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Archivio del Tag ‘investimenti’

  • Il Covid rovina un’azienda su 10: perderemmo 640 miliardi

    Scritto il 16/3/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Gli scenari sono due, e il primo è “ottimistico”: se l’emergenza coronavirus finisce a maggio, le imprese italiane (contando anche le ricadute nel 2021) perderanno un giro d’affari di 275 miliardi di euro. Se invece la quarantena durerà fino a dicembre, sarà la catastrofe, con la completa chiusura delle frontiere dei mercati europei: nel biennio perderemmo ricavi per 641 miliardi, di cui quasi 470 quest’anno. «Quale dei due scenari si concretizzerà? Non siamo epidemiologi, non è facile rispondere», ammette Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, la società che da quarant’anni analizza i bilanci di tutte le imprese italiane. Timore evidente: man mano che passano le settimane, senza miglioramenti in vista, si profila davvero l’apocalisse. Secondo Cerved, riassume “Repubblica”, se si verificherà lo scenario pessimistico «rischia di fallire il 10,4% delle imprese italiane». L’inserto “Affari&Finanza”, sempre di “Repubblica”, avanza stime ancora più precise, analizzando 750.000 imprese italiane, con dati elaborati e integrati coi modelli statistici ed econometrici utilizzati da Cerved per monitorare 233 diversi settori produttivi.
    La prima cosa che balza all’occhio, scrive “Repubblica”, è il fatto che, se l’emergenza finisse a maggio, le imprese italiane riuscirebbero già dal prossimo anno a recuperare un livello di fatturato superiore dell’1,5% rispetto a quello ottenuto nel 2019 (secondo Cerved, 2.410 miliardi di euro). «Questo dato è interessante perché, dopo le crisi del 2008 e del 2011 – spiega Mignanelli – l’economia italiana non ce l’aveva fatta a tornare ai livelli precedenti, in parte perché il fallimento di molte aziende aveva ridotto la base produttiva». La aziende che dovessero sopravvivere si calcola che diverrebbero più forti di prima. «Anche in questo caso, però, il costo reale del Covid-19 sarebbe altissimo», scrive il giornale diretto da Carlo Verdelli. «Per stimare il giro d’affari bruciato dal virus bisogna infatti tenere conto dei progressi che molte aziende avrebbero compiuto quest’anno e il prossimo, se non fosse scoppiata l’epidemia: il fatturato, erano le aspettative fino a poche settimane fa, era atteso crescere dell’1,7% quest’anno e del 2% il prossimo, più di quanto avessero fatto nel 2019».
    È così che Cerved arriva a mettere nero su bianco la cifra di 275 miliardi, che fotografa i ricavi che saranno persi dalle aziende nel biennio 2020-2021, anche se si verificasse lo scenario più “benevolo”. «Una voragine che diventerebbe ancora più profonda – arrivando fino a 641 miliardi – se le cose si mettessero male davvero, e l’emergenza si protraesse fino a dicembre». Scorrendo i numeri dei settori più colpiti, aggiunge “Repubblica”, ci si rende conto di come la crisi cambierà il volto dell’Italia e del suo sistema di imprese. «Nello scenario pessimistico, infatti, il fatturato degli alberghi scenderebbe dai 12,5 miliardi del 2019 ai 3,3 miliardi di quest’anno, un crollo del 73% che sarebbe seguito a ruota da agenzie di viaggio e tour operator (meno 68%), strutture ricettive extra-alberghiere come agriturismi e b&b (meno 64%) e aeroporti (meno 50%). «Ma l’ictus produttivo e il crollo dei consumi assesterebbero una mazzata anche alla manifattura, con un crollo del 45,8% per la produzione di auto (da 39,5 a 21,4 miliardi), di veicoli industriali (da 12,7 a 6,7 miliardi) e del cruciale e diffusissimo settore dei componenti per l’automotive (da 23,3 a 12,6 miliardi), che i produttori italiani esportano o fabbricano direttamente in tutto il mondo».
    Un altro aspetto interessante è l’impatto sulle diverse regioni: «In cima c’è la Lombardia, “l’epicentro del terremoto”, com’è stata definita sul piano sanitario e come rischia di essere anche dal punto di vista economico, data la sua stazza produttiva». Sempre nello scenario pessimistico, rispetto a quanto avrebbero fatto con le stime ante-coronavirus, le imprese lombarde brucerebbero un fatturato di 182 miliardi, seguite dal Lazio (118 miliardi), dal Piemonte (60), dal Veneto e dall’Emilia Romagna (circa 57 per entrambe). Tanti i fattori: il diverso peso dei vari settori di attività, la propensione all’export e il fatto che i maggiori gruppi, industriali e commerciali, hanno sede a Milano e Roma. «In valori assoluti, ovviamente, l’impatto della crisi sarà più contenuto nelle regioni del Sud o in quelle più piccole». Tra le più colpite, comunque, quelle turistiche: Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta. «Le peggiori in assoluto, però, nello scenario “horribilis” sarebbero quelle dove l’auto pesa di più sul totale, ovvero Piemonte (meno 4,9%) e Basilicata (-5,1)».
    Poi c’è addirittira chi guadagna, dalla crisi: per esempio, le aziende che operano nel commercio online, nella grande distribuzione alimentare e nella farmaceutica. Se l’emergenza si protraesse, «il 2020 per molte di esse diventerebbe indimenticabile: nella grande distribuzione alimentare crescerebbero dai 108 miliardi del 2019 a 132 miliardi, nel commercio all’ingrosso dei prodotti farmaceutici e medicali da 33 a 38 miliardi, nel commercio online da 4,3 a 6,7 miliardi». Handicap tutto italiano, la debolezza della digitalizzazione. Ora, i ricavi delle aziende connesse all’informatica o all’automazione non smetteranno di crescere: «La speranza – dice Mignanelli – è che l’epidemia, che costringe le persone a casa, possa contribuire a convincere gli imprenditori – soprattutto i più piccoli – che gli investimenti in tecnologia sono necessari per aumentare la produttività».

    Gli scenari sono due, e il primo è “ottimistico”: se l’emergenza coronavirus finisce a maggio, le imprese italiane (contando anche le ricadute nel 2021) perderanno un giro d’affari di 275 miliardi di euro. Se invece la quarantena durerà fino a dicembre, sarà la catastrofe, con la completa chiusura delle frontiere dei mercati europei: nel biennio perderemmo ricavi per 641 miliardi, di cui quasi 470 quest’anno. «Quale dei due scenari si concretizzerà? Non siamo epidemiologi, non è facile rispondere», ammette Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, la società che da quarant’anni analizza i bilanci di tutte le imprese italiane. Timore evidente: man mano che passano le settimane, senza miglioramenti in vista, si profila davvero l’apocalisse. Secondo Cerved, riassume “Repubblica“, se si verificherà lo scenario pessimistico «rischia di fallire il 10,4% delle imprese italiane». L’inserto “Affari&Finanza”, sempre di “Repubblica”, avanza stime ancora più precise, analizzando 750.000 imprese italiane, con dati elaborati e integrati coi modelli statistici ed econometrici utilizzati da Cerved per monitorare 233 diversi settori produttivi.

