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Archivio del Tag ‘moneta’

  • Maastricht? Non ci risulta: la rovina dell’Italia siamo noi

    Scritto il 16/5/15 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.
    I governi che si sono succeduti a partire dagli anni ottanta, scrive Davanzati su “Micromega”, hanno rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria, fidando nella filosofia del “piccolo è bello”. La costante riduzione della domanda interna, aggiunge l’analista, è derivata non solo dalla riduzione di consumi e investimenti privati, «ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale». Chi e perché ha indotto quelle politiche? Davanzati non lo spiega, preferendo concentrarsi sul loro esito disastroso: i tagli alla spesa hanno indebolito il sistema e il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, mettendo in crisi la maggioranza delle aziende (medio-piccole), fortemente dipendenti dal credito bancario. Poi, la crisi dei mutui subprime negli Usa è rimbalzata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, con caduta della domanda globale, riduzioni dell’export, austerity, esplosione paurosa della disoccupazione.
    Unica mossa tentata: detassare e precarizzare il lavoro. Misura ingiusta e comunque insufficiente: «Se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti». Giocare al ribasso, inoltre, disincentiva l’innovazione delle imprese. Servirebbe il contrario del Jobs Act, e cioè regole rigide e tutele per i dipendenti. Davanzati cita Keynes: «Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale». In altri termini, sostiene Davanzati, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione che aiuta le imprese a migliorare e crescere, puntando proprio sull’innovazione, senza contare che salari più alti «contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo virtuoso di alta domanda ed elevata produttività».
    E’ esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, chiosa Davanzati. Già, ma perché è accaduto? Italiani pasticcioni o traviati da manovratori occulti? Nino Galloni, economista della Sapienza e già super-tecnico al ministero del bilancio, chiarisce: prima ancora del terremoto della globalizzazione, i guai veri per l’Italia sono cominciati nel 1981, quando la Banca d’Italia ha cessato di fare da “bancomat del governo”, costringendo l’esecutivo ad avvalersi dei titoli di Stato, acquistati dalla finanza internazionale, come fonte primaria di finanziamento pubblico. Immediata l’esplosione del debito, divenuta catastrofica con l’adozione dell’euro, moneta non più emessa dall’Italia. Galloni sintetizza: l’Italia non stava sulla luna, ma nell’Europa in cui la Francia di Mitterrand impose l’euro alla Germania che voleva la riunificazione tedesca del 1989. Kohl accettò a una condizione: che venisse sabotato il sistema industriale italiano, cioè il maggior concorrente dell’export di Berlino. A valle, quindi, gli inevitabili “errori” nella politica industriale, gli “incomprensibili” ritardi, i fallimenti a catena.
    Craxi fu il primo a profetizzare che, con Maastricht, l’Italia ci avrebbe rimesso le penne. Andreotti provò a resistere. E Galloni racconta che lo stesso Kohl fece pressioni, personalmente, per allontanare dal governo i funzionari come Galloni, che i “titoli di coda” per l’economia nazionale li avevano già visti alla fine degli anni ‘80. Fino a qualche anno fa, il fatidico meeting del Britannia per la svendita dell’Italia e la sua deindustrializzazione forzata era relegato tra le pieghe della letteratura “cospirazionista”, così come le pagine di libri usciti in questi anni, per esempio “Il golpe inglese”, di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Chiarelettere). A bordo del Britannia nel ‘92 c’era Draghi, allora al Tesoro, poi promosso governatore di Bankitalia e oggi alla guida della Bce. Ciampi, al vertice della Banca d’Italia all’epoca del divorzio dal governo, venne eletto addirittura al Quirinale. Nessi impossibili da ignorare, a proposito di “strano” declino del made in Italy.
    Un altro luogo comune, citato dallo stesso Davanzati che parla di “ipertrofia” dell’apparato pubblico (in linea con la retorica padronale di Renzi), riguarda il presunto peso della pubblica amministrazione: secondo l’Eurispes, in Italia si contano 58 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito, i 65 della Spagna e i 54 della Germania. Inoltre, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri hanno assunto: +36,1% in Irlanda, +29,6% in Spagna, +12,8% in Belgio e +9,5% nel Regno Unito. Il pubblico impiego da noi pesa per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche in questo caso, la vituperata burocrazia pubblica italiana si attesta in realtà su numeri tra i più bassi in Europa: in Danimarca il costo del pubblico impiego è pari al 19,2% del Pil, in Svezia e Finlandia al 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del Pil. Tutti, ma proprio tutti, più dell’Italia.
    Paolo Barnard ha spesso citato analoghe statistiche sul tasso di produttività: quello dei lavoratori italiani surclassa, storicamente, la capacità produttiva dei mitici lavoratori tedeschi. Com’è noto, Barnard si distingue per l’acutezza spietata dall’analisi: il sabotaggio dell’economia italiana a vantaggio dell’élite finanziaria straniera, con la necessaria complicità di “collaborazionisti” nostrani ricompensati con carriere d’oro, si sviluppa negli ultimi decenni in perfetta ottemperanza del famigerato “Memorandum” di Lewis Powell, l’avvocato di Wall Street incaricato già all’inizio degli anni ‘70 di stilare un vademecum per consentire agli oligarchi di liquidare la sinistra negli Usa e in Europa. Istruzioni eseguite alla lettera: “comprare” i leader di partiti e sindacati per indurli a varare norme contro i lavoratori, infiltrare università, giornali, televisioni e sistema editoriale per forgiare il dogma del pensiero unico neoliberista, cioè la fine dello Stato sovrano, la Costituzione democratica nata dalla Resistenza per tutelare i cittadini con pari diritti e pari opportunità.
    Con Renzi siamo all’atto finale, la privatizzazione universale definitiva. Non manca chi invoca una politica diversa e magari salari più alti. Già, ma con che soldi? Senza più moneta sovrana, lo Stato ora è in bolletta ed è costretto a super-tassare: lo Stato “risparmia”, quindi condanna aziende e famiglie. Siamo arrivati al puro delirio del pareggio di bilancio: lo Stato ridotto a colonia, impossibilitato a spendere, costretto a restituire ogni centesimo e con gli interessi, come se non fosse più un ente pubblico ma una semplice azienda privata, una normale famiglia alle prese con un debito contratto con la banca. Eppure, il mainstream continua a trascurare la portata termonucleare dell’euro-cataclisma, la fine dell’interesse pubblico, la morte clinica degli investimenti capaci di produrre occupazione. E in pieno 2015 preferisce continuare a parlare di errori, ataviche pigrizie e imperdonabili miopie nella piccola e provinciale Italietta, incapace – per tara genetica – di sviluppare una seria politica industriale.

    L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.

  • Con il Ttip, l’Europa succursale degli Usa (e la Bce della Fed)

