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La cricca totalitaria delle bufale sul clima alterato dall’uomo
Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.Di fatto, in quel periodo, la luce del Sole è diminuita tra il 3 e il 5%. In un discorso del 1971, Paul Ehrlich dichiarava: «Se fossi un giocatore d’azzardo, scommetterei che l’Inghilterra non esisterà più nel 2000». Spostiamoci velocemente al mese di marzo 2000 e a David Viner, scienziato ricercatore esperto presso l’Unità di Ricerca Climatica dell’Università East Anglia, che dichiarò a “The Independent”: «Le nevicate sono ormai una cosa che appartiene al passato». Nel dicembre 2010 il “Mail” online riferiva del «dicembre più freddo mai registrato, con temperature scese a meno 10 °C portando il caos in tutta la Gran Bretagna». Anche noi australiani abbiamo avuto le nostre previsioni sbagliate. Forse la più assurda è stata la dichiarazione dell’allarmista climatico Tim Flannery del 2005: «Se i tabulati del computer sono corretti, le attuali condizioni di siccità diventeranno permanenti nell’Australia dell’Est». Le precipitazioni successive e le gravi inondazioni hanno mostrato che i tabulati, o le sue analisi, erano sbagliati. Ci siamo bevuti una previsione sbagliata dopo l’altra. Inoltre, il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) è stato ripetutamente colto in flagrante per false rappresentazioni della realtà e metodi scadenti.Gli uffici metereologici sembrano aver dato una “aggiustatina” ai dati per adattarsi alla narrazione prevalente. L’affermazione della Nasa che il 2014 è stato l’anno più caldo mai registrato è stata rivista, dopo che era stata messa in discussione, a una probabilità di appena il 38%. Gli eventi meteorologici estremi, che una volta erano imputati al riscaldamento globale, non lo sono più, dal momento che la loro frequenza e intensità sono in diminuzione. E allora perché, vista la mancanza di prove, le Nazioni Unite insistono perché il mondo spenda centinaia di miliardi di dollari all’anno in futili politiche che hanno come obiettivo i cambiamenti climatici? Forse Christiana Figueres, segretario esecutivo della struttura dell’Onu del cambiamento climatico, ha la risposta? Lo scorso febbraio, la Figueres ha detto a Bruxelles: «È la prima volta nella storia dell’umanità che ci stiamo ponendo il compito di cambiare intenzionalmente, entro un determinato periodo di tempo, il modello di sviluppo economico che regna da almeno 150 anni dalla rivoluzione industriale». In altre parole, la vera agenda si concentra sull’autorità politica. Il riscaldamento globale è solo l’amo.Abbiamo anche avuto modo di ascoltare la Figueres affermare che la democrazia è un sistema di governo scadente per combattere il cambiamento climatico. La Cina comunista, ha detto, è il modello migliore. Non stiamo parlando di fatti o di logica. Parliamo di un nuovo ordine mondiale sotto il controllo dell’Onu. Quest’ordine si oppone al capitalismo e alla libertà e ha fatto del catastrofismo ambientale un argomento familiare per raggiungere il suo obiettivo. La Figueres dice che, al contrario della Rivoluzione Industriale, «quella che sta avvenendo è una trasformazione centralizzata». Dal suo punto di vista, la divisione nelle opinioni sul riscaldamento globale negli Usa è «molto deleteria». Naturalmente. Nel suo mondo autoritario, non è ammesso spazio per la discussione o il disaccordo. Capiamoci, il cambiamento climatico è il campo di una battaglia che i totalitaristi e i loro accoliti non possono perdere. Come dice Timothy Wirth, presidente della Fondazione Onu: «Anche se la teoria (del cambiamento climatico) è sbagliata, faremo la cosa giusta in termini di politica economica e ambientale».Dopo aver guadagnato così tanto terreno, gli eco-catastrofisti non ne cederanno un centimetro. Dopo tutto, hanno messo le mani sull’Onu e hanno a disposizione tanti soldi. Hanno un alleato enormemente potente alla Casa Bianca. Hanno arruolato con successo accademici conformisti e media mainstream obbedienti e ingenui (la “Abc” e “Fairfax” in Australia) per far loro portare avanti la narrazione a discapito delle prove. Continueranno a dipingere il movimento sul cambiamento climatico come nato dal consenso spontaneo e indipendente di scienziati, politici e cittadini