  • Magaldi: apocalisse coronavirus, così Conte suicida l’Italia

    Scritto il 11/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La situazione è grave, ma non seria: si sono chiuse le stalle quando ormai i buoi erano scappati. Se – usando questa retorica – si voleva puntare sulla limitazione drastica della diffusione del contagio, queste misure bisognava assumerle un mese fa (ma seriamente, non all’italiana, cioè non consentendo la scappatoia dell’autocertificazione per gli spostamenti: il divieto di spostamento andava esteso a tutti, tassativamente). Il contagio si diffonderà comunque, perché il coronavirus è più contagioso di una normale influenza e perché le misure draconiane non sono state prese un mese fa. Questo, se uno pensa al coronavirus come alla peste bubbonica: la percezione, almeno, è quella di un problema ad alto grado di pericolosità. E’ davvero così? Io penso di no. Credo che dobbiamo scientificamente rimanere ancorati alle statistiche. I dati sulla polmonite e sulle infezioni danno una mortalità molto più grande. Solo di polmonite, si calcola che muoiano centomila persone ogni anno. E’ surreale: ormai, quello del coronavirus – tra morti e contagiati – è un bollettino di guerra quotidiano. Tra chi ci osserva, ci sarà anche chi lo fa per capire quanto i cittadini siano disponibili alle limitazioni della libertà.
    Inoculare un virus nel mondo globalizzato, con queste maglie larghe, è facilissimo: fra un anno potremmo avere un altro virus, analogo. E che facciamo? Ogni volta ripetiamo quello che stiamo facendo? Certo, non bisogna sottovalutare l’effetto che il virus può avere su alcuni pazienti. Ma allora, bisogna decidersi: le misure draconiane, ripeto, andavano assunte prima. Ma secondo me non andavano nemmeno prese. Non andava messo in ginocchio il paese, non andava creata questa psicosi. Andava fatto un altro discorso, responsabile. Bisognava dire: c’è un virus così, non lo conosciamo, abbiamo dei dati, osserviamo quello che accade in Cina, sappiamo che l’incidenza di mortalità è simile a quella di altri virus (che non hanno comportato restrizioni di questo tipo); quindi andava usata anche la televisione per trasmettere consigli, per sollecitare le stesse precauzioni destinate – rispetto all’influenza – a persone esposte, deboli. D’ora in poi, vogliamo che i governanti ci mettano in guardia e diano anche il bollettino dei morti per influenza, per polmonite e per infezioni: ormai lo pretendiamo. Fatelo per tutte le cose per cui si muore: ogni giorno, un bollettino per ognuna delle cose per cui si perde la vita, specie in seguito a infezione e contatto con gli altri. Perché accordare solo al coronavirus questo privilegio?
    Si poteva invece evitare un clima di questo tipo, e investire – da subito – miliardi, per strumenti medici. C’erano in vista problemi respiratori? Invece di diffondere allarme, stracciarsi le vesti e dire che non ce la faremo a gestire l’emergenza, bisognava spendere denari per il benessere pubblico. E perché ad esempio non si è pensato di fare tamponi di massa, per tempo? Sappiamo che anche il coronavirus in qualche caso può anche essere letale – come l’influenza, le infezioni, le polmoniti. Sono una piccola percentuale, per fortuna. In quel caso, queste persone vanno ospedalizzate e curate con gli strumenti necessari. Secondo me avremmo avuto le stesse percentuali, ma non questa pazzia, questa vera e propria pazzia collettiva. Siamo andati avanti per settimane con uno stillicidio di misure all’acqua di rose, parziali, incongruenti, con zone isolate a macchia di leopardo. Il coronavirus divamperà ancora. E noi staremo appesi al televisore a sentire gli aggiornamenti. I casi gravi sono una percentuale irrisoria: non possiamo trasformare il coronavirus nello spauracchio del terzo millennio. Può essere grave, ma – statisticamente – lo è per poche persone: così come per altre cose, per cui non c’è questo allarme sociale.
    Il governo italiano non ha seguito nemmeno la sua logica, che rispetto a questo problema prevede un allarme da tragedia incombente, da peste bubbonica. La sua logica è che bisogna assolutamente arrestare il contagio, perché oltretutto non si hanno strutture sanitarie adeguate. Cioè, in un mondo in cui la globalizzazione consente che possano periodicamente divampare virus di questo tipo, tu che fai? Tagli le risorse della sanità pubblica. Molto intelligente, no? E poi, quando scoppia il virus, invece di investire in personale e macchinari, gridi “al lupo, al lupo”, non sapendo dove metterai i pazienti e come li curerai. Molto intelligente, molto lungirimante, molto attento al benessere collettivo. Se la logica era questa, il governo italiano ha toppato, in ogni caso. Questo governicchio stava per cadere, e Conte è stato “salvato” dall’emergenza, che è una cosa più grande di lui. Ma è un vivacchiare, è un mettere la polvere sotto il tappeto. Quando ci risveglieremo da questo incubo, si scoprirà che il paese ha avuto il colpo di grazia.
    L’Italia era in crisi da decenni, ha avuto una botta forte dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 (e la falsa cura dell’austerity). E il paese oggi riceve il colpo di grazia. C’è anche questa sordida manovra di anticipare l’approvazione del Meccanismo Europeo di Stabilità, il famigerato Mes. Semmai, la crisi-coronavirus legittima ulteriormente l’adozione di una moneta parallela, ripetutamente proposta da Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. La situazione presuppone un piano straordinario di investimenti da 100-200 miliardi, per l’Italia e per tutti i paesi europei colpiti da questa crisi economica derivante dall’aver messo in quarantena intere regioni. E qui stiamo invece ad anticipare l’approvazione del Mes, che è un meccanismo ulteriore di quell’austerity che ha aggravato le crisi economiche degli ultimi anni? Siamo alla follia. Stiano anche attenti: sono clamorose le rivolte nelle carceri. La gente adesso è preoccupata, prevale lo spirito da pecoroni impauriti. Ma poi il popolo si rivolta: se non hai i denari per indennizzare le perdite, quando molta gente sarà col culo per terra e altre aziende falliranno, poi la rabbia sociale esploderà.
    Stiano attenti, a giocare col fuoco. Si è sbagliato tutto, si continua a sbagliare. Spero che all’ultimo momento venga ripensata, questa approvazione del Mes il 16 marzo. Questa storia del coronavirus è poco convincente sotto molti aspetti, ha tanti angoli bui. E’ una storia abbastanza puzzolente. Se la cura alle crisi economico-finanziarie è stata peggio del male (c’è stata una volontà dolosa di aggravarle, anziché risolverle), e se il terrorismo globale ha portato in molti casi alla restrizione di libertà, chi ama restringere la libertà e vuole trasformare il pianeta globalizzato in un mondo post-democratico e sempre meno libero, be’, guarda con grande interesse a questo grande strumento di disciplina sociale autoritaria. Nessuno, dopo la Seconda Guerra Mondiale, aveva dovuto vivere in queste condizioni di restrizione. Se fossi un gruppo di potere che sogna un mondo più controllato, mi inventerei un virus all’anno. E, in nome dell’emergenza, abituerei i cittadini ad ogni sorta di restrizioni. Naturalmente è sempre un gioco da apprendisti stregoni, perché poi devi controllare il mostro della rabbia sociale che vai a fomentare. Quindi è un’arma pericolosissima, da usare.
    Sarà anche una persona squisita, ma – politicamente parlando – il nostro presidente del Consiglio è un minchione. Non si può arrestare l’influenza, figurarsi un contagio che è ancora più rognoso, proprio per la facilità con cui si diffonde. Visto che le misure sono ovviamente inefficaci, secondo questa logica aumenteranno le restrizioni: fra un po’ ci diranno di stare alla larga l’uno dall’altro anche dentro le case, invitando mariti e mogli e stare a due metri di distanza. Ci proporranno di scavare dei bunker sotteranei? E’ un’escalation assolutamente idiota e grottesca. Bisognava lasciare che accadesse quello che comunque non si è potuto impedire. E non si potrà impedire che il virus si diffonda e contagi molte persone, che in gran parte però non ne soffriranno. Per chi ne soffrirà, serviranno strutture meglio attrezzate. Quella era la strada da prendere, anziché dare la mazzata finale a un paese già in crisi economica. Questa emergenza, resa in questi termini, non si giustifica. C’è una narrazione artefatta. Orwelliamente, a forza di ripeterla, una menzogna diventa una verità. Ma noi abbiamo il dovere di testimoniare il dissenso, rispetto a questo.
    Un grande potenza industriale, un grande paese moderno (senza il quale non l’Unione Europea non esisterebbe nemmeno) invece di piagnucolare sul fatto che non ha le risorse, be’, le risorse se le procura. Il piagnisteo sul collasso degli ospedali deriva dai tagli sciagurati di ieri e dall’ignavia di oggi, perché si sta sempre lì a contare due baiocchi da spendere. Ci hanno fatto la grazia? Conte è andato a belare, di fronte ai rappresentanti della Disunione Europea, chiedendo un po’ di flessibilità. Ma stiamo scherzando? Si chiedono ai cittadini enormi sacrifici – esistenziali, lavorativi – e tu, Stato, non sei in condizione di affrontare un’emergenza sanitaria per carenza di mezzi? Questa è una vergogna assoluta, è un caso da rivoluzione. Spero che i governanti si precipitino a procurarsi le risorse e i macchinari per far fronte a qualunque tipo di emergenza. Dopodiché, l’emergenza è soprattutto nella narrazione: si è introdotta una psicosi, la si è coltivata, la si sta consolidando e aumentando di giorno in giorno; ma la verità è che questo virus – che è insidioso, rognoso, e per qualcuno pericoloso – non meritava dei bollettini giornalieri di terrorismo psicologico sui cittadini. Credo però che il Movimento Roosevelt – come anche i massoni progressisti – continuerà a lavorare per rendere questa disgrazia un’opportunità.
    (Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi racconta” del 10 marzo 2020).

