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Archivio del Tag ‘investimenti’

  • Fallita la globalizzazione, gli Usa non sanno più che fare

    Scritto il 11/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni Novanta, la spesa militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e, quanto al “Nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto? Quelle rosee previsioni si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel quale gli Usa, senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato una stabile governance mondiale. Si calcolava che, almeno sino al 2060, non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare l’egemonia americana, e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo.
    Le cose sono andate, poi, molto diversamente: la Russia si riprese abbastanza presto dal ciclo negativo 1991-1998, la Cina crebbe a ritmi molto maggiori del previsto e così l’India; gli Usa dovettero misurarsi con le turbolenze mediorientali che ingoiarono montagne di dollari e ad esse si sommò la lunga serie di interventi minori in Africa (Sudan, Somalia, ecc.). I nuovi venuti, grazie ai sostenuti tassi di crescita, iniziarono ad armarsi (o riarmarsi) e la gara riprese: già nei primi anni 2000 le spese militari mondiali avevano superato di slancio quelle del periodo bipolare. Poi venne la crisi del 2008 e, pur se con molte incertezze e ritardi, è diventato chiaro a tutti che, come scrive Alessandro Colombo, «l’unipolarismo a guida americana è diplomaticamente, economicamente e persino militarmente insostenibile» (“Tempi decisivi”, Feltrinelli 2014. A proposito: ve ne consiglio caldamente la lettura).
    La crisi ha dimostrato che gli Usa non hanno il fiato economico per reggere l’Impero, che ha costi proibitivi e non solo per il sopraggiungere della crisi finanziaria, ma anche per le diseconomie della sua macchina militare. Il ritiro americano da Iraq e Afghanistan, prima ancora che i “regimi amici” vi si fossero consolidati, non meno che i mancati interventi in Siria e Iran, sempre annunciati e mai realizzati, hanno tolto credibilità alle minacce americane. Non che gli americani abbiano rinunciato alle pretese di essere l’Impero mondiale, da cui discendono moneta, lingua, diritto e legittimazione politica, ma non sanno più come fare. Dal 2011 hanno provato a consociare gli alleati europei negli interventi militari, ma l’esperimento libico è restato un caso isolato e di ben scarso successo; per il resto, c’è molto poco da aspettarsi dal vecchio continente. Stanno cercando di creare una cintura di alleati per contenere la Cina, ma anche qui le cose sono molto al di sotto delle aspettative.
    Nel frattempo i conflitti locali iniziano a sommarsi, descrivendo archi di crisi lunghissimi. Accanto ai conflitti non risolti che ci portiamo dietro da anni (dalle Farc colombiane alla Somalia, dal Sudan a Cipro e a Timor) si sono aggiunti altri punti di guerra o intervento straniero (Mali, Costa d’Avorio) mentre altre linee di confine si surriscaldano (Cina-Vietnam, India-Pakistan). Ma soprattutto si sono profilate due linee di frattura particolarmente lunghe e pericolose, come quella russo-ucraina e la sommatoria di conflitti e crisi mediorientali (Libia, Gaza, Iraq, Siria, Afghanistan, Turchia, Barhein, Yemen) mentre l’Iran è pronto a intervenire. L’elenco è incompleto, anzi appena accennato, ma basta a dire che, dal 1945 in poi,  non c’è mai stata una situazione altrettanto conflittuale. Anche la crisi indocinese o quella arabo-israeliana erano ben più circoscritte e controllate, come pure le guerriglie africane e latinoamericane.
    Nel complesso, il “bipolarismo imperfetto” (c’erano anche i “non allineati”) aveva trovato un suo modo di funzionare e una lingua comune ai contendenti. Non dico che si debba rimpiangere quell’equilibrio, che aveva molti aspetti di assoluta negatività, ma insomma, era un equilibrio che assicurava un certo ordine mondiale, mentre oggi non ce n’è alcuno. Le ragioni di questo nuovo “disordine mondiale” sono molto complesse e richiederebbero molto più di un semplice articolo, per cui ci limitiamo solo ad abbozzare alcune possibili linee di approfondimento. La spiegazione più immediata e semplice (fatta propria da Prodi nella sua intervista all’“Espresso”) è quella del “ritiro” americano e dell’indisponibilità delle altri grandi potenze ad assicurare una efficace governance mondiale assumendosi la responsabilità di intervenire quando questo sia necessario.
    C’è del vero in questo (ammesso che l’intervento esterno sia la soluzione cui ricorrere, cosa di cui, in linea di massima, non saremmo poi così convinti), ma per certi versi questo è più il sintomo che la malattia, perché occorrerebbe spiegare perché una stagione ventennale di interventi esteri ha fatto registrare una lunga serie di fallimenti. Ci sono molti aspetti che vanno indagati; qui ci limitiamo a segnalarne uno di particolare rilevanza: lo schema concettuale con il quale gli americani sono entrati nella globalizzazione pretendendo di guidarla. Sia lo schema di Fukuyama dell’ “esportazione della democrazia” quanto quello di Huntington del “conflitto di civiltà”, si sono rivelati completamente fallimentari (e il primo molto più del secondo) nella loro incapacità di capire il mondo ed assumere le ragioni degli altri come qualcosa con cui confrontarsi.
    Bruciati dai fatti questi due schemi di azione, gli Usa sono rimasti senza strategia alcuna. Mirano a mantenere la loro posizione egemonica ma non hanno più un disegno credibile di ordine mondiale. Le esitazioni sui casi di Siria e Iran stanno lì a dimostrarlo. Certo l’idea di impantanarsi in un nuovo conflitto di lunga durata e di altissimo costo resta la ragione che (per fortuna!) scongiura l’ennesimo intervento a stelle e strisce, ma non si tratta solo di questo. Il problema principale, per gli americani, è che non sanno bene cosa verrà fuori una volta ingaggiato il conflitto. Prendiamo il caso siriano: forse non sarebbe neppure una guerra lunga e dispendiosa e, con un urto concentrato, si potrebbe ottenere la caduta del regime di Assad in un paio di settimane, ma dopo? A beneficio di chi andrebbe questa spallata? I contendenti non sono esattamente quanto di più rassicurante dal punto di vista occidentale, persino le fazioni sostenute da turchi e sauditi danno ben poche assicurazioni in questo senso.
    Anzi, ad essere chiari, in Siria gli alleati storici degli occidentali, a cominciare dai francesi nel 1919, sono proprio gli alauiti (il gruppo etnico di Assad) che, infatti, vengono visti dagli altri islamici come sorta di traditori alleati agli “infedeli”. Ce l’hanno un’alternativa ad Assad gli americani? Nel caso iraniano le cose potrebbero stare differentemente, perché c’è una opposizione “liberal” più solida e consapevole, però la maggioranza della popolazione sta dall’altra parte e anche gli alleati storici di Washington, come i sauditi, pur odiando furibondamente gli sciiti, non gradirebbero affatto un Iran “liberal” che potrebbe rappresentare una fonte di contagio di altre rivolte. Ed allora, come gestire la situazione? Anche nei confronti del “Califfato” non pare che gli Usa abbiano le idee chiare su cosa fare, fra una convergenza con gli iraniani o uno sforzo unilaterale americano. Di fatto la situazione si trascina, moltiplicando il rischio che questa buffonata di Califfato, che mette insieme fanatici religiosi, tagliagole, briganti e avventurieri di ogni risma, possa diventare un problema molto serio, qualora riuscisse a diventare un simbolo intorno al quale si riuniscano le masse islamiche. Questo vuoto di strategia degli americani diventa anche paralisi tattica con conseguenze tutt’altro che trascurabili.
    (Aldo Giannuli “Il vuoto strategico americano”, dal blog di Giannuli del 27 luglio 2014).

