Archivio del Tag ‘Maurizio Sacconi’
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Ingroia: l’astensionismo è un progetto politico del potere
Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.Nei toni dell’assemblea costitutiva della lista, svoltasi a Roma il 16 dicembre, si coglie ormai la piena consapevolezza della catastrofe incombente: «Non è affatto escluso il rischio, per l’Italia, di essere commissariata in modo anche formale, esattamente come la Grecia». C’è un Rubicone da varcare: «Adesso o mai più, perché domani sarebbe tardi», sostiene Ingroia, spronando i volontari verso quella che appare una missione quasi impossibile: raccogliere da subito migliaia di firme, in pochissimi giorni, sperando di riuscire a presentare effettivamente la lista in tempo per le politiche del 4 marzo. Alla guida di “Rivoluzione Civile”, nel 2013 Ingroia fallì l’obiettivo: raccolse solo il 2% dei suffragi, restando al di sotto della soglia di sbarramento. Stavolta è diverso, sostiene: la crisi morde, la situazione italiana è peggiorata in modo drammatico. Per questo, dice l’ex magistrato, sarà più facile trovare interlocutori. Lo stesso Ingroia è pervenuto a conclusioni ben diverse da quelle di quattro anni fa: oggi infatti dichiara che, senza sovranità monetaria e sotto il peso perdurante dei trattati europei, nessun partito potrebbe mantenere quello che promette. Lui cosa annuncia? L’abolizione della legge Fornero, la rimozione del pareggio di bilancio della Costituzione, la cancellazione del Jobs Act. Smarcarsi dalla Nato, ma soprattutto da Bruxelles: rinegoziare i trattati-capestro, o addio Unione Europea.Prodi e D’Alema? «Sono proprio loro ad aver sottoscritto il Trattato di Lisbona», dice Ingroia: sono i veri responsabili del disastro, nascosti dietro un’etichetta “di sinistra” che, tagliando i viveri allo Stato, espone l’Italia al massacro sociale, alla fine del welfare e dei diritti del lavoro, alla carneficina delle privatizzazioni selvagge. «Siamo un paese impaurito, preda della paura, e questo nostro progetto politico è soprattutto un atto di coraggio», dichiara Ingroia, citando Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Insiste Ingroia: «Ci vogliono audacia e coraggio per affrontare un’impresa che, non possiamo nascondercelo, è molto difficile». Primo step: riuscire davvero a presentare le liste. Poi: superare lo sbarramento del 3%. «Non ce la faranno mai», è la profezia televisiva di Maurizio Crozza. Ovviamente Ingroia non è dello stesso avviso: «Puntiamo a crescere fino al 60%, rispondendo alla maggioranza degli italiani che ormai ha smesso di votare. L’astensionismo? Fa comodo al potere: meno saremo, e più sarà facile controllarci». Il nemico? «Un sistema politico-finanziario corrotto e mafioso». I partiti? Nessuno affronta il toro per le corna. E in più «hanno tutti paura di noi», dice Ingroia, convinto che il mainstream politico stia sottovalutando la sua “Mossa del Cavallo”.«Vogliono ricacciarci nell’astensionismo – insiste l’ex magistrato – perché è perfettamente funzionale all’élite internazionale, che intende continuare a utilizzare, per i suoi scopi, la piccola élite rappresentata dalla classe dirigente nazionale», che a sua volta agisce «attraverso un’élite di elettori-militanti schierati, quindi controllabili». Aggiunge: «Il crescere dell’astensionismo è un progetto politico, che mira a ridurre il numero dei votanti: meno sono, e meglio sono controllabili». Ingroia spera di «trasformare la disperazione in rivoluzione, la rabbia in progetto». Il mitico 60%? «Un sogno, ovviamente, che però – non domani – potrebbe anche trasformarsi in realtà, a patto di riuscire a infondere fiducia in questa Italia spaventata». A proposito di coraggio, Ingroia cita il massone Martin Luther King, riprendendo la frase che lo stesso eroe americano dei diritti civili prese da un altro massone progressista, lo scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe: «Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Con le parole di un terzo massone, il rosacrociano Gandhi, Ingroia formula il suo auspicio: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci».Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.