    La situazione è grave, ma non seria: si sono chiuse le stalle quando ormai i buoi erano scappati. Se – usando questa retorica – si voleva puntare sulla limitazione drastica della diffusione del contagio, queste misure bisognava assumerle un mese fa (ma seriamente, non all’italiana, cioè non consentendo la scappatoia dell’autocertificazione per gli spostamenti: il divieto di spostamento andava esteso a tutti, tassativamente). Il contagio si diffonderà comunque, perché il coronavirus è più contagioso di una normale influenza e perché le misure draconiane non sono state prese un mese fa. Questo, se uno pensa al coronavirus come alla peste bubbonica: la percezione, almeno, è quella di un problema ad alto grado di pericolosità. E’ davvero così? Io penso di no. Credo che dobbiamo scientificamente rimanere ancorati alle statistiche. I dati sulla polmonite e sulle infezioni danno una mortalità molto più grande. Solo di polmonite, si calcola che muoiano centomila persone ogni anno. E’ surreale: ormai, quello del coronavirus – tra morti e contagiati – è un bollettino di guerra quotidiano. Tra chi ci osserva, ci sarà anche chi lo fa per capire quanto i cittadini siano disponibili alle limitazioni della libertà.

  • Carpeoro: ma siamo sicuri di sapere cosa sta succedendo?

    Scritto il 09/3/20 • nella Categoria: idee • (1)

    «Entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria ad ogni tipo di cura». Lo scriveva nel 2004 Sylvia Browne nel libro “Profezie”, sottotitolo “Cosa ci riserva il futuro”, edito in Italia nel 2006 da Mondadori. «Tale patologia – vaticinava l’autrice, statunitense – sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura». Sembra proprio lui, il coronavirus, annunciato con 16 anni di anticipo. «Righe che inducono alla riflessione», ammette Gianfranco Carpeoro: «Mi piacerebbe leggere tutto il libro, vedrò di ordinarlo». La Browne, considerata una “sensitiva”, ha scritto decine di volumi sulle sue doti “medianiche” che si sarebbero palesate fin da quando era bambina. Morta nel 2013 in California, aveva partecipato come consulente per polizia e Fbi ad oltre 100 casi di sparizioni e omicidi. Un vero mistero, secondo Carpeoro, avvolge invece l’emergenza attuale: siamo sicuri di sapere cosa sta succedendo, davvero, in Italia e nel mondo?
    «Siamo in una situazione in cui tutto può succedere: se avessimo politici capaci saprebbero reagire, e questa situazione la trasformerebbero in opportunità». E’ una tesi già anticipata da Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: proprio l’emergenza è un’occasione d’oro per stracciare le regole truccate dell’austerity europea e rivendicare l’accesso ai fondi che consentirebbero all’Italia di invertire la rotta, con investimenti capaci di produrre occupazione e archiviare la crisi neoliberista. Si profila invece un disastro economico? «Dipende da come reagiamo noi: nel dopoguerra siamo stati capaci di ricostruire un paese in macerie, facendo addirittura il boom economico», afferma Carpeoro, a sua volta “rooseveltiano”, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato per trent’anni (vero nome, Pecoraro) nonché giornalista, romanziere e saggista, Carpeoro non è affatto ottimista sul sistema-Italia: «Temo che il governo firmerà la revisione del Mes», annunciata come una catastrofe finanziaria: c’è il rischio concreto che il nuovo organismo europeo imponga in cambio una “ristrutturazione” del debito, con meccanismi draconiani (una patrimoniale, o il prelievo forzoso dai conti correnti italiani).
    Siamo a questo? «C’è poco da illudersi: ci caliamo le brache con tutti», protesta Carpeoro, ricordando – a titolo di esempio – il caso Regeni e quello dei due marò accusati di aver ucciso un pescatore al largo delle coste indiane. «L’Egitto ci ha ammazzato un italiano e non abbiamo fatto niente. L’India cattura due concittadini innocenti, per una cosa che non hanno fatto, e noi non facciamo niente». Poi non lamentiamoci, aggiunge Carpeoro, se nessuno rispetta l’Italia e tutti ci calpestano. «Ma di che stiamo parlando? Vallo a fare agli americani, e vedi cosa ti succede. Allora vuol dire che hanno ragione loro, a comportarsi così». Vistosa, in questi giorni, la polemica verso gli Usa, sospettati di aver “infettato” la Cina con il coronavirus, finendo col danneggiare anche l’Italia. Carpeoro è scettico: «Di solito, la sovragestione è abile nello sfruttare le crisi, senza il bisogno di crearle direttamente». Il problema, comunque, è la non-reazione delle vittime. «Parliamo di cose serie, accertate: Trump ha colpito l’Italia in modo inaudito, con i dazi. E noi non abbiamo fatto niente: subiamo, senza fiatare».
    Cosa avremmo potuto fare? «Uscire dalla Nato, per esempio: avete presente cosa significano, per gli americani, quei 30 miliardi che versiamo loro ogni anno? Invece ci limitiamo a obbedire, come se agli americani non fosse possibile dire di no». E di questo, aggiunge Carpeoro, dobbiamo dire grazie ai politici di oggi. «Quelli di ieri, i Craxi che a Sigonella seppero farsi rispettare, li abbiamo mandati in esilio ad Hammamet». Ma da che parte può essere “scappato”, il coronavirus? Carpeoro allarga le braccia: «Si fanno tante ipotesi, ma la verità è che non lo sappiamo». La prima, vera calamità è proprio la disinformazione: silenzi, omissioni, zero trasparenza. «Immagino ci siano retroscena, ma non li conosciamo. E personalmente – aggiunge Carpeoro – non mi fido di quello che ci viene raccontato: non abbiamo modo di verificare praticamente niente, sulla reale entità della situazione che ci sta investendo».
    Stupisce, infatti, la gravità delle misure intraprese, dalla chiusura delle scuole al totale isolamento di intere regioni. In pratica: 12 milioni di italiani, letteralmente in quarantena. «Le cifre finora diffuse, quanto a contagiati e deceduti – insiste Carpeoro – non giustificano un allarme così grande. Nemmeno in occasione di epidemie ben più gravi, inclusa la Spagnola, si era fatto ricorso a provvedimenti così restrittivi». Colpa del governo, fatto da dilettanti allo sbaraglio? Non è detto: secondo Carpeoro, la realtà potrebbe essere persino peggiore. «Domanda: c’è forse qualcosa che ci nascondono, riguardo alla reale gravità della situazione?». Uno sguardo al resto dell’Europa (e del mondo) non è certo rassicurante: «Francia e Germania sono nella nostra stessa situazione, ma hanno palesemente taroccato i dati sui decessi per non suscitare allarme e non subire contraccolpi economici. E se l’hanno fatto francesi e tedeschi, figurarsi i coreani». Noi, in compenso, siamo riusciti a brillare una volta di più: «Vent’anni di tagli alla sanità ci hanno messo in croce, di fronte all’emergenza». Quanto a Conte e colleghi, complimenti vivissimi per la fuga di notizie sull’isolamento delle zone rosse, da cui migliaia di persone sono fuggite in massa prima che le strade venissero chiuse dai posti di blocco: «Se voleva frenare il contagio, Conte ha ottenuto il risultato opposto: diffonderlo ulteriormente, dalla Lombardia alle altre regioni».

    «Entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria ad ogni tipo di cura». Lo scriveva nel 2004 Sylvia Browne nel libro “Profezie”, sottotitolo “Cosa ci riserva il futuro”, edito in Italia nel 2006 da Mondadori. «Tale patologia – vaticinava l’autrice, statunitense – sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura». Sembra proprio lui, il coronavirus, annunciato con 16 anni di anticipo. «Righe che inducono alla riflessione», ammette Gianfranco Carpeoro: «Mi piacerebbe leggere tutto il libro, vedrò di ordinarlo». La Browne, considerata una “sensitiva”, ha scritto decine di volumi sulle sue doti “medianiche” che si sarebbero palesate fin da quando era bambina. Morta nel 2013 in California, aveva partecipato come consulente per polizia e Fbi ad oltre 100 casi di sparizioni e omicidi. Un vero mistero, secondo Carpeoro, avvolge invece l’emergenza attuale: siamo sicuri di sapere cosa sta succedendo, davvero, in Italia e nel mondo?

