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I Medici e l’Inca: l’America a Firenze prima di Colombo
Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).La stessa spedizione di Colombo del 1492, da cui si pretende inizi l’era moderna, secondo Magnani sarebbe un’invenzione storica: un escamotage del Vaticano per poi aprire la strada alla sanguinosa conquista cristiana delle Americhe, allo scopo di spezzare il legame con l’élite europea allora incarnata dalle signorie italiane come quella medicea. L’analisi di Magnani, tra le altre cose, ha il pregio di accendere i riflettori su dettagli che, in realtà, sono da sempre sotto gli occhi di tutti, benché sembra che si faccia finta di non vederli. Uno di questi è la presenza della “mascapaicha”, tradizionale copricapo Inca, nei dipinti della corte medicea (ben prima dell’ipotetica missione delle famose caravelle). «Fino ad oggi – scrive Magnani sul “Wall Street International Magazine” – nessuno ha posto l’accento sul fatto che, tra le innumerevoli evidenze contenute nell’arte rinascimentale, a rivelarci l’esistenza di numerosi viaggi in America (di gran lunga anteriori a quello presunto di Cristoforo Colombo) vi sia un antico simbolo regale e sacerdotale del popolo Inca, costituito da tre piume da portare in capo».Ufficialmente, scrive, le tre piume su mazzocchio vengono iscritte tra le imprese familiari del primo Rinascimento a partire da quella personale di Cosimo il Vecchio, che si vuole esser stata inserita per la prima volta nel tempietto del Santo Sepolcro: un edificio collocato nella cappella ancora oggi consacrata e annessa alla ex chiesa di San Pancrazio, accanto alla Basilica di Santa Maria Novella a Firenze. «Il tempietto, posizionato nel Sacello che si ispira al modello della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, è costruito su progetto di Leon Battista Alberti e raccoglie le spoglie del suo committente, Giovanni di Paolo Rucellai, morto nel 1481». Le magnifiche tarsie che decorano le pareti esterne del sacello del Santo Sepolcro – continua Magnani – presentano le formelle istoriate che riportano gli stemmi araldici di Lorenzo il Magnifico, Cosimo il Vecchio e Piero il Gottoso. Lo stemma di Giovanni Rucellai, il committente, «rappresenta una vela spiegata al vento, con le sartie sciolte, forse proprio a intendere l’uso alla navigazione transoceanica».Iniziato nel 1457, il tempietto venne completato nel 1467. Non è neppure la prima volta che le tre piume vengono associate al “Pater Patriæ” fiorentino: esiste infatti un dipinto antecedente al tempietto – spiega lo studioso – in cui ritroviamo Cosimo il Vecchio associato a questo particolarissimo ornamento: siamo nella Cappella dei Magi del palazzo di famiglia, Palazzo Medici Riccardi in Via Larga a Firenze. «Qui, nel 1459 Benozzo Gozzoli dipinge il Corteo dei Magi, un affresco che tra le pieghe della sua rappresentazione risulta celebrativo proprio dei primi viaggi in America». L’opera celebra anche i personaggi che, a vario titolo, «si legarono alla famiglia de’ Medici in questa avventura, che condurrà in seguito Sisto IV e molti suoi alleati a ordire la Congiura dei Pazzi», delinando una palese ostilità tra la potenza romana e quella fiorentina. Il pretesto iconografico di questo decisivo ciclo di affreschi, ricorda Magnani, è quello dei festeggiamenti che la città di Firenze riservò a Mattia Corvino, eletto in quell’anno Re d’Ungheria, che proprio per questo guida il corteo a cavallo.Secondo Magnani, è palesemente errata l’interpretazione data finora dagli storici dell’arte, che lo identificano con un ritratto poco realistico di Lorenzo il Magnifico, forse in un tentativo di esaltarne la bellezza e la magnificenza. «Nonostante la presenza in questi affreschi dei molti bizantini che parteciparono al Concilio di Firenze – dice il ricercatore – è da ritenersi che i Magi a cui il corteo nominalmente si riferisce siano proprio i Magiari», cioè gli ungheresi, «guidati dal neoeletto Mattia Corvino», e quindi non i sacerdoti-astrologi dell’antica religione persiana di Zoroastro, il Mazdeismo, che secondo il Vangelo di Matteo giunsero a Beltemme, condotti dagli astri, per onorare la nascita di Gesù. Nel dipinto dei Medici, i Magi – secondo Magnani – sono idealmente rappresentati dal bizantino Giorgio Gemisto Pletone (riferimento culturale assoluto del primissimo Rinascimento), dal patriarca di Costantinopoli e da Giovanni VIII Paleologo, anch’esso di Bisanzio.«Gli Ungheresi – scrive Magnani – ebbero un ruolo attivo nei primissimi viaggi oltre oceano», tanto da potersi imputare a loro persino la scelta del nome dato al Nuovo Mondo: «Il nome America, infatti, è derivato da Emmerich (Amerigo, in italiano), figlio di Stefano I, primo Re d’Ungheria e fondatore della Chiesa Ungherese». Per lo studioso non deve stupire, dunque, o ritenersi anacronistico, che all’interno dello sviluppo del Corteo che accompagna Mattia Corvino – tra animali, piante, scene di caccia e rappresentazioni geografiche del nuovo mondo – Cosimo il Vecchio venga ritratto da Benozzo Gozzoli nei panni di un imperatore Inca (nello specifico Pachacutéc, che proprio nel 1459 morirà), con la classica pettinatura dei nativi sudamericani, la tipica tunica bordata d’oro del sommo sacerdote Inca e le tre piume in testa. «Sarà proprio questo particolare ad aiutarci a fare maggior chiarezza sul significato intrinseco di queste tre piume, e del perché sono diventate un emblema associabile alle famiglie che per prime, con molti anni di anticipo, ebbero contatti amichevoli con i nativi del Sudamerica».Il copricapo indossato da Cosimo il Vecchio, infatti, è la “mascapaicha” (parola di derivazione quechua), considerata in patria un simbolo assoluto del potere imperiale incaico. La “mascapaicha”, infatti, «garantiva al Sapa Inca il titolo di Governatore di Cusco e, a partire proprio da Pachacutéc (la cui statua da pochi anni è eretta nella Plaza des Armas di Cusco), di tutto il Tahuantinsuyo, ovvero di tutto il Perù, il più grande Impero dell’America precolombiana». Il riferimento a questo oggetto ornamentale, usato per sottolineare uno status di ceto e ruolo nella gerarchia religiosa Inca – spiga Magnani – è importantissimo: non solo per le implicite deduzioni cronologiche che comporta, in ordine ai primi viaggi nelle Americhe (viste le datazioni di cui stiamo parlando), ma anche per la corretta interpretazione del ciclo pittorico di Benozzo Gozzoli all’interno di Palazzo Medici Riccardi a Firenze. «Solo il Sapa Inca, infatti, poteva portare la “mascapaicha” più importante, che veniva tramandata da un sacerdote all’altro soltanto in caso di morte del predecessore».Questo ornamento, ricorda Magnani, era costituito da un filo intrecciato dello spessore di un dito, che veniva poi avvolto quattro o cinque volte attorno alla testa. All’epoca ne esistevano di tre tipi: rosso e blu per gli Incas dominanti, nero per gli Incas inferiori o di poco titolo, e poi il Llautu, una nappa di colore rosso e giallo (come appunto quello indossato da Cosimo il Vecchio) per la famiglia reale. Erano le Acllas (dette anche Vergini del Sole, donne prescelte all’interno della comunità Inca) che tessevano il Llautu, chiamato anche Paicha, «termine che esprime la congiunzione di spazio e tempo, assimilabile come concetto al compendio tra energia maschile e femminile». Il Llautu era costituito da una sottile, lunga treccia di lana rossa intarsiata da fili d’oro, ed era di uso esclusivo della famiglia reale. A completamento dell’ornamento imperiale, tre piume di Corequenque (il caracara andino, un rapace del Sudamerica dal piumaggio nero e bianco) venivano infilate nel Llautu.