    Scritto il 11/5/15 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Il 20 aprile ha preso il via a New York la nona tornata di trattative tra Stati Uniti e rappresentanti dell’Unione Europea per la Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). I funzionari di entrambe le parti convengono sulla cifra di 100 miliardi di dollari. Pare che sarà questa la cifra di cui saranno aumentati il Pil statunitense e quelli di tutti i membri dell’Ue messi insieme. Finora, nessuno ha dato una spiegazione chiara sull’origine di questa previsione economica. Anche se fosse vero, 100 miliardi di dollari in rapporto ai Pil di Usa e Ue nel 2014 (17,4 + 18,5 trilioni di dollari) è meno dello 0,3%. In altre parole, l’entità degli effetti attesi è a livello di errore tecnico. Sembra che per qualche motivo si tenti di arginare l’orto Transatlantico. Tradizionalmente, l’Europa vanta un notevole surplus commerciale stabile con gli Stati Uniti (86,5 miliardi di dollari nel 2012 e 92,3 miliardi nel 2013). Probabilmente Washington spera di mettere le mani su quei 100 miliardi di dollari virtuali, o che per lo meno ci sarà una parziale riduzione nel deficit commerciale tra Stati Uniti ed Europa.
    Washington è la forza trainante dietro il procedimento negoziale della Ttip. Un europeo non molto ferrato in politica non è in grado di capire cosa debba aspettarsi dalla partnership. Tuttavia, ci sono già abbastanza preoccupazioni per una riduzione negli standard di qualità e di sicurezza dei prodotti, per via dei prodotti Ogm che inevitabilmente invaderanno il mercato europeo. Ma anche questo non è tutto, purtroppo. Il punto è che verrà inferto il colpo di grazia a quel che resta della sovranità nazionale europea. In primo luogo, l’accordo in questione copre il commercio e gli investimenti. Le società multinazionali (Tncs) potranno citare in giudizio i governi nel caso in cui questi le ostacolassero nel loro intento di massimizzare i profitti. Ad esempio, alle Tncs verrà riconosciuto il diritto di impugnare la legalità delle decisioni adottate dai paesi europei, come ad esempio le restrizioni ambientali, i regolamenti per tutelare i diritti sociali dei lavoratori, gli aumenti fiscali e così via.  Le dispute non rientreranno nell’ambito delle legislazioni nazionali ma in quello del diritto internazionale.
    In secondo luogo, una volta firmato l’accordo della Ttp, l’Europa perderà una volta per tutte la sovranità finanziaria e monetaria. Ciò perché Washington avrà il diritto di impugnare molte delle decisioni adottate dagli organismi monetari Europei, in base al presupposto che tali decisioni hanno come scopo quello di manipolare il tasso di cambio dell’euro, violando quindi norme di diritto internazionale. Gli esperti europei sono comprensibilmente preoccupati perché la Bce e la Commissione Europea finiranno con il doversi coordinare per ogni cosa con Washington, o semplicemente eseguire ordini che gli giungeranno da oltre oceano. Il tasso di cambio delle valute nazionali è un potenziale strumento di concorrenza, ed è nelle mani delle banche centrali. Detto questo, è stato utilizzato relativamente poco nel XIX e XX secolo. In un modo o nell’altro c’era lo standard aureo, che serviva a contenere, o anche a rendere impossibili, le manipolazioni valutarie. Inoltre, i principali mezzi di concorrenza erano le tariffe doganali, le sovvenzioni alle esportazioni, il dumping e, più recentemente, le restrizioni commerciali non tariffarie (quotas, standard tecnici, ecc.); in altre parole, gli strumenti convenzionali delle guerre commerciali ed economiche.
    Le possibilità di manipolazione valutaria giunsero solo negli anni ’70, dopo la fine del sistema monetario e finanziario Bretton Woods (lo standard del dollaro aureo), e dopo l’abolizione dei tassi di cambio fissi delle banche centrali. Furono poi conclusi in ambito Gatt/Wto degli accordi che limitarono ulteriormente l’uso di questi tradizionali strumenti di concorrenza economica e commerciale. Un tasso di cambio tenuto basso in modo artificiale allo stesso tempo dà maggiori vantaggi agli esportatori e rende le importazioni più costose (il valore delle importazioni è determinato in valuta nazionale). In ultimo, la bilancia commerciale nazionale verrà livellata, o per lo meno diminuirà il bilancio negativo del commercio estero. Se un gran numero di paesi fa ricorso alla manipolazione valutaria (con alcuni che tentano di penetrare i mercati globali ed altri di proteggersi dai dumping valutari), allora è “guerra valutaria”. Secondo gli esperti, durante la crisi finanziaria del 2007/2009 c’e’ stata di fatto una guerra di valute su vasta scala. Nel settembre del 2010, il ministro delle finanze del Brasile, Guido Mantega, dichiarò che tra il 2009 e il 2010 il Real brasiliano si era rafforzato del 30% rispetto alle maggiori valute mondiali, e che questo non era il risultato di naturali dinamiche di mercato, ma una deliberata politica dei paesi più avanzati che emettevano valute mondiali.
    Il ministro brasiliano definì questa politica “guerra valutaria”. Nell’ottobre del 2010, il capo del Fmi Dominique Strauss-Kahn confermò che era in corso una “guerra valutaria globale”. E’ ovvio che i capi delle banche centrali e dei governi dei paesi più avanzati dell’Occidente non fanno mai  alcun accenno al fatto che le decisioni adottate riguardo alle questioni monetarie hanno come scopi principali l’espansione del commercio estero, il livellamento delle bilance commerciali e la protezione delle società nazionali. Esiste una regola non scritta di astenersi da qualunque recriminazione durante una guerra valutaria. I funzionari parlano di guerre valutarie solo in modo marginale, mentre i giornalisti le definiscono con l’espressione “guerre dell’impoverisci-il-tuo-vicino”. Questa politica di impoverimento dei paesi vicini, spesso, si cela dietro un formale obbiettivo di politica monetaria, come ad esempio la “lotta alla deflazione”. Mentre con l’inflazione il denaro si deprezza, con la deflazione invece cresce il suo potere d’acquisto. Le banche temono la deflazione (le manda nel panico), poiché con essa scompaiono gli incentivi ai prestiti e crolla così tutto il castello millenario usuraio del sistema bancario.
    La lotta alla deflazione e la politica di svalutazione del tasso di cambio di una valuta prevedono gli stessi metodi – pompaggio di liquidità aggiuntiva nell’economia del paese  e riduzione dei tassi d’interesse, anche arrivando ad applicare in alcuni casi tassi di valore negativo. Queste misure a volte sono corredate anche da interventi valutari. Tuttavia, le guerre valutarie vanno discusse anche a livello ufficiale. Altrimenti  il mondo potrebbe crollare nel caos valutario totale. Il Giappone, ad esempio, per diversi anni ha contrastato la deflazione facendo ricorso alla propria zecca e ai tassi d’interesse zero della sua banca centrale. E lo ha fatto, e lo fa, in modo ancora più aggressivo di altri paesi. Di conseguenza, nel periodo da ottobre 2012 a febbraio 2013, il Giappone è riuscito a ridurre il tasso di cambio Yen/paniere Sdr di quasi il 20%. Questo ha fatto molto alterare diversi suoi partner commerciali. Al summit del G20 tenutosi a Mosca nel febbraio del 2013 (presieduto dalla Russia quell’anno), i ministri delle finanze e i capi delle banche centrali giurarono solennemente di non fare mai ricorso alle tattiche di guerra valutaria.
    In poco tempo, tuttavia, tutto è tornato alla normalità.  Washington ha proseguito nel suo programma di allentamento monetario (Quantitative Easing – Qe), che però non ha avuto tutto questo effetto stimolante sull’economia statunitense, ma ha contribuito a far svalutare il dollaro. In questo modo, gli Stati Uniti sono stati di cattivo esempio per altri, compresi i loro partner europei. In ultimo, nel 2015, gli Stati Uniti hanno deciso di dare un freno al programma di Qe. Tuttavia, nello stesso preciso momento la Bce ha dato inizio al suo programma di Qe. Oltre a questo, ha iniziato ad introdurre tassi di interesse di segno negativo sui conti di deposito e a concedere prestiti senza interessi. L’altalena valutaria pende verso l’euro, il cui tasso di cambio rispetto al dollaro era iniziato a scendere.   Nonostante questo, l’Europa ha registrato un notevole surplus di bilancia commerciale con gli Stati Uniti, che potrebbe raggiungere il suo record proprio nel 2015. Cinque o sei anni fa ci sono stati tuttavia dei momenti in cui il tasso di cambio euro/dollaro era più del 1,50. A fine 2014, era poco più del 1,20 e ad aprile 2015 era sceso a 1,06. Gli esperti ritengono che entro il 2016 si raggiungerà la parità tra le due valute.
    Washington la sta prendendo molto seriamente. Nel 2014, il deficit della bilancia commerciale statunitense era di 505 miliardi di dollari, ovvero maggiore del 6% di quello dell’anno precedente. In anni recenti, i paesi dell’ Unione Europea hanno rappresentato il 20% del totale deficit di bilancia commerciale degli Stati Uniti. Nel 2015, tale deficit potrebbe raggiungere il suo record assoluto. Washington non può impedire alla Bce di dare il via al suo programma di Qe, ma se si concluderà l’Accordo della Partnership Transatlantica, gli Stati Uniti saranno in grado di interferire nella politica monetaria europea su basi giuridiche. E’ mia opinione che questa è una delle ragioni principali per cui si è resa necessaria una nona tornata di trattative per la Ttip: il procedimento si sta rivelando molto più complesso di quanto si credeva all’inizio.
    In realtà l’abolizione delle barriere doganali nei rapporti commerciali non è un grave problema, poiché queste barriere erano già basse anche prima che iniziassero le trattative per l’accordo. Ma se Washington acquisirà il controllo della politica monetaria e valutaria dei paesi dell’Unione Europea, significherà la totale e definitiva perdita della sovranità da parte di questi ultimi. Questo lo sanno molto bene i politici e le maggiori personalità dei paesi europei. Molti sono sorpresi del fatto che uno dei principali fautori del raggiungimento dell’accordo Ttip sia proprio il presidente della Bce Mario Draghi: dopo tutto, se l’accordo sarà firmato, la Bce diventerà una filiale della Fed. Ma forse è proprio questo a cui mira Mario Draghi, che non ha mai nascosto la sua propensione verso gli Stati Uniti. Non per niente è stato per diversi anni direttore esecutivo e vicepresidente della banca americana Goldman Sachs.
    (Valentin Katasonov, “Trattato Transatlantico e sovranità monetaria in Europa”, da “Strategic Culture” del 27 aprile 2015, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    Il 20 aprile ha preso il via a New York la nona tornata di trattative tra Stati Uniti e rappresentanti dell’Unione Europea per la Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). I funzionari di entrambe le parti convengono sulla cifra di 100 miliardi di dollari. Pare che sarà questa la cifra di cui saranno aumentati il Pil statunitense e quelli di tutti i membri dell’Ue messi insieme. Finora, nessuno ha dato una spiegazione chiara sull’origine di questa previsione economica. Anche se fosse vero, 100 miliardi di dollari in rapporto ai Pil di Usa e Ue nel 2014 (17,4 + 18,5 trilioni di dollari) è meno dello 0,3%. In altre parole, l’entità degli effetti attesi è a livello di errore tecnico. Sembra che per qualche motivo si tenti di arginare l’orto Transatlantico. Tradizionalmente, l’Europa vanta un notevole surplus commerciale stabile con gli Stati Uniti (86,5 miliardi di dollari nel 2012 e 92,3 miliardi nel 2013). Probabilmente Washington spera di mettere le mani su quei 100 miliardi di dollari virtuali, o che per lo meno ci sarà una parziale riduzione nel deficit commerciale tra Stati Uniti ed Europa.