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Dalla Francia, campane a morto per la dittatura dell’Ue
Sono settimane che in un crescendo straordinario di mobilitazione, lavoratori, studenti, sindacati e nuovi movimenti tengono in scacco il governo francese. Pierre Moscovici, commissario Ue e compagno di partito di Hollande, ha speso la sua autorità europea per sostenere, contro la rivolta di popolo, la “Loi Travail”, la legge che copia il Jobs Act di Renzi e la precedente legge Fornero, liberalizzando i licenziamenti economici. E che soprattutto cancella il contratto nazionale rendendo più forti i contratti aziendali, cosa già possibile da noi con l’articolo 8 della legge Sacconi, fatto proprio da diversi accordi sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil, che rende valide le “deroghe”, cioè il peggioramento, delle regole dei contratti nazionali in sede aziendale. Tutto il lavoro che ha fatto funzionare Expo a Milano è stato regolato secondo queste deroghe. Queste due misure, libertà di licenziamento e superamento dei contratti nazionali, erano già tra i punti programmatici fondamentali indicati al governo italiano il 5 agosto del 2011 dalla lettera di Draghi e Trichet, a nome della Banca Centrale Europea.Sono oggi nelle raccomandazioni e nei diktat che la Ue e la Troika rivolgono verso i paesi che devono aggiustare i conti. Quando Moscovici sostiene che la regolazione liberista del lavoro che Hollande vuole imporre in Francia è quella che esige l’Unione Europea, dice la verità. In Italia la passività e la complicità dei gruppi dirigenti di Cgil, Cisl, Uil, unite al logoramento dei movimenti di massa, alla autodistruzione della sinistra radicale e a un più generale clima di dissolvimento dello spirito democratico, di cui il “renzismo” è solo l’ultimo prodotto, hanno permesso che simili misure passassero sostanzialmente senza ostacoli. In Francia, invece, per la seconda volta dopo la Grecia, assistiamo a una ribellione generalizzata contro le regole economiche e sociali che governano l’Europa. Dopo il No popolare per ora sconfitto in Grecia dopo la resa di Tsipras, la rivolta francese parla di nuovo a tutta l’Europa. E lo fa con la voce di un popolo che nella storia del nostro continente ha spesso suonato quella campana che poi hanno sentito tutti.Il maggio 2016 in Francia ricorda come progressione della mobilitazione quello del 1968 ed è un segnale di sovvertimento generale degli equilibri di potere del continente. Segnale tanto più significativo in quanto la rivolta è contro un governo socialista. Socialisti, democristiani, conservatori, sono oggi le forze politiche che, spesso assieme e sempre con le stesse politiche liberiste, gestiscono il potere della Unione Europea. Merkel, Hollande, Cameron, Renzi sono oramai parte dello sistema di potere, per questo la rivolta francese, quale che sia il suo risultato finale, segna un punto di svolta e rottura. Rottura che si è realizzata nella piccola Austria, dove da destra e da sinistra gli elettori hanno mandato a picco democristiani e socialisti al governo da sempre. La stessa rottura, e anche qui il risultato non sarà la sola cosa a contare, ci sarà a giugno con il referendum sulla Brexit e, seppure in un contesto diverso, da noi in ottobre con quello sulla controriforma costituzionale. È tutto il sistema europeo che scricchiola e lo fa sotto l’estendersi del rifiuto e della contestazione popolare. È una crisi da accogliere con gioia.Sono convinto che, in un futuro speriamo più vicino possibile, ci si chiederà con compassione e incredulità come sia stato possibile che le decisioni fondamentali di paesi formalmente democratici siano state sottoposte al vaglio e al giudizio meticoloso di controllori esterni. Come sia stato possibile che i parlamenti abbiano accettato di rinunciare alla propria sovranità per delegarla ad autorità esterne non elette da nessuno. E soprattutto ci si chiederà come sia stato possibile che le decisioni sul lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sul sistema produttivo, sulle stesse regole democratiche, siano state prese in funzione del giudizio su di esse da parte di sconosciuti burocrati installati a Bruxelles dai partiti in condivisione con le banche e il potere economico multinazionale. Ci si chiederà come sia