole silenzio dei grandi media, sostituendo in modo prezioso la non-informazione di giornali e televisioni, canali mainstream reticenti e omertosi, largamente difettosi quando non direttamente mafiosi, docili strumenti nelle mani di editori collusi con il potere centrale che trama contro le democrazie per svuotarle e depredarle. Senza informazione non c’è democrazia, ed è normale quindi che l’oligarchia si premuri innanzitutto di imbavagliare la libertà di espressione. Prima hanno ridotto i giornali a carta straccia, e le televisioni a salotti tragicomicamente impermeabili a qualsiasi verità. E ora, dato che il pubblico ha aggirato i grandi media rivolgendosi al web – in Italia il 50% dei cittadini dichiara di informarsi ormai solo sulla Rete – ecco il supremo bavaglio a Internet, con l’espediente della tutela del copyright. Con l’alibi della (giusta) sanzione contro gli abusi, si mette il bavaglio alla prima fonte di notizie per 30 milioni di persone, nel nostro paese. Difficile credere che un simile attentato alla libertà possa essere accettato come costituzionale, in Italia.
    Beninteso: è più che legittima la tutela del copyright, ove si impedisca di eseguire dei pedestri copia-e-incolla non autorizzati. Ma il legislatore Ue va ben oltre: impedirà addirittura che, su blog e social, vengano caricate segnalazioni ipertestuali: in pratica, sarebbe la fine dei link, cioè dell’anima stessa di Internet. Vietato riportare frasi, estratti, dichiarazioni. Vietato certificare le fonti di provenienza. Vietato veicolare – mediante collegamento diretto – i contenuti più interessanti. In altre parole: la fine del web, la morte della libertà d’opinione. Il sovrano europeo pensa di fermare, letteralmente, l’orologio della storia: vuol far diventare lento e disfunzionale ciò che oggi è veloce, immediato. Una pazzia anacronistica, come quella di chi schierasse i carri armati nelle strade. L’essenza stessa del web è la rapidità, la circolazione di notizie in tempo reale: e il web è diventato il più potente vettore economico del nostro tempo. Ostacolarlo significa arrecare un danno di portata incalcolabile alla dinamica economica del terzo millennio, riportando l’Europa al medioevo anche sul piano civile, oltre che economico e politico.
    Non è strano che a organizzare il golpe sia l’Unione Europea, che i suoi carri armati (finanziari) li ha già spediti ovunque, a fare strage di democrazia. Resta da vedere come reagiranno le anime morte del Parlamento Europeo il 4 luglio, sotto la pressione dell’opinione pubblica. E soprattutto: c’è da capire come risponderà, al golpe, il governo italiano. Salvini “esiste” soprattutto su Twitter, i 5 Stelle sono nati dalla Rete. Il cielo stellato è stato inquadrato dal cannocchiale di Galileo, che adesso l’ultima reincarnazione del cardinale Bellarmino – il fantoccio Oettinger e i suoi mandanti – sta per fare a pezzi. Questa Ue si comporta come una dittatura di colonnelli: nasce morta e condannata dalla storia. E’ destinata alla sconfitta, ma a che prezzo? Quanto durerebbe, il blackout, prima del ripristrino della democrazia? Quanti altri danni produrrebbero, nel frattempo, i golpisti del web? Nessun aiuto, intanto, da giornali e televisioni: gli operatori ufficiali dell’informazione, ancora una volta, tacciono. Non una parola, da loro, sulla più importante notizia – la peggiore – che abbia investito il pubblico italiano. Tacciono, giornali e televisioni, sul golpe in atto. Sperano, probabilmente, che il colpo di Stato riesca. Si comportano come fossero complici dei golpisti. Se c’è un’occasione per dimostrare che il “governo del cambiamento” non è solo un modo di dire, è questa: se c’è un “no” che l’Italia deve pronunciare, forte e chiaro, è proprio questo, contro il golpe che vorrebbe spegnere il web.
    (Su Change.org la petizione contro il bavaglio al web che l’Ue vorrebbe imporre).

    Il diavolo non è poi brutto come lo si dipinge? In compenso, l’Unione Europea è peggio: come un monarca dispotico, ordina che sia imbavagliato il bambino che si è permesso di gridare che “il re è nudo”. Così, esercitando un arbitrio che ha la forza grottesca di un sopruso arcaico, Bruxelles prova a spegnere le antenne del popolo, quelle che i cittadini-elettori hanno ascoltato per poi decidere da chi farsi governare. E’ pensabile, una Brexit senza il web? E’ immaginabile una vittoria di Trump senza i social media? E una sconfitta di Renzi senza Facebook? Un governo “gialloverde” senza la Rete? No, appunto. Ed è per questo che il potere centrale del nuovo Sacro Romano Impero – con i suoi complici principali, i grandi media – sta preparando la spallata finale alla libertà di Internet: il divieto di far circolare idee, parole e immagini – tramite link, come finora si è fatto – sotto minaccia di violazione del copyright. Un bavaglio medievale, universale, bloccando alla fonte ogni notizia tramite filtri sulle piattaforme di distribuzione, cominciando da Google e Facebook. In pratica: la fine del web come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla libera circolazione (immediata) di segnalazioni, opinioni, fatti e analisi, contenuti normalmente oscurati da giornali e televisioni.

  • Così l’Ue prepara il bavaglio al web: fine dei link e dei social

    Scritto il 24/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Vietato postare contenuti altrui, vietato far circolare link e idee. In altre parole: sarà svuotato e sterilizzato il web, stando ai “muggiti” che salgono dall’Unione Europea, cioè dalla roccaforte burocratica dove i governi – ridotti a passacarte delle grandi lobby – assistono con terrore all’insorgenza democratica che, in tutta Europa, i media mainstream chiamano “populismo”. «Addio meme, addio upload libero di foto e filmini sul web», scrive Emanuele Bonini sulla “Stampa”. «Il Parlamento Europeo è pronto alla stretta su Internet in nome dei diritti d’autore». La commissione giuridica, infatti, ha appena approvato le proposte di modifica della legislazione comunitaria sui copyright, «dando il proprio benestare a norme che aprono la strada a possibili future tasse per la pubblicazione di link di articoli di giornale e a filtri che blocchino, sulle grandi piattaforme, contenuti audio-visivi in tutto o in parte protetti da diritti». Sarebbe, tecnicamente, la fine del web come lo consciamo oggi, fondato sulla circolazione illimitata di notizie, analisi e idee. La questione è controversa, scrive la “Stampa”: per il legislatore europeo c’è «l’esigenza di tutelare i diritti intellettuali», mentre per l’internauta «una mossa di questo tipo rappresenta un restringimento delle maglie della rete». Un vero e proprio bavaglio.
    Le nuove norme, di fatto, «impongono a tutti di pagare per ogni contenuto protetto», aggiunge Bonini. «Con la riscrittura delle regole così come proposta – spiega – tutti i grandi operatori dovranno sviluppare un sistema per controllare cosa si intende caricare». Attenzione dunque a YouTube, Instagram, eBay, Facebook. «Un video con immagini o brani tutelati da licenze non potrà essere condiviso, così come una foto, anche quella da usare eventualmente per i meme». Non ci saranno grandi alternative, avverte la “Stampa”: o si impedirà la pubblicazione del contenuto, o si dovrà far pagare per consultarlo. E non è tutto: sempre in nome della tutela dei diritti intellettuali e del loro rispetto, «ci saranno limitazioni alle notizie e agli articoli che gli aggregatori di notizie possono mostrare». La Commissione Europea chiedeva una “link tax”, cioè una vera e propria tassa sui collegamenti ipertestuali, in base al principio per cui “chi clicca, paga”, se vuole tenersi informato. L’esecutivo comunitario «prevedeva nello specifico che chiunque usi “snippet” di contenuti giornalistici on-line debba prima ottenere una licenza dall’editore, diritto valido per vent’anni a partire dalla pubblicazione».
    La commissione giuridica del Parlamento Europeo ha trovato una sorta di compromesso, secondo Bonini, nella limitazione degli elementi di un articolo che gli aggregatori possono mostrare e condividere senza far scattare il pagamento automatico del copyright. Cioè: se un indirizzo web incorpora un estratto breve (o solo il titolo di un articolo), non scatta la tassa. Secondo il tedesco Axel Voss, esponente del partito della Merkel, si tratta di innovazioni doverose. «Creatori e editori di notizie devono adattarsi al nuovo mondo di Internet come funziona oggi», dice Voss, relatore del provvedimento in commissione giuridica. L’europarlamentare ricorda che artisti ed editori di notizie, «specialmente quelli più piccoli», non vengono pagati «a causa delle pratiche di potenti piattaforme di condivisione dei contenuti online e aggregatori di notizie». Un modo di fare «sbagliato, che intendiamo correggere», dice, perché il principio di un’equa retribuzione il lavoro svolto «dovrebbe applicarsi a tutti, ovunque, sia nel mondo fisico che on-line». Agendo sul copyright, Strasburgo sostiene di proporre un equilibrio tra le esigenze dei proprietari dei diritti d’autore e quelle dei consumatori: se da una parte si introducono limiti all’uso di prodotti sotto licenza, dall’altra si abbassa da 20 a 5 anni il periodo di protezione sulla Rete. Se la riforma passa, addio web: il successo della Rete si basa infatti sulla circolazione, libera e istantanea, di contenuti gratuti.