  • Mai successo prima: Bot a zero (in attesa del grande botto)

    Scritto il 08/5/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
    Anche la spiegazione tecnica resta semplice: tutto merito della Bce, che da due mesi ha messo in moto il quantitative easing, cominciando ad acquistare sui mercati titoli di Stato dei paesi europei (ma non della Grecia, che invece non può rifinanziarsi perché altrimenti dovrebbe pagare interessi al di sopra del 20%). La domanda che apre la porta sul “lato oscuro” è altrettanto semplice: perché un investitore (una banca, un fondo di investimento, o persino un normale cittadino con qualche risparmio da parte) accetta di prestare i propri soldi sapendo in anticipo che non ci guadagnerà nulla o addirittura ci rimetterà qualcosina?  Qui il lettore ci deve perdonare, ma siamo obbligati – come tutti quelli che cercano la risposta a questa domanda – ad addentrarci nei “massimi sistemi”. Non lo facciamo per motivi ideologici o passione teorica, ma per le identiche ragioni addotte da uno degli editorialisti di punta de “Il Sole 24 Ore”, Alessadro Plateroti: «Per gli economisti della scuola classica, il fenomeno è scioccante: non solo è definitivamente tramontato il cosiddetto “Lzb”, o Level Zero Boundary, il livello di supporto dei tassi che si pensava non sarebbe mai stato raggiunto e infranto, ma si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche».
    «“Nella storia d’Europa – ha commentato Ambrose Evans Pritchard, noto commentatore economico inglese – dobbiamo tornare al Quattordicesimo secolo, quando il depauperamento delle miniere d’argento provocò una lenta contrazione monetaria, seguita dal default di Edoardo III sul debito contratto con le banche italiane e dall’epidemia della Morte Nera, innescando un devastante processo deflazionistico”. Frasi da apocalisse, certamente esagerate nei toni e negli obiettivi, ma anche suggestive e soprattutto indicative della confusione che regna sui mercati, dei timori sui rischi generati dalle “bolle” (ecco l’analogia con la peste in Europa…) e soprattutto della difficoltà di prevedere gli effetti collaterali della manovra della Bce». Il “livello zero” di rendimento del denaro, in regime capitalistico, è un limite concettuale, una sorta di assioma che non necessita di dimostrazione, anzi serve ad argomentare le dimostrazioni. E le esibizioni di “competenza professionale” di pupazzi come il capo dell’Eurogruppo, Dijsselbloem. Chiunque presti soldi si attende un guadagno da questo impiego, no? Siamo nel capitalismo e dunque può funzionare solo così… O no?
    Cosa significa? Che nessuno ha studiato cosa possa avvenire quando questo evento impossibile si verifica. Non è avvenuto sul piano teorico (perché era impossibile), tantomeno su quello empirico (non era mai avvenuto, se non nel Trecento, ma era il Medioevo, mica la modernità capitalistica…). Lo stesso sconcerto provato da Plateroti è stato descritto dal più autorevole Martin Wolf, nientepopodimeno che sulla bibbia del liberismo anglosassone, il “Financial Times”, con un titolo che molti avrebbero definito catastrofista se scelto da un marxista: “Ecco perché l’economia globale non brillerà più”. Senza se e senza ma. Renzi e Padoan non lo hanno letto, altrimenti non ciancerebbero di “ripresa in atto” («ma solo dello zero virgola»). Wolf, in particolare, indica come «stranezza incomprensibile» – oltre ai tassi di interesse sottozero – anche il fatto che la produzione reale sia mantenuta al suo livello potenziale solo al prezzo di un indebitamento finanziario crescente. Più precisamente: «La produzione è finanziariamente sostenibile quando i modelli di spesa e la distribuzione del reddito sono tali che il frutto dell’attività economica può essere assorbito senza creare pericolosi squilibri nel sistema finanziario. È insostenibile quando per generare abbastanza domanda da assorbire la produzione dell’economia si deve ricorrere una dose eccessiva di indebitamento, o quando i tassi di interesse reali sono molto al di sotto dello zero, oppure entrambe le cose».
    Possiamo anche dire che il mercato non riesce più ad allocare in modo ottimale risorse. Ovvero un altro assioma del liberismo teorico (ideologico?) che salta come un birillo davanti a una realtà impossibile. La finanza lavora per conto proprio, indipendentemente dall’andamento dell’economia reale, da molti decenni. Certamente dalla fine degli anni ‘90, quando Bill Clinton abolì il Glass-Streagall Act, ossia il divieto di cumulare nella stessa banca le normali attività di raccolta dei risparmi/prestiti a famiglie e imprese con quelle tipicamente speculative della “banca d’affari”. Era una legge degli anni ‘30, immaginata per limitare ed evitare il ripetersi del grande crack del 1929. Ma ora la realtà della produzione – ferma, non a caso – riprende il volatile per le zampe e lo tira giù. Il capitalismo non funziona più. I fenomeni considerati impossibii avvengono sotto i nostri occhi. I “professionisti” dell’accumulazione sono costretti ad accontentarsi di non guadagnare nulla o di rimetterci solo poco. Per quanto può durare? Non lo sa nessuno, perché si è entrati in un territorio finanziario inesplorato, pieno di bolle finanziarie, insidie sistemiche e incognite macroeconomiche. Allacciate le cinture…
    (Claudio Conti, “Bot a zero, in attesa del grande botto”, da “Contropiano” del 29 aprile 2015).

    La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l’altra faccia della medaglia. Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell’Economia) ha collocato Bot a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta. L’Italia non è l’unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell’euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%. Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).

  • Questa non è una crisi economica, ma un piano di dominio

    Scritto il 07/5/15 • nella Categoria: idee • (28)

    Questa non è una crisi economica, ma è uno strumento, un processo voluto e pianificato per arrivare a sostituire la zootecnia alla politica, ossia per poter governare la popolazione terrestre con la padronanza e prevedibilità con cui si governa il bestiame nella stalla o i polli in batteria. E per arrivarci con la collaborazione della gente, facendole credere che le riforme siano tutte scelte scientifiche razionali e magari anche democratiche (l’aspetto didattico-ideologico, la dottrina dei mercati sani e disciplinanti). Questo processo è stato avviato dalla metà degli anni ’70, mediante una serie di precise scelte: un preciso modello economico, una serie di riforme legislative, di lungo respiro (soprattutto la deregolamentazione del settore bancario, l’indipendenza delle banche centrali, la privatizzazione del rifinanziamento del debito pubblico), che si sapeva benissimo che cosa avrebbero prodotto, ossia una società e un’economia reale permanentemente in balia dei mercati e ricattabili dagli speculatori finanziari. Una crescente concentrazione di quote di reddito, quote di ricchezza, quote di potere, nelle mani dei pochi che decidono.
    Tutti gli altri soggetti (cioè Stati, imprese, famiglie, pensionati, disoccupati…) permanentemente con l’acqua alla gola, impoveriti, costretti ad obbedire, ad accettare, come condizione per una boccata d’aria o di quantitative easing, dosi ulteriori di quelle medesime riforme. Dosi ulteriori di concentrazione di ricchezza e potenza, di oligarchia tecnocratica irresponsabile e senza partecipazione dal basso, senza controllo democratico. Senza garanzie costituzionali. Era tutto intenzionale. Infatti, nessuno dei meccanismi finanziari che hanno prodotto e mantengono l’apparente crisi è stato rimosso, dopo, visti i danni che faceva, nemmeno la possibilità per le banche di giocare in Borsa coi soldi dei risparmiatori. Anche l’euro si sapeva benissimo che cosa avrebbe prodotto, in base a ripetute esperienze precedenti con il blocco dei cambi tra paesi economicamente dissimili.
    Tutto questo non è un incidente, una crisi, un cigno nero, bensì un’operazione di potenziamento e razionalizzazione tecnologica del controllo sociale; non mira banalmente al profitto economico, il quale ormai è un concetto superato da quando la ricchezza si produce con metodi contabili ed elettronici nel gioco di sponda tra banche e governi, che possono creare tanto denaro quanto vogliono. Mira all’ottimizzazione tecnologica e giuridica del dominio sociale. Non è una crisi, e soprattutto non è una crisi economica, signori economisti; sicché affannarsi a proporre ingegnose soluzioni sul piano economico e monetario è incongruo, improduttivo. Non è qualcosa di accidentale, non si sta cercando di uscirne, è un processo guidato verso un obiettivo preciso e già ampiamente conseguito, un processo a cui nessuna forza politica o morale può opporsi efficacemente, dati i rapporti di forza, e l’unica speranza sta nella possibilità che esso sfugga di mano ai suoi strateghi e ingegneri, per la sua stessa complessità e dinamicità.
    La fascistoide riforma costituzionale ed elettorale di Renzi – diciamo di Renzi, ma sappiamo che le riforme strutturali in Italia le detta Francoforte, nell’interesse di padroni stranieri, e che da qualche tempo i primi ministri italiani agiscono su suo mandato – è un tassello italiano di questa strategia zootecnica, disegnato per consentire la gestione dell’intero paese attraverso un’unica persona, un unico organo istituzionale, il primo ministro, che assommerà in sé i poteri politici senza contrappesi e controlli indipendenti. I tempi forzati in cui detta riforma deve venire attuata sono verosimilmente in relazione al tempo per cui la situazione italiana può reggere, prima che vengano meno le condizioni esterne molto favorevoli oggi presenti, prima che arrivino pesanti scadenze finanziarie, prima che si dissolva l’impressione popolare di incipiente ripresa e che si renda necessario imporre nuovi e impopolari sacrifici.
    Quando ciò avverrà, si scateneranno forti tensioni sociali e si calcola di poterle reprimere e contenere grazie a una riforma costituzionale di tipo autoritario. Renzi non è un dittatore, è solo un esecutore teleguidato, costruito col marketing. Ma sta preparando il posto di comando per il dittatore che verrà dopo di lui. Ecco il perché della fiducia posta dal governo sull’Italicum, una riforma elettorale che andrà in vigore nel 2016, sicché non ci dovrebbe essere fretta ad approvarla; ma in realtà c’è molta fretta, perché proprio nel 2016 finirà il quantitative easing assieme agli effetti benefici della svalutazione dell’euro, e allora il quadro potrebbe saltare, bisogna avere tutto pronto.
    Per rispettare questi tempi, e a conferma del fatto che il suo governo come i precedenti rappresenta l’alleanza (asimmetrica) tra gli interessi della casta italiana e quelli del padrone straniero, il governo Renzi deve mantenere l’appoggio degli interessi parassitari legati alla politica e necessari per avere i voti in parlamento, il che spiega perché non ha toccato i centri di spreco e ruberie come le famose società partecipate e non ha proceduto alla spending review, quantunque queste siano vere urgenze. Se l’avesse fatto, la sua maggioranza si sarebbe squagliata subito. Invece il 29 e 30 aprile ben due terzi dai suoi apparenti oppositori interni gli hanno votato la fiducia sulla legge elettorale. Funziona sempre, questa irresistibile attrazione delle poltrone che resteranno a galla quando il paese affonderà.
    (Marco Della Luna, “Questa non è una crisi economica”, dal blog di Della Luna del 30 aprile 2015).