stato possibile rinunciare a decidere sugli aspetti fondamentali della propria vita sociale, economica e politica, accettando il potere quasi assoluto di una entità astratta chiamata Europa. Entità astratta dietro la quale si sono nascosti gli interessi concreti delle élite economiche, delle classi più ricche e delle caste politiche e burocratiche di tutti paesi del continente.Tutte queste élite non avrebbero mai avuto la forza di imporre paese per paese, ognuna direttamente contro il proprio popolo, quella drammatica distruzione delle conquiste sociali e democratiche che oggi stiamo vivendo. Da sole non ce l’avrebbero fatta a smantellare la più importante conquista dei popoli del continente, il patrimonio storico politico che l’Europa avrebbe dovuto accrescere e contribuire a estendere in tutto il mondo: lo Stato sociale. Lo Stato sociale era stato sancito dalle costituzioni antifasciste del dopoguerra. Quelle costituzioni che, come la nostra, si erano date l’obiettivo non della semplice eguaglianza giuridica contenuto nei vecchi statuti liberali, ma quello della eguaglianza sociale. Questo sistema costituzionale non poteva piacere alla finanza internazionale. Nel 2013 la Banca Morgan aveva affermato in un suo documento ufficiale che le costituzioni antifasciste, con la loro marcata impronta sociale, erano un ostacolo verso il pieno dispiegarsi della controriforma liberista. Bisognava abbatterle e a questo è servito il nuovo mantra della politica senza alternative: lo vuole l’Europa!Non c’è sciocchezza ideologica più fuorviante dell’affermazione secondo la quale il limite del progetto europeo è che esso sia solo economico e non politico. È vero sostanzialmente il contrario. Il sistema europeo è un sistema politico, costruito per agevolare il dominio dei mercati sulle nostre vite e per affermare il liberismo estremo nelle relazioni economiche e sociali. La costituzione della Unione Europea, i trattati e i patti che la istituiscono e governano, da quello di Maastricht al Fiscal Compact, disegnano l’architettura rigorosa di un sistema di potere con scopi chiarissimi. L’articolo uno reale della costituzione della Unione Europea, se paragonato a quello equivalente di quella italiana, suona così: “L’Unione Europea è una oligarchia fondata sul mercato, la sovranità appartiene al potere economico e finanziario che la esercita secondo le regole della competitività e del massimo profitto”.La rivolta dei lavoratori e dei giovani francesi sconvolge la costituzione reale dell’Europa e segna l’avvio della sua crisi. I popoli hanno cominciato a capire la verità di fondo di questo sistema europeo e cioè che esso non è riformabile, può solo essere rovesciato. La Ue può solo produrre Jobs act in Italia, Loi Travail in Francia ,Memorandum in Grecia. Altro non sa e non può fare. La campana francese suona a morto per l’Unione Europea delle banche e dell’austerità e tutti popoli europei non possono che festeggiare. E prepararsi a seguire l’esempio degli scioperanti francesi.(Giorgio Cremaschi, “La campana della Francia suona per tutti i popoli europei”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 28 maggio 2016).Sono settimane che in un crescendo straordinario di mobilitazione, lavoratori, studenti, sindacati e nuovi movimenti tengono in scacco il governo francese. Pierre Moscovici, commissario Ue e compagno di partito di Hollande, ha speso la sua autorità europea per sostenere, contro la rivolta di popolo, la “Loi Travail”, la legge che copia il Jobs Act di Renzi e la precedente legge Fornero, liberalizzando i licenziamenti economici. E che soprattutto cancella il contratto nazionale rendendo più forti i contratti aziendali, cosa già possibile da noi con l’articolo 8 della legge Sacconi, fatto proprio da diversi accordi sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil, che rende valide le “deroghe”, cioè il peggioramento, delle regole dei contratti nazionali in sede aziendale. Tutto il lavoro che ha fatto funzionare Expo a Milano è stato regolato secondo queste deroghe. Queste due misure, libertà di licenziamento e superamento dei contratti nazionali, erano già tra i punti programmatici fondamentali indicati al governo italiano il 5 agosto del 2011 dalla lettera di Draghi e Trichet, a nome della Banca Centrale Europea.