    Vietato postare contenuti altrui, vietato far circolare link e idee. In altre parole: sarà svuotato e sterilizzato il web, stando ai “muggiti” che salgono dall’Unione Europea, cioè dalla roccaforte burocratica dove i governi – ridotti a passacarte delle grandi lobby – assistono con terrore all’insorgenza democratica che, in tutta Europa, i media mainstream chiamano “populismo”. «Addio meme, addio upload libero di foto e filmini sul web», scrive Emanuele Bonini sulla “Stampa”. «Il Parlamento Europeo è pronto alla stretta su Internet in nome dei diritti d’autore». La commissione giuridica, infatti, ha appena approvato le proposte di modifica della legislazione comunitaria sui copyright, «dando il proprio benestare a norme che aprono la strada a possibili future tasse per la pubblicazione di link di articoli di giornale e a filtri che blocchino, sulle grandi piattaforme, contenuti audio-visivi in tutto o in parte protetti da diritti». Sarebbe, tecnicamente, la fine del web come lo consciamo oggi, fondato sulla circolazione illimitata di notizie, analisi e idee. La questione è controversa, scrive la “Stampa”: per il legislatore europeo c’è «l’esigenza di tutelare i diritti intellettuali», mentre per l’internauta «una mossa di questo tipo rappresenta un restringimento delle maglie della rete». Un vero e proprio bavaglio.

  • Governo, l’ipocrita divieto che discrimina i massoni (onesti)

    Scritto il 19/6/18 • nella Categoria: idee • (12)

    A pagina 8 dell’accordo di governo stipulato tra Lega e M5S c’è un punto che ha colpito la mia attenzione: il divieto di incarichi di governo per persone appartenenti alla massoneria. Un punto demagogico e populista, che dimostra, nel migliore dei casi, l’ignoranza di chi ha redatto l’accordo, nel peggiore una vera e propria malafede. Vediamo perché. In massoneria esiste la possibilità di essere iscritti a logge cosiddette coperte, in cui il nome dell’affiliato è tenuto segreto e quindi nessun documento, firma, o lista, potrà mai provare la sua appartenenza alla massoneria (dall’indagine Why Not, effettuata da De Magistris, ad esempio, venne fuori che Prodi e altri membri illustri del governo erano iscritti a una loggia di San Marino, considerato uno Stato estero). La massoneria non è un’associazione segreta, quindi l’esserne affiliati non viola alcuna legge dello Stato; tale esclusione è, quindi, anche costituzionalmente illegittima: l’esclusione dagli incarichi di governo avrebbe dovuto essere correttamente formulata prevedendo l’esclusione per iscritti a logge coperte, o deviate, o comunque con un intento palesemente criminale (ma in tal modo sarebbe sorta una contraddizione evidente, perché chi è iscritto ad organizzazioni criminali non lo va certo a dire in giro, e quando viene scoperto deve essere buttato fuori non tanto per la sua affiliazione, ma per i crimini commessi).
    Vi sono ordini e associazioni, di stampo massonico, ma non considerate tali; Opus Dei, Cavalieri di Malta, ordini cavallereschi… non si capisce perché il divieto non valga anche per queste associazioni; esistono inoltre organizzazioni esoteriche, di stampo non massonico, molto più pericolose della massoneria stessa, come abbiamo da sempre detto in questo sito. La massoneria ha fatto la storia d’Italia degli ultimi due secoli; Garibaldi, Mazzini, Cavour, tanto per fare degli esempi, erano massoni; la maggior parte dei padri costituenti del ’47 erano massoni. C’è una contraddizione evidente tra il formare il governo di una repubblica che è stata fondata dalla massoneria, vietando l’ingresso al governo ai membri di quell’istituzione che è stata determinante nella fondazione dell’attuale Stato democratico (chi scrive ritiene poi che la nostra Costituzione sia un imbroglio, ma questa è tutta un’altra storia… formalmente si dicono tutti ossequiosi alla Costituzione, e quindi entrano in contraddizione con se stessi ad essere ossequiosi a qualcosa che risulta scritta in gran parte da massoni).
    Come ha ben evidenziato nel corso di questi anni il massone Gioele Magaldi, insieme a Gianfranco Carpeoro, molti uomini politici di governo erano e sono massoni; Berlusconi, Craxi, Monti, Prodi, solo per fare qualche esempio. Ma, ipotizzo, anche molti nomi del passato di cui la loro appartenenza alla massoneria non è mai stata conclamata. Nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” di Gioele Magaldi si fanno molti nomi; e altri nel libro “Fratelli d’Italia” di Ferruccio Pinotti, solo per fare qualche esempio. Salvini inoltre era alleato con Berlusconi. Lo sapeva o no di essere alleato con un massone? Presumo di sì, dato che, anche se i media mainstream non ne hanno parlato quasi mai (fatta eccezione per la questione della loggia P2; ma Magaldi nel suo sito ha dimostrato come ben altro fosse il rapporto di Berlusconi con la massoneria), molta eco ha avuto la questione su Internet, in particolare sul sito del Grande Oriente Democratico. Infine, il provvedimento discrimina proprio le persone migliori; nel senso che, quando un massone dichiara di essere tale, vuol dire che non ha nulla da nascondere. E rivendicandolo spesso con orgoglio, come Carpeoro e Magaldi, ad esempio, fa un’opera di trasparenza. Paradossalmente è chi invece lo nasconde che è pericoloso per la società, ma potrà entrare lo stesso nel governo.
    In altre parole, con questo provvedimento da duri e puri, si rischia di discriminare le persone migliori, e favorire come sempre i peggiori, coloro che tramano nell’ombra e fingono di essere persone diverse. Il problema non è la massoneria in sé, potendo esistere criminali non massoni, e massoni non criminali. Il problema è la legalità. E l’accordo di governo, così concepito, pone un problema molto grave: o i nostri governanti non capiscono nulla di massoneria (dimostrando in questo modo di non conoscere la storia, e neanche il funzionamento della società civile) o l’accordo è dettato da una malafede evidente, e serve solo a gettare fumo negli occhi dei cittadini. Immediatamente dopo la formazione del governo, infatti, viene fuori la notizia che il neo-ministro Paolo Savona sarebbe iscritto alla massoneria americana. Nulla di strano in questo. Nessuna replica da parte del governo. Ma soprattutto, un chiaro avvertimento a non tirare troppo la corda, altrimenti verranno fatti altri nomi e il governo avrà anche altri problemi. Risulta evidente, quindi, che questo punto dell’accordo di governo serve unicamente a ingraziarsi le simpatie del popolo, che di massoneria non sa nulla; e a darsi una facciata di duri e puri, che serve unicamente a rendersi ridicoli; più o meno come quando Bossi un giorno dichiarò: «Contro l’Italia massona e ladrona, noi siamo per l’Italia di Garibaldi e Mazzini»; peccato che Garibaldi, Mazzini e Cavour fossero, come abbiamo detto, massoni.
    (Paolo Franceschetti, “Lega, M5S e massoneria”, dal blog “Petali di Loto” del 15 giugno 2018. In calce al post, Franceschetti ricorda di non essere mai stato tenero con la massoneria, avendo anche dato alle stampe libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa”, che indagano sulla matrice rituale di origine massonica di alcuni tra i peggiori crimini della storia italiana, a partire da quelli del Mostro di Firenze. Sulla presenza di massoni nel governo gialloverde, infine, Gioele Magaldi ha svelato l’identità supermassonica del ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, fino a ieri legato ai circuiti neo-conservatori di Mario Monti ed Enrico Letta, ora avvicinatosi agli ambienti delle Ur-Lodges di segno progressista che sostengono l’esecutivo Conte. Quanto a Craxi, Gianfranco Carpeoro ha precisato che il leader del Psi, mai iniziato alla massoneria, fu però associato ad una superloggia massonica sovranazionale. Sempre Carpeoro ritiene evidente la vicinanza dello stesso Gianroberto Casaleggio rispetto alla massoneria britannica, attraverso un personaggio come Enrico Sassoon).

    A pagina 8 dell’accordo di governo stipulato tra Lega e M5S c’è un punto che ha colpito la mia attenzione: il divieto di incarichi di governo per persone appartenenti alla massoneria. Un punto demagogico e populista, che dimostra, nel migliore dei casi, l’ignoranza di chi ha redatto l’accordo, nel peggiore una vera e propria malafede. Vediamo perché. In massoneria esiste la possibilità di essere iscritti a logge cosiddette coperte, in cui il nome dell’affiliato è tenuto segreto e quindi nessun documento, firma, o lista, potrà mai provare la sua appartenenza alla massoneria (dall’indagine Why Not, effettuata da De Magistris, ad esempio, venne fuori che Prodi e altri membri illustri del governo erano iscritti a una loggia di San Marino, considerato uno Stato estero). La massoneria non è un’associazione segreta, quindi l’esserne affiliati non viola alcuna legge dello Stato; tale esclusione è, quindi, anche costituzionalmente illegittima: l’esclusione dagli incarichi di governo avrebbe dovuto essere correttamente formulata prevedendo l’esclusione per iscritti a logge coperte, o deviate, o comunque con un intento palesemente criminale (ma in tal modo sarebbe sorta una contraddizione evidente, perché chi è iscritto ad organizzazioni criminali non lo va certo a dire in giro, e quando viene scoperto deve essere buttato fuori non tanto per la sua affiliazione, ma per i crimini commessi).