  • Galloni: no al golpe del Mes, con la scusa del coronavirus

    Scritto il 08/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    In quale tipo di situazione ci stiamo trovando? Mentre era evidente che i poteri economico-finanziari, per la prima volta nella storia, non fossero in grado di dare indicazioni su come l’economia e la finanza dovessero affrontare le crisi che stavano cominciando, si è tirato fuori prima il pretesto dell’ambiente – che è un gravissimo problema per l’umanità, ma non certo nei termini sollevati da Greta e dai suoi seguaci – e adesso c’è questo coronavirus. Come nasce, il Mes? E’ l’erede di quel Fondo Salva-Stati che fu costituito prima che la Banca Centrale Europea si attrezzasse per comperare i titoli di Stato sul mercato secondario. Quindi è diventato inutile, nel momento in cui la Bce può acquistare titoli di Stato, può immettere tutti gli euro che vuole (come fanno le altre banche centrali del pianeta) per comperare titoli di qualunque genere – anche titoli tossici: oggi circolano 54 Pil mondiali di titoli tossici di debiti, ed è questa la ragione per cui il sistema sta diventando ingovernabile. Ma non ci sono soluzioni: né da parte di quelli che ci hanno dominato finora, né da parte nostra, in fondo, che siamo qui per cercare di affrontare la situazione.
    Il Mes ha dei profili di incostituzionalità che sono stati perfino rilevati dai tedeschi, che non l’hanno firmato. Pertanto, a ratificarlo dovranno essere i rappresentati popolari riconosciuti (nel caso nostro, il Parlamento), e non possono essere ammessi o ipotizzati colpi di mano. La situazione del coronavirus è praticamente dominata da una gravissima emergenza: non era mai successo, per esempio, che si chiudessero le scuole. Ma perché? Perché nel recente passato abbiamo chiuso ospedali, abbiamo ridotto la spesa pubblica, non abbiamo assunto infermieri né medici, e adesso ce n’è estremo bisogno. E quindi, se questi 4.000 contagiati dovessero diventare 40.000 o 400.000, negli ospedali non avremmo i posti. Come si fa ad affrontare questo problema? Come si fa ad affrontare il problema degli Stati che non hanno moneta per fare investimenti e spese necessarie? In un modo semplicissimo, come hanno fatto tante altre realtà: immettendo moneta sovrana a circolazione nazionale. Questa è l’unica strada che abbiamo: sia per affrontare realmente l’emergenza del coronavirus, sia per tagliare la strada al Mes.
    (Nino Galloni, intervento nella diretta web-streaming “Mes, fermare il contagio” trasmessa su “ByoBlu” e “Pandora Tv” il 7 marzo 2020, registrata su YouTube. Economista keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, Galloni è il portavoce del Coordinamento nazionale No-Mes, che conduce la sua campagna all’insegna dello slogan “Blocca il contagio, no alla ratifica del Mes”. Il fondo europeo, alimentato da fondi statali, obbligherebbe lo Stato a pagare forti interessi denaro anticipato al Mes dallo Stato stesso, pena una drastica “ristrutturazione” del debito che taglierebbe il welfare mettendo in ginocchio l’economia, sotto il ricatto finanziario. Sostenitore del recupero della sovranità finanziaria statale, Galloni propone l’adozione di una moneta parallela all’euro, sovrana, non convertibile, a circolazione solo nazionale, accettata esclusivamente in Italia per qualsiasi pagamento, compreso quello delle tasse. Per Galloni, l’artificiosa austerity europea è solo il frutto – solo ideologico, non certo scientifico-economico – della volontà di potenza di un’élite post-democratica, che ha “fabbricato” a tavolino la crisi: privatizzazioni, delocalizzazioni, deindustrializzazione, precarietà e disoccupazione, attacco ai salari e alle pensioni, erosione dei risparmi. Sempre secondo Galloni, il ricorso alla moneta parallela – non vietato allo stesso Trattato di Lisbona – permetterebbe all’Italia di eseguire enormi investimenti, puntando rapidamente alla piena occupazione).

    In quale tipo di situazione ci stiamo trovando? Mentre era evidente che i poteri economico-finanziari, per la prima volta nella storia, non fossero in grado di dare indicazioni su come l’economia e la finanza dovessero affrontare le crisi che stavano cominciando, si è tirato fuori prima il pretesto dell’ambiente – che è un gravissimo problema per l’umanità, ma non certo nei termini sollevati da Greta e dai suoi seguaci – e adesso c’è questo coronavirus. Come nasce, il Mes? E’ l’erede di quel Fondo Salva-Stati che fu costituito prima che la Banca Centrale Europea si attrezzasse per comperare i titoli di Stato sul mercato secondario. Quindi è diventato inutile, nel momento in cui la Bce può acquistare titoli di Stato, può immettere tutti gli euro che vuole (come fanno le altre banche centrali del pianeta) per comperare titoli di qualunque genere – anche titoli tossici: oggi circolano 54 Pil mondiali di titoli tossici di debiti, ed è questa la ragione per cui il sistema sta diventando ingovernabile. Ma non ci sono soluzioni: né da parte di quelli che ci hanno dominato finora, né da parte nostra, in fondo, che siamo qui per cercare di affrontare la situazione.

  • Geopolitica del coronavirus: è bioterrorismo, made in Usa

    Scritto il 08/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.
    Ci sono volute poche ore perché la crisi si trasmettesse ai titoli di Stato italiani, ed è molto probabile che il circolo vizioso (panico, crisi economica, crisi del debito) debba produrre ancora i suoi effetti peggiori. L’Italia è infatti il “ventre molle” dell’Eurozona, e l’attacco bioterroristico angloamericano mira soprattutto a destabilizzare l’Eurozona e l’Unione Europea nel suo complesso: l’operazione è facilitata anche dalle dinamiche messe in moto dal virus: la tentazione di ripristinare le frontiere in Europa e procedere in ordine sparso è fin troppo evidente. Va da sé che un collasso violento dell’Unione Europa, con la conseguente crisi politica ed economica, rallenterebbe non poco il tentativo cinese di “agganciare” il Vecchio Continente alla Via della Seta. Già, perché il coronavirus sembra proprio studiato per destabilizzare non soltanto l’Europa, ma la massa afro-euro-asiatica nel suo complesso, massa che Russia e Cina stanno tentando di organizzare con una rete di infrastrutture sempre più fitta ed intricata.
    Il primo e più potente colpo è stato sferrato dagli angloamericani ovviamente in Cina (80.000 casi) che, per fare fronte al propagarsi dell’epidemia, ha dovuto adottare contromisure senza precedenti: come nel caso italiano, i danni umani sembrano contenuti, ma quelli all’attività economica sono ingenti e si attende per questi mesi un brusco calo dell’attività produttiva: il sistema-paese non dà comunque segni di cedimento, grazie alla solidità della macchina statale centralizzata e alla consapevolezza, molto diffusa tra tutti gli strati della popolazione, di dover fronteggiare un vero e proprio assalto statunitense. Ovviamente le ripercussioni economiche sono pesanti anche per gli Stati Uniti, ma è errato in questa nuova fase storica attribuire troppa importanza al “business”: la geopolitica, intesa come duello tra colossi continentali e potenze marittime, domina ormai l’agenda di Washington e Londra, e una destrutturazione violenta della globalizzazione (velocizzata da un collasso delle piazze finanziarie che si fa giorno dopo giorno più concreto) coincide perfettamente con i piani delle potenze anglosassoni, accortesi di aver perso il primato  economico in troppi campi (dal 5G ai treni superveloci).
    Tra Italia e Cina, i principali focolai di coronavirus agli estremi opposti dell’Eurasia, due paesi risultano essere stati particolarmente colpiti, attraverso i soliti canali “misteriosi” dietro cui si celano attacchi biologici mirati: Iran e Corea del Sud. Sull’Iran (90 morti e 2.900 casi), specie dopo il recente omicidio del generale Souleimani, si è troppo scritto per doverne parlare ancora: ci basti qui dire che Teheran è un ottimo fornitore di greggio alla Cina, è parte integrante del corridoio centrale della Via della Seta che dovrebbe unire le regioni occidentali cinesi all’Europa via Istanbul, consente alla Russia di affacciarsi, se necessario, all’Oceano Indiano. Più interessante, perché ne abbiamo sinora parlato meno, è il dilagare del coronavirus nella Corea del Sud, dove sinora si contano circa 5.000 casi ed una trentina di vittime ed il governo di Seul si è visto costretto a dichiarare “guerra” al virus. Colpire l’Italia per destabilizzare l’Europa e punirla per aver aderito alla Via della Seta, colpire l’Iran perché un tradizionale nemico, ma perché colpire anche la Corea del Sud?
    Chi avesse seguito la politica dell’Estremo Oriente in questi ultimi anni, dominata dalle tensioni attorno al nucleare nordcoreano, avrà certamente notato il progressivo “ritorno” (perché così è stato per millenni) anche della Sud Corea nell’orbita cinese. Il dislocamento nella penisola coreana del sistema antimissilistico Thaad, uno strumento neppure troppo velato di “contenimento” della Cina, aveva inasprito nel 2017 i rapporti tra Pechino e Seul; da allora, fungendo da mediatore tra le due Coree, Pechino si è riavvicinata al piccolo, ma altamente industrializzato, paese asiatico, sino alla decisione del dicembre 2019 di “normalizzare” i rapporti, chiudendo i recenti dissapori dovuti al dispiegamento del Thaad. Seul, come molti altri paesi del sud-est asiatico, sta dunque anch’essa convergendo verso l’Impero Celeste e non ha alcuna intenzione di fungere da “testa di ponte” degli angloamericani sul continente asiatico: come molti altri paesi del sud-est asiatico (si veda il caso della Malesia), anche la Corea del Sud ha quindi avuto la sua “punizione”. Il coronavirus, appunto.
    Chiudiamo la nostra analisi sulla geopolitica del coronavirus con un accenno all’Africa. Nelle ultime settimane, prima che il virus si diffondesse in Italia, si è molto parlato del rischio di un’epidemia in Africa, dove peraltro mancherebbero le strutture per contenerla. Pare che il clima caldo disincentivi il propagarsi della malattia e ciò metterebbe dunque almeno parzialmente al sicuro le regioni africane tropicali: non c’è alcun dubbio, infatti, che se gli angloamericani dovessero sferrare un attacco biologico anche nel Continente Nero, sceglierebbero certamente il Corno d’Africa e la regione compresa tra Gibuti e l’Etiopia: i paesi, cioè, toccati dal corridoio marittimo della Via della Seta.
    (Federico Dezzani, “Geopolitica del coronavirus”, dal blog di Dezzani del 4 marzo 2020).