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Superlavoro e licenziamenti, la Cgil vi condanna al peggio
Con la firma dei contratti del commercio e dei bancari la Cgil, fieramente schierata contro il Jobs Act, lo ha nei fatti sottoscritto, applicato e persino interpretato creativamente. Il contratto del terziario peggiora i due contratti precedenti che la Cgil aveva avuto il coraggio di non sottoscrivere. Si potrebbe fare un elenco di tante piccole e grandi angherie verso i lavoratori che vengono confermate, ma credo basti sottolineare che il lavoro domenicale diventa regola e obbligo. Particolare attenzione è stata poi rivolta alla clausola di flessibilità, che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane senza neanche pagargli lo straordinario. Con 5 milioni di disoccupati, aumentare l’orario di lavoro è proprio una bella sensibilità sociale, ma c’è di peggio. A livello aziendale o territoriale sarà possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno. Metà dell’anno si lavorerà con gli orari previsti dalla legge del 1923, senza neppure che sia riconosciuto lo straordinario.La Cgil nel passato si arrabbiò molto con il ministro berlusconiano Sacconi che aveva promosso il regime delle deroghe aziendali ai contratti nazionali. Ora sottoscrive una doppia deroga sugli orari di lavoro, realizzando un altro punto della famosa lettera di Draghi e Trichet, che nel 2011 dettarono ciò che si doveva fare in Italia per obbedire alla Troika. Il Jobs Act prevede il demansionamento, cioè la possibilità per la aziende di degradare i lavoratori. Il contratto del commercio lo permette in via anticipata, cioè si potranno assumere a termine disoccupati con due qualifiche al di sotto della mansione effettivamente svolta. Cosa non si fa pur di dare lavoro, Poletti e i supermercati sono commossi. Naturalmente gli enti bilaterali, cioè gli strumenti del peggiore consociativismo sindacale, e mi fermo qui, vengono rafforzati. Quello di fare enti è l’unico diritto che resta, perché è dei sindacati e non dei lavoratori. Se il contratto del commercio è soprattutto il veicolo di ogni flessibilità a carico di chi lavora, quello dei bancari corre in soccorso di una esigenza di fondo delle imprese, quella di tagliare il personale e ristrutturarsi con meno costi possibili. Uno privilegia la flessibilità in entrata, l’altro quella in uscita, ma la logica è sempre la stessa.Tutti sappiamo che la politica economica dei governi italiani ed europei ha un occhio di particolare riguardo per il sistema bancario, che viene sostenuto in tutti i modi con i nostri soldi. Lo stesso sostegno ai poveri banchieri lo fornisce per la sua parte l’accordo appena sottoscritto. Le banche potranno più serenamente licenziare, perché assumono l’impegno di prendere in considerazione i licenziati per eventuali nuove assunzioni. Hanno il via libera per le terziarizzazioni in tante belle newco, realizzate magari con la fusione di quelle banche popolari scalabili grazie alla riforma di Renzi. Si riducono i costi e il valore delle liquidazioni dei dipendenti così le banche risparmiano, ma per dare un contentino si afferma che i lavoratori dismessi in nuove società continueranno ad avere l’articolo 18. E qui c’è una mela avvelenata, perché con questa clausola il contratto dei bancari riconosce di fatto il rapporto di lavoro a tutele crescenti. Se infatti si esclude di applicarlo ai terziarizzati e solo a quelli, si accetta che sia pienamente applicabile a tutti gli altri che verranno assunti. Come sempre le eccezioni confermano la regola.