  • Chiamano “fake news” la perdita del monopolio della verità

    Scritto il 11/5/18 • nella Categoria: idee • (23)

    Davvero poche persone riescono a trovare un senso nell’attuale isteria sulle “fake news” e quasi nessuno è disposto a inquadrarla nel contesto storico e a comprendere perché il problema sia sorto adesso. La ragione per cui si è diffusa l’isteria, e specialmente negli Stati Uniti, è perché si tratta di  una reazione (più o meno comprensibile) alla perdita del potere monopolistico globale esercitato dai media anglo-americani, in particolar modo dal 1989, ma praticamente dal 1945 in poi. Le ragioni del quasi-monopolio occidentale tra il 1949 e il 1989 (chiamiamola Fase 1) sono  molteplici: il grande flusso di notizie provenienti da canali di informazione come la “Bbc”, e più tardi la “Cnn”, molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle agenzie nazionali in molti paesi; la portata molto più ampia dei grandi servizi informativi in lingua inglese: questi offrivano una copertura giornalistica di tutti i paesi, mentre i media nazionali potevano a malapena permettersi corrispondenti in due o tre delle maggiori capitali mondiali; la diffusione dell’inglese come seconda lingua; e ultimo, ma non meno importante, la migliore qualità delle notizie (ovvero la maggiore veridicità) rispetto a quelle reperibili nelle fonti nazionali.
    Questi vantaggi dei media occidentali erano particolarmente evidenti ai cittadini del Secondo Mondo, dove i governi mantenevano una stretta censura, cosicché l’Urss doveva perfino arrivare all’estremo di bloccare le stazioni radio occidentali. Ma anche nel resto del mondo i media occidentali erano spesso migliori di quelli locali per le ragioni che ho menzionato. Un lettore attento avrà notato che finora ho contrapposto i media globali anglo-americani a quelli nazionali o solamente locali. Ciò perché solo i primi avevano una portata globale e il resto dei media (a causa della mancanza di finanziamenti o di ambizione, del controllo governativo o della limitata diffusione della lingua) operava a livello puramente nazionale. Così i media inglesi e statunitensi hanno combattuto una battaglia impari con i piccoli giornali o Tv nazionali. Non è sorprendente che i media globali anglo-americani siano stati capaci di controllare, in molti casi completamente, la narrazione politica. Non solo i media occidentali erano pienamente in grado di influenzare quello che (ad esempio) le persone in Zambia pensavano dell’Argentina o viceversa (perché probabilmente chi viveva in Zambia aveva a disposizione una copertura locale degli avvenimenti in Argentina prossima alla zero); soprattutto, a causa della maggiore apertura e migliore qualità dei media occidentali, questi erano in grado perfino di influenzare la narrazione pubblica all’interno dello Zambia o all’interno dell’Argentina.
    I rivali globali che l’Occidente affrontava all’epoca erano risibili. Le radio ad onde corte cinesi, sovietiche e albanesi avevano programmi in molteplici lingue, ma le loro storie erano così insipide, noiose e irrealistiche che la gente che, di volta in volta, le ascoltava, lo faceva per lo più a scopo di divertimento. Il monopolio dei media occidentali si è quindi ulteriormente espanso con la caduta del comunismo (chiamiamola Fase 2). Tutti i paesi ex-comunisti dove i cittadini erano abituati ad ascoltare clandestinamente “Radio Europa Libera” erano adesso più che disponibili a credere nella verità di tutto quello che veniva diffuso da Londra e Washington. Molti di questi organi di informazione si installarono nell’ex Blocco Orientale (“Rfe” oggi ha il quartier generale a Praga). Ma la luna di miele del monopolio globale occidentale iniziò a cambiare quando gli “altri” realizzarono che anche loro potevano provare a diventare globali, nell’unico spazio mediatico globale creato grazie alla globalizzazione e a Internet. La diffusione di Internet garantiva che si potessero produrre programmi e notizie in lingua spagnola – o araba – e che fossero guardati in ogni parte del mondo. “Al Jazeera” è stata la prima a intaccare pesantemente, e poi distruggere, il monopolio occidentale sulla narrazione del Medio Oriente in Medio Oriente. E adesso entriamo nella Fase 3.
    I canali turchi, russi e cinesi hanno quindi fatto lo stesso. Quanto successo nel mondo delle notizie ha avuto un parallelo in un’altra area in cui il monopolio anglo-americano era totale, ma poi ha iniziato a indebolirsi. Le serie Tv globali che venivano esportate, di solito erano prodotte solamente negli Usa – o in Uk; ma presto hanno trovato rivali di grande successo nelle telenovelas latino-americane, nelle serie indiane e turche, e più recentemente russe. In realtà, questi nuovi arrivati hanno praticamente spinto le serie Usa e Uk quasi completamente fuori dai propri mercati “nazionali” (che, per esempio, per la Turchia include gran parte del Medio Oriente e dei Balcani). Quindi è arrivata la Fase 4, quando altri media non-occidentali hanno capito che potevano provare a sfidare il monopolio informativo occidentale non solo all’estero, ma anche nel giardino di casa dei media occidentali. Questo è successo quando “Al Jazeera-Us”, “Russia Today”, “Cctv” e altri sono entrate in scena con i loro programmi e le loro notizie in lingua inglese (e anche francese, spagnola, etc) orientate all’audience globale, inclusa quella americana. Questo è stato in effetti un cambiamento enorme. Ed è il motivo per cui stiamo attraversando una fase di reazione isterica alle “fake news”: perché è la prima volta che media non-occidentali stanno non solo creando la propria narrazione globale, ma stanno anche cercando di creare una narrazione dell’America.
    Per la gente che viene da paesi piccoli (come me) questa è una  cosa del tutto normale: siamo abituati a stranieri che non solo nominano i nostri ministri ma che sono presenti in tutto lo spazio mediatico, e persino influenzano la narrazione della storia e della politica del paese, spesso perché la qualità delle loro notizie e delle loro borse di studio è migliore. Ma per molte persone negli Usa e in Uk questo è uno shock totale: come osano degli stranieri dir loro qual è la narrazione del proprio paese? Ci sono due possibili esiti di questa situazione. Uno è che il pubblico statunitense dovrà rendersi conto che, con la globalizzazione, persino il paese più importante, come sono gli Usa, non è immune dall’influenza degli altri; anche gli Stati Uniti, in confronto al resto del mondo nel suo complesso, diventano “piccoli”. Un’altra possibilità è che l’isteria porterà alla frammentazione dello spazio di internet, come stanno già facendo Cina, Arabia Saudita e altri. Allora invece di una bella piattaforma globale per tutte le opinioni, torneremo indietro alla situazione pre-1945, con “stazioni radio” nazionali, reti internet locali, bando delle lingue straniere (e forse persino degli stranieri) sulle NatNets nazionali [gioco di parole basato sull’etimologia della parola internet,  sincrasi di International Network, i.e. rete internazionale, a cui vengono contrapposte le reti nazionali, i.e. National Networks, NatNets, ndt] – in sostanza avremo messo fine alla globalizzazione del libero pensiero e saremo tornati ad un genuino nazionalismo.
    (Branko Milanovic, “Le ‘fake news’ sono la reazione alla fine del monopolio della narrazione”, dal blog dell’economista serbo-americano, tradotto da “Voci dall’Estero” il 30 aprile 2018).

    Davvero poche persone riescono a trovare un senso nell’attuale isteria sulle “fake news” e quasi nessuno è disposto a inquadrarla nel contesto storico e a comprendere perché il problema sia sorto adesso. La ragione per cui si è diffusa l’isteria, e specialmente negli Stati Uniti, è perché si tratta di  una reazione (più o meno comprensibile) alla perdita del potere monopolistico globale esercitato dai media anglo-americani, in particolar modo dal 1989, ma praticamente dal 1945 in poi. Le ragioni del quasi-monopolio occidentale tra il 1949 e il 1989 (chiamiamola Fase 1) sono  molteplici: il grande flusso di notizie provenienti da canali di informazione come la “Bbc”, e più tardi la “Cnn”, molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle agenzie nazionali in molti paesi; la portata molto più ampia dei grandi servizi informativi in lingua inglese: questi offrivano una copertura giornalistica di tutti i paesi, mentre i media nazionali potevano a malapena permettersi corrispondenti in due o tre delle maggiori capitali mondiali; la diffusione dell’inglese come seconda lingua; e ultimo, ma non meno importante, la migliore qualità delle notizie (ovvero la maggiore veridicità) rispetto a quelle reperibili nelle fonti nazionali.

  • Sul web la censura Ue: ma oscurare la verità non è reato?

    Scritto il 04/5/18 • nella Categoria: idee • (8)

    Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?
    Fino a quando potranno restare impuniti, i presunti “ladri di verità” che impediscono all’opinione pubblica di acquisire dati su quanto avviene ogni giorno nel mondo? E’ annosa la polemica sulla disinformazione che finisce per coprire crimini gravissimi, inclusi quelli che l’Onu definisce “contro l’umanità”. In occasione del recente bombardamento dimostrativo sulla Siria, motivato dal presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco, Marcello Foa – in tarda serata, su RaiTre – ha accusato i colleghi di aver dato per scontata la versione ufficiale degli Usa, rifiutando di constatare l’assenza di prove: non risulta infatti che Assad abbia colpito civili con i gas (né è dimostrato che altri abbiano impiegato agenti chimici a Douma: non ci sono prove che la popolazione siriana sia stata effettivamente colpita, quel giorno). In collegamento da Washington, la corrispondente Giovanna Botteri si è difesa in modo singolare, affermando che è inevitabile il rischio di essere imprecisi nelle cronache sulla Siria, dal momento che ai reporter è vietato l’accesso al teatro bellico – diversamente da quanto accaduto, ad esempio, in Iraq. Peccato che, proprio in occasione della Guerra del Golfo, fece la sua comparsa il primo degli inglesismi poi tristemente noti, “embedded”: in Iraq, i giornalisti “impacchettati” furono costretti a vedere solo quanto stabilito dal comando del generale Norman Schwarzkopf.
    Fu la prima volta, nella storia del giornalismo bellico. Se ne lamentarono, i veterani premiati dal Pulitzer: la prima vittima della guerra è sempre la verità, dissero, ma in Iraq si passò il limite, giungendo alla censura preventiva apertamente dichiarata. Assistemmo così al festival delle fake news governative: dal set hollywoodiano con i poveri cormorani intrappolati nel petrolio fino alla (mai avvenuta) strage degli innocenti, la bufala dei neonati “massacrati nelle incubatrici dai soldati di Saddam” a Kuwait City. Notizie false, regolarmente “bevute” da centinaia di reporter e offerte, come amaro aperitivo, a milioni di lettori e telespettatori, mentre i missili “intelligenti” grandinavano sulla testa delle famiglie di Baghdad. E ora che il bavaglio di massa torna prepotentemente di moda, quale guerra preoccupa i censori dell’Unione Europea? Quella contro la possibile verità su un’istituzione che si professa europeista e invece lavora intensamente contro l’Europa unita, contro la concordia e la prosperità dei popoli europei? Temono le elezioni del 2019, i lobbisti privatizzatori di Bruxelles: a loro, il celebre paladino della trasparenza universale Mark Zuckerberg ha appena promesso la massima vigilanza, sulle pagine del maggior social network del mondo. Il Grande Fratello non permetterà che siano veicolate verità sgradite: saranno “bannate”, dai possessori dell’infrastruttura informatica.
    Il web, beninteso, non è la palestra assoluta della libertà: immenso motore economico, è strettamente controllato dai suoi dominus, dagli algoritmi di Google, da fantasiosi tecno-stregoni come quelli di Cambridge Analytica. Il web è anche una pattumiera di malcostume e violenza verbale: si è lasciato credere che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, potesse arbitrariamente distribuire insolenze, insulti e minacce. Forse però varrebbe la pena di ricordare ai legislatori che non siamo nel far west: esistono leggi a tutela dei cittadini, che sanzionano reati come la diffamazione. Di colpo non bastano più? Servono normative speciali, d’emergenza? E soprattutto: sono legali, le disposizioni speciali? Così come è un reato la calunnia, perché mai non dovrebbe essere perseguita per legge anche la distorsione della verità, che rende cieco il pubblico di fronte agli eventi? Ancora più grave è il proposito di “spegnere” programmaticamente le voci libere del web, magari segnalate dagli invisibili censori (penalmente irresponsabili) dell’impunita Unione Europea. Non è reato, occultare la verità? Non sarebbe materia, questa, su cui consultare innanzitutto i più autorevoli giuristi? Come in ogni questione controversa, l’ultima parola non potrebbe spettare a un tribunale? La parte civile, in questo caso, rappresenterebbe mezzo miliardo di persone: i cittadini dell’Unione Europea.
    (Giorgio Cattaneo, “Sul web la censura Ue, ma oscurare la verità non è reato?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 30 aprile 2018).

    Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?

  • Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo

    Scritto il 02/4/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
    La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.
    C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.
    Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.
    Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.
    E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.
    E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.
    Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?
    (Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.

  • Il telefono è in ascolto: sa dove sei, chi incontri e cosa dici

    Scritto il 31/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (14)

    Sono negli Usa. Compro un pacchetto di sigari e pago con carta di credito. Arrivo a casa, apro il pc per iniziare il lavoro quotidiano e mi compare una pubblicità di sigari. Pochi giorni fa vado nel bar di un mio amico che aveva messo in vendita su Internet una cucina da ristorante; mi racconta la sua avventura per vendere queste apparecchiature. Torno a casa, apro il cellulare, e mi compaiono annunci di vendita di cucine da ristorante. Quello che mi ha sorpreso è la rapidità con cui il dato che io avevo fornito col mio acquisto (sigari) è stato elaborato per mandarmi una pubblicità mirata. Il tempo trascorso dall’acquisto all’apertura del pc, infatti, era di circa trenta minuti. Un tempo poco superiore è trascorso nell’intervallo in cui ero a casa del mio amico e il momento in cui mi è comparsa la pubblicità delle cucine. Ora, premetto che pur essendo un complottista convinto, non sono affatto preoccupato che venga tracciato tutto ciò che faccio, vendo, compro, ecc. Quando certi strumenti saranno ancora più invasivi, sarà forse la volta buona che inizieremo a lasciare sempre più spesso a casa i cellulari e solleveremo sempre più lo sguardo dagli schermi dei nostri apparecchi elettronici, per volgerlo all’ambiente attorno a noi o al cielo. Le domande che mi faccio sono due, e di altro tipo.
    Innanzitutto a me pare che l’analisi dei dati che vengono immagazzinati per dare pubblicità sia sempre più sofisticata e vada molto al di là di quello che ci raccontano. Ci viene detto, infatti, che Google usa decine di indicatori per mandare pubblicità mirate, comprese il luogo in cui siamo. E fin qui ok, lo si può intuire anche dal fatto che ormai quasi tutti i siti ti chiedono “la tua posizione”, quando addirittura non la individuano in automatico. Mi accorgo infatti che se apro il pc in Francia, immediatamente mi compaiono pubblicità in francese; in Usa mi compaiono pubblicità in inglese, e così via. Se faccio una ricerca su Amazon compare in automatico “luogo di spedizione”, seguito dalla nazione in cui mi trovo. A me pare invece che emerga un controllo molto più permeante e globale, che comprende l’analisi immediata e incrociata di tutti i dati possibili, compresi gli acquisti fatti con carta di credito e il luogo specifico in cui ci troviamo (casa, supermercato, indirizzo di un amico, ecc.). Non si tratta, cioè, di un banale (si fa per dire) incrocio di dati, per rilevare la propensione al consumo degli utenti, ma di qualcosa di molto più specifico e permeante.
    Leggendo gli esempi che pubblichiamo alla fine dell’articolo, si può intuire che questo tipo di controllo comprende anche le cose che vengono dette a voce, e le attività effettuate nel quotidiano che vengono registrate in molti modi. Allora la domanda che mi pongo è: dal momento che esistono da tempo sistemi per monitorare tramite cellulare o pc gli stati d’animo e le emozioni di chi accede alla rete, tali sistemi sono già attivi sui nostri apparecchi elettronici? E in che misura? Il caso Cambridge Analytica ha fatto emergere un fenomeno molto più importante e grave della semplice raccolta di dati per fini politici (cosa di cui nessuno dubitava): è emerso che con i dati in possesso delle società di analisi si può accedere non solo alle caratteristiche, ai gusti, e alle tendenze dei fruitori della Rete, ma anche ai dati che si vorrebbero tenere nascosti (ad esempio si può capire se una persona è sessualmente impotente, se ha la tendenza al tradimento o meno, e ad altri dati che, in teoria, non sono così evidenti). Detto in altre parole, da Internet si può capire non solo ciò che scriviamo di noi, ma anche ciò che non scriviamo.
    Uno dei motivi per cui sulla maggior parte dei cellulari oggi in circolazione non si può togliere la batteria (una cosa assurda, dal punto di vista commerciale, logico, e pratico) è che rimaniamo connessi (quindi rintracciabili e individuabili) anche quando abbiamo il cellulare spento. Se tutto questo è vero, sorge spontanea un’altra domanda: perché non si utilizzano queste informazioni per la prevenzione alle varie forme di criminalità? Perché non le si utilizzano per fare indagini sempre più sofisticate sui crimini commessi? Il sospetto è che, dato il funzionamento della società, essi vengano utilizzati per commetterli, non per prevenirli o difendersi da esso. Mentre la creazione del diritto alla privacy, come abbiamo sottolineato in un altro articolo, è solo l’ennesima presa in giro di un sistema che fa finta di tutelare i cittadini, e poi usa tali strumenti per diminuirne i diritti anziché aumentarli. Di seguito posto quanto raccontato da persone che conosco. Da notare che cose simili erano capitate anche a me, ma le attribuivo alle cosiddette “coincidenze significative” di Jung. Invece era semplice tecnologia.
    SG. “Sto cercando una casa in affitto in Appennino e sabato appunto sono andata a fare un giro in una frazione di un paesino che non conoscevo ma che mi avevano detto essere bella. Mi sono fermata nell’unica trattoria della zona e ho chiesto se conoscevano un signore di cui mi avevano dato solo il soprannome dicendomi che affittava una casa molto carina. Quindi mi fermo a parlare con due o tre persone locali e ottengo il num di tel di questo signore. Bene, il giorno dopo, cioè ieri, sulla mia bacheca Fb mi si aprono come al solito le finestrine: persone che potresti conoscere” e tra di loro chi era il primo? Uno di quei tipi con cui ho parlato neanche 5 min in quella trattoria con cui non ci siamo nemmeno presentati e non ci siamo scambiati nessun numero o dato!!! Come mai succede questo?? Hanno rilevato la posizione?? Scusate l’ignoranza ma a me ha fatto un po’ impressione!!!”.
    MG: “Mi è capitato solo di scrivere il nome di una marca su Messenger, parlando con un’amica e mi sono ritrovata pubblicità di quella marca su Fb e Google…”.
    VN: “Una ragazza leggeva la storia del “piccolo principe” a suo nipote. Non aveva cercato nulla a riguardo online, e nemmeno su Google. Solo con la voce, e leggendo, raccontava il “piccolo principe”. Ebbene, dopo qualche giorno, le appare su Fb un’inserzione pubblicitaria che sponsorizzava gadget e agendine del suddetto racconto. Non si tratta solo di ricerche che noi stessi facciamo online, ma anche dei microfoni e delle fotocamere dei nostri cellulari super tecnologici”.
    (Paolo Franceschetti, “La pubblicità e il controllo nell’era di Internet”, dal blog “Petali di Loto” del 26 marzo 2018).

    Sono negli Usa. Compro un pacchetto di sigari e pago con carta di credito. Arrivo a casa, apro il pc per iniziare il lavoro quotidiano e mi compare una pubblicità di sigari. Pochi giorni fa vado nel bar di un mio amico che aveva messo in vendita su Internet una cucina da ristorante; mi racconta la sua avventura per vendere queste apparecchiature. Torno a casa, apro il cellulare, e mi compaiono annunci di vendita di cucine da ristorante. Quello che mi ha sorpreso è la rapidità con cui il dato che io avevo fornito col mio acquisto (sigari) è stato elaborato per mandarmi una pubblicità mirata. Il tempo trascorso dall’acquisto all’apertura del pc, infatti, era di circa trenta minuti. Un tempo poco superiore è trascorso nell’intervallo in cui ero a casa del mio amico e il momento in cui mi è comparsa la pubblicità delle cucine. Ora, premetto che pur essendo un complottista convinto, non sono affatto preoccupato che venga tracciato tutto ciò che faccio, vendo, compro, ecc. Quando certi strumenti saranno ancora più invasivi, sarà forse la volta buona che inizieremo a lasciare sempre più spesso a casa i cellulari e solleveremo sempre più lo sguardo dagli schermi dei nostri apparecchi elettronici, per volgerlo all’ambiente attorno a noi o al cielo. Le domande che mi faccio sono due, e di altro tipo.