«Alla luce di tutto ciò – ragiona Magnani – è chiaro quindi che l’impresa considerata appartenente a Cosimo de’ Medici, e inserita nel tempietto del Santo Sepolcro, derivi idealmente da ciò che egli indossa nel dipinto di Benozzo Gozzoli di qualche anno prima: un omaggio a Pachacutéc, il primo imperatore Inca, che evidentemente Cosimo il Vecchio conosceva, se non altro nominalmente». Nello stesso dipinto, a portare la “mascapaicha” sono anche le tre nipoti di Cosimo il Vecchio, ovvero le figlie di Piero il Gottoso, nonché sorelle di Lorenzo il Magnifico. «Quanto descritto finora ci dice essenzialmente due cose: l’origine di questa impresa, che è indiscutibilmente legata ai primi viaggi oltreoceano (ovviamente databili ben anteriormente al 1492), e il fatto che le tre piume non siano sostenute da un mazzocchio, bensì da una “mascapaicha” (anche se, sostanzialmente, il significato sotteso a entrambe è lo stesso: compenetrazione tra il mondo eterico e mondo materico)».Anche l’associazione che sottolinea Benozzo Gozzoli (che proprio sotto l’indio si auto-ritrae) tra Cosimo il Vecchio e Pachacutèc, idealizzata nel segno della “mascapaicha” con cui è raffigurato il potente “Pater Patriæ” fiorentino, per Magnani «è molto importante ai fini di una revisione storica, in quanto narra di un rapporto evidentemente gioviale e amichevole tra i due popoli». Un rapporto «ben diverso da quanto poi la storia ci consegnerà in un secondo tempo, relativamente al genocidio operato dal colonialismo spagnolo post-colombiano e al ruolo interpretato dai frati, domenicani prima e gesuiti poi». La percezione di un rapporto di profonda amicizia tra i due popoli – aggiunge Magnani – ci viene confermata da una ulteriore rappresentazione di questo ornamento regale, anteriore sia all’affresco di Benozzo Gozzoli (1459) e sia all’arma intarsiata nel tempietto del Santo Sepolcro di Firenze (1461-1467). «Sto parlando di un oggetto molto particolare, tipico dell’epoca, oggi conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York».Magnani allude a un “desco da parto”, cioè un tipico vassoio commemorativo (in oro e argento) con cui venivano celebrate le nascite più importanti, da parte delle ricche famiglie del Rinascimento. Un manufatto «evocativo dell’offerta di dolci che tradizionalmente veniva portata alla partoriente». Opera di Giovanni di Ser Giovanni Guidi (detto Scheggia), questo vassoio venne creato nel 1449 per celebrare la nascita di Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, nipote prediletto di Cosimo il Vecchio e futuro capo della signoria che diede lustro a Firenze, tanto da meritarsi il soprannome di Magnifico. «Dipinto dal fratello minore di Masaccio, il vassoio fu poi conservato proprio negli alloggi privati di Lorenzo, nel Palazzo Medici Riccardi di Firenze». Attenzione: «L’intreccio ideale tra il popolo Inca e la famiglia de’ Medici qui è rafforzato dal fatto che le tre piume sono associate all’anello mediceo, che si sostituisce al mazzocchio e al Llautu, rafforzato dal motto familiare “semper” (per sempre), mentre gli stemmi delle due famiglie riconducibili ai genitori del nascituro, Medici e Tornabuoni, sono nella parte alta del vassoio stesso».Per Magnani, dunque, emerge sempre più chiaramente come la prima apparizione dell’arma di Cosimo de’ Medici non possa essere considerata quella sul tempietto di Giovanni Rucellai (il cui figlio, Bernardo, sposerà una nipote di Cosimo, Lucrezia, detta Nannina, che insieme alle sorelle Bianca e Maria nel dipinto del Gozzoli porta le tre piume della “mascapaicha”). Anzi, l’esistenza di questo vassoio «metterebbe in dubbio anche il fatto che le tre piume rappresentassero l’arma di Cosimo, lasciando intendere come il vero titolare dell’impresa, mutuata da Pachacutéc, fosse invece proprio Lorenzo, oggetto del “desco da parto” in visione». Oltretutto, il ritrovare le tre piume sia sul capo di Cosimo, nell’evidente atto di richiamare Pachacutéc e la “mascapaicha”, sia sul vassoio commemorativo della nascita di Lorenzo, «forse legittima un dubbio che confermerebbe una volta di più il carattere amichevole sottostante alle relazioni tra alcune famiglie dello schieramento politico ghibellino italiano e le più alte gerarchie dei popoli nativi del Sudamerica».Ragiona Magnani: «Sia Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, sia Ludovico Sforza, non a caso detto il Moro, erano di sangue misto, meticcio, come peraltro confermerebbero le stesse caratteristiche della fisionomia di questi due celebri personaggi». Lo studioso ricorda che il termine “meticcio” deriva proprio dallo spagnolo “mestizo” e dal portoghese “mestiço”. Non a caso: con questo vocabolo «si definivano in origine proprio gli individui che nascevano dall’incrocio fra i coloni europei (perlopiù spagnoli e portoghesi) e le popolazioni amerindie indigene precolombiane». Qualche anno dopo, aggiunge Magnani, a legare ulteriormente l’impresa con le tre piume a Lorenzo il Magnifico è Giorgio Vasari, pittore e biografo di tutti i più grandi pittori, architetti e scultori del Rinascimento, nel celebre dipinto – conservato a Palazzo Vecchio – che ritrae, tra gli altri animali esotici, anche la giraffa di Lorenzo. In un angolo, il quadro «ripropone proprio le tre piume del Magnifico, inserite in un anello gemmato, la stessa impresa raffigurata sul “desco da parto” di Giovanni di Ser Giovanni Guidi».Dagli elementi menzionati, e in particolar modo dalla rappresentazione che fa Benozzo Gozzoli di Cosimo il Vecchio a Palazzo Medici Riccardi, Magnani ricava una certezza: «E’ indubbio il fatto che l’assunzione delle tre piume, da parte degli esponenti della famiglia de’ Medici, sia da porre in strettissima relazione a una frequentazione delle Americhe, anteriore al 1492, ricollegandosi all’uso che di questo ornamento facevano gli esponenti dell’impero Inca». Lo stesso imperatore Pachacutéc era ancora in carica, racconta Magnani, all’epoca in cui le tre piume e la “mascapaicha” fecero la loro prima apparizione nei dipinti, nelle imprese e nelle monete di una delle più importanti famiglie del Rinascimento, attorno alla prima metà del XV secolo. «Questo ornamento, oltretutto, ci testimonia del profondo legame esistente tra la famiglia de’ Medici, la famiglia Sforza e il territorio lariano, che ospiterà a più riprese il giovanissimo Leonardo a metà del XV secolo».In due chiese dell’alto Lario, infatti, nel comune di Gravedona – chiosa Magnani – sono riprese scene riconducibili all’affresco di Benozzo Gozzoli. «In una di queste, in particolar modo, un giovane (con tutta probabilità Galeazzo Sforza, figlio di Francesco) ha il capo cinto dalla “mascapaicha”, mentre con la mano regge dei funghi allucinogeni». Il ricercatore italiano non ha dubbi, sull’operazione di occultamento e depistaggio che avrebbe condotto a non riconoscere quel clamoroso legame (precolombiano) tra Firenze e i signori del Perù. «Il corso della storia, nel lungo cammino che ha portato alla nascita del movimento rinascimentale – afferma Magnani – è stato dirottato a beneficio della Santa Sede e dei suoi alleati, mentre le evidenze di quello che fu sono state abilmente cancellate». Ma attenzione: non tutte le prove sono state distrutte, «e quel che rimane è più che sufficiente per ricostruire il reale corso delle cose». La verità sull’America restituita da un copricapo regale: la “mascapaicha”, che da mezzo millennio – a Firenze – suggerisce la sua verità.Lorenzo il Magnifico discendeva direttamente dalla linea di sangue reale Inca. Era un meticcio: metà italiano (fiorentino) e metà andino. E la vera origine – occultata – del gran signore di Firenze, massimo promotore del Rinascimento italiano, dimostra una verità che ancora non si vuole ammettere, anche se sta ormai emergendo. Quale? Eccola: le maggiori signorie italiane rinascimentali (non solo Firenze, ma anche Milano e altre) erano in strettissimo contatto con le potenze d’oltreoceano. Legami pericolosi, per la Chiesa dell’epoca, perché rischiavano di demolire la teologia cristiana e il potere ecclesiastico, ripristinando l’antica conoscenza universale racchiusa nel culto solare, a cui sarebbe ispirata la stessa urbanistica rinascimentale, che nelle piazze italiane avrebbe riprodotto le piazze cerimoniali incaiche. E’ la tesi sostenuta da uno straordinario ricercatore come Riccardo Magnani, autore nel 2020 del saggio “Ceci n’est pas Leonardo” (ovvero, “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento”).