È questa la realizzazione di quanto il gruppo dirigente della Cgil aveva promesso nelle piazze del 12 dicembre scorso? La lotta al Jobs Act si riduce a individuare le persone esentate dai suoi danni? Questi contratti distruggono bel po’ di diritti in cambio di un aumento di 85 euro lordi distribuiti su diversi anni. Un aumento mensile di 13 euro netti nella busta paga ogni anno non mi pare uno scambio equo rispetto a ciò che i lavoratori restituiscono. In effetti per un dipendente di un grande magazzino e di una banca sarebbe molto più conveniente vedersi prolungare il contratto precedente con zero aumenti, piuttosto che un rinnovo come questo. E infatti sono le aziende che festeggiano gli accordi. Perché allora i grandi sindacati firmano queste porcherie? Semplice, lo fanno per sopravvivere come grandi organizzazioni burocratiche, ma questo loro modo d’agire finisce proprio per rafforzare Renzi e le sue politiche.Non so se Landini si riferisse ad accordi come questi quando ha parlato di crisi sindacale, però non l’ho sentito contestare una frottola che oggi va per la maggiore e che serve a giustificare le politiche di flessibilità e precarietà. In ogni talkshow ad un certo punto c’è chi afferma che la colpa principale delle grandi confederazioni sia quella di difendere i sindacalizzati e non i precari. È falso. Cgil, Cisl e Uil in questi anni hanno firmato accordi che progressivamente hanno ridotto i diritti dei propri rappresentati, e per questo non hanno difeso neanche i precari. Come facevano ad estendere ciò a cui un po’ alla volta rinunciavano? Oggi più che mai il lavoro in tutte le sue forme ha bisogno di organizzarsi in sindacato per difendersi. Ma il sindacato che serve non è certo quello che firma contratti come quelli del commercio e dei bancari. No, quei sindacati che senza un minuto di sciopero firmano la resa e poi affermano di avere vinto fanno solo danno. Per ricostruire i diritti del lavoro ci vogliono organizzazioni e strategie diverse da quelle che ci hanno portato sino al disastro attuale.(Giorgio Cremaschi, “La finta opposizione della Cgil che firma il Jobs Act”, da “Micromega” del 2 aprile 2015).Con la firma dei contratti del commercio e dei bancari la Cgil, fieramente schierata contro il Jobs Act, lo ha nei fatti sottoscritto, applicato e persino interpretato creativamente. Il contratto del terziario peggiora i due contratti precedenti che la Cgil aveva avuto il coraggio di non sottoscrivere. Si potrebbe fare un elenco di tante piccole e grandi angherie verso i lavoratori che vengono confermate, ma credo basti sottolineare che il lavoro domenicale diventa regola e obbligo. Particolare attenzione è stata poi rivolta alla clausola di flessibilità, che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane senza neanche pagargli lo straordinario. Con 5 milioni di disoccupati, aumentare l’orario di lavoro è proprio una bella sensibilità sociale, ma c’è di peggio. A livello aziendale o territoriale sarà possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno. Metà dell’anno si lavorerà con gli orari previsti dalla legge del 1923, senza neppure che sia riconosciuto lo straordinario.