preoccupati, che credono che l’attività umana sia “in maniera estremamente probabile” la causa dominante del riscaldamento globale (“in maniera estremamente probabile” è un termine scientifico?). E continueranno a mobilitare l’opinione pubblica, utilizzando la paura e gli appelli alla moralità. Il sostegno dell’Onu verrà assicurato attraverso la promessa di redistribuzione di ricchezza dall’Occidente, anche se le sue prescrizioni di politica anti-crescita prolungheranno inutilmente la povertà, la fame, le malattie e l’analfabetismo nei paesi più poveri del mondo.La Figueres ha dichiarato a un recente summit sul clima a Melbourne che lei «contava veramente sulla leadership dell’Australia» perché si assicurasse che gran parte del carbone rimanesse nel suolo. Speriamo che, come il primo ministro indiano Narendra Modi, Tony Abbot non la ascolti. L’India conosce l’importanza dell’energia a basso costo e si prevede che superi la Cina come il leader mondiale di importazione di carbone. Persino la Germania si accinge a mettere in marcia il maggior numero di centrali elettriche a carbone degli ultimi 20 anni. Esiste la possibilità concreta che Figueres e coloro che condividono la sua ambizione di un potere centralizzato riusciranno nel loro intento. Mentre si avvicina la conferenza Onu di dicembre sul cambiamento climatico, verrà messa pressione sull’Australia perché firmi ulteriori trattati sul cambiamento climatico, che distruggeranno posti di lavoro. Resistere sarà politicamente difficile. Ma resistere dovremmo. Stiamo già pagando un inutile prezzo sociale ed economico per gesti vuoti. Quando è troppo, è troppo.(Martin Armstrong, “Quando gli ambientalisti ignorano la storia”, articolo apparso su “Weekend Australian” il 30 settembre 2019 e ripreso da “Voci dall’Estero”).Il clima è sempre cambiato da un decennio all’altro. Ci sono state grandi oscillazioni durante gli anni ’30. Abbiamo avuto il “dust bowl” (serie di tempeste di sabbia) durante l’estate e nel 1936 un freddo record. Nel 1936 l’ondata di freddo del Nord America, che colpì anche il Giappone e la Cina, è ancora oggi una delle più intense mai registrate nella storia. Non possiamo dare la colpa di quanto avvenne alle mamme che portavano in macchina i ragazzini a giocare a calcio, bruciando combustibili fossili. Le automobili erano ancora un lusso negli anni ’30. Semplicemente, non esiste alcuna prova di cambiamenti climatici causati dall’uomo. Nessuno è disposto a denunciare questa assurdità semplicemente mostrando le marcate oscillazioni di temperatura registrate nei secoli. Si tratta di un segreto ben celato, ma il 95% dei modelli climatici che, come ci viene detto, provano il legame tra le emissioni umane di CO2 e il catastrofico riscaldamento globale si sono rivelati, dopo circa due decenni di stasi nelle temperature, sbagliati. Non dovrebbe sorprendere. Ci siamo dovuti sorbire le stramberie dei catastrofisti climatici per circa 50 anni. Nel gennaio 1970, la rivista “Life”, basandosi su “solide prove scientifiche”, sosteneva che entro il 1985 l’inquinamento atmosferico avrebbe ridotto della metà la luce del Sole che raggiunge la Terra.
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Bernays e il golpe mentale che ci ha trasformati in pecore
«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni. La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare.Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano. L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri.E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, “come un gregge di pecore va guidato”. Alle minoranze più intelligenti (élite) spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors e il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il Ministro della Propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, dal blog della Bifarini del 29 aprile 2019).«L’individuo opera le sue scelte mosso da impulsi irrazionali e incontrollati. E’ compito di una minoranza di persone elette guidarlo “come un gregge di pecore va guidato”». Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, lo zio Freud, il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria della rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese, si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione.