  • Il Cristo ufficiale cattolico, nato nel IV secolo dopo Cristo

    Scritto il 31/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Per “Cristo storico” si intende la intricata disputa fra teologi, esegeti, archeologi, studiosi laici e credenti, che dura ormai da oltre un secolo, sulla effettiva esistenza del personaggio di Gesù Cristo. In altre parole, molti nel corso del tempo si sono domandati, e continuano a domandarsi, “ma Gesù è esistito davvero, o è soltanto una bella fantasia”? Diciamo subito che non vi sono prove assolute né in un senso né nell’altro. Vi è però una sufficiente quantità di riscontri documentali – fra cui primeggiano ovviamente i Vangeli – per affermare almeno che un certo predicatore di nome “Joshua” abbia calcato il suolo della Palestina in quel periodo storico. Il vero problema, casomai, è stabilire quali episodi a lui attribuiti siano veri e quali eventualmente no. Nel cercare di ricomporre questo complicato puzzle, infatti, subentrano continuamente possibilità di una lettura allegorica, che spesso “sdoppiano” il personaggio di Gesù in una versione prettamente umana, ed un suo possibile duplicato “simbolico”, con valenze anche divine. In altre parole, il Gesù che predicava alle genti nelle piazze è lo stesso Gesù che faceva i miracoli e camminava sull’acqua? O forse quello “miracoloso” è uno strato aggiuntivo, sovrapposto alla figura del normale predicatore per aumentarne la credibilità presso i suoi contemporanei?
    Oppure ancora, i “miracoli” erano veri miracoli – nel senso che trasgredivano le leggi della natura – o erano solo rappresentazioni metaforiche di banali eventi quotidiani? (Ad esempio, nella comunità degli Esseni il sacerdote che praticava i battesimi raggiungeva il centro della pozza d’acqua camminando su una sottile plancia di legno, e visto da lontano sembrava che camminasse sull’acqua. Era infatti definito, all’interno della comunità, “colui che cammina sull’acqua”. Se Cristo fosse stato – come molti sostengono – un sacerdote esseno, faceva dei veri miracoli, o era semplicemente uno a cui non piaceva bagnarsi i piedi?). Ma il vero problema, che rende difficile una qualunque ricostruzione storica, sta nel fatto che la stessa fonte dei Vangeli sia “inaffidabile” per sua natura. Contrariamente a quanto molti credono, infatti, i Vangeli “degli apostoli” non furono scritti direttamente da Marco, Matteo Luca e Giovanni… ma dai loro discepoli, o dai discepoli dei loro discepoli, una cinquantina di anni più tardi. Al tempo di Gesù prevaleva ancora la tradizione orale, e soltanto sul finire del primo secolo si iniziò a sentire l’esigenza di mettere il tutto nero su bianco. E come ben sa chiunque abbia giocato a “passaparola”, una frase come “ho perso il sonno” fa molto in fretta a diventare “è morto il nonno”.
    Ecco perchè, in questo caso, assumono grande importanza i riscontri incrociati. Se il Vangelo “A” descrive un certo episodio, e lo stesso episodio si ritrova anche nel Vangelo “B”, si moltiplicano di colpo le possibilità che l’episodio sia accaduto davvero. Secondo la tradizione, infatti, i discepoli si sarebbero dispersi dopo la morte di Gesù, dando vita a “rivoli” separati di tradizione orale, che hanno viaggiato in modo indipendente fino al momento di venir fissati sulla carta. Per quanto preziosi, però, i riscontri incrociati rappresentano anche un’arma a doppio taglio: chi ci dice infatti che un certo passaggio del Vangelo “A”, invece di riportare la tradizione orale da cui deriva, non sia stato semplicemente copiato dal Vangelo “B”? Poichè nessuno conosce il momento esatto di pubblicazione di ciascun Vangelo, infatti, è possibile che certe comunità cristiane abbiano attinto da altri testi evangelici, già in circolazione al momento di scrivere il proprio. E’ lo stesso problema descritto da Walter Benjamin, duemila anni dopo, nel suo libro “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ed è un problema che ormai tutti viviamo quotidianamente in Internet.
    Vi sono intere parti del Vangelo di Luca, ad esempio, che sono chiaramente tratte dal Vangelo di Marco (certi passaggi sono letteralmente copiati, parola per parola). La stessa cosa avviene per Matteo, di cui quasi la metà del testo è chiaramente tratta da Marco. Il Vangelo di Marco quindi viene collocato prima, in ordine di tempo, di quelli di Luca e Matteo. A loro volta, però, Luca e Matteo hanno molte parti in comune che non compaiono in Marco, portando ad ipotizzare l’esistenza di un quinto Vangelo, detto “Q”, che sarebbe stato contemporaneo di Marco. (“Q” sta per “quelle”, che in tedesco significa “la fonte”). C’è poi il Vangelo di Giovanni, fra i cosiddetti “canonici”, che presenta una lettura molto diversa dai tre precedenti della vicenda di Gesù. I primi tre infatti sono detti anche “sinottici”, che significa letteralmente che “la vedono allo stesso modo”, implicando che Giovanni la vede invece in modo diverso. Ma la “tombola” delle possibilità non si esaurisce certo con l’identificazione storica delle diverse fonti evangeliche. Fra queste e i Vangeli giunti fino a noi, infatti, ci sono quasi 300 anni di dispute feroci fra i cosiddetti “Padri della Chiesa”, cioè i vescovi e i sacerdoti di tutte le più importanti comunità cristiane dell’epoca, su molte questioni di fondamentale importanza storica e teologica.
    La più nota di tutte fu la diatriba sulla reale natura di Gesù, fra chi sosteneva che fosse una entità separata da quella divina, che da questa discendeva, e chi invece diceva che fosse costituito dalla “stessa sostanza” del Creatore. Vinsero i secondi, che scomunicarono il vescovo Ario, sostenitore dlla prima ipotesi. Naturalmente, nell’ambito di queste dispute interminabili, i testi sacri passavano continuamente di mano in mano, creando infinite possibilità per la “scomparsa” di certi passaggi scomodi, come per la comparsa delle cosiddette “interpolazioni”. Alcuni scambi epistolari fra i vescovi dell’epoca, ad esempio, suggeriscono che Gesù predicasse la reincarnazione, “caratteristica” dell’esistenza umana che sarebbe del tutto scomparsa nella versione finale del cristianesimo, poichè in contraddizione con la visione escatologica della vita, di fondamentale importanza per chi avrebbe imperniato tutto il suo potere sulla “paura dell’inferno”. (Si campa una volta sola, ci dice il cristianesimo, e chi sbaglia è perduto per sempre. Se invece ci fosse stata la possibilità di ritornare, e di rimediare agli errori commessi nelle vite precedenti, i preti rischiavano di venire accolti da una selva di pernacchie ogni volta che nominassero l’inferno. Via quindi la reincarnazione, e avanti con il Diavolo, il tridente e il Giudizio Individuale).
    A loro volta, sul fronte delle interpolazioni ci sono diversi passaggi che lasciano decisamente in dubbio gli studiosi, in quanto sembrano inseriti apposta per rimediare a vistosi “buchi narrativi”, che a loro volta testimoniano della grande confusione che dovesse regnare fra i Padri della Chiesa in quel periodo. Vi sono alcuni casi in cui è stato addirittura possibile dimostrare che un certo passaggio sia platealmente falso, cioè aggiunto in seguito alla stesura originale. In una certa lettera di S.Paolo, ad esempio, l’apostolo utilizza una espressione verbale che sarebbe entrata in uso solo una cinquantina di anni dopo, dimostrando che il passaggio è stato aggiunto in seguito, da qualche scriba poco attento all’evoluzione del linguaggio. E’ come se in un film degli anni ’50 Alberto Sordi si mettesse improvvisamente a gridare «viulèeeenza!», quando tutti sanno che quell’espressione è stata coniata negli anni ’80 da Diego Abatantuono. In quel caso sarebbe chiaro che la scena è falsa, e che è stata aggiunta in seguito, ovvero “interpolata” fra quella che la precede e quella che la segue.
    In ogni caso, fu solo nel 325 che i Padri della Chiesa consegnarono nelle mani di Costantino la “versione ufficiale” del cristianesimo come lo conosciamo oggi. Era costituita da 36 libri della Bibbia ebraica (“Antico Testamento”) con l’aggiunta del “Nuovo Testamento”, che contiene i 4 Vangeli canonici (Marco, Matteo, Luca e Giovanni), gli “Atti degli Apostoli”, le “Epistole” e l’“Apocalisse di Giovanni” (il noto testo profetico in cui compaiono anche la “bestia”, la “grande prostituta” e il numero “666”). Va notato che Paolo viene considerato uno degli apostoli, per quanto non abbia mai incontrato Gesù nella sua vita. Solo dopo la sua morte si sarebbe convertito al cristianesimo (sulla via di Damasco), del quale propose una interpretazione “per i gentili” che avrebbe condizionato più di ogni altro apostolo la futura dottrina cristiana. Ma i problemi di discordia non finirono certo con la definizione dei Vangeli canonici: a furia di cambiare, di aggiungere, di tagliare e di interpolare, i Padri della Chiesa non si sono nemmeno accorti che questi quattro Vangeli finiscono spesso per contraddirsi fra di loro.
    Se prendiamo ad esempio la scena della crocefissione, abbiamo addirittura tre versioni diverse sulle ultime parole di Gesù. Marco: «Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). «Ma Gesù, dando un forte grido, spirò». Luca: «Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo spirò». Giovanni: «Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, spirò». Secondo Matteo, Luca e Giovanni, a Gesù fu dato aceto da bere, imbevuto in una spugna. Secondo Marco invece era vino con mirra. Per Marco la prima a visitare il sepolcro, la domenica mattina, fu Maria Maddalena, insieme all’“altra Maria”. Secondo Marco c’era anche Salomè. Secondo Luca c’erano Maria Maddalena, Giovanna, Maria madre di Giacomo, e altre donne. Secondo Giovanni, Maria Maddalena era sola. Marco racconta che all’alba della domenica le donne trovarono il sepolcro sigillato dalla grande pietra. Matteo, Luca e Giovanni dicono invece che la pietra era già stata rimossa. Eccetera eccetera eccetera…
    Non si tratta certo di contraddizioni gravi, poichè non intaccano la coerenza complessiva del racconto, ma testimoniano del percorso particolarmente “accidentato” che debbono aver fatto queste narrative prima di finire una volta per tutte sulla pagina scritta. E finora abbiamo parlato solo di quelli canonici, cioè dei Vangeli “ufficiali” che i Padri della Chiesa hanno scelto di inserire nel Nuovo Testamento. Ma esiste tutta una serie di Vangeli, detti “apocrifi”, che sono rimasti esclusi dalla selezione, e che raccontano spesso una storia molto diversa. Va notato che “apocrifo” non significa “falso”, come molti credono, ma “nascosto”. Il termine deriva dal greco apò-kryptomai, dove apò significa “sotto”, e kryptomai significa nascondere (da cui il termine “cripta”, che è un locale sotterraneo della chiesa, quasi sempre nascosto al pubblico). Pare infatti che alcuni preti, meno ubbidienti di altri, tenessero questi documenti ben nascosti “sotto l’altare”, per evitare persecuzioni da parte delle autorità ecclesiastiche, che ne proibivano la circolazione. Solo con il tempo, a furia di dichiarare questi Vangeli “falsi”, il termine apocrifo è venuto ad assumere quel significato.
    Gli apocrifi offrono quindi agli studiosi una serie ulteriore di riscontri incrociati, nella loro faticosa ricerca del Cristo storico. Se si prende ad esempio il Vangelo di Tommaso, ritrovato in Egitto nel 1947, e lo si confronta con i canonici, risulta che circa la metà degli episodi descritti nel primo (una cinquantina circa) compaiono anche nei secondi. E poichè il Vangelo di Tommaso, che risale circa al 200 d.C., ci è giunto praticamente intatto, grazie all’otre che lo ha protetto per 18 secoli, avremmo di fronte un’ulteriore conferma della probabile veridicità di almeno una parte degli episodi attribuiti a Gesù. Ce ne sono però almeno altrettanti che non trovano corrispondenza nei canonici, e questo ha gettato nel più totale scompiglio molti studiosi, aprendo le porte ad una serie di possibilità praticamente infinita sulla reale esistenza di Gesù. Paradossalmente, i dubbi non si dissolvono nemmeno con la sua morte, ma continuano anche dopo. Vi sono infatti diversi elementi che suggeriscono che Gesù non sia affatto morto sulla croce, ma sia stato salvato in extremis dai suoi discepoli, e portato via di nascosto durante la notte.
    Quando il costato di Gesù viene trafitto dalla lancia, ad esempio, esce del sangue. Questo significa che Gesù, nonostante le apparenze, fosse ancora vivo. (Da un cadavere trafitto non esce più sangue, perchè viene a mancare la pressione arteriosa). Sul finire della giornata entra in scena un curioso personaggio, Giuseppe da Arimatea, che chiede e ottiene da Pilato il permesso di portarsi via il corpo di Gesù. Chi era, da dove veniva, e perchè mai i discepoli e i familiari di Gesù glielo avrebbero concesso così facilmente? Quando giunge al Calvario, questo Giuseppe porta con sé 30 o 40 chili di unguento di aloe, con il quale ricopre il corpo di Gesù prima di seppellirlo. Ma l’aloe è anche un potente disinfettante, che in quel tempo veniva usato proprio per curare le ferite. Tutta la faccenda della pietra smossa, inoltre, sembra indicare più una fuga terrena, praticata in fretta e furia dai discepoli che si portavano via Gesù, che non un “risorgere” di tipo divino. Anche le bende lasciate all’interno del sepolcro vuoto sembrano testimoniare di una “rinascita” molto frettolosa e terrena.
    Per quanto noi siamo abituati a pensare che Gesù sia “andato direttamente in Paradiso”, infatti, va ricordato che i Vangeli ci parlano di un semplice “risorgere”, inteso come “rialzarsi”. «E’ risorto, non è qui», dicono i personaggi trovati dalle donne di fronte al sepolcro. «Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto». E infatti Gesù apparirà più volte ai discepoli, nei giorni seguenti, in situazioni del tutto “terrene”, mentre l’“ascensione” vera e propria avviene, sempre secondo i Vangeli, solo 40 giorni dopo. Nel libro “Jung e i Vangeli perduti” lo storico Stephan Hoeller ha raccolto tutti gli elementi, i dati storici e i reperti archeologici che sembrano supportare la tesi che Gesù sia effettivamente morto in India, una ventina di anni più tardi. Dopo essere sopravvissuto alla crocefissione, sostiene Hoeller (insieme ad altri storici), Gesù avrebbe predicato per un certo periodo lungo le coste della Turchia, prima di intraprendere un lungo viaggio, in compagnia della madre, che lo avrebbe portato prima in Persia, e poi fino alle pendici dell’Himalaya.
    Altri storici hanno trovato tracce di una prolungata permanenza di Gesù in Medio Oriente, dove avrebbe continuato a predicare fino al giorno della sua morte. Vi sono poi ipotesi di tipo “esoterico” – peraltro meno supportate storicamente – che sostengono che Gesù sia invece giunto in Francia, dove avrebbe dato origine alla stirpe reale dei Merovingi, a cui molti attribuiscono qualità divine. In ogni caso, quello che conta davvero è la vicenda del Cristo che tutti bene o male abbiamo assorbito nel corso della nostra vita, e che fa ormai parte integrante della nostra cultura. In altre parole, qualunque siano stati gli eventi realmente vissuti da Gesù, quel che conta è il cristianesimo come è giunto fino a noi, e come ha condizionato nel frattempo – nel bene e nel male – l’intero percorso della storia umana. E forse è persino un bene che sia impossibile fare chiarezza assoluta sulla vicenda reale di Gesù, lasciando così a ciascuno quel margine di interpretazione che è giusto lasciare ad un evento di tale portata storica e di tale valenza spirituale come il suo passaggio sulla terra.
    (Massimo Mazzucco, “Il Cristo storico”, dal blog “Luogo Comune” del 30 marzo 2018).