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“Bergoglio, presepe alieno: Gesù ’svitabile’ e figure pagane”
«Orribile, fa piangere». Oppure: «Questa bruttezza incarna perfettamente la decadenza di una certa cattolicità in parole ed opere». Sono alcuni tra i (tantissimi) commenti che, sulla pagina Facebook di “Vatican News”, hanno accolto il presepe allestito in piazza San Pietro, edizione 2020. Lo segnala lo storico dell’arte Andrea Cionci, in un articolo su “Libero”. «Dimenticatevi, infatti, il viso dolce della Madonna, il tenero, luminoso incarnato del Bambin Gesù, la dolcezza paterna di San Giuseppe e la devota meraviglia dei pastori. Forse, per la prima volta, in mezzo al colonnato del Bernini non è stato allestito un presepe figurativo, classico, bensì un’opera brutalmente postmoderna e neanche troppo recente, dato che risale agli anni 1965-’75». Anche se per certa critica sarebbe un capolavoro, «a molti fedeli appare come un vero incubo», scrive Cionci. «Certamente non è “per tutti” e siamo molto lontani da quell’idea di bello assoluto e oggettivo che ha animato per 2000 anni l’arte cristiano-cattolica (a parte gli ultimi decenni)». Compaioni infatti «il Bambin Gesù “avvitabile”, l’angelo con le “alette di raffreddamento”, il guerriero cornuto (sapientemente oscurato dalle telecamere vaticane durante la diretta), le atticciate e villose figure animalesche, le barbe assiro-babilonesi dei Magi, il cosmonauta alla “Alien”».Tante le figure totemiche, «più simili ad arcaiche matrioske che non a personaggi di un presepe». L’opera, ricorda Cionci, venne realizzata in ceramica da alunni e docenti dell’allora Istituto d’arte “Grue” di Castelli (Teramo), oggi liceo artistico statale. La realizzazione, in precedenza, era già stata eposta a Roma, a Gerusalemme e a Tel Aviv. E’ composta da 54 grandi statue, tra cui figurano anche un islamico, un rabbino ebreo, un astronauta e persino un boia (in riferimento alla pena di morte), ma solo alcune di queste figure sono ora state riproposte per il presepe vaticano. Nessun elemento paesaggistico, sottolinea Cionci: niente grotta, né alberi o ruscelli. «Solo i Moloch piantati sulla moquette rossa, sotto un traliccio di vetro e acciaio a protezione dalla pioggia, con un inquietante neon zigzagato sullo sfondo che vorrebbe suggerire il profilo di un monte, ma che pare più un fulmine corrusco». In questa scelta, secondo l’analista, «si riconoscono tutti i temi del pontificato di Bergoglio: innanzitutto, il pesante modernismo e la rottura drastica con la tradizione».Nonostante i rimandi al linguaggio ancestrale abruzzese, del territorio in questo presepe «non c’è niente del candore, della bontà di cuore, del cattolicesimo profondissimo della terra d’Abruzzo, regione stracolma di splendidi esempi di arte sacra». Non c’è nemmeno «nulla di riconoscibile come italiano, europeo od occidentale». Il territorio, continua Cionci, filtra semmai nelle eredità stilistiche dei mascheroni degli antichi e feroci Sanniti, progenitori degli abruzzesi, che avevano una religione panteista, animista, feticista e magica: «Il loro mondo era popolato di spiriti misteriosi e temibili, con cui era necessario instaurare buone relazioni. Un po’ come per la Pachamama, dea della fertilità andina molto di moda, che richiedeva sacrifici animali per donare ricche messi». Aggiunge l’esperto: «I dichiarati rimandi alla scultura greca, egizia e sumerica dei personaggi fanno pensare al metodo storico-critico liberale di interpretazione della Scrittura. Questo approccio ai sacri testi, che prese il sopravvento dopo il Concilio Vaticano II, ha infatti la tendenza a smitizzare tutto ciò che è soprannaturale, nella fede cattolica».«I dogmi, i miracoli e gli interventi divini vengono assimilati ai residui di culti pagani preesistenti, quasi sempre mesopotamici». Ancora: i personaggi di altre fedi, come l’islamico e l’ebreo (presenti nella collezione, ma non esposti) rievocano «il sincretismo e l’ossessivo dialogo interreligioso». E il boia? «Si riferiva al dibattito dell’epoca sulla pena di morte, che Bergoglio ha recentemente fatto cancellare dal Catechismo, pur trascurando le situazioni straordinarie del tempo di guerra e delle carceri insicure». L’anno di nascita del presepe monumentale di Castelli, poi, è il 1965: lo stesso della conclusione del Concilio Vaticano II, «dopo il quale il modernismo – già scomunicato da San Pio X – prese piede grazie al teologo gesuita Karl Rahner». Per Cionci, in definitiva, la scelta di quest’opera sembra «un chiaro omaggio a quella tappa della storia della Chiesa che oggi viene messa sotto accusa da più parti, e che secondo Paolo VI aveva avuto luogo in anni in cui era stata aperta la porta al “fumo di Satana”, da molti individuato come la massoneria ecclesiastica».«Orribile, fa piangere». Oppure: «Questa bruttezza incarna perfettamente la decadenza di una certa cattolicità in parole ed opere». Sono alcuni tra i (tantissimi) commenti che, sulla pagina Facebook di “Vatican News”, hanno accolto il presepe allestito in piazza San Pietro, edizione 2020. Lo segnala lo storico dell’arte Andrea Cionci, in un articolo su “Libero“. «Dimenticatevi, infatti, il viso dolce della Madonna, il tenero, luminoso incarnato del Bambin Gesù, la dolcezza paterna di San Giuseppe e la devota meraviglia dei pastori. Forse, per la prima volta, in mezzo al colonnato del Bernini non è stato allestito un presepe figurativo, classico, bensì un’opera brutalmente postmoderna e neanche troppo recente, dato che risale agli anni 1965-’75». Anche se per certa critica sarebbe un capolavoro, «a molti fedeli appare come un vero incubo», scrive Cionci. «Certamente non è “per tutti” e siamo molto lontani da quell’idea di bello assoluto e oggettivo che ha animato per 2000 anni l’arte cristiano-cattolica (a parte gli ultimi decenni)». Compaioni infatti «il Bambin Gesù “avvitabile”, l’angelo con le “alette di raffreddamento”, il guerriero cornuto (sapientemente oscurato dalle telecamere vaticane durante la diretta), le atticciate e villose figure animalesche, le barbe assiro-babilonesi dei Magi, il cosmonauta alla “Alien”».