    Quando crollò l’Urss, e con essa l’ordine mondiale bipolare, le valutazioni furono in generale assai ottimistiche e molti si spinsero a prevedere che tutto ciò avrebbe portato ad un crollo nelle spese militari, non essendoci più alcuna gara negli armamenti, dirottando ingentissime cifre verso investimenti sociali. Si parlò addirittura di un incombente “Nuovo Rinascimento”. Non pare che le cose siano andate in questo modo: dopo un relativo calo nei primi anni Novanta, la spesa militare è invece sensibilmente aumentata, a danno di quella sociale e, quanto al “Nuovo Rinascimento”, chi lo ha visto? Quelle rosee previsioni si basavano sulla certezza di un nuovo ordine mondiale monopolare, nel quale gli Usa, senza neppure dover spendere le cifre del passato, avrebbero assicurato una stabile governance mondiale. Si calcolava che, almeno sino al 2060, non avrebbe potuto esserci alcuna potenza in grado di sfidare l’egemonia americana, e sempre che la nuova potenza trovasse le risorse necessarie, mentre gli Usa segnassero il passo.

  • Se Renzi avesse la lira, governerebbe fino a 80 anni

    Scritto il 08/8/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.
    Perché con l’euro ogni centesimo speso dallo Stato, contabilizzato o meno che si voglia, è un centesimo di debito contratto con 19 grandi istituti di credito che oggi prendono a prestito dalla Bce allo 0,15% e poi prestano agli Stati al 3, 4, 5%, contraendo utili sulle rendite finanziarie colossali e sicuri (Banca Imi, Barclays, Bnp Paribas, Citigroup, Commerzbank, Crédit Agricole, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, Hsbc, Ing, Jp Morgan, Merrill Lynch, Monte dei Paschi, Morgan Stanley, Unicredit, Société Générale, Nomura, Ubs). Se Matteo Renzi avesse la lira, potrebbe dunque finanziare gli investimenti con moneta monopolio di Stato e non delle banche private, e dunque finanziare tutti gli investimenti che vuole. Non dovrebbe imporre le tasse per coprire questi investimenti, e dunque non sarebbe costretto a restituire il denaro speso come avviene adesso, per la somma capitale più gli interessi; tanto che se non applicasse politiche di austerità l’insieme di monopolisti privati della moneta sopra elencati potrebbero impedire in pochi giorni il flusso di denaro nelle casse dello Stato.
    Matteo Renzi ora è ricattabile e anzi ricattato e consenziente; invece sarebbe autonomo. Quindi un vero democratico come stabilito dalla Costituzione e non un colono. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe elemosinare a commissari o ministri stranieri la possibilità di cambiare le politiche di bilancio, e non dovrebbe rispettare assurdi parametri come quello del 3% deficit/pil (diventato 2,6% grazie alle promesse sue e di Padoan, è bene specificarlo: Renzi è più realista del Re, più austero della Merkel) o del 60% debito/pil. Potrebbe agire liberamente sulla base delle esigenze del suo paese e ridurre la tassazione rispetto alla spesa pubblica fino alla piena occupazione e al pieno rilancio dell’economia e della cultura. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe versare all’Unione Europea quasi 10 miliardi all’anno; il Patto di Stabilità finirebbe subito e gli enti locali italiani potrebbero immediatamente pagare i loro fornitori; non dovrebbe elemosinare modifiche ai principi di co-finanziamento dei fondi europei che obbligano gli enti locali a sborsare ingenti somme per realizzare i progetti presentati, e spesso rinunciare per impossibilità di impiegare i fondi pur disponibili (il cane che morde la coda: Patto di Stabilità).
    Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe circondarsi di bei volti giovani e pop e dalla parlantina spigliata quanto vuota, perché tanto, oltre a raccattare voti, non si deve decidere nulla se non tenere buoni i cittadini; anzi meno capiscono e più tweet insensati scrivono tanto è meglio. No, se Matteo Renzi avesse la lira dovrebbe selezionare una classe politica capace di capire la forza di una moneta sovrana siffatta, e quindi le sue potenzialità per realizzare piena occupazione, piena democrazia, pieno benessere senza inflazione. Perché se invece occorre ascoltare i Gozi, le Bonafè, le Moretti e compagnia cantante, un partito avverso consapevole (quindi non M5S, quindi non lo sbrindellato centrodestra italiano di oggi, quindi non i timorosi di Tsipras) sbaraglierebbe il campo una volta vinte le elezioni (infatti la Dc governò 40 anni senza problemi nonostante la forte opposizione del Pci, perché sapeva come attivare la ricchezza, e un popolo con la pancia piena e la testa sgombra di pensieri non fa mai salti nei buio; ma negli ultimi 10 anni affondò, tra gli altri motivi, perché lo strumento di azione, la lira sovrana, era stato disattivato con la complicità di Ciampi e Andreatta).
    Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe mandare lettere a tutti i sindaci d’Italia per selezionare gli interventi di edilizia scolastica, ma imporrebbe a tutti i sindaci d’Italia i massimi standard di servizi, di sicurezza e di istruzione da raggiungere nel comparto scolastico (e non solo), stanzierebbe i fondi necessari, stabilirebbe in quanto tempo realizzare i lavori e poi, una volta scaduti i termini, bloccherebbe i finanziamenti e istituirebbe commissioni di inchiesta per valutare i motivi dell’inefficienza nel caso le opere non fossero realizzato a dovere. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe contribuire con 125 miliardi per garantire i debiti pubblici dell’Eurozona, né, come farfuglia Del(i)rio, garantire il debito di Stato con beni immobili.
    Se Matteo Renzi avesse la lira, il debito pubblico non sarebbe un “debito” pubblico da ripagare come se lo Stato fosse un’azienda e una famiglia privata (e dunque aumentare il debito annuo del 5% ad esempio anziché il 3% significherebbe davvero far gravare sui figli la spesa di oggi, ed è quindi politica per pigliare due voti ma senza strategia), ma sarebbe una “ricchezza finanziaria” dei cittadini, ed ogni aumento di debito pubblico equivarrebbe ad un aumento dei risparmi di famiglie e imprese. Se Matteo Renzi avesse la lira governerebbe fino ad 80 anni, l’Italia tornerebbe un paese invidiato in tutto il mondo, la disoccupazione sarebbe un problema occasionle e molto temporaneo, le imprese italiane tornerebbero a produrre in Italia grazie ad una imposizione fiscale via via più bassa.
    Se Matteo Renzi avesse la lira i tassi di interesse sui titoli di Stato scenderebbero, dal 2/4% reale di oggi, ad un tasso prossimo allo zero o addirittura negativo. Gli 85 miliardi di spesa per interessi non sarebbero una zavorra per i conti pubblici ma una delle vie con le quali si manifesta la spesa pubblica, che potrebbe essere ridotta o aumentata sulla base delle scelte discrezionali di uno Stato. Invece: «Tornare alla lira? Per i giovani è uno strumento musicale». E allora, sentirai che musica, Matté: «Manovra correttiva di 10 miliardi inevitabile». Gira la ruota, va’.
    (“Se Renzi avesse la lira, ma non la vuole e non la capisce”, dal sito MeMmt del 14 luglio 2014).

    Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.

  • Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare

    Scritto il 06/8/14 • nella Categoria: idee • (5)

    Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
    L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.
    La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.
    Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.
    La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.
    E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).
    La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.
    Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.
    Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.
    Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.
    (Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).

    Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.

  • Comanda solo il business, ecco perché il mondo è nel caos

    Scritto il 05/8/14 • nella Categoria: idee • (7)

    «Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».
    Cina e Giappone stanno aumentando i loro investimenti militari, alla pari dei paesi circostanti, scrive Savio in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E mentre i conflitti locali, come quelli in Siria, in Iraq e in Sudan, non stanno degenerando in un conflitto più allargato, questo rischio è invece molto più vicino in Asia. «In un mondo sempre più diviso da una recrudescenza degli interessi nazionali, l’idea stessa di una governance condivisa sta perdendo forza, e non solo in Europa», continua Savio. Le Nazioni Unite sono ormai diventate marginali come arena in cui raggiungere consenso e legittimità, mentre a dettare l’agenda sono «i due motori della globalizzazione – il commercio e la finanza». Sviluppo, pace, diritti umani, ambiente e istruzione? «Sebbene questi temi siano cruciali per un mondo vivibile, non sono visti come tali da chi è al potere. Conclusione: le Nazioni Unite stanno diventando irrilevanti», così come «valori e idee considerati universali», ad esempio «la cooperazione, l’aiuto reciproco, la giustizia sociale e la pace internazionale».
    Esempio: «Il presidente francese François Hollande incontra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, non per discutere di come fermare il genocidio in Sudan o il sequestro di bambini in Nigeria, ma per chiedergli di intervenire con il suo ministro della giustizia per ridurre un’ammenda gigante comminata a una banca francese, la Bnp-Paribas, per attività fraudolente». Altro tema-fantasma, il futuro del pianeta: «L’incombente problema del controllo del clima era in gran parte assente nell’ultima riunione del G7, per non parlare del disarmo nucleare». Dopo il colonialismo, archiviati i regimi totalitari con la fine della Seconda Guerra Mondiale, la frase-chiave fu “l’attuazione della democrazia”. Ma al termine della Guerra Fredda, continua Savio, la democrazia fu data per scontata e ora «sta perdendo il suo fascino», perché il pragmatismo del business «ha portato alla perdita della visione a lungo termine, e la politica è diventata sempre più semplice amministrazione».
    I cittadini sono estranei ai partiti, e gli affari internazionali sono delegati ai poteri forti, che decidono senza più consultare il popolo. Accade ogni giorno: «Il modo in cui il piano di salvataggio di Cipro dalla crisi finanziaria di qualche anno fa è stato trattato in seno alla Commissione Europea è stato ampiamente riconosciuto come un esempio lampante di mancanza di trasparenza». Altro elemento-chiave per l’aumento del caos, la “nuova economia” prodotta dalla finanza: «Un’economia che contempla la disoccupazione permanente, la mancanza di investimenti sociali, una riduzione delle imposte per i grandi capitali, la marginalizzazione dei sindacati e una riduzione del ruolo dello Stato come regolatore e garante della giustizia sociale». Sicché, «le disuguaglianze stanno raggiungendo livelli senza precedenti», se è vero che «le 85 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza di 2,5 miliardi di persone». Tutto ciò, conclude Savio, accade anche perché gli organizzatori del caos usano i media per manipolare la verità, oscurare le notizie e impedire all’opinione pubblica di “vedere” quello che sta davvero succedendo.

    «Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».

  • Paghiamo lavori inutili e sfruttiamo chi è davvero utile

    Scritto il 02/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.
    «Dagli anni Venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose», scrive Graeber in un post ripreso da “Megachip”. «Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori?». Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, «le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio» sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. «In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione», anche calcolando gli operai cinesi e indiani. «Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo».
    Sono nate nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, mentre c’è stata un’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Senza contare le aziende che a queste industrie forniscono assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, così come «l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre». Sono mestieri che Graeber propone di definire “lavori stupidi”: «È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere». Infatti, «l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso».
    È vero, «le grandi aziende operano spesso tagli spietati», ma attenzione: «Licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose». Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, continua Graeber, «ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano – un po’ come i sovietici di una volta – a lavorare in teoria 40 se non 50 ore alla settimana, ma lavorandone di fatto 15 proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili Facebook o scaricare roba». Per Graeber, la spiegazione non è economica: è morale e politica. «La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale: pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni Sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa». E l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, al punto da pensare che «chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente», torna straordinariamente comoda a molti.
    Un amico poeta e musicista, racconta Graeber, dopo un paio di dischi che avevano «migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo», è stato costretto – parole sue – a «imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza». Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. «Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere». Domanda: che razza di società è la nostra, che genera «una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi», a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? Risposta: se «la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1% della popolazione», allora quello che definiamo “mercato” rigetterà «ciò che loro, e nessun altro», non considerano utile o importante. Peggio ancora: chi fa lavori “stupidi” se ne rende perfettamente conto. «Credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido».
    Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie: «Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro», continua Graeber. «Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere?». Tuttavia, «il talento tutto particolare della nostra società» sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo per garantire che la frustrazione e la rabbia vengano indirizzate contro chi invece fa un lavoro sensato. Strana regola: «Più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato».
    Si domanda Graeber: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? «Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore». Al contrario, «non è del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare)». Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni, come ad esempio i medici, «la regola resiste sorprendentemente bene». E, «cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così».
    Questo, aggiunge Graeber, è «uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra», quelli che «fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto», perché «il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo». Cosa ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani «stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile», a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: voi, che a quanto pare fate lavori veri, necessari, avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?
    «Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio», conclude Graeber. «I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente», mentre gli altri «si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla». Queste persone «ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori)», ma al tempo stesso «covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale». Non è un sistema progettato in modo conscio, è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. «Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno».

    Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.

  • Debito positivo, cioè consumi, per tornare sostenibili

    Scritto il 01/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?
    E’ semplice. Primo punto: il debito pubblico non è pubblico. Quando uno Stato spende o emette un titolo, esso accredita conti correnti di cittadini e aziende (noi, il cosiddetto “pubblico”). Quella spesa è debito di Stato, ma è il credito di tutti gli altri, cioè noi, il “pubblico”. Non può essere contemporaneamente debito per tutti e due. Nessuno di noi dovrà ripagarlo. Nessuna impresa privata che lavora per lo Stato dovrà restituire quel fatturato, così come nessun risparmiatore dovrà ripagare i Bot che ha in portafoglio. Di nuovo: la spesa di Stato è debito del governo, ma credito per tutti noi. Secondo punto: il debito dello Stato può essere fruttuoso o, al contrario, dannoso per l’economia. Ed è qui l’errore catastrofico della politica di Bruxelles, cioè il condannare il debito di per sé, sempre, e sempre pretendere che esso venga ridotto. Innanzi tutto, ribadendo che il debito di Stato è il credito di cittadini e aziende, ridurlo significa automaticamente impoverirci. Poi, di nuovo, vanno distinti i due tipi di debito.
    Se lo Stato investe in un programma di piena occupazione, in infrastrutture e tecnologie per le imprese, in ricerca, se impone il costo del denaro a tasso quasi zero, o addirittura fa credito agevolato in settori vitali per le imprese e le famiglie, la ricchezza del paese cresce (il Pil), e parlo della ricchezza di cittadini e aziende. La crescita del Pil non solo rilancia i consumi e i fatturati, ma rientra sempre nelle “casse” dello Stato e finisce poi col mantenere il debito stabile. Questo è il debito positivo. Se, come invece pretendono le austerità di Bruxelles, viene impedito al governo di usare il debito in quel modo virtuoso, l’economia collassa, il Pil cala e in questo modo la proporzione del debito su Pil appare maggiorata.
    E peggio: il governo è poi costretto a spendere montagne di denaro per “tappare i buchi” causati proprio dalle austerità, come la cassa integrazione, come i salvataggi delle banche travolte dai prestiti emessi ma ora inesigibili, come l’aumento delle spese per la povertà sociale, e come le “punizioni” che i mercati c’infliggono alzandoci i tassi d’interesse proprio a causa della crisi innescata dalle austerità stesse. Questa è tutta spesa a debito negativo, perché non produce nulla, non aumenta né Pil né fatturati né redditi, e fa crescere precisamente il volume del debito. Un paradosso micidiale, che sta devastando le nostre vite, ma che la politica italiana, totalmente serva del potere europeo, non vuole capire, tanto meno rimediare. Esiste un debito di Stato non solo positivo, ma vitale per noi cittadini e aziende. Non possiamo farne senza, oggi.
    (Paolo Barnard, “Debito positivo e debito negativo, la differenza”, dal blog di Barnard del 17 luglio 2014).
    http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=889

    Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?

  • Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra

    Scritto il 25/7/14 • nella Categoria: idee • (8)

    La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.
    La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.
    In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.
    Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.
    A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.
    Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).
    Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.
    Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.
    A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.
    (Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).

    La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.