    Mentre in Italia il coronavirus produce i suoi pesanti e scontati effetti economici/finanziari, nell’ottica di una più ampia destabilizzazione dell’Europa, altri paesi risultano essere particolarmente investiti dalla virus: in primis Corea del Sud e Iran. Il diffondersi della malattia segue dunque criteri squisitamente geopolitici e si inserisce nella più ampia strategia delle potenze marittime anglosassoni contro la massa continentale afro-euro-asiatica. Sono trascorsi poco più di sette giorni dalla nostra ultima analisi sul diffondersi del coronavirus in Italia e gli avvenimenti intercorsi ne mostrano la validità: a fronte di un numero relativamente basso di vittime (circa 80 su 2.500 casi) ed una mortalità di poco superiore alla normale influenza, questa acuta forma di polmonite ha prodotto, produce e produrrà enormi danni economici e finanziari, vero obiettivo dell’attacco asimmetrico di cui è vittima l’Italia. Le regioni più produttive d’Italia sono soggette a misure che restringono la circolazione delle persone e delle merci; il clima di incertezza ha congelato gli investimenti e le assunzioni; i voli aerei da/per l’Italia sono stati oggetto di limitazioni; il turismo, una voce che vale il 5% del Pil, ha incassato forse il colpo più dura, grazie anche al clima d’emergenza creato ad hoc attorno all’Italia dai media esteri.

  • Tentazione: usare l’emergenza per un golpe, incluso il Mes

    Scritto il 05/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il coronavirus sembra non volerne sapere dei modelli matematici fatti apposta per ingabbiarlo: le cifre crescono, e così assistiamo a una moltiplicazione dell’incertezza, mentre si consuma il balletto quotidiano dell’indecisione del governo. Attenti: il momento è propizio per instaurare uno “stato d’eccezione”. Lo afferma il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, intervistato da Federico Ferraù sul “Sussidiario“. «L’emergenza – spiega Mangia – consente di fare infinite cose che in condizioni normali non si potrebbero fare», dalla nomina di un “commissario al coronavirus” fino alla firma del Mes, passando per l’introduzione forzata del wireless 5G. Esistono precedenti: all’indomani del terremoto di Messina del 1908, lo Stato neo-unitario inventò l’istituzione del decreto-legge. «La disciplina dell’emergenza si è sviluppata simultaneamente in tutta Europa, e se n’è fatto ampio uso durante e soprattutto subito dopo la Prima Guerra Mondiale: basti pensare a una calamità come l’influenza spagnola, che uccise soltanto in Italia quasi 400.000 persone». Un giurista come Santi Romano diceva che l’emergenza è una fonte del diritto: «Vale sicuramente per il coronavirus. Pensiamo al decreto-legge 6/2020 appena varato dal governo e ad altro che potrebbe arrivare».

  • Guerini dopo Conte, entro sei mesi? Caos e grandi manovre

    Scritto il 29/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Sei mesi, al massimo: poi Conte dovrà sloggiare. Ormai il tam-tam è scattato, dopo l’intesa tra Renzi e Salvini e la visita del leghista al Quirinale: «Noi vogliamo che l’Italia riparta, e con Conte non riparte». Per Francesco Forte, economista ed ex ministro delle finanze, l’esecutivo ha i mesi contati. «Viva il coronavirus», scherza Vittorio Feltri, «se sfratta Conte da Palazzo Chigi, dopo aver finalmente cancellato anche le Sardine». Governissimo? Sul “Sussidiario”, Francesco Sisci anticipa un nome: Lorenzo Guerini. «Sembra l’uomo adatto: cattolico, gradito alla Nato. Uomo del Pd, vicino a Renzi, ma del Nord. Ha mediato fra premier e governatore della Lombardia». Guerini dopo Conte? L’ennesimo fac simile di Gentiloni, dunque, mentre – dietro le quinte – il finto progressista Romano Prodi contende la successione a Mattarella all’ex super-oligarca Draghi, che oggi (dopo aver contribuito, con Prodi, a demolire l’Italia sotto i colpi delle privatizzazioni) si professa pentito e pronto a guidare una stagione di riscossa democratica per la sovranità nazionale? La situazione è drammatica, ma non seria: mentre le Sardine (con l’Italia che crolla) se la prendono con Salvini, il leader dell’opposizione che citofona a presunti spacciatori, tutto frana per merito di Giuseppe Conte, sull’orlo della fossa-coronavirus: prima il panico, poi la minimizzazione del pericolo una volta accortosi del disastro economico e d’immagine inferto al paese.
    Ragiona Forte, intervistato da Lorenzo Torrisi sul “Sussidiario”: la demagogia dei governativi li ha resi impopolari presso «gli ambienti economici che non erano del tutto loro ostili, come Confindustria, e in regioni operose come Lombardia e Veneto: rischiano di essere cacciati perché alle prossime elezioni, anche se ci sarà il tentativo di scaricare tutte le colpe su Conte, ce ne si ricorderà». Insiste Forte: «Non credo che l’esecutivo possa durare più di sei mesi, anche per le difficoltà che mostrava di avere nelle scorse settimane. E poi il presidente della Repubblica deve pensare alla propria reputazione». Inoltre, aggiunge l’ex ministro, c’è un problema fondamentale: «Se aumenta il deficit, cresce anche il debito pubblico e l’Unione Europea boccerà i nostri conti. Mattarella non potrà tenere un governo bocciato da Bruxelles». Il ministro Roberto Gualtieri annuncia che l’Italia userà i margini di bilancio concessi dall’Ue nelle cosiddette “circostanze eccezionali”? Vero, «ma sia Bruxelles che i mercati tengono conto di come le risorse liberate vengono utilizzate. Se non vedono una strategia basata sugli investimenti, soprattutto in infrastrutture, allora non possono pensare che l’economia riparta».
    Chiarisce Forte: «Non si possono usare risorse per bonus e interventi settoriali, ma serve un’azione macroeconomica globale». Quella che l’ordoliberismo Ue, peraltro, ha sempre impedito. «Bisogna mettere in campo strumenti che invertano il ciclo economico», aggiunge Forte: «Occorre far crescere il Pil per non vedere aumentare il rapporto debito-Pil». E’ il cane che si morde la coda. Eppure, nella primavera gialloverde del 2018, economisti come Antonio Maria Rinaldi (ora eurodeputato eletto con la Lega) ripetevano: se i soldi finiscono in investimenti produttivi, aumentare il deficit fa crescere il Pil e quindi riduce l’incidenza del debito. Era il piano che, peraltro, Salvini e Di Maio – allora alleati – avevano affidato a Paolo Savona, neutralizzato da Mattarella su pressione di Draghi, si dice, attraverso Bankitalia. Ora, due anni dopo, siamo tornati al punto di partenza. A essere sparigliate sono le carte e gli attori, mentre il copione è invariato. Perché mai all’Italia sarebbe consentita, oggi, la politica espansiva negata appena due anni fa dall’oligarchia eurocratica? E poi, chi decide cosa? Conte, il tiepido Re Travicello, sarebbe espressione diretta del super-potere vaticano: una pedina sacrificabile. Ma, dietro a qualsiasi “governissimo”, non sarà difficile scorgere la partita a scacchi, tuttora in corso, tra Prodi e Draghi, per conquistare il Quirinale.