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Krishna, Horus, Mithra: era già Natale, ben prima di Cristo
L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.La festa del solstizio d’inverno è sempre stata associata alla celebrazione della Rinascita della Luce e dell’attesa di un “parto” miracoloso della “Vergine celeste”, “Regina del Mondo”, con la nascita del suo divino “Infante”. Il Rito della Natività del Sole, celebrato in Siria e in Egitto, era molto solenne. Al solstizio d’inverno i celebranti si riunivano in particolari santuari sotterranei (hipógei), da cui uscivano a mezzanotte esultando: «La Vergine ha partorito! La Luce cresce!». Gli antichi egiziani rappresentavano il Sole appena nato, Horus, con una “Imagine” di un Infante in cera o argilla, che mostravano ai fedeli di Iside e Osiride. La figura di Iside col bimbo Horo somiglia talmente alla Madonna col Bambin Gesù che a volte ricevette l’adorazione inconsapevole dei primi cristiani (dal “Libro dei Morti” egiziano). Iside d’Egitto, come Maria di Nazareth era la Nostra Signora Immacolata, la Stella del Mare (Stella Maris), la Regina del Cielo e Madre di Dio, ed era rappresentata in piedi sulla falce della Luna e coronata di stelle. La figura della “Vergine” dello zodiaco (Virgo) nelle antiche immagini appare come una donna che allatta un bambino, archètipo di tutte le future madonne col divino fanciullo.In India, l’antichissima religione dei primi Brahmani vedici, nei più antichi inni del “Rig-Veda”, chiama Sûrya (il Sole) e Aghni (il Fuoco) il Regolatore dell’Universo, Signore degli Uomini e il Re Saggio,e la Madre Devakî è similmente raffigurata col divino Krishna tra le braccia. Per i babilonesi, la Madre Mylitta o Istar di Babilonia era raffigurata con la consueta corona di stelle e con il divino figlio Tammuz, la cui nascita veniva commemorata nelle rituali Sacee babilonesi, feste della nascita analoghe al nostro Natale. Il periodo del solstizio al 25 dicembre ricorre anche per la nascita verginale del principe Siddharta, che fu adombrato da Buddha (l’Illuminato) allo stesso modo in cui Gesù fu adombrato da Cristo. Per la storia dell’antica Cina, Buddha nasce dalla vergine Mâyâdevi. Per i persiani, al solstizio d’inverno nacque Mithra, divinità solare di origine indo-iranica, anch’egli “nato” in una grotta, da una vergine. Fra i suoi sacerdoti si ricordano i Magi citati nel Vangelo di Matteo, sapienti astrologi e discepoli di Zarathustra-Zoroastro, che attendevano da tempo il ritorno di Mithra-Maitreia, secondo antiche profezie.Per i nabatei, popolazione araba che nel I secolo a.C. dominò la Giordania Orientale, la divinità Dusares era unita al Sole, portava l’attributo di “invincibile”, congiunto a Mithra, e il suo giorno natalizio cadeva sempre il 25 dicembre. Nel 274 d.C. Aureliano fece erigere a Roma un sontuoso tempio in onore di Mithra, e numerosi “mithrei” sorsero e si conservano tutt’ora in altre zone d’Italia, noti sotto il nome di “Hipógei”. Nell’antica Grecia veniva celebrata la festa della “Ghenesìa” (il giorno del Natalizio). Il mito di Hermes (Mercurio) presenta particolari analogie con la figura di Gesù. Nato in una grotta, figlio di Zeus (Iuppiter: Giove-Padre) e da Maia (la maggiore delle Pleiadi), Hermes è spesso rappresentato con un agnello sulle spalle, da cui deriva il suo nome di Crioforo (portatore dell’agnello). E’ anche ricordato come Guida delle Anime nella dimora dei morti (Ade-inferno). Da tale funzione deriva il nome di Ermes-Psicopompo, “accompagnatore delle anime”, e in tali vesti servì di immagine ai primi cristiani per figurare il Buon Pastore, al punto che queste identificazioni si fusero con la figura del Christo.La data del solstizio d’inverno fu ripresa dal cristianesimo per il Natale di Gesù, in coincidenza con altre feste confluite a Roma, come il “dies Natalis Solis Invicti” il Natale del Sole Invitto (il sole invincibile), il Natale di Mithra, la Nascita di Horus in Egitto e quella di Tammuz a Babilonia. Storicamente la più antica fonte conosciuta, che fissa al 25 dicembre la nascita di Gesù, è di Ippolito di Roma (170 circa- 235) che già nel 204 riferiva della celebrazione del Natale, nell’Urbe, proprio in quella data; e soprattutto Sesto Giulio Africano (211 d.C.) nella sua “Cronografia” del mondo. Inoltre ci sono anche le prove, indirette ma evidenti, contenute nei Rotoli di Qumran (“Cronaca dei Giubilei”) che confermano la tradizione apostolica secondo la quale vi erano la festività dell’Annuncio a Zaccaria il 23 settembre, la festa dell’Annuncio a Maria sei mesi dopo (25 marzo) e la nascita di Gesù nove mesi dopo (25 dicembre).Ufficialmente la festa del Natale cristiano fu fissata nel 335 d.C. dall’imperatore Costantino, che sostituì la festa natalizia di Mithra-Sole del 25 dicembre con il Natale di Cristo, chiamato dal profeta Malachia “Sole di Giustizia” e da Giovanni Evangelista “Luce del Mondo”. Da Roma la nuova festa del Natale cristiano si diffuse rapidamente in Oriente (seppure con qualche resistenza), come attestato da San Giovanni Crisostomo nell’omelia pronunciata nel 386, in cui asseriva che la festa era stata introdotta ad Antiochia una decina d’anni prima (circa nel 375) mentre non era in uso né a Gerusalemme, né ad Alessandria, né in Armenia, dove invece nelle chiese locali osservavano già la festa della “Manifestazione” al 6 gennaio, cioè la triplice epifania del Salvatore: la nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano (Christòs). Risulta quindi che verso la fine del IV secolo s’era esteso a tutta la Chiesa l’uso di celebrare l’anniversario della nascita di Gesù-Cristo, in Oriente al 6 gennaio e in Occidente al 25 dicembre.La Novena di Natale è strettamente legata al culto ufficiale, ma va precisato che il Natale fa parte di un ciclo di dodici giorni, conosciuto col nome di “Calende”, di origine molto antica. Infatti il Natale segnava l’inizio del nuovo anno. Nelle case dei nostri antichi avi si accendeva a Natale un ceppo di quercia, dai poteri propiziatori, che doveva bruciare per 12 giorni consecutivi, e dal modo in cui bruciava si intuivano i presagi sul nuovo anno in arrivo. Il ceppo doveva essere preferibilmente di quercia, perché il suo legno simboleggia forza e solidità. Simbolicamente si bruciava il passato e si coglievano i segni del prossimo futuro; infatti le scintille che salivano nella cappa simboleggiavano il ritorno dei giorni lunghi, la cenere veniva raccolta e sparsa nei campi per sperare in abbondanti raccolti. Si tratta di un’usanza le cui radici risalgono alle popolazioni del Nord Europa. Abbiamo la testimonianza di Lucano, nel “Bellum civile” (III, 400) in cui ha descritto come gli alberi assumessero un ruolo fondamentale nel culto delle popolazioni celtiche che i romani si trovarono a fronteggiare: un culto in cui simbolismo e ritualità si fondevano in modo straordinariamente armonico.In particolare i Teutoni, nei giorni più bui dell’anno, piantavano davanti alle case un abete ornato di ghirlande e bruciavano un enorme ceppo nel camino. Questi simboli sono sopravvissuti nell’albero di Natale, che rimane verde tutto l’anno e non perde le foglie durante l’inverno come fanno gli altri alberi. L’albero rappresenta anche il simbolo del corpo umano e più precisamente il suo sistema nervoso compreso il cervello, nel quale deve brillare la luce, ovvero la conoscenza che viene dal “cielo” del pensiero e dalla coscienza universale, simboleggiata dalla stella di Natale, che indica l’illuminazione, la conoscenza e la consapevolezza dell’amore che mantiene vivente il creato. Quest’usanza si è oggi trasformata nelle luci che addobbano gli alberi, le case e le strade nel periodo natalizio. A tale tradizione si collega la celebrazione del Natale per indicare l’avvento della Luce del Mondo, che giunge a squarciare le pericolosità del Buio. È il Bambino, che venendo al mondo, inaugura una nuova vita, e porta la Luce a tutti gli uomini. Infatti le case e le abitazioni sono il simbolo della personalità che deve illuminarsi; per questo motivo in questo periodo le case e le città si riempiono di luci, perchè devono portare la conoscenza di sé stessi, l’amore e la giustizia tra gli uomini.E’ documentato che in Romagna, l’antica Romandìola, l’usanza di iniziare l’anno partendo dal 25 dicembre di ogni anno, durò fino ai tempi di Dante, come si riscontra dal “Codice di Lottieri della Tosa” – n. 217 – pubblicato a Faenza nel 1979 a cura di don Giovanni Lucchesi. Ogni anno al solstizio d’inverno accade qualcosa di magico e straordinario: nel giorno più corto dell’anno, il sole tocca a mezzogiorno il punto più basso dell’orizzonte, ovvero simbolicamente “muore”, per rinascere successivamente, dodici giorni dopo, al perigeo, quando il sole riprende il suo moto, perpetuando e rinnovando il ciclo infinito della vita. Per questo il solstizio d’inverno è considerato il giorno più sacro dell’anno e del bene che regna sul mondo. A partire dal solstizio d’inverno il nostro pianeta è permeato dalle potenti radiazioni della “Luce Cristica”, che continua a manifestarsi con forza fino all’Epifania.(Andrea Fontana, “Il Natale nella storia”, estratto da “Il presepio rivelato”, intervento pubblicato su “Scienze Astratte” il 25 dicembre 2011).L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.
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Chi hanno fatto santo, al posto del vero Francesco d’Assisi?
Secondo il filologo Igor Sibaldi, il “patrono d’Italia” non si chiamava neppure Francesco, ma Giovanni: era di origine provenzale, e dall’appellativo “il francese” nacque poi il nome canonico del futuro “poverello di Assisi”. Nel saggio “San Francesco, le verità nascoste” (Melchisedek) Gian Marco Bragadin denuncia «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Un falso storico: «Moltissimi documenti, scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica». E non a caso, rivela la storica medievale Chiara Mercuri, autrice di “Francesco d’Assisi, la storia negata” (Laterza), per la biografia ufficiale di Francesco, ovviamente postuma, fu incaricato Bonaventura da Bagnoregio: un frate erudito, ma che non aveva mai conosciuto Francesco. Venne così effettuata una vera e propria opera di demolizione, spiega Paolo Franceschetti, autore di un saggio (“Alla ricerca di Dio”) che traccia ponti spirituali tra le diverse religioni. Specialità di cui era un campione proprio Francesco d’Assisi: vicino ai Catari, ai Templari e ai Sufi. Al punto da raggiunge il Sultano, in Egitto, nel settembre del 1219.