    Questa non è una crisi economica, ma è uno strumento, un processo voluto e pianificato per arrivare a sostituire la zootecnia alla politica, ossia per poter governare la popolazione terrestre con la padronanza e prevedibilità con cui si governa il bestiame nella stalla o i polli in batteria. E per arrivarci con la collaborazione della gente, facendole credere che le riforme siano tutte scelte scientifiche razionali e magari anche democratiche (l’aspetto didattico-ideologico, la dottrina dei mercati sani e disciplinanti). Questo processo è stato avviato dalla metà degli anni ’70, mediante una serie di precise scelte: un preciso modello economico, una serie di riforme legislative, di lungo respiro (soprattutto la deregolamentazione del settore bancario, l’indipendenza delle banche centrali, la privatizzazione del rifinanziamento del debito pubblico), che si sapeva benissimo che cosa avrebbero prodotto, ossia una società e un’economia reale permanentemente in balia dei mercati e ricattabili dagli speculatori finanziari. Una crescente concentrazione di quote di reddito, quote di ricchezza, quote di potere, nelle mani dei pochi che decidono.

  • Mani Pulite ci ha lasciato un’Italia peggiore, mai così povera

    Scritto il 28/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    In questi giorni si parla molto di una fiction, mandata in onda sulle reti Sky, volta a ricostruire a beneficio del grande pubblico, specie dei più giovani, la storia di Mani Pulite. Io confesso di non avere visto neppure una puntata della serie in oggetto, ricordando invece perfettamente il clima che in quegli anni si respirava. Sul finire degli anni ’80 l’Italia era ancora un paese ricco e sovrano. I problemi non mancavano, a partire dalla corruzione e dalla crescente arroganza delle mafie. Ma, come bene spiega l’economista Nino Galloni, «la corruzione di allora rappresentava la devianza patologica di un indirizzo politico comunque pensato per realizzare una idea di interesse generale». Detta in maniera più semplice. Esistevano, eccome se esistevano, “ruberie, mazzette, tangenti e malversazioni”, malsano effetto collaterale di un sistema che però nel suo complesso produceva ricchezza e posti di lavoro. L’Italia di oggi, invece, frastornata da anni di continua ed incessante caccia alle streghe, è migliore o peggiore di quella lasciataci in eredità dalla cosiddetta Prima Repubblica? Io credo peggiore. Molto peggiore.
    La corruzione, più raffinata nelle forme, esiste ancora, risultando illusoria e infantile la pretesa di estirpare per decreto o sentenza il vizio e l’ingordigia dal cuore degli uomini; in compenso è scomparso il benessere e sono riapparsi i poveri e i disperati, fucilati da un sistema che ha nel suo complesso perso il senso e la misura. Con la scusa di combattere sprechi e corruzione è stato in realtà posto in essere un vero e proprio Olocausto sociale, crimine immane che nessun sistema delle tangenti, per quanto ben oliato e pervasivo, potrebbe mai eguagliare. La fine dei partiti, e la morte del concetto stesso di Stato imprenditore, giustificata sul piano dialettico proprio attraverso la strumentale esasperazione di alcune deprecabili prassi, ha  prodotto un immenso vuoto. Questo vuoto è stato ricoperto per intero da chi detiene su scala globale il potere economico e finanziario, ora finalmente libero di produrre i suoi effetti nefasti (e in parte perfino sanguinari) senza dover sopportare oltre il peso della intermediazione politica.
    Cosicché, sulla scia del nuovo equilibrio consolidatosi, i nuovi padroni hanno forgiato un modello strutturalmente fondato sulla frode e sull’abuso e l’hanno chiamato “regole”. Hanno distrutto la dignità del lavoro ribattezzandola “flessibilità”; hanno colpito il welfare spacciando una operazione immonda per semplice “razionalizzazione dei costi”; hanno consegnato la leva monetaria ai privati nel nome della “responsabilità”, e hanno messo in piedi un meccanismo che moltiplica in automatico povertà ed indigenza nel nome della sempiterna “lotta agli sprechi”. Questo hanno fatto. E l’hanno fatto grazie alla collaborazione, dolosa o colposa, di tutte quelle forze politiche che non hanno mai trovato il tempo per elaborare una piattaforma politica alternativa al neoliberismo dominante.
    Partiti di destra, di centro o di sinistra, tutti accumunati dalla paradossale e unanime condanna del nostro fantomatico debito pubblico. Partiti vuoti che vivono esclusivamente della capacità istrionica del satrapo di turno. Partiti ipocriti che, pur richiamandosi impunemente ad una tradizione socialista, si preoccupano solo di assecondare le pulsioni distruttive di un mercato lasciato a briglie sciolte. Mani Pulite non è servita né all’Italia né agli italiani. Mani Pulite è servita a tutti quelli che non vedevano l’ora di trovare campo libero nel mentre Mario Draghi apparecchiava le famose “privatizzazioni”. Mani Pulite è servita a screditare il ruolo della politica, aprendo così la strada al governo di molti ”tecnici illuminati” che, da Prodi a Monti, altro non sono se non amministratori delegati occulti di grandi banche d’affari e multinazionali. Non so come sarebbe oggi l’Italia se Mani Pulite non ci fosse mai stata. So però com’è e non mi piace affatto.
    (Francesco Maria Toscano, “Sulla scia di Mani Pulite è nata un’Italia peggiore”, dal blog “Il Moralista” del 7 aprile 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, fondato con Gioele Magaldi).

    In questi giorni si parla molto di una fiction, mandata in onda sulle reti Sky, volta a ricostruire a beneficio del grande pubblico, specie dei più giovani, la storia di Mani Pulite. Io confesso di non avere visto neppure una puntata della serie in oggetto, ricordando invece perfettamente il clima che in quegli anni si respirava. Sul finire degli anni ’80 l’Italia era ancora un paese ricco e sovrano. I problemi non mancavano, a partire dalla corruzione e dalla crescente arroganza delle mafie. Ma, come bene spiega l’economista Nino Galloni, «la corruzione di allora rappresentava la devianza patologica di un indirizzo politico comunque pensato per realizzare una idea di interesse generale». Detta in maniera più semplice. Esistevano, eccome se esistevano, “ruberie, mazzette, tangenti e malversazioni”, malsano effetto collaterale di un sistema che però nel suo complesso produceva ricchezza e posti di lavoro. L’Italia di oggi, invece, frastornata da anni di continua ed incessante caccia alle streghe, è migliore o peggiore di quella lasciataci in eredità dalla cosiddetta Prima Repubblica? Io credo peggiore. Molto peggiore.

