Archivio del Tag ‘Max Weber’
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Mishra: l’età della rabbia, nell’Occidente senza più futuro
Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.Alla fine il vincitore nella Storia è uno sterile concetto di bonario Illuminismo. Nella norma, avrebbero dovuto prevalere il razionalismo, l’umanesimo, l’universalismo e la democrazia liberale. Ma sarebbe stato «chiaramente troppo sconcertante», scrive Mishra, «riconoscere che la politica totalitaria abbia cristallizzato le correnti ideologiche (razzismo scientifico, razionalismo sciovinista, imperialismo, tecnicismo, politica estetizzata, ingegnerie sociali)» che già scuotevano l’Europa alla fine del 19 ° secolo. Quindi, evocando T.S. Eliot, per poter inquadrare «quel mezzo sguardo all’indietro, sopra la spalla, verso il terrore primivito» che alla fine ha condotto all’Ovest contro il Resto del Mondo, dobbiamo tornare ai precursori. “Distruggi il palazzo di cristallo”. Prendete Pushkin, “Eugene Onegin”, «il primo di molti ‘uomini superflui’ della narrativa russa», con il suo cappello Bolivar, che tiene stretti a sé una statua di Napoleone e un ritratto di Byron, come la Russia, che tenta di recuperare il suo ritardo con l’Occidente, «gioventù senza radici, prodotto di massa con una concezione quasi “byroniana” di libertà, gonfiata ulteriormente dal romanticismo tedesco».I migliori critici dell’Illuminismo dovevano per forza essere tedeschi o russi, in ritardo nella modernità politico-economica. Dostoevsky: la società dominata dalla guerra di tutti contro tutti, dove la maggioranza era condannata a perdere. Due anni prima di pubblicare il sorprendente “Memorie dal Sottosuolo” Dostoevskij, durante il suo viaggio in Europa occidentale, aveva già osservato una società dominata da una guerra di tutti contro tutti, dove la maggior parte era condannata a perdere. A Londra, nel 1862, al Salone Internazionale al Crystal Palace, Dostoevskij ebbe un’illuminazione («E ti arriva un’idea colossale…che il trionfo e la vittoria erano lì. Quasi inizi a temere qualcosa»). Per quanto stupito, Dostoevskij fu molto acuto nell’osservare quanto la civiltà materialista si nutrisse non solo del suo proprio fascino, ma anche della sua potenza militare e marittima.La letteratura russa finì con il cristallizzare il crimine casuale come il paradigma dell’individualità che assapora l’identità e afferma la propria volontà (che poi ritroviamo nel 20° secolo nell’icona beat William Burroughs, il quale sosteneva che sparare a caso sulla folla fosse per lui il massimo del brivido). La pista era aperta: le orde di “mendicanti dissoluti” (Beggars Banquet) potevano iniziare a bombardare il Crystal Palace – anche se, ci ricorda Mishra, «gli intellettuali al Cairo, a Calcutta, a Tokyo e a Shanghai leggevano Jeremy Bentham, Adam Smith, Thomas Paine, Herbert Spencer e John Stuart Mill», per comprendere il segreto in eterna espansione della borghesia capitalistica. E questo dopo che Rousseau, nel 1749, aveva posto la prima pietra della rivolta moderna contro la modernità, ora ridotta in mille schegge, in un deserto di echi contrastanti, mentre ritroviamo il Crystal Palace riflesso in mille ghetti luccicanti in tutto il mondo.“Illuminato: sei morto”. Mishra attribuisce l’idea del suo libro a Nietzsche che commentava l’epica querelle tra l’invidioso plebeo Rousseau e il sereno aristocratico Voltaire – il quale salutò la London Stock Exchange, quando divenne pienamente operativa, come una realizzazione secolare dell’armonia sociale. Ma alla fine fu Nietzsche che si oppose in maniera esemplare, come feroce detrattore sia del capitalismo liberale che del socialismo, rendendo l’allettante promessa di Zarathustra un magnetico Santo Graal agli occhi dei bolscevichi (Lenin, tuttavia, lo detestava), della sinistra di Lu Xun in Cina, dei fascisti, degli anarchici, delle femministe e delle orde di esteti scontenti. Mishra ci ricorda anche come «gli antimperialisti asiatici e i baroni ladroni americani hanno attinto a piene mani da Herbert Spencer, il primo pensatore veramente globale», che dopo aver letto Darwin coniò il mantra della “sopravvivenza del più adatto”. Nietzsche fu l’ultimo cartografo del Risentimento. Max Weber inquadrò profeticamente