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Giorgio Galli: magia, esoterismo e potere. La storia segreta
Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.La missione dello studioso: svelare retroscena occulti e, al tempo stesso, demifisticare – con l’occhio razionale dello storico – le tante mitologie connesse al presunto potere di grandi “maghi”, al fianco dei potenti della Terra. Nel mirino innnanzitutto il leader del nazismo. Un fenomeno al quale – tra Himmler e la società Thule – il professor Galli ha dedicato ben tre saggi. Il primo, “Hitler e il nazismo magico” (Rizzoli) risale al 2005. A seguire, “La svastica e le streghe”, una “intervista sul Terzo Reich, la magia e le culture rimosse dell’Occidente”, pubblicata da Hobby & Work nel 2009, quattro anni prima di “Hitler e la cultura occulta”, libro uscito nel 2013, pubblicato ancora da Bur-Rizzoli. Impossibile non notare il potere ipnotico che la retorica del dittatore esercitava su masse immense, durante le celebri adunate oceaniche del nazismo. Disponeva di tecniche occultistiche? «Intanto era nato a Braunau sull’Inn, paese che ha dato i natali a un numero di medium superiore alla norma: c’è chi ritiene che, in determinate zone della Terra, vi siano cariche magnetiche che conferiscano doti particolari, come quelle che caratterizzano i medium e i veggenti». Inoltre, aggiunge Galli, è noto che Hitler prese lezioni da Erik Jan Hanussen, famoso ipnotista austriaco che, «nei teatri, ipnotizzava gli spettatori, facendo creder loro che fossero reali fenomeni che erano solo immaginari».Lo stesso Hanussen, mago e illusionista, fu poi ucciso dai nazisti il 30 giugno del 1934 nella strage passata alla storia come la “notte dei lunghi coltelli”. Una buona occasione «per far sparire le tracce della formazione ipnotistica che Hitler aveva ricevuto». Ma una cosa è ammettere che Hitler credesse nell’occulto e si avvalesse di maghi come Hanussen, un’altra è pensare che il nazismo sia “esploso” in virtù della magia: «Mai, il nazismo, si sarebbe potuto affermare senza la sconfitta della Germania nel primo conflitto mondiale, senza la crisi del dopoguerra e senza la grande crisi del ‘29, tutti fenomeni che hanno determinato il destino del paese sino all’avvento del Terzo Reich». Quindi attenzione: «Io non sostengo che l’esoterismo sia la chiave interpretativa della storia», precisa Galli. «Dico che ne è una delle componenti (e non delle più importanti), che però è stata completamente trascurata». E’ chiaro che a partorire il nazismo è stata la crisi politica, sociale ed economica patita dalla Germania a partire dal 1914. «Le cause che gli storici hanno studiato permettono di capire la vicenda tedesca anche senza bisogno di studiare l’esoterismo. Però, appunto, c’è anche l’esoterismo: e ha avuto un ruolo importante nella formazione culturale di una parte dell’élite nazionalsocialista».La storia politica ed economica spiega tante cose, ribadisce Galli, ma «talvolta, in determinate circostanze, non spiega tutto». Secondo il gollista Maurice Schumann, gruppi esoterici presenti anche in Vaticano hanno influenzato la nascita della stessa Unione Europea: «E’ una componente sin qui trascurata, meno importante di altre, ma che va tenuta presente». Giorgio Galli ha scritto anche un’introduzione al recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini mette in luce il rapporto (rimasto in ombra) tra il fascismo e l’esoterismo, dal ruolo di Giuseppe Cambareri – il mago di tanti ufficiali dell’esercito mussoliniano – all’intervento della massoneria anglosassone agli esordi delle camicie nere, fino al drammatico epilogo di piazzale Loreto, «macabro sacrificio rituale per celebrare simbolicamente la caduta dell’ultimo Cesare». Magia e dittature, ma non solo: «Lo stesso Churchill, che era massone – racconta Galli – si consultò moltissimo con l’ambiente esoterico, prima di decidere l’atteggiamento da assumere con Hitler». Furono alcuni esoteristi a confermargli che occorreva opporsi strenuamente al Terzo Reich: impossibile conviverci, perché avrebbe trasformato l’Europa nel peggiore degli incubi.Esoterismo? «E’ una cultura che ha solide radici nella storia dell’Occidente», spiega Giorgio Galli al pubblico di “Border Nights”. «Bisogna risalire agli astrologi caldei, ai profeti ebraici, fino a personaggi molto recenti come René Guénon e Julius Evola». Si intitola “Occidente misterioso” un saggio del 1987, edito da Rizzoli, in cui Galli indaga tra “baccanti, gnostici, streghe”, ovvero “i vinti della storia e la loro eredità”. «E’ una corrente di pensiero che ha solide radici e si ripresenta anche in periodi di grande avanzamento scientifico». Per dire: erano esoteristi Cartesio e Newton. «Si tratta di una cultura che ha profonde radici nello sforzo umano verso la conoscenza: radici così solide che, dal ‘500 in poi, ha potuto resistere al grande avvento della rivolzione scientifica». Quella dell’esoterismo «è un tipo di conoscenza che prevede approcci diversi da quelli scientifico-razionali». Metodo analogico, pensiero simbolico. Com’è che i politici entrano in contatto col mondo esoterico? «Esistono gruppi e associazioni che mantengono viva questa tendenza». Secondo la cultura esoterica, aggiunge il professore, «sulla Terra sono esistite civiltà molto remote, in genere scomparse per catastrofi naturali: l’esempio più noto sono i riferimenti che Platone fa ad Atlantide».Giorgio Galli segnala un libro come “L’altra Europa”, nel quale l’autore – Paolo Rumor (figlio di Mariano, pluri-minustro Dc) – documenta «la convinzione che siano esistite civiltà terrestri delle quali sono rimaste tracce, e in cui affonderebbe le sue radici la politica che poi ha portato all’Unione Europea». Intorno all’anno Mille, dice Galli, in alcuni ambienti «era maturata quella convinzione», riguardo all’ancestrale discenza da civiltà estinte. E quindi «ci sarebbe un rapporto tra antichi assetti sociali e il progetto dell’Ue, che in realtà è nato molto prima di quanto si ritenga». Se qualcuno ha in mente solo Jean Monnet, la Cee e l’Unione Europea si sbaglia: «Documenti di Mariano Rumor – afferma il professore – dimostrano che questo progetto sarebbe maturato molto più in là nel tempo, in ambienti legati alla cultura esoterica e alla convinzione dell’esistenza di antiche civiltà scomparse, che avrebbero lasciato tracce nella nostra cultura». Sicché, periodicamente, «emergono piccoli cenacoli, che credono di essere gli eredi di un antico sapere». Gli approcci sono diversi, aggiunge Galli: «Alcune società esoteriche sono orientate verso la conoscenza: per loro, l’esoterismo è uno strumento del sapere. In altri gruppi, invece, si ritiene che possa anche essere uno strumento per il potere».Non ha molti segreti, per Giorgio Galli, la contaminazione esoterica della politica: ne parlava già nel 1995 in “Cromwell e Afrodite” (Kaos), o in libri come “La politica e i maghi, da Richelieu a Clinton”, pubblicato da Rizzoli nello stesso anno. Galli ha firmato studi sulla massoneria, su Fatima, sulla new age, sulle Torri Gemelle. Titoli accattivanti: “La venerabile trama”, del 2007 (Lindau), racconta “la vera storia di Licio Gelli e della P2”. In “Stelle rosse” (Alacran, 2007), mette a nudo “astrologia neo-illuminista a uso della sinistra”. Titoli espliciti: “Politica ed esoterismo alle soglie del 2000”, scritto con Rudy Stauder e pubblicato da Rizzoli nel 1992, e “Esoterismo e politica” (Rubbettino, 2010). E’ del 2004 il saggio “La magia e il potere”, ovvero “l’esoterismo nella politica occidentale”, edito da Lindau. Ma cos’è la magia? Solo superstizione? «E’ un approccio culturale che si è manifestato in una fase della storia umana», spiega il professore a “Border Nights”, rispondendo alle domande di “Maestro di Dietrologia”. «Non credo che esista una magia con un reale potere», aggiunge. «Credo però che sia una convinzione diffusa». L’esoterismo, dice, è anche questo: «La convinzione che, facendo determinate operazioni, o con certe liturgie, si possano ottenere determinati risultati. La cultura esoterica è legata a questa convinzione, che però non è la mia».I maghi, aggiunge Giorgio Galli, sono i rappresentanti di questo tipo di cultura: talvolta entrano in contatto col potere e talvolta no. «La rivoluzione scientifica ha reso meno sistematici quei rapporti: quelli che vengono chiamati Magi, astrologi e veggenti facevano parte normalmente del personale vicino al potere – a Roma e in Grecia, poi nelle corti medievali. Fino al ‘500-600 questi rapporti erano organici e continui, in seguito sono diventati più rari o soltanto occasionali». E i famosi maghi consultati da capi di Stato? «In alcuni casi – risponde Galli – ci sono società segrete che trasmettono questo tipo di cultura. Alcune – tedesche, francesi, inglesi – sono elencate in “Hitler e il nazismo magico”. Probabilmente ne esistono ancora, anche se adesso la loro influenza mi pare molto minore di quanto non fosse all’inizio del secolo scorso». Magia e potere, ma soprattutto stelle, oroscopi, tarocchi. «Quello che so – aggiunge Galli – è che molti politici, anche di rilievo, consultano abituamente astrologi e cartomanti: sono un aspetto popolare e diffuso di culture che hanno origini esoteriche, ma è anche un campo che si presta moltissimo alle truffe e alle manipolazioni».Da Roma, ha contattato il professore un gruppo di tradizione esoterica che si definisce “Evoliani a 5 Stelle”, dal nome di Evola. «Sono degli esoteristi di cultura evoliana, che si esprimono positivamente attorno al Movimento 5 Stelle», precisa Galli. Non che l’esoterismo sia del tutto estraneo, ad alcuni aspetti del mondo grillino: «Lo stesso cortometraggio di Gianroberto Casaleggio, “Gaia”, esprime una cultura che qualche rapporto con quella esoterica potrebbe averlo: è collegata con la cultura delle grandi catastrofi, che poi alla fine danno un risultato positivo». Ma quello dei 5 Stelle è un populismo destinato a trasformarsi nella vera avanguardia tecnocratica del neoliberismo globalista? Giorgio Galli lo esclude in modo categorico. «I 5 Stelle secondo me sono ancora in una fase magmatica, in cui convivono componenti dell’anticapitalismo di sinistra e componenti dell’anticapitalismo di destra. Penso che siano in una fase di trasformazione – conclude il politologo – ma non credo affatto che possano diventare i nuovi strumenti del grande capitale: rimarranno sempre un movimento indirizzato a cambiamenti che, nella loro cultura, ritengono positivi. Che poi riescano nel loro intento è un altro problema, ma non credo che si mettano al servizio del potere capitalistico».Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.