  • Basta Ue: sovranità nazionale, per salvare la democrazia

    Scritto il 24/7/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika:
    «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.
    Sono proprio quei trattati-sciagura che la Merkel impugna per imporre la sua politica «suicida e insostenibile», con «regole rigidissime sui limiti ai deficit pubblici», in una situazione già drammatica in cui «gli investimenti privati e i consumi sono in caduta libera». E’ storia: «Grazie all’Ue, l’Europa è diventata da anni il malato grave dell’economia mondiale, e non riesce a vedere la fine del tunnel». L’Unione Europea uscita da Maastricht, scrive Grazzini su “Micromega”, «non è la patria degli europei», ma solo un’istituzione intergovernativa oppressiva. Modificare i trattati è pressoché impossibile, perché servirebbe l’unanimità degli Stati? «L’unica possibilità è allora di ripudiarli, di uscire da queste regole rovinose: disconoscere i trattati significa percorrere una strada difficile e dolorosa, piena di rischi, ma probabilmente non esistono alternative», anche se nemmeno la Lista Tsipras se n’è ancora resa conto: «La sinistra è culturalmente succube di un europeismo federalista che oggi ormai è completamente fuori dalla realtà».
    Parlano i fatti: il Parlamento Europeo, eletto solo dal 40% della popolazione del continente, è dominato da una coalizione pro-austerità ancora più larga di quella prevista prima delle elezioni: democristiani, socialisti e liberali. La Commissione Europea verrà guidata dal lussemburghese Juncker, che «rappresenta da sempre gli interessi della grande finanza europea». In ogni caso saranno i governi, «quello tedesco su tutti», a decidere le questioni economiche e politiche di sostanza. Tsipras sperava che i socialisti europei cambiassero la loro politica pro-Merkel, svoltando verso la crescita dell’occupazione? Per questo volevano Martin Schulz come presidente, ma «il compagno Schulz», è stato confermato alla guida del Parlamento Europeo «da democristiani e liberali», e quindi non cambierà politica, senza contare che Strasburgo «può poco o nulla in materia economica, monetaria e fiscale».
    I trattati come il Fiscal Compact riguardano direttamente i governi, e quello tedesco determina le politiche economiche dell’Unione e dell’Eurozona: «La Germania non mollerà sugli eurobond e non prende neppure in considerazione la possibilità di una maggiore solidarietà europea», continua Grazzini. «E ovviamente Germania, Francia e naturalmente la Gran Bretagna, nonostante i bei discorsi di Renzi, si oppongono a ogni lontanissima ipotesi di federazione europea». Anche Syriza dovrà rivedere la sua linea: in Grecia ha vinto, ma non al punto da conquistare il governo. La situazione greca resta disperata: il debito esplode e il paese è virtualmente fallito, a causa «dell’ingordigia delle banche tedesche e francesi che in tempi di vacche grasse hanno prestato enormi somme a governi corrotti». Quest’anno Atene ha raggiunto una bilancia commerciale in attivo e un avanzo di bilancio pubblico, quindi non ha più bisogno di capitale estero: secondo alcuni analisti, alla Grecia comviene dichiarare default, tornare alla moneta nazionale e svalutare per recuperare competitività verso l’estero. Una strada senza alternative, per un paese strangolato: «Se anche vendesse il Partenone, il suo debito pubblico continuerebbe ad aumentare a causa del pagamento degli interessi sul debito estero».
    Se la destra finanziaria tedesca impone un neoliberismo neo-feudale al resto d’Europa, all’appello manca – disastrosamente – la sinistra, assente o addirittura complice della “dittatura” tecnocratica. In altre parole, dice Grazzini, questa Unione Europea è semplicemente antieuropea. Per cui, «al posto di nutrirsi, come il giovane Renzi, di nobili e vacue illusioni federaliste sugli Stati Uniti d’Europa, la sinistra europea dovrebbe riconoscere una realtà sempre più evidente: l’Unione Europea nata a Mastricht non è e non sarà mai l’Unione dei popoli europei», ma solo un organismo intergovernativo «che intende garantire la sottomissione degli Stati europei agli imperativi della grande finanza tedesca e internazionale». La Ue «è prona ai diktat dei mercati finanziari e non ascolta il grido di dolore dei cittadini: se mai c’è una istituzione che, come anticipava Marx, rappresenta il “comitato d’affari” del grande capitale, questa è proprio la Ue».
    Per capire la Ue è meglio leggere Machiavelli piuttosto che Mazzini o Spinelli, aggiunge Grazzini. Bruxelles è un mostro giuridico, che ha tradito le aspettative dei leader del dopoguerra, da De Gasperi a Adenauer, mentre «la politica federalista di Spinelli era già fallita a causa del nazionalismo francese». Il quadro europeo è cambiato di colpo con la caduta del Muro di Berlino, la nascita della nuova potenza tedesca e la creazione dell’euro. E attenzione: «Due socialisti hanno cambiato (in peggio) la storia d’Europa: il francese Mitterrand e il tedesco Schroeder. Il primo ha imposto la moneta unica alla Germania, accettando però che l’euro fosse fin dalla nascita un marco mascherato; il secondo ha creato, con la deregolamentazione del mercato del lavoro in Germania, con l’introduzione dei mini-jobs e la sua politica pro-business e pro petrolio russo, le condizioni della supremazia tedesca. Da allora, la storia europea è dominata dall’economia e dagli interessi tedeschi».
    L’euro di Maastricht «ha reso impossibili le svalutazioni e le rivalutazioni», e con la crisi globale del 2008 stava per saltare: «Lo ha salvato la Merkel, concedendo che la Bce di Mario Draghi intervenisse in sua difesa “con tutti i mezzi possibili”», ma «solo perché conveniva alla Germania che l’euro non finisse nel caos». Questa moneta unica, di cui gli Stati non hanno più il controllo, non elimina solo la sovranità nazionale: «Divide strutturalmente le economie e impedisce uno sviluppo sostenibile. E’ una gabbia rigida e stupida, e mortale per le nazioni meno competitive». Infatti, l’impossibilità di svalutare all’esterno i prezzi dei prodotti nazionali – come invece fanno «senza vergogna e con successo» gli Usa, la Cina e il Giappone – comporta automaticamente la necessità di «svalutare internamente il lavoro e il proprio patrimonio pubblico e privato», e infine di «offrirsi in vendita ai paesi creditori per ripagare i debiti».
    La crisi ha reso evidenti i limiti della gabbia monetaria disegnata a Maastricht, continua Grazzini. «Dilagano la disoccupazione e la deindustrializzazione a favore del capitale estero, mentre continuano ad aumentare i debiti pubblici degli Stati periferici, come l’Italia». Prevedibilmente, la Ue non cambierà politica, anzi «diventerà sempre più rigida nel chiedere il rispetto del Fiscal Compact», intervenendo «in maniera sempre più autoritaria» nelle economie dei singoli paesi, «dettando le sue ricette anche a livello fiscale e di spesa pubblica». Bruxelles impone il taglio della spesa sociale, più tasse sui consumi, la privatizzazione del welfare e dei beni comuni, la deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro con i mini-job alla tedesca e la messa sul mercato delle industrie strategiche nazionali, amputando anche il risparmio dei cittadini e delle banche. La stessa Unione Bancaria «è funzionale alla politica di centralizzazione dei capitali». Idem «le controriforme di Renzi», anch’esse «funzionali al disegno europeo e agli imperativi dei mercati finanziari».
    Ma, anche se Renzi riuscisse a fare i “compiti a casa”, «cioè a ottenere un Senato debole e non eletto dai cittadini, una legge elettorale ultra-maggioritaria, l’introduzione dei mini-job a 400 euro al mese», il premier «non avrà nulla dall’Ue: in cambio delle (contro)riforme italiane otterrà dall’Europa ancora più austerità», a parte «qualche briciola di investimento che però non modificherà la drammatica situazione italiana». Vie d’uscita? Una: far saltare il banco e rivendicare la sovranità nazionale, che non si capisce per quale motivo debba essere considerata “di destra”. Stati Uniti d’Europa? Implicherebbero «la sottomissione dei paesi europei ad ulteriori regole sempre più centralizzate e oppressive, per integrare l’Europa su base tedesca». Sicché, «al posto di reclamare una impossibile (e comunque autoritaria) Federazione Europea, la sinistra farebbe invece bene a proporre una politica aggressiva di denuncia per destrutturare questa Unione, ridare voce all’opposizione di massa a questa Ue della finanza e della tecnocrazia».
    Sovranità nazionale, certo, perché «solo a livello nazionale è possibile che i popoli riescano a incidere democraticamente sull’economia e sull’occupazione», sottolinea Grazzini. «E’ una favola sciocca che il nazionalismo sia solo di destra: anche Garibaldi e i partigiani erano nazionalisti e patrioti. Anche Enrico Mattei era un patriota». Sovranità nazionale oggi significa solidarietà e democrazia, «sviluppo sostenibile orientato alla piena occupazione, alla garanzia di un salario minimo e di un reddito garantito per chi non ha lavoro». Aggiunge Grazzini: «L’autodeterminazione dei popoli contro la globalizzazione selvaggia implica una dura lotta per ristabilire l’autonomia nazionale contro i poteri sovranazionali di stampo neo-coloniale. La brutta novità di questo decennio è che, anche grazie alla Ue, il neocolonialismo monetario ed economico per la prima volta colpisce direttamente le più avanzate nazioni europee e non solo gli Stati del Terzo Mondo».
    Per questo motivo, è «folle e suicida» lasciare la rivendicazione sovranista alla «destra populista», che non a caso oggi «occupa lo spazio popolare che la sinistra ha colpevolmente abbandonato». L’iniziativa del referendum italiano contro il Fiscal Compact, avviata da Riccardo Realfonzo? Ottima, da sostenere: «La sinistra dovrebbe proporre di cambiare o ripudiare i trattati europei, di ristrutturare i debiti pubblici, di avviare politiche espansive mirate a combattere la disoccupazione e a reprimere la speculazione. E dovrebbe ridiscutere radicalmente la moneta unica che conviene solo alla Germania». Riaprire i giochi: «Proporre di concordare il ritorno alle monete nazionali con cambi fissi aggiustabili, e creare una moneta comune (ma non unica) europea verso il dollaro, lo yuan e lo yen». Forse allora «l’Europa potrebbe rinascere», ma per questo servirebbe un terremoto politico. E servirebbe una sinistra onesta e coraggiosa, di cui in Italia non c’è più traccia da troppi anni.

    Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika: «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.

  • Temo una rivolta, perché guadagno mille volte più di voi

    Scritto il 23/7/14 • nella Categoria: idee • (6)

    «Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.
    Una lettera che è anche una analisi/denuncia del livello estremo raggiunto dalla disuguaglianza nell’odierno capitalismo. E un avviso: così non può continuare. Arriveranno i forconi, contro di noi. Nick Hanauer, 55 anni, nonni immigrati dalla Germania di Hitler, è un classico uomo d’affari americano, uno che si è fatto da sé. Americano anche nel piglio  con cui si esprime. «Nel 1992 a Seattle vendevo cuscini fabbricati dall’impresa della mia famiglia a negozi in giro per il paese e Internet era una goffa novità alla quale ci si collegava a 300 baud. Ma già allora mi sono accorto abbastanza rapidamente che molti grandi magazzini miei clienti erano condannati. Ho capito che non appena Internet fosse diventata abbastanza veloce e affidabile – e quel tempo non era così lontano – tutti si sarebbero buttati a comprare on line come pazzi. Realizzare questo, vedere oltre l’orizzonte un po’ più in fretta di tanti altri, è stata la parte strategica del mio successo. La parte fortunata è stata invece l’avere un paio di amici, entrambi di grande talento, anche loro intrigati dalle potenzialità della rete. Uno è un tizio di cui non avrete certo sentito parlare, Jeff Tauber, l’altro era Jeff Bezos (il fondatore di Amazon ndr). Ero così eccitato dal potenziale del web che ho detto ai due Jeff che volevo investire in qualsiasi cosa avessero deciso di lanciare».
    «Il secondo Jeff – Bezos – mi chiamò per primo, e lo aiutai a sottoscrivere la sua piccola libreria start up. L’altro Jeff partì con un negozio on line chiamato Cybershop, ma quando la fiducia nelle vendite via Internet era ancora bassa; era troppo presto per la sua idea, la gente non era ancora pronta ad acquistare on line cose costose senza vederle di persona (a differenza di oggetti semplici come i libri, la cui qualità non cambia – questa è stata la carta vincente di Bezos). Cybershop non è andato lontano, è stato uno dei tanti fallimenti di imprese dot-com. Amazon è andato meglio. E io ora possiedo un maxi-yacht. Ma lasciatemi essere franco. Non sono la persona più intelligente che avete conosciuto, o quello capace di lavorare più sodo. Ero uno studente mediocre, non sono un tecnico –  non so ho mai saputo scrivere una riga di software. Quel che mi è servito, credo, è una certa propensione al rischio e un’intuizione su quel che accadrà in futuro. Intuire dove le cose stanno andando è l’essenza dell’imprenditorialità. E cosa vedo oggi nel nostro futuro? Vedo dei forconi».
    «Mentre persone come voi e me prosperano oltre i sogni di ogni plutocrate nella storia, il resto del paese – il 99,9% – resta molto indietro e arretra. Il divario fra quelli che hanno e quelli che non hanno peggiora sempre di più. Nel 1980 l’1% in cima alla piramide controllava l’8% del reddito nazionale degli Stati Uniti. Il 50% più in basso si divideva il 18% delle ricchezze. Oggi l’1% più ricco si divide il 20%, e il 50% della popolazione solo il 12%. Ma il problema non è la disuguaglianza in sé, qualche misura è intrinseca a ogni economia capitalista che funzioni. Il problema è che la disuguaglianza è a livelli storicamente mai visti e peggiora di giorno in giorno. Il nostro paese sta diventando una società sempre meno capitalista e sempre più una società feudale. A meno che le nostre politiche non cambino drammaticamente, la classe media scomparirà, e torneremo indietro alla Francia del 18° secolo. Prima della Rivoluzione. Così ho un messaggio per i miei colleghi oscenamente ricchi, per tutti coloro che vivono nelle bolle dei nostri mondi circondati da cancellate: svegliatevi, gente. Non durerà. Se non si fa qualcosa per sanare le clamorose diseguaglianze in questa economia, i forconi ci saranno addosso».
    «Nessuna società può tollerare una tale disparità. Non ci sono esempi nella storia in cui si sia verificata una tale accumulazione di ricchezza e i forconi non siano arrivati. Dove c’è una società altamente disuguale o c’è uno Stato di polizia, o un’insurrezione. Non ci sono altre possibilità. Il punto non è se, ma quando. Molti di voi pensano che siamo speciali perché “questa è l’America”, pensiamo di essere immuni alla forze che hanno dato vita alla Primavera Araba o alle Rivoluzioni in Francia e in Russia. Molti fra i colleghi dello 0,1% sfuggono questo argomento, molti mi prendono per matto, altri vedono un ragazzino povero con un iPhone e pensano che l’ineguaglianza sia una finzione. Vivete nel mondo dei sogni, vi dico. Volete credere che se ci sarà qualche segnale di destabilizzazione, ci sarà tempo per reagire e organizzarsi. Ma non funziona così, come sa qualsiasi studente di storia. Le rivoluzioni, come le bancarotte, si manifestano per gradi e poi precipitano di colpo. Un giorno uno si dà fuoco e improvvisamente la gente è in strada, prima che ci si renda conto il paese brucia. E non c’è tempo per salire sul nostro Gulfstream e scappare in Nuova Zelanda. Succede così. E se l’ineguaglianza peggiorerà, succederà».
    Sembrano le parole dei ragazzi di “Occupy Wall Street”, movimento che pare scomparso nel nulla. Ma il nostro capitalista niente affatto pentito non parla così per paura quanto per interesse. Del paese, della società, ma anche degli stessi ultraricchi dello 0,1%, a quanto cerca di dimostrare nell’analisi che segue. La cui tesi si può riassumere nel titolo dato al post da “Business Insider” (foto di persone in fila negli anni ’30 della Grande Depressione): “Spiacenti, gente, ma i ricchi non creano occupazione”. Hanauer se la prende con il punto di vista “ortodosso” dell’economia politica, e ne smonta alcuni presupposti di fondo: «Sono i ricchi che creano occupazione? Falso. E’ come dire che il seme crea l’albero: magari ne è il presupposto, ma provate a piantare un seme su Marte o nel Sahara. Senza terra buona, acqua, nutrienti non spunterà nulla e il seme morirà. La retorica per cui l’America è grande per via di uomini come me e Steve Jobs è finzione. Se entrambi fossimo nati in Somalia o in Congo saremmo rimasti a vendere frutta all’angolo della strada».
    L’economia non è un’astrazione, ma un ecosistema complesso di persone reali fra loro interdipendenti. Se i lavoratori hanno più denaro, le imprese hanno più clienti e hanno bisogno di più impiegati. A creare posti di lavoro in ultima istanza sono i clienti, i consumatori, vale a dire la classe media. Non sono i ricchi, come vuole uno dei luoghi comuni dell’economia ortodossa, non sono gli imprenditori, che pure sono una parte importante del processo. La classe media è stata la causa, non la conseguenza, della prosperità goduta nel passato dagli Usa. Alzare il salario minimo costa posti di lavoro, per la legge della domanda e dell’offerta? Falso. Lo aveva ben capito Henry Ford che nel 1914 raddoppiò la paga ai suoi operai (a 5 dollari al giorno, equivalenti a 120 di oggi) affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano. Lo ha capito la città di Seattle, che ha alzato per legge il salario minimo a 15 dollari l’ora da 9 – che era già il 30% in più della media Usa. Risultato: Seattle è con San Francisco la città col tasso di occupazione più alto negli Usa, ed è in assoluto la città che cresce di più.