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Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos
Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.(Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).https://mariodandreta.net/Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor BooksBlumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, MilanoCarli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: KarmacMcClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of CambridgeMead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago PressMoscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & RinehartTransnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
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Bernays: vi guideremo come pecore, sarete ai nostri ordini
Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.La logica economica, dopo aver asservito l’industria bellica per accrescere la propria produzione, si avvicina così alla neonata scienza della psicoanalisi. Ma come fare a convincere i cittadini a consumare nuovi prodotti non avendo esaurito i vecchi acquistati? Per Bernays, la risposta è semplice: basta «inquadrare l’opinione pubblica così come un esercito inquadra i suoi soldati». Lo zio Sigmund aveva dato luce alla parte oscura che muove il desiderio spinto dall’inconscio: attraverso il meccanismo di compensazione dei desideri, l’individuo sposta l’orizzonte del suo desiderio represso e non ammissibile verso la sfera esterna della materialità per poterlo soddisfare. Appresa la lezione, Bernays offre la sua preziosa consulenza nella campagna della American Tobacco Company per abbattere il tabù dell’America del primo dopoguerra verso la pratica del fumo da parte delle donne. Nel 1929 inscena la parata delle “fiaccole della libertà”: ingaggia una decina di suffragette che, nel pieno di una manifestazione pasquale, accendono in modo teatrale l’oggetto del desiderio manifesto allora proibito, le sigarette, che nell’inconscio femminile rappresentavano il pene. La notizia fa il giro del mondo, veicolata come gesto di libertà e emancipazione femminile, intaccando fortemente il tabù puritano.L’individuo, dunque, è disposto ad assumere comportamenti irrazionali, orientati al consumo di prodotti non solo inutili per la sua vita, ma addirittura dannosi, pur di sentir soddisfatti alcuni sui aneliti inconfessabili e inappagati, pur di veicolare all’esterno un’immagine che lo gratifichi e lo faccia sentire apprezzato dagli altri. E proprio perché in preda a forze inconsce gli essere umani vanno controllati, «come un gregge di pecore va guidato». Alle minoranze più intelligenti spetta il compito di fare proselitismo e indirizzare le masse indisciplinate e irrazionali. Una sorta di compito morale degli eletti: «Solo così si può coniugare l’interesse individuale con quello collettivo per favorire lo sviluppo e il benessere dell’America» (“Propaganda”, 1928). L’elenco dei clienti di Bernays è un pullulare di nomi del gotha economico e politico americano: Procter & Gamble, l’American General Electric, la General Motors, il presidente Usa Eisenhower sono solo alcuni dei nomi presenti nello sterminato portfolio di Bernays, capace di camuffare da colpo di Stato il golpe guatemalteco del 1953 per favorire, al fianco della Cia, gli interessi della United Fruit Company. La sua fama arriverà oltreoceano, conquistando con le sue teorie il ministro della propaganda nazista Goebbels, suo dichiarato fan. E’ a lui che devono la paternità tutte le attuali figure “professionali”, come gli spin doctor, che hanno fatto della propaganda l’arma del consenso sociale.(Ilaria Bifarini, “Il padre della propaganda: Edward Bernays”, da “Scenari Economici” del 21 settembre 2017. Economista, la Bifarini è autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa, storia di una bocconiana redenta”).Annoverato dall’autorevole rivista americana “Life” tra i 100 uomini più potenti del XX Secolo, acclamato unanimemente come il creatore dell’ingegneria del consenso, Edward Louis Bernays è un nome poco familiare al pubblico europeo. Conosciuto forse a qualche curioso per la sua parentela con il padre della psicoanalisi, dello zio Freud il giovane Louis assimila velocemente e rielabora brillantemente la teoria di rivoluzionaria conoscenza dell’inconscio. Di estrazione ebraica e borghese si trasferisce giovanissimo nella New York dei primi del Novecento dove, abbandonata la strada prestabilita della prosecuzione dell’attività paterna, muove i primi passi nel mondo del giornalismo, per affermarsi in una veste di comunicatore del tutto inedita per i tempi. Dopo i fasti registrati dall’industria manifatturiera a servizio della produzione bellica della Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si trovano a dover affrontare il più spaventoso degli spettri del mercato: il rischio di sovrapproduzione. Il “brain storming” di illustri banchieri e influenti imprenditori porta a centrare la soluzione in modo deciso e inequivocabile: occorre traghettare il cittadino americano dalla cultura dei bisogni a quella dei desideri, rendendo le persone bramose di soddisfare necessità sempre nuove, gravose come impellenti bisogni.