    Per “Cristo storico” si intende la intricata disputa fra teologi, esegeti, archeologi, studiosi laici e credenti, che dura ormai da oltre un secolo, sulla effettiva esistenza del personaggio di Gesù Cristo. In altre parole, molti nel corso del tempo si sono domandati, e continuano a domandarsi, “ma Gesù è esistito davvero, o è soltanto una bella fantasia”? Diciamo subito che non vi sono prove assolute né in un senso né nell’altro. Vi è però una sufficiente quantità di riscontri documentali – fra cui primeggiano ovviamente i Vangeli – per affermare almeno che un certo predicatore di nome “Joshua” abbia calcato il suolo della Palestina in quel periodo storico. Il vero problema, casomai, è stabilire quali episodi a lui attribuiti siano veri e quali eventualmente no. Nel cercare di ricomporre questo complicato puzzle, infatti, subentrano continuamente possibilità di una lettura allegorica, che spesso “sdoppiano” il personaggio di Gesù in una versione prettamente umana, ed un suo possibile duplicato “simbolico”, con valenze anche divine. In altre parole, il Gesù che predicava alle genti nelle piazze è lo stesso Gesù che faceva i miracoli e camminava sull’acqua? O forse quello “miracoloso” è uno strato aggiuntivo, sovrapposto alla figura del normale predicatore per aumentarne la credibilità presso i suoi contemporanei?