    Il problema con la nostra economia – chiosa “Business Insider” – è che quella che una volta era la nostra potente classe media è stata lasciata impoverire da decenni di tagli ai costi e salari stagnanti, e oggi porta a casa una quota molto minore di 30 anni fa, mentre gente come Hanauer e i suoi amici dell’1% si accaparravano fette sempre maggiori di ricchezza, anche dopo la crisi del 2008. Dal 2009 al 2012 il 95% dei guadagni è andato all’1% mentre il 99% è rimasto al palo. Negli ultimi tre decenni i compensi per i Ceo (amministratori delegati, direttori generali, alti dirigenti) sono cresciuti 127 volte più rapidamente di quelli di altre categorie. Dal 1950 il rapporto tra la paga di un Ceo e quella di un lavoratore è aumentato del 1.000%: i Ceo guadagnavano 30 volte il salario medio, oggi il loro stipendio vale 500 volte il secondo. E nessuno ha eliminato i propri alti dirigenti senior, li ha esternalizzati in Cina o ha automatizzato il loro lavoro. Al contrario, ce ne sono molti più di prima.
    Intanto la classe media veniva falcidiata da politiche fiscali favorevoli all’1%, dalla globalizzazione e da miglioramenti tecnologici senza controlli. Ma veniva strozzata anche dalla nostra ossessione per il profitto a breve termine, dall’ethos prevalente nel mondo degli affari per cui gli impiegati sono visti come “un costo” e le società tengono i loro salari più bassi possibile. E’ un bene per l’economia che i ricchi siano sempre più ricchi? Falso. Il punto è che la classe media spende quasi tutto quello che guadagna, e questa spesa diventa ricavo per società avviate, finanziate o possedute da persone come Hanauer. Ma oggi, con i salari bassi come mai grazie all’avidità e alle corte vedute dell’1%, la classe media non è più in grado di farlo, e ciò si ritorce contro l’economia reale e gli stessi imprenditori. In America infatti i più ricchi – imprenditori, investitori e società – oggi hanno così tanto denaro da non riuscire a spenderlo. Così, invece di ri-pomparlo nell’economia creando guadagni e salari, quel denaro resta in conti di investimento.
    «Io guadagno all’anno 1.000 volte l’americano medio, ma non compro mille volte più roba. La mia famiglia negli ultimi anni ha comprato tre automobili, non 3.000. Io ho acquistato qualche paio di pantaloni e qualche camicia all’anno, come molti altri americani. Ho comprato due paia dei migliori pantaloni di lana, quelli che il mio partner Mike chiama “pantaloni da manager”. Ma non avrei potuto acquistarne 1.000. Invece ho messo via il mio denaro extra là dove non fa molto bene al paese». Se i 9 milioni di dollari di Hanauer in più dei 10 milioni di guadagni annuali fossero andati a 9.000 famiglie invece che a lui, sarebbero stati pompati di nuovo nell’economia attraverso il consumo. E avrebbero creato più occupazione. Invece stanno nei conti bancari di Hanauer o investiti in società che non hanno abbastanza clienti potenziali a cui vendere. Hanauer stima che se la maggior parte delle famiglie americane portasse a casa la stessa quota di reddito nazionale di 30 anni fa, ogni famiglia avrebbe altri 10.000 dollari di reddito da spendere.
    Con famiglie più ricche, lo Stato potrebbe davvero diventare più snello, risparmiando su assistenza pubblica, cure mediche gratuite, buoni pasto (oggi fruiti da 44 milioni di cittadini). E anche i più ricchi se ne gioverebbero. Il messaggio finale: «Cari 1%, molti dei nostri compatrioti cominciano a credere che il problema sia il capitalismo in sé. Non sono d’accordo, e credo non lo siate neppure voi. Ma il capitalismo lasciato senza controlli tende alla concentrazione e al collasso. Ecco perché gli investimenti nella classe media funzionano, e i tagli delle tasse ai ricchi invece no. Bilanciare il potere dei lavoratori con quello dei miliardari alzando il salario minimo non è male per il capitalismo, è uno strumento indispensabile per rendere il capitalismo stabile e sostenibile», conclude Hanauer (all’inizio invero esortava a prendere esempio dalle riforme di Franklyn Delano Roosevelt, un po’ più ampie di così). «O possiamo star seduti, non fare nulla e goderci i nostri yacht. Aspettando i forconi».
    L’analisi di Hanauer  riguarda anche l’Italia? Sì, per tre motivi. Perché le disuguaglianze ci sono anche da noi, sia pure meno accentuate che negli Usa; perché le tendenze in America si riflettono altrove, a cominciare dall’Europa; perché, al di là delle riforme indispensabili al nostro paese fermo da decenni, l’economia italiana fa parte del sistema economico globale. Un sistema che fra debiti enormi e disoccupazione vertiginosa non sta affatto bene, come oggi ricorda la Banca dei Regolamenti Internazionali, mentre un rapporto della Banca Mondiale invita esplicitamente a prepararsi per la prossima crisi. Hanauer parla sicuramente nell’interesse dell’economia reale, dei cittadini e delle imprese piccole e medie. Ma alle banche e alle grandi corporations i luoghi comuni dell’ortodossia vanno benissimo. Finanza e multinazionali, compresi i costruttori di armamenti, i colossi dell’high-tech, i giganti della farmaceutica o del web hanno clienti globali, si tratti dell’1% del pianeta (dove addirittura 85 iper-ricchi – non 8.500, né 850, proprio 85 – detengono tanta ricchezza quanta ne possiede la metà della popolazione della Terra) o della classe media che a livello planetario comunque emerge fra varie contraddizioni. E multinazionali e banche & finanza hanno anche le lobby più potenti capaci di “convincere” i politici a fare leggi e norme a loro più favorevoli. Non resta che attendere i forconi, allora, o aspettare la prossima crisi?
    (Maria Grazia Bruzzone, “Svegliatevi plutocrati, i forconi ci saranno addosso”, da “La Stampa” del 4 luglio 2014).

    «Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.

  • Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro

    Scritto il 18/7/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.
    Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».
    La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.
    Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».
    I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».
    Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».
    Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.
    «La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.
    Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.

    Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.

  • Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa

    Scritto il 16/7/14 • nella Categoria: idee • (6)

    Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
    In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.
    Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».
    Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.
    Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.
    Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.
    E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.
    (Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).

    Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.

  • Non solo calcio: Brasile, la caduta di una superpotenza

    Scritto il 13/7/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.
    Si sono anche allenati davvero duramente: disciplina, impegno, etica del lavoro – mentre si godevano ogni minuto nel loro angolo di paradiso e apprendevano i rituali della cultura locale brasiliana. La nazionale brasiliana, nel frattempo, stava recitando uno psicodramma nazionale (nel senso letterale) che vede 200 milioni di persone coinvolte. Era come una spaventosa telenovela – senza alcun tipo di disciplina o duro lavoro, solo tintinnii (guarda il mio nuovo taglio di capelli!) appaiati ad un compiaciuto senso di superiorità. Alla fine avrebbero dovuto vincere perchè dopotutto, sfoderiamo il più grande mito nazionale, “Dio è brasiliano”. Passiamo ad una parabola della globalizzazione. Molto prima della Coppa, il Brasile – che una volta era una leggendaria superpotenza calcistica – è stato ridotto, a forza di cerchi concentrici di mala gestione, ad un ruolo secondario di esportatore di beni (calciatori di talento). Non c’è stata alcuna prospettiva di investimento sul futuro, tutto ciò che importava era trarre profitto dai diritti Tv assecondando il racket dei media.
    La Germania, d’altra parte, da quando è stata sconfitta in finale nel 2002 (dal Brasile) ha investito in una fitta rete di scuole calcio, parte di un sistema nazionale per allevare talenti, educarli e  preparare allo stesso tempo anche gli allenatori. Tre ore prima dell’inizio dell’umiliazione dell’1-7 mi è stato chiesto dal mio barbiere cosa pensassi del risultato della partita. Ho risposto: «Germania 4-0». Tutti erano allibiti. Ho volato dall’Asia e poi dall’Europa per seguire la Coppa del Mondo in Brasile come se stessi facendo servizi di guerra, ciò che avevo sospettato fin dall’inizio si stava confermando come uno psicodramma in procinto di essere svelato. Tutti i segnali portavano ad una cricca di giovani milionari brasiliani psicologicamente instabili pronti ad implodere in maniera spettacolare – come avevano minacciato di fare prima contro il Cile e poi contro la Colombia. È successo nel lasso di soli 6 minuti quando la Germania ha fatto 4 gol – e al 29° i tedeschi stavano già vincendo 5-0. Sorpresa? Non proprio.
    Il Brasile ha smesso di giocare il jogo bonito molto tempo fa, dopo la fantastica nazionale del 1970 e poi la miglior nazionale che non abbia mai vinto nulla nel 1982. Dagli anni ’90 il Brasile come case del jogo bonito era solo un’altra leggenda – un elaborato trucco di marketing (con la complicità della Nike). I Brasiliani si sono presi in giro da soli fino in fondo, avvolti in un economico brand di nazionalismo che recitava “Noi siamo i campioni”.
    Finchè l’arroganza non ha prevalso. È toccato alla Germania ricordare quale fosse il vero jogo bonito, con i loro passaggi strabilianti, le conclusioni infallibili e triangoli di passaggio degni dei Chicago Bulls al loro apice. La nazionale brasiliana si è trasformata in un nervoso rottame principalmente per motivi tecnico/tattici: era una squadra senza centrocampo che giocava contro il miglior centrocampo del pianeta. Incolpate chi li guidava, la federazione calcistica brasiliana e la “commissione tecnica” che ha nominato: una modesta cricca arrogante, ignorante e senza talento, che rispecchiava perfettamente l’arroganza e l’ignoranza delle élite politico-economiche brasiliane, antiche e moderne.
    La polizia brasiliana, abbastanza ironicamente, ha smantellato un mercato nero di biglietti Fifa a Rio (nemmeno Scotland Yard ce l’aveva fatta), si è però persa un altro racket – uno spin-off in atto nei corridoi dei palazzi del calcio brasiliani. La commissione tecnica, nella sua conferenza stampa post-traumatica, lo stesso giorno che Argentina e Olanda hanno giocato come i bambini grandi per 120 interminabili minuti, terminati 0-0 (e poi risolti ai rigori), mi ha ricordato il Pentagono che scaricava Abu Ghraib: «Ah, è stato solo un bizzarro errore». No, non lo è stato. I brasiliani codardi al timone non hanno avuto lo stomaco di ammettere che il “blackout” è stato sistemico. Ci saranno ripercussioni politiche senza fine a questo 1-7. Va ben oltre la massa di ricchi brasiliani (bianchi) che si potevano permettere di comprare i biglietti Fifa mentre criticano le spese della presidente Rousseff per il welfare.
    Di sicuro va a braccetto con i mirabolanti profitti che la Fifa trae dalla sua festicciola personale (4 miliardi di dollari, esentasse), forniti della autorità locali, così come ha a che fare con il salatissimo conto finale (13,6 miliardi di dollari). Paragoniamo ai minuscoli investimenti in educazione, pubblici servizi, “mobilità urbana”, strutture fatiscenti – mentre una corruzione endemica spadroneggia. La più grande umiliazione sportiva mondiale a memoria d’uomo è direttamente connessa all’ignoranza ed arroganza delle élite brasiliane (e al loro sentirsi in diritto di fare ciò che vogliono). Al contempo, non si può aspirare a diventare una superpotenza dei Brics mentre la tua identità nazionale è basata su uno sport – il calcio – svilito da un manipolo di truffatori.
    Gli dei del calcio hanno misericordiosamente dichiarato superato lo psicodramma di 200 milioni di persone. Mi spiace ancora molto per gli sconfitti – la stragrande maggioranza di tifosi tra questi 200 milioni: gente onesta e lavoratrice per la quale il calcio è un sollievo dalle proprie lotte quotidiane. Sono stati presi in giro e sono state loro costantemente propinate solo menzogne. Il Brasile godrà ancora del beneficio di avere molto soft power in giro per il mondo, ma deve affrontare i problemi di corruzione ed inefficienza. Se il calcio deve rimanere l’unico collante dell’aspirante superpotenza, meglio metterci la testa sopra, capire il perchè l’umiliazione è avvenuta, liberarsi di tutti i fannulloni, mostrare un po’ di umiltà e lavorare duro. Imparare dal modello sportivo tedesco – uno che di certo non ha a che fare con l’austerità dell’Ue. Per poi tornare in paradiso.
    (Pepe Escobar, “La caduta di una superpotenza”, da “Asia Times” del 10 luglio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Prestigioso giornalista internazionale, Escobar è autore di “Globalistan, how the Globalized World is dissolving into liquid war”, “Red Zone Blues, a snapshot of Baghdad during the surge” e “Obama does Globalistan”).

    Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.

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