    Sei mesi, al massimo: poi Conte dovrà sloggiare. Ormai il tam-tam è scattato, dopo l’intesa tra Renzi e Salvini e la visita del leghista al Quirinale: «Noi vogliamo che l’Italia riparta, e con Conte non riparte». Per Francesco Forte, economista ed ex ministro delle finanze, l’esecutivo ha i mesi contati. «Viva il coronavirus», scherza Vittorio Feltri, «se sfratta Conte da Palazzo Chigi, dopo aver finalmente cancellato anche le Sardine». Governissimo? Sul “Sussidiario“, Francesco Sisci anticipa un nome: Lorenzo Guerini. «Sembra l’uomo adatto: cattolico, gradito alla Nato. Uomo del Pd, vicino a Renzi, ma del Nord. Ha mediato fra premier e governatore della Lombardia». Guerini dopo Conte? L’ennesimo fac simile di Gentiloni, dunque, mentre – dietro le quinte – il finto progressista Romano Prodi contende la successione a Mattarella all’ex super-oligarca Draghi, che oggi (dopo aver contribuito, con Prodi, a demolire l’Italia sotto i colpi delle privatizzazioni) si professa pentito e pronto a guidare una stagione di riscossa democratica per la sovranità nazionale? La situazione è drammatica, ma non seria: mentre le Sardine (con l’Italia che crolla) se la prendono con Salvini, il leader dell’opposizione che citofona a presunti spacciatori, tutto frana per merito di Giuseppe Conte, sull’orlo della fossa-coronavirus: prima il panico, poi la minimizzazione del pericolo una volta accortosi del disastro economico e d’immagine inferto al paese.

  • Bolzano regala 15.000 euro a chi apre negozi in montagna

    Scritto il 13/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Fino a 15.000 euro in regalo a chi apre un negozio in un paesino, assicurando generi di prima necessità. Succede in Alto Adige, dove la giunta provinciale di Bolzano ha stanziato fondi per un piano speciale di investimenti. Obiettivi: combattere, in modo concreto, lo spopolamento della montagna. Altro che reddito di cittadinanza: fioccano contributi per chi sceglie di tenere vive le Alpi, garantendo alle famiglie residenti i principali servizi di prossimità. E senza scordare i negozi che hanno finora resistito, nelle valli: un cospicuo assegno (da 9 a 11.000 euro) è l’incoraggiamento destinato a chi, in questi anni, ha tenuto duro, mantenendo la presenza di un punto vendita a portata di mano, raggiungibile a piedi. «L’obiettivo è quello di favorire il commercio interno ai paesini, sia tutelando i negozi già presenti sia incentivando l’apertura di nuovi esercizi», scrive Eleonora Angeloni su “GreenMe”. «Il commercio di vicinato rappresenta un vantaggio non solo per i commercianti locali, ma anche per i residenti, che non si trovano costretti a dover percorrere lunghe distanze per avere accesso ai prodotti necessari nella quotidianità».
    Stando al provvedimento, Bolzano potrà dunque assegnare contributi fino a 15.000 euro per l’apertura di negozietti nelle località che ne sono prive. Per “esercizi di vicinato” si intendono negozi che lavorano in paesi con almeno 150 abitanti e che vendono generi alimentari di prima necessità al dettaglio. «Le attività che possono usufruire di questo contributo devono svolgere uno dei seguenti servizi: vendita di prodotti locali, consegna a domicilio, vendita di giornali o servizio postale». Tra gli altri requisiti: piccolo giro d’affari, ridotta superficie di vendita, massimo tre addetti a tempo pieno. E poi gli orari: il negozio deve restare aperto per sei giorni la settimana, per almeno tre ore. In pratica: un forte incentivo a tenere viva l’economia locale, evitando – oltretutto – l’abbandono del territorio alpino (che, com’è noto, genera costi esponenziali in termini di sicurezza idrogeologica). Calcolando che il territorio dell’intera Penisola è in gran parte montano e collinare, con migliaia di borghi disseminati lungo alture boscose, va da sé che una simile misura socio-economica – se adeguatamente supportata, a livello centrale – avrebbe la capacità di rivitalizzare le aree periferiche di intere Regioni, dal Piemonte alla Sicilia.
    Ovviamente, i piccoli numeri e il particolare regime amministrativo dell’Alto Adige (statuto speciale) rendono possibile questo “miracolo” in miniatura, destinato anche a supportare indirettamente l’economia turistica. Se a Bolzano si fa di necessità virtù, di fronte all’esodo che sta svuotando le valli e facendo emigrare i consumatori verso gli ipermercati, dietro al progetto altoatesino si può leggere anche una visione “svizzera” del futuro, legata essenzialmente alle risorse del territorio, alle filiere corte, ai prodotti a chilometri zero. Una prospettiva “glocal”, che – senza disconnettersi dalla grande rete planetaria delle informazioni e delle merci – punta sul territorio per alimentare innanzitutto la domanda interna, che (a livello macroeconomico) in Italia è entrata in crisi in decenni di austerity progressiva, fino a crollare poi con il governo Monti. Può sembrare paradossale, la mini-rivoluzione di Bolzano, in un’Ue che sovrasta i governi nazionali imponendo scelte dall’alto. Nel terzo millennio cinese (e tedesco) del super-export, il lavoro si precarizza o sparisce, delocalizzato. E dopo aver eliminato la rappresentanza politica nelle Province, ora si vorrebbe tagliare anche i parlamentari, penalizzando ancora una volta le periferie. Bolzano risponde alla sua maniera, come può, e in modo keynesiano: soldi pubblici, per sostenere l’economia reale (privata) là dove è essenziale che non muoia. Una piccola, grande lezione.

    Fino a 15.000 euro in regalo a chi apre un negozio in un paesino, assicurando generi di prima necessità. Succede in Alto Adige, dove la giunta provinciale di Bolzano ha stanziato fondi per un piano speciale di investimenti. Obiettivo: combattere, in modo concreto, lo spopolamento della montagna. Altro che reddito di cittadinanza: fioccano contributi per chi sceglie di tenere vive le Alpi, garantendo alle famiglie residenti i principali servizi di prossimità. E senza scordare i negozi che hanno finora resistito, nelle valli: un cospicuo assegno (da 9 a 11.000 euro) è l’incoraggiamento destinato a chi, in questi anni, ha tenuto duro, mantenendo la presenza di un punto vendita a portata di mano, raggiungibile a piedi. «L’obiettivo è quello di favorire il commercio interno ai paesini, sia tutelando i negozi già presenti sia incentivando l’apertura di nuovi esercizi», scrive Eleonora Angeloni su “GreenMe“. «Il commercio di vicinato rappresenta un vantaggio non solo per i commercianti locali, ma anche per i residenti, che non si trovano costretti a dover percorrere lunghe distanze per avere accesso ai prodotti necessari nella quotidianità».