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Potere, dogma, dominio: noi e i Catari, i “Bogre” del 1200
I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.E se la tenebrosa “setta asiatica” (stranamente non citata da Messori, solo evocata) fosse il Manicheismo, è bene sapere che ormai gli storici escludono categoricamente qualsiasi filiazione dottrinaria tra la predicazione del profeta persiano Mani e l’affermazione balcanica dei bogomili, i progenitori dei càtari. Il Padre Celeste adorato dai Buoni Cristiani – ribattezzati “càtari” dai loro sterminatori – era in tutto simile ad Ahura Mazda, la divinità della luce di Zoroastro, ispiratore della religione più diffusa in Medio Oriente fino all’anno zero: sarebbero sacerdoti mazdei i Magi venuti dall’Oriente di cui parla il Vangelo di Matteo, accorsi ai piedi della culla di Betlemme. Se il Cattolicesimo contempla la vita ulteriore, “eterna”, al di là di quella presente, sia il Mazdeismo che il successivo Catarismo danno estrema importanza alla terza fase dell’esistenza, che in realtà è la prima, chiaramente narrata nelle loro teologie. La dimensione materiale? E’ vissuta come passaggio transitorio, una dolorosa “caduta” rispetto allo stadio precedente, quello in cui le anime vivevano in beatitudine “al cospetto di Dio”. Missione del credente càtaro: aiutare l’umanità a “tornare a casa”, adottando il modello evangelico (rifiutare beni e ricchezze) per riconquistare l’accesso alla terra d’origine, l’ancestrale ascendenza “divina” di cui sarebbe rimasta una traccia, una scintilla, in ogni essere vivente.Proprio il mito del ritorno pervade un suggestivo racconto dei Sufi, quello dei costruttori di navi: compito del credente è custodire l’arte del carpentiere, anche se il potere del mondo detesta i “costruttori di navi”, imponendo questo mondo come l’unico possibile. Un ponte diretto collega i mistici “dervisci” a Francesco d’Assisi, che entrò in contatto con loro durante il suo viaggio in Egitto – per poi replicare il modello dei Sufi, asceti “vestiti di lana grezza”, nel futuro ordine francescano, a sua volta poi tacciato di eresia e avvicinato pericolosamente proprio al Catarismo. Sembra un fantasma scomodo, ancora oggi, quello dell’eresia cristiana dualistica del medioevo: se un intellettuale militante come Messori la attacca frontalmente, puntando a screditarla e demonizzarla, un laico come Eugenio Scalfari in un articolo su “Repubblica” arriva a equipararla, sbadatamente, a un altro Cristianesimo alternativo, quello di Pietro Valdo, per il quale invece la divinità era una sola – non esiste Dio Straniero, per i valdesi: il mondo è opera di una sola mano, quella dell’Altissimo.Anche se non lo si vuole ammettere, osserva il regista Fredo Valla, autore dell’atteso documentario “Bogre” (un viaggio tra bogomili e càtari, dalla Bulgaria alla Francia), l’eresia cristiano-dualistica scosse il medioevo europeo come un terremoto. Condannando la materia come frutto di una “creazione dannata”, opera del Demiurgo sfuggito al controllo della divinità celeste (buona, ma non onnipotente), contestava il ruolo sociale e politico dell’istituzione religiosa come garante dello status quo, dell’ordine feudale. In Linguadoca, Acquitania e Guascogna il Catarismo fu tollerato fino a quando, a prendere i voti, non furono i figli dei nobili: disposti a rinunciare ai feudi di famiglia, pur di abbracciare la predicazione dei Buoni Uomini. E’ esplicito l’inutile grido d’allarme lanciato, a Roma, da Bernardo di Chiaravalle, reduce da una missione esplorativa nelle terre occitane: il grande monaco spiegò al pontefice che nel Midi francese la fede càtara accomunava aristocrazia e popolo, di fronte allo spettacolo indecente offerto dal clero cattolico, ricchissimo e corrotto. Il futuro San Bernardo raccomandò la via della persuasione, dopo aver bonificato le diocesi per riconquistare i fedeli. Ma il Papa, Innocenzo III, preferì la via delle armi: alla carneficina della Crociata, che in vent’anni di guerra precipitò l’Occitania nella rovina economica, seguì la catastrofe dell’Inquisizione anti-càtara, durata 70 anni, che inaugurò il terrore come arma politica sistematica.Guardare tra quelle pagine con spirito laico e distaccato non è mai semplice, avverte una studiosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sul Catarismo anche italiano: si rischia di cadere in posizioni preconcette, che non tengono conto dello spirito dei tempi, rinnovando polemiche anacronistiche. Sbagliato fare del Catarismo una sorta di mitologia new age: nel saggio “I Catari, gli eretici del male”, la Flöss si addentra fra le diatribe – prosaiche, umanissime – delle svariate comunità càtare del Lago di Garda, in competizione tra loro per la leadership teologica. Da una parte i “bulgari”, moderati e fiduciosi – come i bogomili (e i mazdei) – nella riconciliazione universale “alla fine dei tempi”, e dall’altra i càtari radicali, come il pope Niketas che evangelizzò Tolosa, convinti dell’irriducibile opposizione tra bene e male. Sul fronte opposto, nella Crociata Albigese, ai baroni francesi del Nord furono promessi i feudi del Sud come preda di guerra, ma i soldati ai loro ordini – quelli che fecero strage della popolazione civile – era stata promessa la remissione dei peccati, cioè il viatico per la vita eterna, in cambio della pulizia etnico-religiosa che avrebbe liberato l’Occitania dalla peste eretica.La stessa Simone Weil, autrice del meraviglioso saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, sottolinea la presenza della “pietas” tra i versi della Canzone della Crociata, opera di autori cattolici: nel poema non viene mai meno la profonda pietà per gli sconfitti. E’ un sentimento che la Weil attribuisce alla temperie socio-culturale della terra dei Trovatori, straordinariamente tollerante, al punto da far riverberare lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, con il culto della bellezza opposto a quello della forza. E il “paratge”, il particolare senso dell’onore che anima l’ideale cavalleresco occitanico, ricomparirà sicuramente nel viaggio cinematografico di Fredo Valla, alla ricerca – sulla scorta della lezione di Simone Weil – di una perduta dimensione del vivere, che stranamente fiorì in quella regione, a partire dal 1100, prima che calasse il sipario del sangue e della paura. Molto semplicemente: in modo forse anche ingenuo, il Cristianesimo eretico dei càtari – in pieno medioevo – contesta il fatto che una religione possa indossare i panni del potere. Oggi, nel 2018, il mondo è in mano a un potere laico, fondato solo sul denaro, che però esercita il suo dominio mediante dogmi di tipo religioso, come quello neoliberista. Perché perdere tempo a fare assurdi processi alla storia, quando è possibile guardarci dentro, in quella storia, anche grazie a un documentario, per poi magari scoprire che qualcosa, del nostro presente, può avere un fondamento tra le pagine dell’epopea dei “Bogre”?I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.