  • Colpo di mano, Juncker autorizza gli Ogm anche in Europa

    Scritto il 27/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Il grosso vantaggio dell’Ue per le lobby finanziarie e industriali è che è molto più facile influenzare un potere centrale che i singoli governi dei 28 paesi membri. Le istituzioni europee soffrono di una cattiva immagine presso i cittadini europei (vedi Eurobarometer: fiducia nell’Unione Europea al 37% in Ue, sfiducia maggioritaria in 14 paesi tra cui l’Italia). I centri di potere di Bruxelles e Francoforte sono visti come lontani dal popolo; controllati dalle lobby; indifferenti agli interessi e alle opinioni dei cittadini comuni; proni a quelli delle élite finanziarie; sbilanciati a favore dei grandi gruppi a scapito di piccoli produttori e aziende familiari o individuali. Questi cliché sono stati ancora una volta confermati questa settimana in maniera ‘eclatante’ (cit. Renzi). Il colpaccio di Juncker: ieri infatti la Commissione guidata dall’ineffabile Juncker, noto amico dei piccoli contribuenti e feroce avversario delle grandi multinazionali che tentano di eludere il fisco, ha autorizzato l’introduzione in tutta l’Ue di 19 Ogm, senza attendere il parere di Parlamento e Consiglio Europeo. L’autorizzazione vale 10 anni su tutto il territorio europeo e include gli Stati che si erano opposti.
    Ovviamente sui giornaloni nazionali non troverete grandi titoli. Sopire, troncare. Fonti riportate dal “Figaro” spiegano che il presidente Juncker era «ossessionato dalla quantità di richieste di autorizzazione di Ogm bloccate» (dagli Stati membri, ndr). Bravo Juncker, è noto che i cittadini europei si torturano ogni giorno sul problema degli Ogm bloccati. Ue batte Natura 2 a 0. Andiamo a vedere la lista degli Ogm autorizzati da Juncker: sui 19 approvati, 17 sono per l’alimentazione umana e animale e 2 riguardano specie di garofani. Ben 11 sono brevetti dell’americana Monsanto (soia, mais, colza e cotone), gli altri 8 sono prodotti della statunitense Dupont e dei gruppi tedeschi Bayer e Basf. Tutto indica un’attenzione speciale delle istituzioni europee per gli interessi delle multinazionali a danno della biodiversità e della libera scelta. Ricordiamo infatti che sementi non incluse in una lista della Ue sono vietate. Lista i cui criteri privilegiano le sementi industriali ed escludono varietà antiche e tradizionali.
    A riprova, associazioni senza fini di lucro che come Kokopelli promuovevano la biodiversità sono state punite con multe astronomiche e la cessazione dell’attività per aver diffuso semenze tradizionali secondo una sentenza della Corte Europea del 2012. Una sentenza che rovesciava la posizione dell’Avvocatura Generale della stessa Corte Europea, la quale stimava che «il divieto di commercializzazione di sementi (…) è non valido in quanto viola i principi di proporzionalità e di libera impresa secondo l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la libera circolazione delle merci secondo l’articolo 34 Tfue così come il principio di uguaglianza di trattamento secondo l’articolo 20 della detta carta». Dunque la Corte ribalta il parere dell’Avvocatura e vieta le sementi tradizionali. Il terreno è pronto per la mossa successiva. E qui interviene Juncker, che motu proprio autorizza gli Ogm su tutto il territorio europeo.
    Per salvare le apparenze i singoli Stati potrebbero in teoria vietare gli Ogm sul proprio territorio – ma solo se accettano la riforma proposta tre giorni fa (guarda caso) dalla stessa Commissione Juncker, che rende più facile l’importazione di Ogm in Europa e allo stesso tempo permette ai singoli Stati di vietarle. Divieti che però devono essere motivati in base a pericolo per salute e ambiente (rovesciando l’onere della prova sugli Stati!), sono sempre impugnabili (cfr. Tttip e le prerogative del suo Regulatory Council) e difficilmente applicabili in pratica, vista la libera circolazione delle merci e le ambiguità europee sull’etichettatura degli alimenti. Nulla impedirebbe di trovarci in tavola carne di maiale nutrito con soia transgenica in Germania o Polonia. Poiché le multinazionali hanno tempi lunghi e costi elevati per dimostrare che gli Ogm sono innocui (quando ci riescono), saranno gli Stati a dover dimostrare che sono nocivi, in barba al principio di cautela che dovrebbe regolare le questioni attinenti la salute e l’ambiente. In sintesi, la nostra stessa sovranità alimentare è messa in pericolo dalla Ue.
    Ma vediamo cosa pensano i cittadini europei degli Ogm. L’Eurobarometer n. 341 del 2010 (stranamente Eurobarometer non ha condotto nessun sondaggio sugli Ogm dopo il 2010) vede una schiacciante maggioranza di cittadini europei CONTRARIA agli alimenti geneticamente modificati. A pagina 18: «Un’elevata percentuale, 70%, ritiene che il cibo Gm (geneticamente modificati) sia innaturale. Il 61% degli europei conviene che i cibi Gm li mettono a disagio. Inoltre, il 61% degli europei è contrario allo sviluppo di alimenti Gm, il 59% non è d’accordo che i cibi Gm siano sicuri per la salute loro e della loro famiglia, e il 58% non è nemmeno d’accordo che gli alimenti Gm siano sicuri per le generazioni future». Come al solito, quindi: le istituzioni europee capitanate dall’ineffabile Juncker si fanno un baffo dell’opinione dei cittadini; la Commissione si dimostra sempre molto attenta agli interessi delle lobby di grandi industrie e banche; la Commissione può agire in maniera autoritaria e antidemocratica, se occorre; l’informazione “ufficiale” oscura queste gravi vicende; il nostro governo è totalmente supino ai diktat europei, se non promotore attivo delle strategie delle lobby (Renzi: «Il Ttip ha l’appoggio totale e incondizionato del governo Italiano»). Morale: dopo la sovranità monetaria l’Ue ci farà perdere la sovranità alimentare.
    (Ulrich Anders, “Colpaccio di Juncker: fine della sovranità alimentare, Ogm per tutti”, da “Scenari economici” del 25 aprile 2015).

    Il grosso vantaggio dell’Ue per le lobby finanziarie e industriali è che è molto più facile influenzare un potere centrale che i singoli governi dei 28 paesi membri. Le istituzioni europee soffrono di una cattiva immagine presso i cittadini europei (vedi Eurobarometer: fiducia nell’Unione Europea al 37% in Ue, sfiducia maggioritaria in 14 paesi tra cui l’Italia). I centri di potere di Bruxelles e Francoforte sono visti come lontani dal popolo; controllati dalle lobby; indifferenti agli interessi e alle opinioni dei cittadini comuni; proni a quelli delle élite finanziarie; sbilanciati a favore dei grandi gruppi a scapito di piccoli produttori e aziende familiari o individuali. Questi cliché sono stati ancora una volta confermati questa settimana in maniera ‘eclatante’ (cit. Renzi). Il colpaccio di Juncker: ieri infatti la Commissione guidata dall’ineffabile Juncker, noto amico dei piccoli contribuenti e feroce avversario delle grandi multinazionali che tentano di eludere il fisco, ha autorizzato l’introduzione in tutta l’Ue di 19 Ogm, senza attendere il parere di Parlamento e Consiglio Europeo. L’autorizzazione vale 10 anni su tutto il territorio europeo e include gli Stati che si erano opposti.

  • Sapir: aprite gli occhi, l’euro sta portando l’Europa in guerra

    Scritto il 17/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.
    «La Francia – scrive Sapir, in un post ripreso da “Vox Populi” – resta il solo paese in cui l’omertà dell’Ump e del Ps ha strozzato il dibattito», fondamentale per il futuro dell’Europa, «le cui tinte stanno diventando sempre più fosche a causa dell’esistenza dell’euro». Non è solo una questione economica o finanziaria, continua Sapir: non si sono mai viste né un’ampia unione di trasferimenti, né un’unione fiscale e men che meno un’unione sociale, «che avrebbero dovuto essere realizzate se si fosse voluto che l’euro avesse successo». Di tutto questo, «tutti i popoli dell’Unione economica e monetaria ne stanno ora pagando il prezzo». Ma quella dell’euro è anche e soprattutto una questione politica: «Avendo preteso – certamente a torto – che l’euro rappresentasse il completamento dell’Unione Europea, ora le classi dirigenti dei paesi membri sono terrorizzate dalla prospettiva di un suo fallimento, di cui perfino i più cocciuti tra loro iniziano a rendersi conto, e dalle conseguenze politiche che ne deriveranno».
    Credono che la fine dell’euro significherebbe la fine dell’Europa? «Non si rendono conto che è l’esistenza stessa dell’euro a sollevare un popolo contro l’altro, a far rivivere i vecchi antagonismi, ad aver fatto della guerra economica tra i paesi membri la normalità quotidiana, finché il conflitto militare, cosa che oggi è da temere, non arrivi a sostituirsi a questo conflitto economico». L’euro, continua Sapir, «distrugge i singoli paesi membri anche mettendo i lavoratori contro altri lavoratori, inventando nuove divisioni tra chi si avvantaggia dell’euro (in realtà una piccola minoranza) e chi invece vede la sua vita e il suo lavoro distrutti dall’euro, ed è questa ormai la realtà quotidiana per una maggioranza». Apriamo gli occhi, insiste Sapir: «La realtà è che l’euro ha distrutto l’Europa: non solamente le sue strutture istituzionali, che sarebbe dopotutto il male minore, ma anche le sue radici politiche e culturali. L’euro è la guerra. Ed è per questo che la dissoluzione dell’Eurozona non è solamente un obiettivo economico desiderabile, ma anche un’urgenza politica del nostro tempo».

    Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.

  • Tortura per chiunque osi ribellarsi, Genova fu solo l’inizio

    Scritto il 13/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.
    A Genova nel 2001 accadde qualcosa di irreparabile e sinistramente profetico, scrive “Come Don Chisciotte”: «Nell’arco di una manciata di giornate ci accorgemmo di essere stati proiettati e letteralmente catapultati nel nuovo millennio». Di colpo, ci siamo scoperti «ingenui figli di un tempo già antico, quel ventesimo secolo che, nonostante l’atomica e i lager, non aveva completamente scalfito le speranze in un mondo migliore». Il funerale delle illusioni: «La nostra Italietta – così piccola e così gracile – sarà pure stata anche la Repubblica delle stragi impunite, delle molte mafie e della corruzione dilagante, ma, ai nostri occhi, rimaneva l’imperfetta democrazia che i padri costituenti ci avevano consegnato per attuare concretamente i principi di uguaglianza e libertà. Invece – scrive “HS” – quello che accadde superò la nostra immaginazione». Sepolta, a Genova, anche l’ingenuità fisiologica del movimentismo, che in fondo «non abbandona l’illusione che si possa dialogare con l’avversario per riformare il sistema in senso migliorativo». Il movimento No-Global bisognava «domarlo, criminalizzarlo e reprimerlo in nome del neoliberismo “neomercantile”», togliendo ai giovani l’arma della politica e della giustizia.
    Hanno vinto loro, conclude il blog: i ragazzi di oggi non hanno idea di cosa accadde davvero a Genova, perché ormai «appartengono a un altro mondo», nel senso che «sono cresciuti in un contesto in cui la digitalizzazione dei segni, dei simboli e pure dei comportamenti ha quasi oscurato il senso concreto e tangibile delle cose», con la sua spietata durezza. All’epoca della mattanza genovese, Google e YouTube «appartenevano ancora al regno del “futuribile” e del realizzabile». Ora, il paesaggio antropologico è irriconoscibile: «In un certo qual modo smartphone, blueberry, iPod, Whatsapp, Twitter, Facebook e compagnia cantante sono diventati parte integrante delle nostre vite, e per i nostri figli o nipoti non è quasi concepibile un mondo senza la tecnologie digitali. Nel nostro nuovo mondo postmoderno digitalizzato e “virtualizzato” il tempo scorre via veloce come lo scoccare di una scintilla nel buio, si scompone in fantastiliardi di millisecondi, frazionati e separati, insinuando un senso di comprensibile vuoto e di assenza di memoria».
    Oggi la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per gli atti di tortura inflitti ai manifestanti dalle forze dell’ordine nell’Istituto Pascoli? Confinare le giornate di Genova in quelle aule, dove raggiunse il culmine l’ultimo atto di feroce violenza repressiva, «significa smarrire il senso di quelle ore». Perché nel capoluogo ligure «era accaduto qualcosa di definitivo e irreparabile, qualcosa che non avrebbe potuto essere cancellato lavando quei muri imbrattati di sangue». In realtà, continua il blog, «non abbiamo mai compreso fino in fondo quanto possano contare le parole e i consigli degli “ingegneri sociali”, degli esperti di sociologia, psicologia, antropologia, di questioni militari, geopolitiche, strategiche, di sicurezza e ordine pubblico», perché in fondo siamo rimasti «ragionevoli uomini democratici e perbene». Per questo non ci siamo accorti di essere diventati «altro che le cavie di uno dei più arditi esperimenti mai tentati fino ad allora in un paese dell’Occidente civile e avanzato». Come se in quella torrida estate del 2001 il capoluogo ligure «si fosse trasformato in un enorme laboratorio per applicare i nuovi modelli militarizzati e tecnologicamente avanzati di gestione dell’ordine pubblico». Di lì a poco, «Ground Zero avrebbe cancellato tutte le residue speranze per un “altro mondo possibile”, e dalla guerriglia e controguerriglia urbane artificiosamente costruite, si passava alla guerra permanente e globale», con tanti saluti alle belle speranze del movimento No-Global, che pretendeva pari opportunità e diritti per l’intera umanità.
    Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi illumina le pagine più oscure e confuse della nostra storia recente, rivelando il ruolo spesso decisivo delle “Ur-Lodges”, le superlogge latomistiche dell’élite cosmopolita che sovrintende alle grandi decisioni, anche attraverso istituzioni transnazionali e “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale, il Bilderberg, i grandi think-tank che orientano la dirigenza finanziaria, industriale, bancaria, editoriale, culturale, politica, giornalistica. Magaldi, a sua volta massone e associato alla prestigiosa superloggia “Thomas Paine”, nonché animatore del “Movimento Roosevelt” che si propone di scuotere la politica italiana ed europea liberandola dal dogma neoliberista che impone il taglio dello Stato, accusa anche l’ambiente massonico internazionale più progressista, colpevole di aver aderito a cuor leggero già nel 1981 allo storico patto “United Freemasons for Globalization”. Una stretta di mano con i più pericolosi oligarchi che, di lì a poco, avrebbero precipitato il pianeta nella privatizzazione universale. Genocidio di popoli, guerre, rapina delle risorse, delocalizzazioni criminose e scomparsa del lavoro e dei diritti sindacali, fino all’agonia inconcepibile del sistema industriale più evoluto del mondo, l’Europa, messa in ginocchio dall’austerity finanziaria pianificata a tavolino dai supremi globalizzatori.
    Paolo Franceschetti, ex avvocato e indagatore di strani delitti rituali, riletti come cerimonie del massimo potere oligarchico, si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno: la storia dell’umanità è lastricata di abusi abominevoli, se oggi li si denuncia significa che sta crescendo una consapevolezza diffusa che, prima o poi, cambierà l’orizzonte. Inutile stupirsi della ferocia del supremo potere: lo sostengono voci diversissime tra loro, per formazione e provenienza. Per esempio Paolo Ferraro, prestigioso magistrato allontanato dalla magistratura. O un ex dirigente dei servizi segreti come Fausto Carotenuto. O Paolo Barnard, il primo a denunciare la brutale restaurazione europea, col saggio “Il più grande crimine”. O, ancora, un massone come Gianfranco Carpeoro, allievo di Francesco Saba Sardi e grande studioso del linguaggio simbolico. Dal canto suo, Magaldi esprime un’indignazione lucida e pacata: lo Stato laico, moderno e democratico, fatto di cittadini e non più di sudditi, «non è stato un regalo della cicogna», ma dall’intellighenzia massonica occidentale, impegnata in una lotta plurisecolare contro l’oscurantismo e l’assolutismo. Per questo, insiste, è necessario che insorga il vertice massonico progressista, il solo in grado di contrastare – a livello elitario – la deriva neo-feudale del nuovo potere che, col pretesto di una crisi artificiale costruita a tavolino, sta smantellando la democrazia in tutto l’Occidente.
    I ragazzi di Genova, che nel 2001 volevano diritti estesi a tutti i popoli del mondo, mai si sarebbero aspettati che quegli stessi diritti considerati inviolabili – a cominciare dall’accesso al lavoro – sarebbero stati presto perduti anche qui, nel cuore di un’Europa devastata dalle leggi speciali imposte dall’élite tecnocratica attraverso il braccio secolare di una moneta unica non sovrana. La scomparsa dell’orizzonte cominciò proprio nelle piazze genovesi trasformate in campo di battaglia: «Genova per noi è stato solo il primo dei tanti esperimenti di ingegneria sociale volti a spezzare qualsiasi volontà di resistenza nei confronti di un sistema iniquo e ingiusto», osserva “Come Don Chisciotte”. «Deposte l’immaginazione e la volontà di cambiamento siamo solo diventati più gretti, cinici ed egoici». Per questo, i globalizzatori dell’abuso «hanno vinto su tutta la linea». De Gennaro resta al suo posto, alla presidenza di Finmeccanica? Ovvio. Lo difende Renzi, l’uomo che in nome delle riforme strutturali dettate dalla Troika e da Wall Street abolisce Senato e Province, introduce il licenziamento facile con il Jobs Act e costruisce una legge elettorale monarchica. La differenza, rispetto al 2001, è che nessuno scende più in piazza. Pochi si accorgono di quello che sta realmente accadendo, nell’area-test chiamata Europa. Al pessimismo universale dei blogger si oppone la voce di Magaldi: insieme alla Francia, sostiene, l’Italia è il solo paese in cui è possibile far partire qualcosa che assomigli a un risveglio. Non a caso, la “punizione” dell’infame G8 del 2001 fu progettata proprio in Italia. Ed era solo l’inizio: la “tortura” continua.

    La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.