  • Guerra ai cavi sottomarini: lì c’è il 97% delle informazioni

    Scritto il 12/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale”. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».
    Nel solo 2017, scrive Mauri, la domanda globale di larghezza di banda dei cablaggi sottomarini è aumentata del 57%. Si è aperto così un mercato – quello della posa di nuovi cavi – in cui le industrie del web si sono gettate a capofitto con miliardi di investimenti. «Storicamente i cavi sono di proprietà di compagnie private, di solito telefoniche, che affittavano l’utilizzo degli stessi a Google, Microsoft e alle altre società di Internet. Ora sono proprio i colossi di Internet a costruire e posare i cablaggi: a partire dal 2016 c’è stato un vero e proprio boom di posa di cavi da parte di Google, Facebook, Amazon e Microsoft». A farla da padrone, aggiunge Mauri, è proprio il motore di ricerca più famoso del mondo: Google ha posato 100.000 chilometri di cavi, seguito da Facebook (91.000), Amazon (30.000) e Microsoft (6.000). «Solo cinque anni fa, queste aziende del web, insieme, arrivavano a malapena al 5% delle quote di mercato nella zona dell’Atlantico del Nord, dove si ha il maggior volume di traffico essendo la via che collega l’Europa all’America. Ma entro 3 o 4 anni, stante gli attuali investimenti, arriveranno al 90%». Le grandi compagnie americane, però, non sono più le sole a gestire la rete dei cablaggi intercontinentali: anche in questo campo sta facendo il suo preponderante ingresso la Cina.
    Attraverso Huawei, continua “InsideOver”, Pechino sta lavorando per cercare di contrastare il monopolio americano, spesso consorziandosi anche con le stesse aziende Usa. Ma attualmente si trova in difficoltà proprio a causa della politica di Trump: Huawei Submarine Systems era stata messa in lista nera dall’amministrazione Usa prima di aver ceduto la propria attività nel settore ad un altro gruppo, la Hengtong. «Del resto – annota sempre Mauri – i progetti di sviluppo, come gli investimenti, sono enormi: Facebook e Google hanno in costruzione, insieme a China Mobile, il Pacific Light Cable Network che collegherà Los Angeles a Hong Kong, mentre sempre Facebook e Microsoft sono consociate per Marea, il cavo che connetterà gli Stati Uniti all’Europa attraverso due stazioni in Virginia e a Bilbao, in Spagna». Attraverso la sua divisione Marine Network and Co, Huawei ha in cantiere anche il gigantesco progetto Peace, acronimo di Pakistan and East Africa Connecting Europe: «Una rete di cablaggi che collegherà l’Asia all’Europa passando per l’Africa: una manifestazione “informatica” della Nuova Via della Seta fortemente voluta dal presidente Xi Jinping».
    La politica dei giganti mondiali, sottolinea Mauri, passa attraverso la gestione del traffico dei dati che percorrono i cablaggi sottomarini: stante la mole di dati finanziari, personali e militari che viaggia attraverso questi mezzi, «è impensabile che i governi delle tre grandi potenze mondiali (Usa, Russia e Cina) non abbiano in essere un qualche piano strategico che ne preveda non solo la gestione, ma anche la possibilità di minarli e sabotarli in caso di conflitto». L’attività di sabotaggio, infatti, è molto più semplice e meno dispendiosa rispetto all’attività di spionaggio: «La rete di cavi, sebbene sia posata mediamente a elevata profondità, è comunque vulnerabile grazie alla possibilità di venire raggiunta in modo discreto da un qualsiasi sottomarino o batiscafo, e soprattutto perché la mappatura dei cablaggi è di pubblico dominio». Certo, una singola interruzione potrebbe essere aggirata dall’ampiezza della rete, ormai estesa, «ma un attacco contemporaneo su vasta scala metterebbe in ginocchio la rete di un paese e potrebbe addirittura escluderlo dalla possibilità di contattare tempestivamente i suoi comandi più periferici o quelli dislocati in altri continenti».
    Secondo Mauri, basterebbe disporre sui cavi dei dispositivi di disturbo, o addirittura delle cariche esplosive azionabili a comando. E se le cariche venissero poste sulla maggior parte dei cavi, o sulla totalità di cavi che, ad esempio, collegano il Nord America all’Europa? Se venissero azionate nello stesso momento, «ci sarebbe il caos immediato dai due lati dell’Atlantico, con le reti aeree e satellitari che, a causa della ridotta larghezza di banda, collasserebbero in poco tempo, provocando probabilmente l’isolamento dei comandi militari e il panico nei mercati finanziari». Allo scopo, non servirebbero chissà quali strumenti fantascientifici: «Le marine militari di Russia, Stati Uniti, e forse anche quella cinese, hanno già in servizio sottomarini particolari che, tra gli altri compiti, hanno anche quello del sabotaggio e dello spionaggio dei cablaggi sottomarini». Nell’Us Navy c’è in servizio il Jimmy Carter, della classe Seawolf, un vascello per operazioni speciali come sorveglianza, intelligence e ricognizione. E’ in grado di gestiore mini-batiscafi a pilotaggio remoto, utilizzabili per missioni rivolte verso i cablaggi oceanici. Idem per la Voenno Morskoj-flot, la Flotta Russa: «Esistono diverse unità in grado di operare ad elevata profondità o comunque in grado di fungere da “nave madre” per batiscafi più piccoli».
    Uno di questi è passato alla ribalta delle cronache recentemente, ricorda Mauri, a causa di un incidente mortale che ha subito durante una missione effettuata nelle acque del Mare di Barents: si tratta del batiscafo As-12 Losharik, in grado di raggiungere i 6.000 metri di profondità. Inquadrato nella Flotta del Nord, dipende però dal Gru (il servizio informazioni militari russo). «Secondo le fonti ufficiali russe – scrive “InsideOver” – al momento dell’incidente l’unità stava effettuando rilevamenti batimetrici, ma la zona di operazioni era particolarmente vicina a dei cavi sottomarini che dalla Norvegia arrivano alle isole Svalbard, recentemente giunte alla ribalta delle cronache per essere al centro dell’attenzione della Nato in chiave del contenimento della Russia e del controllo di quella importante parte dell’Artico». Secondo Mauri, quindi, appare evidente «come sia diventato fondamentale non solamente il controllo del mercato dei cablaggi, la gestione degli stessi, o anche l’attività di sorveglianza e spionaggio, ma soprattutto l’attività di sabotaggio e distruzione di quelli del nemico: «In caso di conflitto sarebbero tra i primissimi obiettivi di un primo colpo, anche precedente ad un primo attacco nucleare».

    Si crede, erroneamente, che le comunicazioni oggi viaggino per la maggior parte attraverso l’etere, via segnali radio o via satellite. Nulla di più sbagliato: il 95-97% delle informazioni scorre attraverso una fitta rete di cablaggi che corrono per più di 1,2 milioni di chilometri tra tutti i continenti. Ai satelliti è devoluto il compito – in condizioni normali – di trasmettere solo la restante percentuale, pari circa al 3-5%. Fondale oceanico strategico, e non da oggi: nel 1971, gli Usa riuscirono a intercettare le informazioni di un cavo nel Mare di Okhotsk, nell’estremo oriente dell’Unione Sovietica, tra la Kamchatka (con installazioni militari sovietiche segrete tra cui la base navale di Petropavlovsk) e Vladivostok, sede della Flotta Rossa del Pacifico. Nel 2015, al largo di Cuba, gli Usa rilevarono un’anomala presenza di sottomarini russi attorno alla nave-spia Yantar: obiettivo della Yantar, monitorare i cavi oceanici che collegano il continente nordamericano ai Caraibi e al Sudamerica. Lo racconta Paolo Mauri, nell’inserto “InsideOver” del “Giornale“. Tema: quei misteriosi cavi sommersi. «La prossima guerra sarà per il fondale degli oceani: il primo colpo sarà inferto ai cavi sottomarini». Invisibili, ma decisivi: «Questo tipo di infrastrutture sta conoscendo uno sviluppo esponenziale, supportato da una pioggia di dollari».