  • Bugie su Mosca da un’Europa in pezzi. L’Italia? Obbedisce

    Scritto il 30/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre a Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».
    Quanto alle dichiarazioni del governo britannico, la stessa May continua a dire che «è altamente probabile» che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. «Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi», aggiunge Foa. E nel comunicato congiunto diffuso da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma “sviluppato” non significa prodotto in Russia: «Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come “fabbricato” – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa», che pertanto «andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa, non come un verdetto». La stampa dovrebbe mostrare maggior cautela, specie dopo le maggiori “fake news” che ha propagato, dalle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein fino alle prove “incontrovertibili” (ma altrettanto inesistenti) della responsabilità di Assad nella strage coi gas nel 2013 (armi chimiche in realtà usate dai “ribelli” siriani per provocare un intervento della Nato).
    Come risalire addirittura a Putin nel giro di poche ore, soprattutto conoscendo l’efficienza dell’ex Kgb? Molto eloquente, sottolinea Ivan Giovi sul blog di Aldo Giannuli, la volontà di non mostrare la provetta che dimostrarebbe la produzione russa del gas nervino utilizzato contro Skripal, nonostante Boris Johson si sia scagliato contro il Cremlino, non a caso alla vigilia delle elezioni russe. Marcello Foa insiste: siamo regolarmente sommersi da “fake news” veicolate non dal web, ma dai grandi media. Penultimo esempio: sempre in Siria, nel 2107, Amnesty International e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un “formo crematorio” in cui venivano “bruciati i ribelli”, «rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano». Avverte Foa: «Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le  fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”».
    Le istantanee adesioni europee alla condanna unilaterale inglese contro la Russia, scrive Giovi, fanno pensare a un tentativo di compattamento dei ranghi della Nato, «che sembra ormai tutto tranne che un’alleanza». Ovvero: più che un alleato, la Turchia «ormai sembra sempre più una spina nel fianco di Europa e Usa», mentre la Germania «ha intrapreso una guerra commerciale con gli Stati Uniti trascinando con sé tutta Europa». Dal canto loro, gli Usa «si lamentano in continuazione con gli Stati europei perché non contribuiscono abbastanza alla difesa comune». Tendenza in corso: ricompattare i ranghi della Nato ingigantendo il reale potere dei russi e «trovando pretesti assurdi per incolparli di qualsivoglia evento accaduto nel mondo occidentale (leggasi hacker russi che interferiscono con elezioni di mezzo mondo)». Senza peraltro riuscire nello scopo, «perché l’influenza russa negli ultimi anni si è estesa sempre di più, basti pensare alla Turchia che ha palesemente cambiato sponda o alla in Siria dove il vincitore a breve sarà nettamente Vladimir Putin». In questo quadro, Maurizio Blondet inserisce anche il giro di vite contro l’uomo che per primo ha smontato la propaganda militare Usa, mettendo in piazza i crimini commessi in Iraq: Julian Assange. L’averlo isolato – senza più Internet – per ragioni diplomatiche (buon vicinato con gli inglesi) rappresenta «una stretta imposta dal governo britannico nell’ambito dell’offensiva europea e americana contro tutte le voci libere».
    Per Blondet, si tratta di «un atto di barbarie identico (e connesso) alle espulsioni dei diplomatici russi sotto accuse spudoratamente false: una vera congiura della dittatura totalitaria occidentale in corso di consolidamento, una volontà di precipitare il conflitto con la Russia». Lo stesso Blondet ricorda che la Commissione Europea ha appena presentato un “Piano d’azione sulla Mobilità Militare” che obbligherà tutti i paesi membri a lasciare libero il passo agli eserciti Nato sul proprio territorio. Come sottolinea Thierry Meyssan, non si parla solo di eserciti europei: nella Nato, oltre agli Usa, c’è la Turchia. Per Blondet, questa misura «è l’identificazione finale della “Unione Europea” con l’Alleanza Atlantica, l’inglobamento dell’organizzazione essenzialmente economica nella lega militare oggi in postura offensiva». A 25 Stati membri viene ordinato di fornire carte delle loro vie di comunicazione (ferrovie, porti, aeroporti) nonché di precisare i lavori necessari per rendere praticabili ponti e le loro gallerie per i mezzi cingolati. «Dovranno anche cancellare le leggi e i regolamenti in vigore che vietano – o regolamentano – il trasporto di armamenti e materiali bellici sul loro territorio: è una Schengen per la guerra».
    Trionfante, Federica Mogherini – ancora lei, benché il governo che l’ha piazzata a Bruxelles non esista più – accoglie il progetto con entusiasmo: «Facilitando la mobilità militare nella Ue, siamo più efficaci nel prevenire crisi, più efficienti nel dispiegare le nostre missioni e più rapidi nel reagire quando sorgono delle sfide». “Prevenire crisi”, secondo Blondet, va inteso nei due sensi: «Secondo documenti interni all’Alleanza, la mobilità militare non serve solo per far correre le forze alle frontiere contro la Russia; servirà anche in caso di sollevazione popolare all’interno di uno degli Stati membri». Noi italiani non potevamo fare altrimenti che espellere diplomatici russi, pur con il già defunto governo Gentiloni? Non è vero, sottolinea Blondet: sono sono tutti così servili. Austria, Grecia e Portogallo si sono rifiutati di accodarsi a Londra, Parigi, Berlino e Roma. L’ha fatto anche la Repubblica Ceca: «Voglio vedere le prove», ha avvertito il presidente ceco Milos Zeman, rifiutando di compiere azioni ostili contro Mosca. Una dignità politica inesistente in Italia, la cui nave della Saipem per trivellazioni marittime è stata allontanata dalle acque di Cipro (sotto minaccia della flotta turca) senza che fiatasse il governo di Roma, in cui soccorso non è intervenuto nessuno – né l’Ue, né la Nato, cioè le potenze che dall’Italia poi ottengono obbedienza immediata se si tratta di colpire Mosca.
    E vogliamo parlare del “partner” Germania? «Mentre noi applichiamo le sanzioni alla Russia – aggiunge Blondet – Berlino ha appena firmato e confermato il North-Stream 2, il gasdotto baltico con la Russia, a dispetto delle proteste di Polonia, paesi baltici e Usa. Con quale motivazione? Che il gasdotto è una realizzazione “economica”, non politica». Dalla “guerra” con la Russia, invece, l’Italia ha riportato enormi danni. Secondo dati ufficiali Eurostat, fino a inizio 2017 il trend delle esportazioni italiane nella Federazione Russa era in crescita, con 10,8 miliardi di euro. Le importazioni, invece, ammontano a circa 20 miliardi di euro, principalmente nel settore degli idrocarburi e delle materie prime. Oltre 400 sono le imprese italiane che operano in Russia e circa 70 gli stabilimenti produttivi realizzati nella Federazione (tra questi le installazioni Eni, Indesit, Marcegaglia, più le filiali Intesa SanPaolo e Unicredit). «E’ chiaro che il vero nostro partner è la Russia», non certo i nostri “alleati” euro-atlantici. E se il Pd è rimasto sempre allineato ai diktat “imperiali”, solo Salvini ha eccepito sull’ultima offensiva antirussa. Di Maio? «Sulla questione degli espulsi russi ha taciuto: zitto zitto, per non dispiacere all’ambasciatore Usa e ai padroni del vapore in generale». In sostanza: neppure la nuova politica emersa il 4 marzo protegge l’Italia dalle “pazzie” geopolitiche in corso, riesplose subito dopo l’annuncio di Putin: grazie a nuovissimi missili nucleari iper-sonici “imparabili”, la Russia è al riparo da attacchi atomici. Putin chiede pace? L’Occidente risponde con una guerra di menzogne.

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti, contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».

  • Giovani in fuga da Facebook, al riparo dai genitori guardoni

    Scritto il 25/3/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.
    In Facebook si possono fare tutte le cose di Instagram e molte di più. Su Fb puoi mettere video e musica, mentre su Instagram hai pochi secondi di sintesi che ti lasciano più insoddisfatto di Donald Trump al cospetto di Putin. Su Fb puoi fare dialoghi così lunghi e articolati che metterebbero in imbarazzo Platone. Su Fb veicoli immagini di tutte le dimensioni, mentre su Instagram occorre accontentarsi dei miseri pixel offerti dagli smartphone, con relativi ritagli. Insomma, non ha alcun senso usare Instagram, bastava che Zuckerberg si adoperasse un attimo per ottimizzare meglio Fb ai telefonini 2.0 e il gioco era fatto. Invece, l’informatico di Harvard ha preferito comprarsi tutto il pacchetto di Instagram. Aveva forse intuito che i “ciòfani” sarebbero transitati in massa sul nuovo social? E comunque, perchè lo fanno? Il motivo me l’han fatto capire mia figlia dodicenne e una studentessa, che alzano il sopracciglio ad ogni mio post con aria compassionevole. E proprio mi sorprendo di non averlo capito prima. Fuggono da noi! Fuggono dagli “adulti” e dalla loro smania di sembrare giovani. Fuggono dai discorsi politici e dalle polemiche infinite dei thread. Fuggono da adulti guardoni, sempre fuori sincrono e impacciati con le nuove tecnologie, anche se fingono di saperla lunga. Fuggono dal controllo.
    La grande fuga è iniziata già da qualche tempo, ma nel 2018 è destinata ad aumentare in modo clamoroso. Le ragioni dunque sono social-familiari. La prima è che su Fb, o anche su Twitter, ci sono tanti genitori che “spiano”. In questi ultimi mesi, e proprio come ha fatto il sottoscritto senza averci pensato, gli adulti stanno arrivando anche su Instagram e i ragazzi non a caso hanno aperto anche dei nuovi profili Snapchat (un social ancora più “evanescente” di Instagram). Non mi stupirei affatto se, continuando così, le nuove generazioni transitassero armi e bagagli nel Deep Web, l’Internet oscuro e demoniaco dove trovi anche i kalashnikov in vendita e dove preti e puttanieri si scambiano i ruoli. La verità è che i ragazzi fanno benissimo e che noi adulti dobbiamo piantarla. Siamo decisamente più ridicoli e patetici dei nostri vecchi quando facevano la loro comparsata in discoteca alle undici di sera fingendo di bersi un bicchiere al bar. Dobbiamo invecchiare, farci crescere la barba, andare a caccia, comprarci l’Ape, fare la legna e toglierci dalle palle. Però comincate voi che mi leggete; io infatti orami sono un influenzzzer, guru, blogger e tutto il repertorio.
    (Massimo Bordin, “Fuga da Facebook”, dal blog “Micidial” del 12 marzo 2018).

    Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.

  • Facebook scheda la nostra mente, senza il nostro consenso

    Scritto il 23/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    «La stampa italiana sta cercando di “troncare e sopire” quanto è stato fatto da Cambridge Analytica, in una maniera che personalmente trovo indegna: la stanno facendo passare per un furto di dati privati, ovvero per qualche cosa che ha funzionato carpendo dati scritti sul social network». Lo afferma “Böse Büro”, in un post su “Keinpfusch.net” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornali e televisioni hanno ridotto cioè la cosa ad un fenomeno di privacy, che potrebbe apparentemente essere risolto decidendo cosa scrivere o meno, di sé, su Facebook. «Ma le cose non stanno così: su Facebook non si vedono solo le cose che scrivete, ma anche quelle che non scrivete. Siete trasparenti». Da recenti analisi emerge che i social media sono in grado di classificare con estrema precisione gli orientamenti degli utenti, anche in modo indiretto, grazie ai “like” espressi. Significa che Facebook può rilevare «anche quello che non ci avete scritto su di voi». Cambridge Analytics, sostiene “Büro”, è stato capace di applicare l’algoritmo alla politica. Esempio: quando Trump ha chiesto 200.000 elettori pronti a sostenerlo nel caso si fosse dichiarato “amico di Israele”, il sistema non ha fornito un semplice profilo (“il tuo elettore tipo è bianco, disoccupato, poco scolarizzato”) ma «ha risposto con una serie di nomi e cognomi», nonché «luoghi di residenza pescati su Facebook». Così, «a Trump non è rimasto altro che mandar loro una lettera a casa», lasciando perdere in partenza gli elettori critici con Israele.