  • Barnard: via la dittatura? Solo grazie a un nuovo Gorbaciov

    Scritto il 10/4/15 • nella Categoria: idee • (8)

    La dittatura dell’élite crollerà solo dall’interno, se e quando – al momento buono – verrà fatta collassare da esponenti dello stesso potere, illuminati e preparatissimi, capaci di restare sott’acqua per anni, conquistando la fiducia degli egemoni. E’ la lezione della storia: l’impero sovietico fu fatto cadere nel solo modo possibile, e cioè dal suo interno, grazie all’ex presidente del Kgb, un certo Mikhail Gorbaciov. Lo sostiene Paolo Barnard, prendendo spunto da opposte riflessioni fornite da attenti lettori, divisi sul ruolo politico di strumenti di comunicazione di massa come Facebook. Straordinaria opportunità di veicolare messaggi rivoluzionari in modo virale o “oppio dei popoli” per concedere a tutti la possibilità di uno sfogo innocuo e comunque controllato dal sistema industriale delle comunicazioni? Sono vere entrambe le interpretazioni, scrive Barnard sul suo blog. Con tutti i suoi limiti, persino Facebook può servire la causa dell’umanità. A patto però che, un giorno, si svegli un Gorbaciov disposto a terremotare il potere. Viceversa, ogni tipo di rivolta dall’esterno sarà perfettamente inutile.
    Nicolas Micheletti è ottimista: Facebook, scrive, è un’arma decisamente sottovalutata. E’ vero, «può portare dipendenza patologica, ci stacca dalla realtà, ci toglie tempo libero per studiare testi che ci aprirebbero la mente». Ma il network creato da Zuckerberg può anche informare e sensibilizzare: «Con Facebook ogni persona può essere un “giornalista”, ogni persona può essere una rampa per l’informazione». Lorenzo Cortonesi invece non si fa illusioni: il social network ti concede sì di circuitare idee intelligenti, ma «a patto che non rompi troppo i coglioni». Ovvero: «Se tu arrivassi a 60 milioni di visualizzazioni», cioè «i numeri che davvero cambierebbero qualcosa», magari per parlare dell’“economicidio europeo”, «scompariresti nella nebbia in 20 secondi esatti». Motivo: «Non è concepibile usare Fb per fare “vero giornalismo”, semplicemente perchè non è stato creato per questo».
    Realismo: «Credi davvero che uno di noi o tanti di noi possano cambiare il mondo con Fb? Por favor». Davvero pensiamo che «una Merkel, un Draghi, non sappiano cos’è Facebook e che cosa potrebbe scatenare se davvero “funzionasse”?».
    «Nulla viene lasciato al caso, con multinazionali come queste», scrive Cortonesi, rispondendo a Micheletti. «Fb è solo quello che Paolo Barnard disse una volta (e con piena ragione) in una sua vecchia intervista a proposito di Grillo e il suo movimento di grillini: una valvola di sfogo. Io aggiungo, un luogo per apatici rincoglioniti, ridotti a postare mici e aforismi del cazzo. Nulla di più. E questo non preoccupa nessuno». Chi invece ha provato seriamente a fare informazione «è stato bannato, censurato, oscurato». I motivi? «Apparentemente tecnici o di comportamento», ma nella realtà «“rompi il cazzo e sei pericoloso”: ne abbiamo avuto prova proprio in questi giorni con la pagina di Paolo, rimossa più volte». Quindi, «non facciamoci abbindolare sempre da queste “visioni” salvifiche: non cambi niente da casa, seduto a scrivere un articolo». La verità è che «i “rentiers” se ne strafregano di Facebook perché sono loro che ci mettono i soldi per farlo campare». Ok. Che fare, allora? Solo lo 0,2% dell’opinione pubblica, secondo Barnard, «ha compreso che chi comanda la nostra vita in tutto ciò che conta sono oggi strutture sovranazionali immensamente potenti». Quindi, «quali strumenti e strategie dobbiamo usare per arginare The Machine?».
    Francamente: «Conta qualcosa fare cartelli con lo spray e sfilare per le strade? Conta Facebook? Conta informare la gente, e la… gggènte? Conta fare Onlus e associazioni? Conta uno sciopero della fame o mettere il proprio corpo contro proiettili di gomma?». Il grande giornalista, autore de “Il più grande crimine” (prima clamorosa denuncia contro il “golpe” finanziario dell’élite neo-feudale che sta rottamando la democrazia) propende per un’altra soluzione: forse, aggiunge, «l’unica cosa che conta davvero è starsene muti per 35 anni della propria vita, arrivare come colletti bianchi dentro le stanze di un ministero, dentro quelle di una megabanca, dentro quelle di una potente think tank, quelle della Bocconi, della Sapienza e, dall’interno, sferrare l’attacco». E spiega: «L’Urss non l’hanno neppure intaccata di una scheggia i sacrifici tragici ed eroici dei dissidenti spediti in manicomi o in Siberia, l’ha fatta crollare dall’interno proprio il suo presidente (e non certo Reagan o il Papa)». Per Barnard, «il colpo finale al Vero Potere, se mai accadrà, sarà sferrato da una coalizione di super-tecnocrati favorevoli all’Interesse Pubblico». Personaggi «dalla preparazione micidiale (spaccano un capello in due con uno sguardo…), già insediati in posizioni di potere». Semplificando, aggiunge Barnard, è «ciò che successe quando John Maynard Keynes, Piero Sraffa e alcuni intellettuali altolocati inglesi come William Beveridge, tutti interni al Potere britannico, teorizzarono lo Stato Sociale, la Piena Occupazione, e l’economia nell’interesse pubblico». Quegli uomini «cambiarono il mondo di allora in Europa».
    Accadde anche in Italia, nel 1970, grazie a Giacomo Brodolini e Gino Giugni, «autori del più avanzato Statuto dei Lavoratori (pro lavoratori) del mondo». Erano anch’essi «colletti bianchi già interni al Potere. Eccezionali». La missione, oggi, è proprio questa: indirizzare i nuovi Gino Giugni verso la Mosler Economics, la sovranità monetaria, per liberare lo Stato dal ricatto della finanza e riconvertire l’economia verso la piena occupazione. I nuovi insider dovranno crescere nell’ombra e scalare posizioni di potere per poi scardinare, un giorno, il dispositivo neo-feudale che sta cancellando la civiltà democratica europea. Come Gorbaciov, gli insider dovranno conquistare la piena fiducia della Macchina: e quindi «scalare posizioni nei partiti, nei governi, nelle amministrazioni, in Ue», come fossero «impassibili finti burattini del Vero Potere». Il rischio? E’ che, al momento buono, il loro attacco «venga soffocato anche dall’interno della stanza dei bottoni». E qui allora entrano finalmente in gioco le associazioni, le Ong, gli attivisti: senza mai svelare il loro collegamento con i «colletti bianchi infiltrati», i militanti devono fin d’ora «lavorare come pazzi per divulgare sul territorio e alla popolazione intellettualmente raggiungibile», cioè non la totalità dell’opinione pubblica, «il messaggio economico di salvezza nazionale che i colletti bianchi serbano nascosto».
    La missione, dunque, consiste nel «rivelare al popolo raggiungibile l’inganno fatale del Vero Potere di oggi». In altre parole, «devono fargli capire che non esiste un’altra strada, e che la distruzione della civiltà dei diritti è ormai completa». Massima urgenza, quindi. Quest’opera di “facilitazione”, spiega Barnard, serve a risolvere un punto cruciale: «Creare una relativa massa di opinione pubblica che sappia farsi sentire, o meglio rumoreggiare, quando i nostri colletti bianchi porteranno alla luce le loro proposte per l’Interesse Pubblico dentro il Vero Potere». Quando tenteranno di soffocarli, «se le opinioni pubbliche, anche in numeri esigui ma rumorosi, si faranno sentire, il Vero Potere si spaventerà». Infatti, sottolinea Barnard, «l’unica cosa al mondo che può intimidire il Potere sono le opinioni pubbliche che si ribellano, o anche solo… l’impressione che le opinioni pubbliche si siano sollevate». Non ne siete convinti? «Come credete che abbia fatto un Pannella a portare in Italia aborto e divorzio in un’epoca in cui il potere del Vaticano/Dc era stellare? Si mosse una fetta (piccola ma rumorosa) di opinione pubblica». La “gente” è meglio lasciarla perdere: la maggioranza «conta meno di una solida, determinata minoranza di cittadini che si fa sentire». Quindi va bene tutto, anche Facebook. Purché il disegno sia chiaro.

    La dittatura dell’élite crollerà solo dall’interno, se e quando – al momento buono – verrà fatta collassare da esponenti dello stesso potere, illuminati e preparatissimi, capaci di restare sott’acqua per anni, conquistando la fiducia degli egemoni. E’ la lezione della storia: l’impero sovietico fu fatto cadere nel solo modo possibile, e cioè dal suo interno, grazie all’ex presidente del Kgb, un certo Mikhail Gorbaciov. Lo sostiene Paolo Barnard, prendendo spunto da opposte riflessioni fornite da attenti lettori, divisi sul ruolo politico di strumenti di comunicazione di massa come Facebook. Straordinaria opportunità di veicolare messaggi rivoluzionari in modo virale o “oppio dei popoli” per concedere a tutti la possibilità di uno sfogo innocuo e comunque controllato dal sistema industriale delle comunicazioni? Sono vere entrambe le interpretazioni, scrive Barnard sul suo blog. Con tutti i suoi limiti, persino Facebook può servire la causa dell’umanità. A patto però che, un giorno, si svegli un Gorbaciov disposto a terremotare il potere. Viceversa, ogni tipo di rivolta dall’esterno sarà perfettamente inutile.  