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German Act, agonia europea imposta dalle banche tedesche
Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. Dagli anni ’90 i socialisti europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale, abbracciando così l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia, alla finanza che disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e la Legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele esecutore della Troika. Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles.La sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più. Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e un’opposizione solida in Parlamento. In Europa, “Podemos” e Syriza rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa che la maggioranza degli elettori dell’Eurozona preferisce lo status quo, purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive e del rigore.La sinistra in Italia? Il futuro non è prevedibile, bisogna costruirlo. E di certo nel paese esistono milioni di persone mosse da ideali e sensibilità di sinistra, alla ricerca di una nuova modalità di aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi, diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi, mentre Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in un’Europa delle diseguaglianze, che necessita di alcuni urgenti interventi. Al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione non vuole modificare la propria linea economica, con Juncker sostenuto convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito Fiscale (Ccf) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica.Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”? Il termine colonia è un po’ forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i paesi con tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario – quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di queste imposizioni sono volute dalla Germania. Dietro alla durezza del governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri paesi dell’Europa del Sud, e anche la Francia: è sempre la seconda economia dell’Eurozona e ha legami storici con la Germania dai tempi di Mitterrand, ma ha subito forti pressioni ed è stata costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio paese le misure d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15 milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati 15 ore alla settimana per 450 euro al mese. E 15 milioni è circa un quarto della forza lavoro tedesca.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act, una pericolosa riforma di destra”, pubblicata da “Micromega” il 2 dicembre 2014).Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
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Lavoratori all’inferno: grazie a Renzi, ma anche alla Cgil
Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».Da molto tempo, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la propaganda sistemica giustifica lo smantellamento delle difese dei lavoratori e utilizza in modo subdolo i temi della precarietà e della disoccupazione, come se non fosse proprio il sistema ad aver diffuso precari e disoccupati. Oggi, al colmo dell’ipocrisia, con Renzi si arriva a denunciare la “spaccatura” nel mercato del lavoro italiano, «una tripartizione che genera squilibri e ingiustizie sociali, non producendo alcun effetto positivo per la produzione, i redditi e i consumi». Resiste una quota di lavoro ancora “garantito”, tutelato dalla legge e dallo Statuto dei Lavoratori degli anni ‘70, ma «sta diventando sempre di più l’ultima “ridotta”, particolarmente nel pubblico impiego, dei diritti e delle tutele concesse ai lavoratori». Secondo Orso «è destinato progressivamente a scomparire, perché troppo “oneroso”, sia in termini di costi, sia in termini di “privilegi” concessi ai lavoratori protetti, in ossequio agli interessi degli agenti strategici neocapitalistici, ben tutelati dai loro servitori politici locali».Il lavoro stabile è stato il bersaglio di attacchi continui e reiterati (da Sacconi, Brunetta e Renzi), e addirittura di insulti e di criminalizzazione (Ichino e i “nullafacenti” della pubblica amministrazione). L’impiego garantito e a tempo indeterminato «è contrario all’ideologia neoliberista dominante e, per tale motivo, deve essere portato a estinzione». Spiega Orso: «La stabilità del lavoro e le garanzie offerte dal comunismo, dal fascismo e dal keynesismo postbellico non appartengono in alcun modo alla liberaldemocrazia di mercato, espressa dal grande capitale finanziario». Così il lavoro è diventato sempre più «precario, flessibile, interinale», introdotto ufficialmente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e dilagato progressivamente nei Duemila, «figlio naturale del cosiddetto toyotismo». Dal “just in time”, varato negli anni ‘70 dalla Toyota per razionalizzare le scorte, si è deciso di estendere il “toyotismo” e di pagare i lavoratori esclusivamente per il tempo di lavoro, utilizzando il “servizio lavorativo” quando necessario per esigenze produttive.