  • Bifarini: l’Ue “guarisce” solo con un New Deal rooseveltiano

    Scritto il 08/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.
    E non parlo solo di disoccupazione giovanile inaccettabile, del Pil caduto del 25%, del debito pubblico che dopo la cura della Troika era arrivato al 180%. A causa dei tagli nel settore sanitario in Grecia si è assistito addirittura ad aumento di casi di Hiv, e al ritorno della malaria. L’errore che si fa quando si disumanizza l’economia è non pensare al paese reale: per valutare lo stato di salute di un paese occorre guardare all’occupazione, alle sue imprese, agli investimenti interni, al livello di equità e a quanto la crescita non sia legata a fattori endogeni e contingenti. E sotto questi punti di vista la situazione non è ancora così rosea come si vuol far credere. Intanto, la locomotiva tedesca rallenta vistosamente. La Germania è uno dei paesi più in crisi in questo periodo: la crescita è timidissima, ha sfiorato la recessione tecnica. E’ l’emblema di un modello fallimentare, quello neomercantilista, tutto basato sull’export. Non è solo una crisi industriale, ma anche sociale: è vero che hanno un basso tasso di disoccupazione, ma scontano un alto livello di “working poors”, lavoratori precari e con salari molto bassi. Troppo rigore e pochi investimenti. Per questo la Germania potrebbe implodere su se stessa. Una fragilità tanto più marcata, nel momento in cui Donald Trump, siglato l’accordo con la Cina, adopera lo strumento dei dazi come arma di ricatto in chiave antieuropea.
    Anche la salute bancaria tedesca non fa ben sperare. Deutsche Bank è uno degli istituti che da tempo ha un problema di sofferenze bancarie e ha subito già dei declassamenti da parte delle agenzie di rating. Pare abbia derivati per oltre 14 volte il Pil della Germania, di cui un alto quantitativo ritenuti tossici. Se la situazione dovesse precipitare, il contagio potrebbe diffondersi, a catena, sulla stabilità dei mercati europei. Quale futuro prevedo per l’Eurozona? Sui tempi non sono ottimista, ma per forza di cose dovrà esserci un cambiamento radicale. Ci sono dei segnali di apertura, anche se restano fazioni di resistenza interne, dovuti agli adoratori dell’austerity, che come cultori di una religione continuano a spingere per un modello economico sbagliato. Il peccato originale dell’Unione Europea? Il problema fondamentale è che la moneta unica è stata anteposta al percorso di integrazione politica e fiscale, che di fatto non c’è ancora. È come costruire un palazzo senza partire dalle fondamenta. Questo rappresenta un handicap di partenza pesantissimo. La crisi del 2008 è nata negli Usa, ma dagli Usa è stata superata, a differenza dell’Europa, che è rimasta ingabbiata nelle sue regole. Dunque le alternative sono due: o una rottura totale, che è alquanto improbabile, oppure continuare il processo di integrazione.
    Ultimamente c’è chi pensa che la via ambientale possa essere una valida via d’uscita. Larry Fink, il capo del più grande fondo d’investimento mondiale, BlackRock, sostiene che il “climate change” cambierà per sempre il volto della finanza. L’ambientalismo potrebbe essere la leva del cambiamento, l’innesco che ci costringerà a rivedere l’attuale modello economico. Inoltre può essere un incentivo a rivedere tante assurdità di questo sistema, come le delocalizzazioni alimentari, ad esempio, per cui importiamo prodotti che potremmo produrre. Anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz, uno dei più accesi critici dell’euro, sostiene che il cosiddetto “green new deal” salverà la moneta unica, perché gli investimenti verdi porranno fine all’austerity. E’ uno scenario credibile? Sicuramente è una visione molto ottimistica. Bisogna vedere se riuscirà a passare la proposta che consente di scorporare dal conteggio del deficit gli investimenti sostenibili, superando il Patto di Stabilità. Ma ad oggi c’è stato un rifiuto soprattutto dai paesi del Nord Europa. Da dove passa il cambiamento?Dobbiamo sperare che qualcuno si svegli: per ritornare a crescere occorre un New Deal di stampo rooseveltiano. Che poi sia verde o di qualsiasi altro colore, poco importa. Anzi, meglio.
    (Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a “La Verità” per l’intervista pubblicata il 27 gennaio 2020, ripresa dal blog dell’economista: “Economia, Unione Europea, ambiente: cosa ci aspetta?”).

    Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.

  • Di Maio e Grillo, al capolinea la grande farsa dei 5 Stelle

    Scritto il 24/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.
    L’eredità elettorale di Grillo è stata largamente acquisita da Matteo Salvini, che negli ultimi anni ha cavalcato l’onda contestataria dei 5 Stelle, facendo proprie molte delle parole d’ordine grilline. Esattamente come fino a ieri i pentastellati, Salvini – ora all’opposizione – può insistere nell’invocare un rovesciamento sostanziale della filosofia di governo, nel segno del recupero della sovranità italiana. E, proprio come i suoi ex sodali gialloverdi, nemmeno Salvini offre soluzioni praticabili, fondate su parole nette e su un disegno politico credibile, preciso e sostanziale. Non a caso, l’ex vicepremier leghista ha tirato a campare per un anno intero, insieme al suo socio grillino, senza nulla osare: il “governo del cambiamento”, infatti, non ha cambiato di una virgola le avvilenti condizioni della sudditanza italiana rispetto ai poteri forti che gestiscono privatisticamente l’Unione Europea, dentro il grande “frame” del neoliberismo universale dove lo Stato – ridotto in bolletta e ricattato dai “mercati” col giochino dello spread – viene neutralizzato come motore economico e ridotto al ruolo di spietato esattore. A differenza dei 5 Stelle, almeno Salvini si era impegnato sul fronte dell’alleggerimento fiscale: ma, proprio come i suoi ex compagni di viaggio, senza mai entrare davvero nel merito. Tante chiacchiere sulla Flat Tax di Armando Siri, ma mai una spiegazione su come trasformarla in realtà.
    In altre parole, il salvinismo barricadero edizione 2020, recitato comodamente dall’opposizione, ricorda in modo sinistro le roboanti promesse dei 5 Stelle alla vigilia del loro storico esordio al governo del paese. S’è visto come i grillini abbiano prontamente tradito tutti gli elettori, nel modo più sconcertante: Tap e Tav, vaccini, Ilva, armamenti, trivelle, euro e banche. Velo pietoso sullo sbandieratissimo reddito di cittadinanza, micro-elemosina vincolata a stringenti condizionalità. Inevitabile, peraltro, avendo evitato di affrontare il problema dei problemi: la liquidità a disposizione dello Stato per poter dispiegare vere politiche utili al paese, detassazioni e investimenti di lungo respiro. Sul Grande Nulla degli imbarazzanti 5 Stelle ha imperato solo e sempre il misterioso Grillo, giunto a umiliare Di Maio tentando di fargli credere di avere davvero il potere di decidere qualcosa. Il fatto che oggi Di Maio getti finalmente la spugna, aumentando ulteriormente il caos generale che regna tra i grillini, non dovrebbe avere la minima importanza per chi osserva lucidamente la politica italiana, i devastanti problemi del paese e l’assenza cosmica di soluzioni sul tappeto, da parte di tutti gli attori attualmente sulla scena.

    La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.

  • Carpeoro: se fossi Mattarella. Più Stato, Italia da ribaltare

    Scritto il 03/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Se alla presidenza della Repubblica, oltre che una persona per bene, ci fosse anche uno statista, si preoccuperebbe di fare un’inversione di rotta, una specie di rivoluzione copernicana, per la quale l’Italia dovrebbe cominciare a pensare al proprio futuro in termini diversi. L’Italia dovrebbe darsi il coraggio di affermare delle priorità diverse dalle attuali, e in base alle quali richiedere con fermezza ciò che le è necessario. L’Italia non riceverà le risorse che dovrebbe ricevere dai meccanismi finanziari del progetto generale europeo, e invece queste risorse le servono disperatamente. L’Italia ha il suo Welfare State gravemente pregiudicato dal fatto che l’Inps è in stato pre-fallimentare. L’Italia non ha fatto nessun investimento produttivo, negli ultimi anni: ha i cantieri fermi, le grandi opere, i trasporti, le infrastrutture ferme. Tutto è vecchio, desueto, e niente è in grado di produrre innovazione. Ci vorrebbe un cambiamento di paradigma molto forte, con dei segnali che inevitabilmente ci metterebbero in conflitto con le burocrazie europee: ma nella vita i conflitti bisogna affrontarli, sia pure in modo incruento. L’Italia deve capovolgere una serie di cose: deve capovolgere parzialmente la logica delle privatizzazioni riducendole al minimo, deve rifare subito il ministero delle partecipazioni statali, deve ripristinare l’Iri (e possibilmente non farla presiedere mai più a Prodi).

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