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Bogre, il martirio dei Catari che nessuno vuole ricordare
«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della più recente pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora accomunato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».Catarismo e Bogomilismo, riassume il regista, reduce dalle prime riprese condotte in Bulgaria, «sono la testimonianza storica di un medioevo tutt’altro che buio e immobile come spesso viene rappresentato: le idee viaggiavano da un capo all’altro dell’Europa, dai Balcani ai Pirenei, dall’Italia centro-settentrionale alla Bosnia». Proprio in Bulgaria, la troupe ha filmato i luoghi dell’eresia bogomila e raccolto le testimonianze dei più grandi esperti: «Abbiamo incontrato storici, filologi, archeologi. È stata la prima tappa, la seconda sarà in Occitania francese e poi seguiranno l’Italia centro-settentrionale, la Bosnia e Istanbul». La ricognizione filmica in Occitania rappresenta il cuore del documentario: «Qui la vittoria della Chiesa di Roma, delle armi dei crociati e dell’Inquisizione sui càtari, pose fine a un’idea di Dio che si voleva fedele alle origini, che predicava la pace, sosteneva l’eguaglianza sociale e – cosa inaudita a quei tempi – la parità uomo-donna». Fu lo sterminio di un mondo, aggiunge Valla, che ora promette di far entare gli spettatori «nella quotidianità dell’essere càtari e bogomili in quegli anni». All’eresia non aderirono solo i servi e i contadini che si opponevano all’alto clero, ma anche i feudatari e le classi mercantili e colte delle città.«Sono tante le famiglie di alto lignaggio che abbracciarono la novità della dottrina càtara: a Firenze – spiega l’autore di “Bogre” – erano càtari personaggi che tutti conosciamo, come Farinata degli Uberti, il poeta Guido Cavalcanti e, secondo studi recenti, lo stesso Dante Alighieri». Eppure, nonostante il suo evidente ruolo storico, il Catarismo spesso viene considerato un fenomeno marginale. Innumerevoli documenti e tradizioni svelano i rapporti dottrinali e umani che unirono i dualisti dell’Est Europa a quelli dell’Ovest: «L’episodio che rappresenta al meglio il mondo di “Bogre” è il concilio càtaro che si tenne nel 1167 a Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa: un concilio a cui parteciparono rappresentanti delle varie comunità càtare occitane e italiane (le comunità di Tolosa, Carcassonne, Albi e Aran, più Marco di Lombardia per l’Italia) e che vide tra gli invitati il bogomilo Nicetas, che trasmise lo Spirito Santo attraverso l’unico sacramento riconosciuto dai càtari, il “consolamentum”». È innegabile che tra i due movimenti religiosi ci fosse non solo un’affinità, ma rapporti tutt’altro che sporadici. Entrambi condividevano una teologia drasticamente alternativa a quella cattolica: per càtari e bogomili, il mondo materiale era il frutto di una “creazione dannata”, operata dal Dio Straniero, alla quale il Padre Celeste (signore del cielo, ma non onnipotente) non aveva potuto opporsi.Può sembrare un espediente teologico: scagionare “Dio” dalla responsabilità del male presente nel mondo. Ma il sincretismo gnostico e proto-cristiano dei càtari ricorda da vicino la grande religione largamente diffusa nell’area mediorientale fino all’anno zero, quella dei Magi “venuti dall’Oriente” ad adorare il neonato di Betlemme. Era l’antica religione di Zoroastro, il mazdeismo, risalente al 1400 avanti Cristo, che aveva abolito i sacrifici animali (i càtari poi saranno addirittura vegetariani) e aveva aperto il sacerdozio alle donne (accanto ai Perfetti, il Catarismo ordinerà le Perfette). I Buoni Uomini, o Buoni Cristiani, erano casti e “francescani”, nonviolenti, contrari alla proprietà privata. La prima strage di massa, nel 1028, fu ordinata, suo malgrado, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano, che interrogò i “bulgari” catturati a Monforte d’Alba, nelle Langhe: bruciateci pure, rispose il loro portavoce, così torneremo più velocemente al Padre Celeste. Il loro motto (“Noi non siamo del mondo, e il mondo non è nostro”) ricalca quello dei Sufi, con cui strinse un sodalizio Francesco d’Assisi. “Nel mondo, ma non del mondo; nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”, è infatti il credo dei mistici islamici, da cui derivano i Dervisci Rotanti.In piena “new age”, avverte una studiosa rigorosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sull’argomento, il Catarismo è stato anche strumentalizzato, in modo superficiale, in funzione anti-cattolica. Uno dei massimi storici europei del fenomeno, il francese René Weis, interpreta l’adesione a quell’eresia come il bisogno del credente medievale di tornare agli ideali evangelici, in un’epoca dominata dal potere ecclesiastico, spesso corrotto. Fu lo stesso Bernardo di Chiaravalle a condurre una storica missione in Occitania: lo stile di vita dei càtari è esemplare, riferì al Papa il futuro San Bernardo, auspicando che il clero cattolico abbandonasse lussi e privilegi. Il pontefice non era dello stesso avviso: Innocenzo III bandì addirittura una crociata, in terra europea, per stroncare un’eresia che – attraverso l’adesione della classe dirigente, l’aristocrazia e la nascente borghesia artigianale e mercantile – metteva in pericolo il potere del Papato. Fonti storiche citate da Weis parlano addirittura di mezzo milione di morti, fra Crociata Albigese e Inquisizione. La tragedia scoppiò nel 1209, quando la cittadina rivierasca di Béziers, in Linguadoca, si oppose al diktat dei crociati: volevano che Béziers consegnasse loro i 200 eretici riparati fra le mura. Di fronte al rifiuto dei consoli, l’abate Arnaud Amaury – capo spirituale della crociata – reagì nel modo più spietato: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».La tradizione storiografica parla di migliaia di vittime. Lo choc per lo sterminio dell’intera popolazione di Béziers spinse il potente Re d’Aragona, Pietro II, a scendere in battaglia a fianco del conte di Tolosa, che difendeva – di fatto – la libertà di culto nelle terre occitane. Pietro II perse la vita nel 1213 combattendo cavallerescamente nella battaglia di Muret, ma la crociata devastò la regione fino al 1229. Si arrese Tolosa, ma non i suoi alleati: i cavalieri “faidits”, messi al bando, si rifugiarono nei castelli di montagna sui Pirenei, per proteggere gli eretici in fuga. Nel 1244, dopo nove mesi di assedio, cadde la fortezza di Montségur. L’ultima notte prima della resa, donne e soldati vollero ricevere il “consolamentum”, il battesimo càtaro, ben sapendo cosa li avrebbe attesi, l’indomani: furono 220 le persone arse vive nella spianata ai piedi del castrum, in quello che ancora oggi porta il nome di “Prat dels Cremats”. I càtari? Un fantasma scomodo: erano nullatenenti, vivevano di carità. Non veneravano nessun libro sacro: per loro, l’Antico Testamento (con la sua “terra promessa”) era opera del Dio Straniero. Non avevano neppure chiese, né templi: irriducibilmente anarchici, rifiutavano qualsiasi struttura organizzata. La comunità càtara, pur articolata in diocesi, non disponeva di beni materiali.Il Catarismo aborriva la dimensione materiale del vivere, ripudiando la materia come “prigione dello spirito”: riparlarne oggi forse non è casuale, nel momento in cui è la stessa fisica a diffidare della percezione spazio-temporale, mentre la comunità scientifica rivaluta l’esegesi non teologica dei cosiddetti testi sacri. Lo stesso Mauro Biglino, che traduce la Bibbia alla lettera «scoprendo che in quelle pagine non c’è nessun Dio», ricorda che il “format” cattolico (con i suoi dogmi) si affermò soltanto nel 325 dopo Cristo, per il volere politico dell’imperatore Costantino, «a spese di tutti gli altri Cristianesimi dell’epoca, che erano decine, a partire da quelli gnostici». In quella corrente si colloca certamente il Catarismo, che invoca la divinità “celeste” con queste parole: «Facci conoscere ciò che Tu conosci». Per i càtari, il vero Graal è, appunto, la conoscenza, al quale il credente può aspirare in modo autonomo, senza alcuna mediazione sacerdotale. Di fatto, il Catarismo nega alla religione il ruolo di struttura sociale al servizio del potere politico: i Buoni Cristiani proibivano di giurare, in un’epoca in cui proprio sul giuramento si fondava l’investitura feudale, e non riconoscevano alcuna legittimazione alle autorità terrene, né ai confini tra le nazioni.L’atteso lavoro cinematografico di Fredo Valla si basa su fonti storiche e dati d’archivio, nonché su consulenze autorevoli come quella di Maria Soresina e del Centro Ivan Dujčev di Sofia, una delle più importanti istituzioni accademiche bulgare, senza dimenticare il Cirdoc, la Mediateca Occitana di Béziers e l’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il documentario sarà completato grazie al contributo fondamentale del crowdfunding: anche una piccola donazione può essere importante, per una produzione che accanto a Valla (autore e regista) vede impegnati Andrea Fantino ed Elia Lombardo (fotografia, suono, montaggio) con Ines Cavalcanti della Chambra d’Oc (produzione). «Abbiamo deciso di lanciare questa campagna di crowdfunding per condividere il nostro lavoro di ricerca e continuarlo in Occitania, dove nasce la parola “bogre”, e dove in fondo nasce il nostro film documentario». Proprio l’attuale Midi francese sarà la tappa più importante del viaggio. «Abbiamo intenzione di mantenere un metodo di lavoro attento alla storiografia e ai documenti più attendibili», assicura il regista. «Vogliamo che la storia di “Bogre” contribuisca alla storia dei “bogre”, di chi quel nome se l’è trovato appiccicato come un insulto dal momento in cui ha scelto una fede diversa da quella dominante». Una storia di idee che camminano, e che lottano per non essere dimenticate.«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora cementato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».