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Come blindare un segreto, da Hiroshima all’uomo sulla Luna
Nei giorni scorsi “Il Fatto Quotidiano” ha pubblicato un articolo intitolato “Cospirazioni, l’equazione matematica che smentisce i complottisti”, nel quale si racconta che il fisico inglese David Grimes «ha elaborato una formula con cui si può ipotizzare la possibile durata nel tempo di una cospirazione: dovrebbero essere meno di mille gli individui coinvolti affinché il segreto resista per più di dieci anni. E così, viene dimostrato – prosegue l’articolo – che il “finto” sbarco degli americani sulla Luna è una delle tante infondate teorie di complotti che circolano su Internet. Lo studio di Grimes dell’Università di Oxford confuta questa e le altre presunte cospirazioni ricorrendo a una formula matematica. Si è scoperto infatti che sarebbe impossibile mantenere all’oscuro il mondo intero, anche per pochi anni, riguardo a fatti che hanno visto coinvolte migliaia di persone, qualcuna delle quali prima o poi avrebbe denunciato l’inganno. Nel progetto per la conquista della Luna, ad esempio, la Nasa aveva oltre 410mila addetti. Prima o poi qualcuno avrebbe parlato se ci fosse stata una messa in scena dello sbarco».Il nostro Grimes sarà certamente un ottimo fisico, ma forse conosce poco la storia (specialmente quella americana). Se la conoscesse, infatti, saprebbe come queste complesse operazioni – specialmente quelle segrete – vengano compartimentalizzate in modo tale da evitare proprio che i segreti più preziosi si diffondano involontariamente. L’esempio più classico è quello del Manhattan Project, il progetto militare segreto che portò, fra il 1942 e il 1945, alla costruzione delle prime bombe atomiche, poi utilizzate su Hiroshima e Nagasaki. Come è noto, il Manhattan Project coinvolse circa 130.000 persone, sparpagliate in tutta la nazione. Eppure… Da Wikipedia leggiamo: «In un articolo di “Life” del 1945 si stimava che prima del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki “probabilmente non più di poche dozzine di persone in tutta la nazione conoscessero il significato reale del Manhattan Project, e forse al massimo un migliaio di loro erano appena a conoscenza del fatto che il lavoro svolto riguardasse la ricerca sugli atomi”. La rivista ha scritto che gli altri 100.000 ed oltre impiegati del progetto “lavoravano come topi al buio”. Avvisati che la rivelazione di qualunque segreto sarebbe stata punita con 10 anni di prigione o una multa di $ 10.000 ($ 130.000 di oggi), costoro vedevano delle enormi quantità di materiale grezzo entrare nelle fabbriche da cui non usciva nulla, e manovravano leve e comandi protetti da spesse mura, dietro alle quali avvenivano delle reazioni misteriose” senza conoscere lo scopo ultimo del loro lavoro».Dopo la guerra, uno dei manager del progetto Manhattan dichiarò: «Nessuno sapeva che cosa accadesse a Oak Ridge [il quartier generale del Progetto Manhattan, ndr], nemmeno io lo sapevo, e molta gente pensava semplicemente di stare sprecando il proprio tempo in quel posto. Era mio compito dire a questi impiegati insoddisfatti che stavano svolgendo un lavoro molto importante, e quando loro mi chiedevano cosa fosse, io dovevo dirgli che era un segreto. Ma io stesso sono quasi diventato pazzo nel cercare di capire che cosa stesse accadendo lì dentro». Quindi, caro Grimes: se vogliamo usare una logica da supermercato, nella quale “siccome 400.000 persone lavorarono al progetto Apollo, allora vuol dire che 400.000 persone sapevano dell’inganno” facciamolo pure, ma intratterremo al massimo le platee più stupide di persone che vogliono sentirsi raccontare che i complotti non esistono. Se invece vogliamo affrontare seriamente questi problemi cominciamo a studiare la storia, lasciando da parte per un attimo le ridicole formulette matematiche.(Massimo Mazzucco, “Complottismo e numeri da circo”, dal blo “Luogo Comune del 3 febbraio 2016).Nei giorni scorsi “Il Fatto Quotidiano” ha pubblicato un articolo intitolato “Cospirazioni, l’equazione matematica che smentisce i complottisti”, nel quale si racconta che il fisico inglese David Grimes «ha elaborato una formula con cui si può ipotizzare la possibile durata nel tempo di una cospirazione: dovrebbero essere meno di mille gli individui coinvolti affinché il segreto resista per più di dieci anni. E così, viene dimostrato – prosegue l’articolo – che il “finto” sbarco degli americani sulla Luna è una delle tante infondate teorie di complotti che circolano su Internet. Lo studio di Grimes dell’Università di Oxford confuta questa e le altre presunte cospirazioni ricorrendo a una formula matematica. Si è scoperto infatti che sarebbe impossibile mantenere all’oscuro il mondo intero, anche per pochi anni, riguardo a fatti che hanno visto coinvolte migliaia di persone, qualcuna delle quali prima o poi avrebbe denunciato l’inganno. Nel progetto per la conquista della Luna, ad esempio, la Nasa aveva oltre 410mila addetti. Prima o poi qualcuno avrebbe parlato se ci fosse stata una messa in scena dello sbarco».