  • Il teletrasporto? Non è più fantascienza: lo insegna la Cina

    Scritto il 18/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.
    Il progetto russo costerà oltre 2 trilioni di dollari, spiega “Blasting News”, e applicherà tutte le tecnologie all’avanguardia, come la computazione quantistica e interfacce neurali (il diretto collegamento tra macchina e cervello umano). «Fino ad ora, il teletrasporto umano ha sempre rappresentato qualcosa di impossibile per la complessità di informazioni che una macchina dovrebbe “ricordare” e riuscire a riassemblare esattamente in ogni singolo frammento, nel luogo di destinazione». In realtà, scrive Fenris, qualcosa del genere si è già realizzato, ma con particelle molto semplici. Nel 2014, gli scienziati della Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, hanno dimostrato che è possibile “teletrasportare” informazioni codificate in particelle sub-atomiche, a una distanza di tre metri con affidabilità del 100%. «Tra un essere umano e una particella sub-atomica c’è certamente una grande differenza, ma gli scienziati sono ottimisti e credono che presto tutto questo diventerà realtà». Secondo Elena Kovačič di “Sputink News”, gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca (Mfti) hanno capito che «in futuro sarà possibile percorrere lunghe distanze senza l’applicazione di forza fisica ed essere contemporaneamente in due posti. Ad esempio, a Pechino o Mosca o in Siberia e nelle isole della Nuova Zelanda. Non è escluso il teletrasporto per l’esplorazione dello spazio».
    Il cosiddetto “entanglement quantistico” è la capacità di due o più sistemi quantistici di comportarsi allo stesso modo, rimanendo inseparabili, anche se distanziati l’uno dall’altro. I fisici russi «hanno trovato un modo per preservare l’“entanglement quantistico” nella trasmissione delle informazioni ad una distanza considerevole», spiega uno dei ricercatori, Sergej Filippov. «C’è una correlazione, come nel caso di una bobina: per cui, ciò che succede a una estremità della bobina è collegato a quanto sta succedendo nell’altra. Queste correlazioni possono essere inviate. Anche le persone, spostate in questo modo ad una certa distanza, saranno comunque correlate». I fisici hanno eseguito una “crittografia quatistica” per la trasmissione di un segnale su fibra ottica, trovando un algoritmo per la trasmissione di qualsiasi cosa. «In un certo senso, questo “assemblaggio”, ricorda l’olografia, ossia l’immagine ricostruita di oggetti tridimensionali usando un laser. La differenza è che questo non è solo un particolare tipo di fotografia: qui c’è la riproduzione di “carne e sangue”, con tutte le caratteristiche e abilità specifiche». Per ora, la scienza non ha ancora la capacità di raggiungere questo obiettivo: finora, i fisici hanno “teletrasportato” fotoni. Ma la stessa tecnica, dicono, consentirà di trasportare materia complessa, fino all’uomo. E nel giro di pochi anni.
    Molto lusinghieri, in questo campo, i risultati ottenuti dalla Cina: la “Bbc” conferma che alcuni ricercatori cinesi sono riusciti a “teletrasportare” fotoni dal deserto del Gobi fino allo spazio, sul satellite “Micius” in orbita a un’altitudine dalla superficie terrestre che varia dai 500 ai 2.000 chilometri. Una vera e propria operazione fantascientifica, resa possibile grazie a quello che la fisica definisce “entanglement quantistico”, un processo in cui due diverse particelle che, pur non essendo in contatto fisico tra loro, reagiscono come una singola unità. «Prende così forma il concetto di “esistenza condivisa”, per cui qualsiasi alterazione sulla prima particella influenza lo stato della seconda. Già nel 1990, infatti, gli scienziati avevano capito che questo legame poteva essere usato per trasferire uno stato quantistico da un punto a un altro dell’universo», racconta “105.Net”. Dal punto di vista pratico, l’esperimento cinese è durato 32 giorni, durante i quali i ricercatori hanno inviato milioni di fotoni dalla Terra al satellite, ottenendo esiti positivi in 911 casi. «Un risultato straordinario, che permette alla Cina di battere il record per la distanza più grande mai coperta. I cinesi si mostrano dunque dominatori in un campo da sempre guidato da europei e statunitensi. Resta solo da capire quale sarà la prima contromossa dell’Occidente».
    Stati Uniti, Canada e Unione Europea sono già in gara con russi e cinesi, scrive Elena Dusi su “Repubblica”. «Due esperimenti sono stati appena pubblicati su “Nature Photonics”. Descrivono singoli fotoni capaci di “viaggiare” lungo una normale fibra ottica cittadina, per 6 chilometri a Calgary e 12 a Hefei, vicino a Shangai, “trasportando” le loro informazioni come in una linea Internet tradizionale». Altro che chilometri: i collegamenti quantistici precedenti (il primo realizzato nel 1993) non superavano i centimetri di un tavolo di laboratorio. Laddove si arrivò al record di 143 chilometri, aggiunge “Repubblica”, fu necessario allestire una trasmissione in uno spazio vuoto per non disturbare la corsa delle particelle: il mare fra due isole delle Canarie. «Per la prima volta, invece, a Calgary ed Hefei, il teletrasporto quantistico ha seguito le stesse strade che faremmo noi in auto o in motorino». Questo particolare fenomeno, spiega la Dusi, non ha nulla a che fare con la smaterializzazione e il trasferimento di persone od oggetti: «Lo spostamento infatti non riguarda le particelle in sé, ma le loro caratteristiche e coordinate. Più che a “Star Trek”, il teletrasporto quantistico assomiglia alla spedizione di un fax». In realtà si sfrutta il cosiddetto “entaglement quantistico”, cioè il legame tra due particelle nate da una stessa reazione.
    Le caratteristiche intrinseche di queste particelle sono legate indissolubilmente: se si modificano quelle dell’una, simultaneamente cambieranno anche quelle dell’altra. E la mutazione non dipende dalla distanza che le separa. Così, due fotoni legati da “entanglement” possono essere inviati al mittente e al destinatario di un messaggio criptato su Internet. Il mittente “modifica” il suo fotone e quindi quello in possesso del destinatario, che così potrà essere usato come chiave per decrittare il messaggio. «I vantaggi riguardano soprattutto la sicurezza», sostiene Francesco Marsili, ingegnere in forza alla Nasa. «Il teletrasporto quantistico non è necessariamente più veloce, semplicemente cancella il rischio di essere spiati. Comunicazioni finanziarie o militari sono le sue ovvie applicazioni». Non è un caso che il “teletrasporto”, dal campo della meccanica quantistica si sia trasferito a quello della geopolitica. La Commissione Europea ha lanciato il suo “Quantum Manifesto”, finanziandolo con un miliardo di euro in dieci anni. Washington ha già realizzato una piccola rete su cui testare le trasmissioni. Altrettanto ha fatto la Cina, con una “autostrada quantistica” di un migliaio di chilometri tra Shanghai e Pechino.
    Il gigante asiatico, in realtà, ha fatto anche di più, ammette “Repubblica”. «Lanciando il suo primo satellite per le trasmissioni quantistiche dallo spazio, a fine agosto, la Cina ha spostato la corsa all’Internet quantistico dalla Terra al cielo». Proprio sicuri che non sarà possibile – entro vent’anni, come dicono i russi – smaterializzare qualcuno e rimaterializzarlo a migliaia di chilometri di distanza? Un sogno che si sta avvicinando sempre di più alla realtà, «grazie a una serie di esperimenti che nel prossimo futuro potrebbero trasformare il teletrasporto in una pratica comune», scrive Daniele Uva sul “Giornale”, citando il recentissimo record cinese. Dal satellite Micius è partito un fascio laser che ha trasmesso le particelle di luce correlate tra loro alle diverse stazioni a terra, dove sono state misurate. «I fotoni, dopo aver viaggiato per lunghe distanze, hanno mantenuto il loro legame pur trovandosi a più di 1.200 chilometri gli uni dagli altri. Un primato senza precedenti». La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista specializzata “Science”, ha fatto gridare al miracolo: per la prima volta nella storia, qualcosa di molto simile al “teletrasporto” sembra aver funzionato.
    Nel 2016, aggiunge il “Giornale”, un gruppo di ricercatori dell’Esa – l’Agenzia Spaziale Europea – ha tentato un esperimento simile a quello cinese: «I due fotoni si trovavano, però, entrambi sulla Terra, e a una distanza di soli 140 chilometri». Sempre nel corso del 2016, ad aprile, alcuni scienziati dell’esercito americano «hanno raccontato di essere riusciti a trasferire un’intera squadra di militari da un centro di ricerca e sviluppo del Massachusetts a una zona di addestramento della Nato in Germania». La notizia è stata addirittura confermata attraverso il “Natick Soldier System Center” dell’esercito statunitense, «nonostante un certo inevitabile scetticismo da parte degli addetti ai lavori». Bisogna andare più indietro nel tempo, al 2004, per trovare un altro tentativo: una squadra americana del National Institute of Standards and Technology e una austriaca dell’università di Innsbruck «riuscirono a spostare, con la tecnica del teletrasporto quantico, alcune proprietà di atomi di berillio e calcio», ricorda Uva sul “Giornale”. Insomma, la ricerca non si ferma. «E la comunità scientifica è convinta che, in assenza di intoppi, entro una decina di anni si potrebbe arrivare a ottenere immagini e filmati quasi in tempo reale da Marte».

    Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.

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