il mondo moderno come una “gabbia di ferro” da cui può sfuggire solo un leader carismatico. E l’icona anarchica Michail Bakunin, da parte sua, nel 1869 aveva già concettualizzato il “rivoluzionario” come colui che recide «ogni legame con l’ordine sociale e con l’intero mondo civilizzato… Lui è il suo nemico più spietato e continua ad esistere per un unico scopo: distruggerlo».Sfuggendo all’Incubo della Storia del Modernista Supremo James Joyce – dalla gabbia di ferro della modernità, appunto – è scoppiata in modo incontrollato e ben al di fuori dei confini dell’Europa una secessione militante viscerale, «da una civiltà fondata sul progresso graduale controllato da fiduciari liberal-democratici». Ideologie anche radicalmente contrarie sono comunque sorte in simbiosi dal vortice culturale del tardo 19° secolo, dal fondamentalismo islamico al sionismo, dal nazionalismo indù al bolscevismo, dal nazismo al fascismo e al rinnovato imperialismo. Non solo la seconda guerra mondiale, ma anche l’attuale finale di partita è stato brillantemente visualizzato nel 1930 dal tragico Walter Benjamin, quando già metteva in guardia contro l’auto-alienazione del genere umano, finalmente in grado di «provare nella propria distruzione il massimo piacere estetico possibile». Gli jihadisti di oggi in streaming fai-da-te non sono altro che la sua versione pop, mentre l’Isis tenta di proporsi come negazione estrema delle miserie della modernità (neo-liberale).“L’era del Risentimento”. Tessendo flussi coloriti di politica e di impollinazioni incrociate letterarie, Mishra si prende il suo tempo per impostare la scena del Grande Dibattito tra quelle masse del mondo in via di sviluppo – la cui esistenza è stata etichettata dall’Occidente Atlantista («storie di violenza ancora largamente riconosciuta») e dalle élite della modernità liquida (Bauman) che hanno ceduto alla quella selezionata parte del mondo a cui si attribuiscono, dopo l’Illuminismo, le più grandi scoperte e innovazioni scientifiche, filosofiche, artistiche e letterarie. Questo va ben al di là di un semplice dibattito tra Est e Ovest. Non riusciremo a comprendere l’attuale guerra civile globale, questo «mix intenso di invidia e senso di umiliazione ed impotenza» post-modernista, e post-verità, se non tentiamo di «smantellare l’architettura concettuale e intellettuale dell’Occidente vincitore nella storia», che deriva dalla storia ipertrionfalista dei successi americani. Anche al culmine della guerra fredda, il teologo statunitense Reinhold Niebuhr si beffava dei «tiepidi fanatici della civiltà occidentale» e della loro fede cieca nel fatto che ogni società è destinata ad evolversi come hanno fatto, a volte, una manciata di paesi occidentali. E questo – ironia! – mentre il culto liberale internazionalista del progresso scimmiottava platealmente il sogno marxista della rivoluzione internazionale.(Pepe Escobar, “L’erà della rabbia”, da “Asia Times” del 4 febbraio 2017, tradotto da “Skoncertata63” per “Come Don Chisciotte”).Un’arma letale nel cuore e nella mente di una gioventù cosmopolita smarrita e senza radici, in cerca di un senso alla sua esistenza, mentre scivoliamo verso quella che probabilmente sarà la più lunga tra le guerre mondiali. Ogni tanto ecco che esce un libro che strappa e rapisce lo spirito del tempo, che risplende con un diamante pazzo: “L’età della Rabbia” (The Age of Anger) di Pankaj Mishra, autore del ‘precursore’ “Dalle rovine dell’Impero”, potrebbe anche essere l’ultimo avatar. Considerate questo libro come l’ultima (concettualmente parlando) arma letale nei cuori e nelle menti di una gioventù smarrita cosmopolita alla ricerca di una vera ‘chiamata’, mentre scivoliamo verso la più lunga (“infinita”, direbbe il Pentagono) tra le guerre mondiali, una guerra civile globale (che nel mio libro del 2007 “Globalistan” definivo “guerra liquida”). In sostanza, Mishra (prodotto perfetto dell’Est che incontra l’Ovest) sostiene che è impossibile comprendere il presente se prima non riconosciamo quel malessere nostalgico di fondo che contraddice l’ideale del liberalismo cosmopolita – «la società commerciale cosmopolita di individui razionali egoisti» concettualizzata originariamente dall’Illuminismo di Montesquieu, Adam Smith, Voltaire e Kant.