«Da questo punto di vita, chiaramente economico e di organizzazione della produzione – continua Orso – l’imposizione del lavoro precario mira a razionalizzare l’uso del fattore-lavoro comprimendone all’estremo i costi, come nel caso delle materie prime, dei pezzi da assemblare, delle scorte, dei semilavorati». A questo punto, «è chiaro che il precario non è un cittadino, nel mondo neocapitalistico, ma soltanto l’anonimo prestatore di un servizio lavorativo, che si tende a pagare sempre meno». Quella dell’imposizione di soli contratti a termine e precari, «in un progressivo e rapido evaporare dei diritti», è la strada scelta «dagli agenti strategici neocapitalistici per l’Italia, ed è esattamente la consegna che hanno dato ai lacchè subpolitici, come Matteo Renzi». Infine – terza categoria – resta il lavoro nero, cioè «senza oneri contributivi e prelievi fiscali, senza alcuna garanzia e diritto». Di fatto, «realizza il massimo della flessibilità-precarietà del lavoratore, alimenta l’evasione e garantisce un significativo risparmio di costi». Col declino industriale e la disoccupazione galoppante, però, «anche il lavoro nero entra in crisi, riducendosi il numero degli occupati, non pagando i lavoratori e aumentandone lo sfruttamento».Se questa è la situazione, conclude Orso, ecco invece che Renzi «spergiura di voler rinnovare il mercato del lavoro dalle fondamenta, introducendo un nuovo contratto d’ingresso che partirebbe da una condizione di precarietà per arrivare alle chimeriche tutele». Il Rottamatore «dichiara di voler semplificare e di voler estendere le opportunità di lavoro anche a chi oggi ne è escluso». Ma sono «dichiarazioni chiaramente mendaci», dal momento che «nascondono l’unico esito possibile della riforma: rendere il lavoro precario contrattualizzato assolutamente prevalente». La Cgil, messa con le spalle al muro, non può approvare il “piano lavoro” renziano apertamente: «Deve fingere di attaccarlo, deve contestarlo con enfasi e risonanza mediatica». Per questo «si erge a difesa di quel vecchio simulacro che ormai è diventato lo Statuto dei Lavoratori, che ancora sbarra la strada, con l’articolo 18, ai sogni liberisti, europeisti “alla Benigni”, occidentali, di libertà, cioè, nel concreto, alla realizzazione di una precarietà assoluta e generale».Sicché, quello tra Renzi e Camusso è «uno scontro fra “parenti serpenti”, disposti a coprirsi a vicenda di contumelie, a fronteggiarsi tirandosi piatti e soprammobili ma uniti da vincoli “di sangue” e di appartenenza». Più che altro, è «l’ennesima recita infarcita di imbrogli, finzione e malafede, per truffare gli italiani». Dal canto suo, Renzi la pensa esattamente come i boss dell’élite tecno-finanziaria, da Draghi a Juncker alla Lagarde, «a lui ideologicamente affini», anche se «nega di aver in mente Margaret Thatcher quando si parla del lavoro». Infatti, aggiunge Orso, «possiamo scommettere che non incontrerà una resistenza sanguinosa come quella opposta alla Thatcher dai minatori britannici di Arthur Scargill, dal 1984 al 1985». Al più, sulla strada di Renzi spunteranno «le blande resistenze di maniera della Cgil all’abolizione dell’articolo 18». Il premier dichiara di pensare a “Marta”, piccola fiammiferaia precaria, e a tutti i giovani a quali in questi anni non ha pensato nessuno. Giovani «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito», peraltro, «preoccupandosi soltanto dei diritti di qualcuno e non dei diritti di tutti».Nuove regole per ciascuno, dice Renzi, per incoraggiare investimenti produttivi stranieri: verranno le multinazionali a dare un lavoro a chi non ce l’ha. Peccato che, a quel punto, «il lavoro sarà debitamente flessibilizzato, offerto a prezzi stracciati e a condizioni di semi-schiavitù». Renzi è felice, come ha dichiarato più volte, se i grandi squali “investono” in Italia, facendo lo shopping di aziende a prezzi di fine stagione, anche se poi chiudono e spostano le produzioni in Estremo Oriente o nell’Europa dell’Est. E ai sindacati che vogliono contestarlo, Camusso e Landini, il Rottamatore dice: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario. E soprattutto tra chi non può neanche pensare a costruirsi un progetto di vita, perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti che ci interessano, e noi li difenderemo in modo concreto e serio.«Commovente: i diritti di chi non ha diritti», chiosa Orso. «Una frase di sicuro effetto, alla Papa Francesco». Così, “per difendere gli ultimi”, si abolisce la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti “a tutele crescenti”, «in modo tale che l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre e comunque precario». A questo, forse, non aveva pensato neppure Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle “nuove Br”. Da consigliere ministeriale, «ha contribuito a inoculare il virus della precarietà nella società italiana». Renzi sarà altrettanto efficace? «Su una cosa, però, ha ragione l’imbonitore fiorentino, in polemica strumentale con la Cgil», conclude Orso: «Ciò che è accaduto ai lavoratori negli ultimi decenni, tutte le ingiustizie che hanno subito, portano anche la firma dei sindacati, che hanno favorito, in modo più o meno scoperto – scopertamente la Cisl, più subdolamente la Cgil e ancor più nascostamente la Fiom – la “discesa negli inferi” neoliberista del lavoro, siglando contratti-truffa e accordi-capestro, avallando riforme antipopolari, facendo carne di porco persino dei loro iscritti».Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.