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Il segreto del Pellicano: tutta la verità è qui, ma in incognito
Può accadere che, di colpo, tutto quello che credevamo di sapere non valga più. Vacillano certezze in ogni campo della conoscenza, protette dalla scuola e dalla scienza ufficiale, al riparo della grande cornice culturale del materialismo. La prima crepa può aprirsi davanti al Cenacolo di Leonardo, se un anziano professore ti tira per la giacca, ansioso – chissà perché – di confidarti qualcosa. Comincia allora un viaggio avventuroso e anche pericoloso, che assomiglia al volo del Pellicano: la tua vita finisce in pezzi, poi all’improvviso risorge. E tu, nel frattempo, sei diventato un’altra persona: rinata dalle tue ceneri, come la Fenice. E’ quanto accade al grafico Giulio Cortesi, in crisi con il lavoro e con la moglie, nelle retrovie della Milano del 2005. Finirà ipnotizzato da grandi pittori: un misterioso quadro del Caravaggio ma, soprattutto, le opere del Giorgione. Segreti da decifrare, con l’aiuto di inattesi personaggi spuntati dal nulla, tra Milano e Torino, attorno a una ragazza affascinante. Chiave di volta, alla fine, un anziano monaco dell’abbazia di Chiaravalle, custode di un labirinto. Si dipana allora il filo di un sapere “altro”, condiviso dai padri della scienza moderna ma tenuto risolutamente nascosto: la verità è tra noi, ma in incognito.E’ la convinzione a cui approda lo stesso Cortesi al termine del romanzo a cui Gianfranco Carpeoro affida la «storia realmente accaduta di una leggenda», quella dei Rosacroce, gli uomini che proprio nel Pellicano – uccello che, simbolicamente, si trafigge il petto per resuscitare i suoi pulcini, nutrendoli col suo sangue – videro l’emblema e il messaggio del Cristo, la necessità del sacrificio per conquistare l’immortalità. Un allievo di Carpeoro, il saggista Michele Proclamato, in questi anni sta fornendo brillanti ricostruzioni dei valori simbolici che ci circondano, tutti ispirati al “sapere segreto” simboleggiato dal Tempio di Salomone, da cui il genio di Isaac Newton, padre della fisica moderna ma innanzitutto alchimista, trasse le sue intuizioni cardinali, sulla via già percorsa da uomini come Ruggero Bacone, che forse inventò i primi occhiali già nel ‘200. Da Dante a Mozart, da Tommaso Moro a Cartesio: quali conoscenze li accomunavano? Le stesse dei massimi pittori del Rinascimento, a partire da Giorgione: che, a quanto pare, era al corrente della teoria eliocentrica già mezzo secolo prima delle tesi di Copernico.La fonte di questa “conoscenza segreta” è antichissima: ve n’è traccia nell’incontro biblico tra Abramo e il misterioso Melchisedek, nell’adorazione dei Magi (l’ombra del mazdeismo di Zoroastro, poi dei Sufi), e quindi nella storica missione di San Giacomo e Giuseppe d’Arimatea, impegnati a esportaere il cristianesimo in Europa. Sono i misteri nei quali – partendo dal rebus in forma in puzzle costituito dall’opera pittorica di Giorgione – Giulio Cortesi finisce per inoltrarsi, nella scomoda posizione di indiziato di omicidio. Tra un menù e l’altro – Cortesi è un inguaribile gourmet – dovrà innanzitutto convincere della sua innocenza il ruvido commissario di polizia che indaga su di lui. E finirà col collaborare in modo imprevedibile alle indagini, fornendo intuizioni ricavate proprio dal mondo esoterico che il grafico milanese va scoprendo, aiutato dai consiglieri-ombra che gli procurano indizi nascosti in libri rari, dove il messaggio che conta è sempre mimetizzato, da cogliere tra le righe, seguendo meccanismi analogici e significati annidati tra i numeri.Una doppia ricerca, quindi, scandita dal ritmo incalzante del thriller, non senza pagine di autentica, spassosa comicità come quelle che narrano un divertente ferragosto trascorso nelle discoteche di Ibiza (oltre alla cucina, la musica è l’altra traccia parallela del romanzo). Ma, anziché intrecciare fantasie alla maniera di Dan Brown, Carpeoro utilizza lo stesso spunto il partenza – l’Ultima Cena – per andare alla scoperta di una storia vera, una “leggenda realmente accaduta”, lungo itinerari dove si incrociano Paracelso e Giordano Bruno, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio, Hugo e Goethe, fino a Steiner e oltre. Uomini di fede, alchimisti, matematici, astronomi e astrologi, filosofi, proto-scienziati, artisti. Tutti esoteristi, impegnati, attraverso i secoli, a prolungare il “volo del Pellicano”: velando sempre, come Giorgione, la suprema verità sulla “matrice dell’universo”, la stessa su cui oggi la fisica quantistica si starebbe affacciando. La legge sacra, la genesi della vita. E’ il cielo senza tempo, attraversato dal volo del Pellicano.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il volo del Pellicano”, Melchisedek, 500 pagine, 26 euro).Può accadere che, di colpo, tutto quello che credevamo di sapere non valga più. Vacillano certezze in ogni campo della conoscenza, fino a ieri protette dalla scuola e dalla scienza ufficiale, al riparo della grande cornice culturale del materialismo. La prima crepa può aprirsi davanti al Cenacolo di Leonardo, se un anziano professore ti tira per la giacca, ansioso – chissà perché – di confidare qualcosa proprio a te. Comincia allora un viaggio avventuroso e anche pericoloso, che assomiglia al volo del Pellicano: la tua vita finisce in pezzi, poi all’improvviso risorge. E tu, nel frattempo, sei diventato un’altra persona: rinata dalle sue ceneri, come la Fenice. E’ quanto accade al grafico Giulio Cortesi, in crisi con il lavoro e con la moglie, nelle retrovie della Milano del 2005. Finirà ipnotizzato dal segno dei grandi pittori: un misterioso quadro del Caravaggio ma, soprattutto, le opere del Giorgione. Segreti da decifrare, con l’aiuto di inattesi personaggi spuntati dal nulla, tra Milano e Torino, attorno a una ragazza affascinante. Chiave di volta, alla fine, un anziano monaco dell’abbazia di Chiaravalle, custode di un labirinto. Si dipana allora il filo di un sapere “altro”, condiviso dai padri della scienza moderna ma tenuto risolutamente nascosto: la verità è tra noi, da sempre, ma in incognito.