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La crisi del sapere umanistico: non leggiamo più il mondo
La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.Il neoliberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan-economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati, a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee; la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese, funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa; una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato. Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neoliberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, che non hanno manifestato che rare e occasionali obiezioni, spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare.E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neoliberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno. Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck, Alain Touraine), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi.E infatti si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti, sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico-finanziaria, sociale, culturale, militare, e se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente, il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi; ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”.Quanti storici, sociologi e politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre. Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la Guerra dei Sette Anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la Riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare. Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del mondo” cioè come progetto di omologare tutto il mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”.La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico e urbanizzazione, di specificazione individuale e secolarizzazione, di affermazione dello Stato di diritto e disincanto del mondo, di nazione e acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. E abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione e secolarizzazione di cui si diceva, e ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad un’opera di mediazione e di traduzione culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione. E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati.Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi, ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti, che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote? Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.
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Vaticanomics, l’Opus Dei a lezione dalla Goldman Sachs
Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.Il problema sta nella personalità del professore che erudirà le future tonache sul significato etico dell’economia e della finanza nel mondo contemporaneo. Sarà infatti Brian Griffiths of Fforestafch, un cognome impronunciabile che è tutto un programma, ad intrattenere gli studenti su “Le sfide etiche e culturali per la finanza contemporanea”. Il punto è che il signore in questione è stato vicepresidente esecutivo di Goldman Sachs International, ossia della banca di affari che nell’immaginario del cittadino medio Usa rappresenta il simbolo stesso della più schifosa speculazione che strozza i piccoli risparmiatori e crea le condizioni per portargli via la casa. In Italia, come in Europa, la Goldman Sachs è la banca che ha speculato a man bassa contro i titoli di Stato, i Bonos spagnoli e i Btp italiani, con l’intento di affossare l’euro. Insomma, Brian Griffiths of Fforestafch è un banchiere che vanta non poche responsabilità nell’aver contribuito ad aggravare una situazione interna, come quella italiana, già di per sé grave per l’altissimo debito pubblico.È quasi superfluo aggiungere che Griffiths è membro della Camera dei Lords (appartiene quindi alla nomenklatura inglese) ed è stato consigliere di Margareth Thatcher per le privatizzazioni e per deregolamentare il mercato interno. Si tratta di uno di quei tecnocrati che sostengono la creazione di un grande mercato globale senza vincoli di frontiere e di dazi doganali. Un mercato globale che implica la cancellazione degli Stati nazionali e la loro sottomissione ad un complesso di strutture sovranazionali, di fatto in mano all’Alta Finanza. Una strategia che il mondo cattolico dovrebbe teoricamente vedere con ostilità. Questo in teoria perché ci sono, e non sono pochi, banchieri cattolici che sognano lo stesso traguardo, sia pure con una attenzione paternalista verso i poveri e gli emarginati. E in Italia i banchieri legati all’Opus Dei sono molti e potenti, anche se spesso quasi sconosciuti al grande pubblico. Tra i più noti svetta Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia. In Spagna, fa parte dell’Opus Dei il presidente del Banco di Santander, Emilio Botin.Questo per dire che non esiste una finanza “laica” e una finanza “cattolica”, ma esiste soltanto una finanza che realizza affari e profitti e intende continuare a farli. Come dimostra l’enorme patrimonio mobiliare e immobiliare della chiesa cattolica e delle sue tante diramazioni. Ma nemmeno i protestanti scherzano, visto che Griffiths ha presieduto in passato il Lambeth Fund, controllato dall’arcivescovo di Canterbury. E allora questo connubio tra Opus Dei e Goldman Sachs trova la sua ragione di essere nel medesimo approccio universalista. Del resto il capitalismo liberista si è sempre fatto forte, basti vedere Max Weber, di una profonda impronta evangelica e biblica. Ma l’Opus Dei non è l’unica struttura in ambito cattolico a tenere buoni rapporti con certi ambienti e ad allevare futuri banchieri. Mario Draghi, anche lui un ex Goldman Sachs, ha studiato dai gesuiti. E questo non gli ha impedito di caratterizzare la sua attività nella direzione di rafforzare il potere delle banche e della finanza e al tempo stesso di impoverire i cittadini italiani ed europei, come sappiamo ormai a menadito.(Irene Sabeni, “L’etica di Opus Goldman Sachs Dei”, da “Il Nodo Gordiano” del 4 agosto 2014).Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.