  • Afd: liberiamo la Grecia e l’Europa dall’orrore dell’euro

    Scritto il 03/4/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.
    Afd condanna l’attuale situazione che costringe i contribuenti europei a pagare e a portare sulle proprie spalle il peso di un’unione monetaria fallita, che sta prolungando le sofferenze della popolazione greca. Questa politica non ha alcun genere di giustificazione economica o morale. Sottolinea che non si può aspettare che la Germania riduca il suo livello di competitività per risolvere la crisi dell’Eurozona, mentre la “svalutazione interna” non può riuscire a migliorare la competitività della Grecia. Sostiene con forza che l’Europa nel suo insieme dovrebbe concentrarsi sul miglioramento della competitività per assicurarsi una posizione di leadership a livello mondiale. Insiste sul fatto che è nell’interesse comune dei contribuenti europei e della popolazione greca che si metta fine all’unione monetaria nella sua forma attuale. Più essa prolunga la sua esistenza, più pesanti saranno le perdite subite sia dai contribuenti europei che dalla popolazione greca, che ha già sofferto gli effetti distruttivi della politica di austerità.
    Sostiene che qualsiasi piano di ristrutturazione del debito greco deve essere accompagnato da un sistema di uscita concordata della Grecia dall’Eurozona. Ribadisce che tale uscita non deve significare l’uscita dall’Unione Europea, come dimostrano gli esempi di diversi paesi dell’Unione Europea che hanno un’economia fiorente ma non fanno parte dell’Eurozona. Sostiene che, visto il danno permanente che la partecipazione all’unione monetaria ha inflitto alla Grecia, è necessario favorire un ritorno dell’economia greca alla crescita. Invita i leader europei a preparare tutte le misure giuridiche ed economiche per ridurre il costo dell’uscita dall’euro, sia per la Grecia che per tutti i paesi dell’Eurozona. Invita i partiti europei centristi a cooperare per l’attuazione di una procedura di uscita concordata per i paesi che si trovano attualmente in condizioni di grave crisi economica; in mancanza di ciò i partiti estremisti, sia di sinistra che di destra, si affermeranno sempre più sullo scenario europeo.
    (Alternative für Deutschland, “Manifesto per la ripresa economica della Grecia” pubblicato dalla formazione politica no-euro tedesca e ripresa dal blog “Vox Populi” il 2 aprile 2015).

    Alternative für Deutschland (“Alternativa per la Germania”) è un partito pro-europeo che sostiene fondamentalmente i principi della competitività, della sussidiarietà e dei buoni rapporti reciproci tra le nazioni europee, convinto che ciascuna nazione dovrebbe avere il controllo del proprio destino economico. A tale scopo, Afd constata con inquietudine che la politica fatta per salvare l’euro a qualsiasi costo (politica sostenuta dal governo tedesco) ha portato ad una forte reazione anti-tedesca in Grecia. Sottolinea che una moneta sopravvalutata ha deteriorato senza speranze di miglioramento la competitività dell’economia greca, ha contribuito a generare disoccupazione di massa e ha chiuso un’intera “generazione perduta” in una situazione senza via d’uscita. Ritiene che il mantenimento dell’unione monetaria nella sua forma attuale è in contrasto con gli interessi della società e dell’economia greca, economia che ha bisogno di una forte svalutazione per ritrovare la strada della ripresa.

  • La Bce: non ci sarà più lavoro nemmeno in caso di ripresa

    Scritto il 03/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri VERITA’, che scrivono per i loro grandi capi la VERITA’. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro.  E cosa ci dicono i tecnici che sanno la VERITA’ nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi MONETARI (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’ECONOMIA REALE non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).
    E soprattutto che anche alla fine di tutti i trucchi di Draghi e della cosiddetta ripresa di cui parlano i giornalisti puzzoni delle Tv e quotidiani, attenti… La disoccupazione in Eurozona RIMARRA’ QUASI IDENTICA A OGGI, cioè RISOLTO NULLA, ZERO, per noi gente, famiglie, aziende. ZERO, NULLA. Questo ci dice “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Ma peggio. Il documento interno ha portato il “Financial Times” a scrivere: «La crisi dell’Eurozona è stata così devastante che ha PERMANENTEMENTE DISTRUTTO la capacità delle sue economie di creare lavoro, persino quando ci sarà ripresa». Agghiacciante. Questa è la verità del vostro futuro, ragazzi.
    E poi la beffa finale. Prima della crisi, INTERAMENTE DOVUTA all’avvento dell’euro come moneta non sovrana per nessuno (con moneta sovrana come il dollaro si rimedia, infatti gli Usa della crisi hanno oggi il 5,5% di disoccupazione, non il 12-14% nostro), ci dice il documento della Bce, «le disoccupazioni erano più o meno simili in tutti i maggiori paesi d’Europa». No, ma l’euro è un successone, suvvia. Lo dice Ezio Mauro di La (vomito) Repubblica, non date retta ai tecnici della Bce. De Benedetti ne sa di più. Poveri voi ragazzi. Vi voglio bene.
    (Paolo Barnard, “Dietro i loro sorrisi si cela il vostro funerale, ragazzi: la ripresa vista dal vero potere”, dal blog di Barnard del 28 marzo 2015).

    Vedete, parlo semplice. Ci sono i grandi capi, quelli che, come Mario Draghi o Jean-Claude Juncker, appaiono in pubblico e davanti alla stampa. Loro sorridono, e come canta l’immensa canzone di Povia “Chi comanda il mondo” vi dicono che tutto va bene, c’è la ripresa. Voi ragazzi, qui in Italia disoccupati al 44%, in Spagna oltre il 55% ecc, sperate. Poi ci sono i tecnici che lavorano nell’ombra degli uffici dei grandi capi, quegli scienziati economici ragionieri dei numeri verità, che scrivono per i loro grandi capi la verità. Eccola: “March 2015 Ecb Staff Macroeconomics Projections for the Euro Area”. Tradotto è: marzo 2015, proiezioni macroeconomiche del personale della Bce per la zona euro.  E cosa ci dicono i tecnici che sanno la verità nelle ombre della dittatura dell’Eurozona? Che Draghi non risolverà un accidenti di nulla con tutti i suoi trucchi monetari (T-Ltro, Abs, Omt, Qe), perché l’economia reale non ne beneficia (lo diceva anche Barnard).

  • Celente: le banche (e i loro politici) ci stanno rubando tutto

    Scritto il 01/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.
    Obama dichiarò: «Quattrocentomila uomini e donne stanno per mettersi al lavoro per la ricostruzione delle nostre strade e dei nostri ponti fatiscenti, per la riparazione delle nostre dighe e i nostri argini instabili, per portare la banda larga alle imprese e alle famiglie in quasi tutte le comunità degli Stati Uniti d’America, per ammodernare i nostri sistemi di trasporto di massa e per la costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità in grado di migliorare gli spostamenti e il commercio in tutta la nostra nazione». Le uniche ‘strade’ che quel trilione di dollari ha riparato veramente sono quelle di Wall Street. Allo stesso tempo, la Federal Reserve statunitense ha portato i tassi di interesse ai minimi storici e ha lanciato politiche di allentamento monetario senza precedenti, che hanno alimentato un boom di Wall Street al costo di Main Street. Il Dow è salito da 8.000 nel 2009 a 18.000 nel 2014, mentre si stima che il 95% dei guadagni è andato all’1% della popolazione degli Stati Uniti.
    Tuttavia, nello stesso periodo, il prodotto interno lordo ha arrancato intorno a una media del 2,2 %, senza mai dar segno di quel rialzo di cui tanto parlano e si vantano quelli di Washington e la stampa finanziaria. A seguito del piano della Fed, il programma monetario ‘Abenomico’ giapponese annunciato nel dicembre del 2012, ha ottenuto risultati simili. Il Nikkei recentemente ha raggiunto picchi mai toccati da 15 anni a questa parte, mentre il Pil del Giappone oscilla tra cadute improvvise e tiepidi rialzi. Ora, la Banca Centrale Europea ha avviato un programma di Qe (quantitative easing, allentamento monetario) che inietterà 1.300 miliardi di dollari nel sistema finanziario nel corso dei prossimi 16 mesi – e forse anche più a lungo, se sarà ritenuto necessario. Il risultato finale, come per Usa e Giappone, sarà lo stesso: i tassi d’interesse ai minimi storici e il flusso di denaro ‘facile’ faranno rialzare temporaneamente i mercati azionari, mentre le economie dell’Eurozona oscilleranno tra moderata crescita e nuova recessione.
    I più grandi perdenti in tutto questo saranno i comuni cittadini, senza più un posto sicuro dove mettere i propri risparmi e con sempre più banche europee che ‘pagano’ alcuni selezionati clienti per poter tenere il loro denaro. E con le obbligazioni che ripagano i rendimenti negativi, le compagnie di assicurazione che vendono prodotti e rendite e investono quel denaro in obbligazioni governative e societarie – con l’aspettativa che il rendimento delle obbligazioni sia maggiore di quello che dovranno pagare per l’assicurato – il danno è assicurato. In previsione del piano di Qe del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, che ammette si tratti di un piano “non convenzionale”, gli investitori (o meglio i giocatori d’azzardo di alto bordo) hanno già pompato circa 36 miliardi di dollari nei mercati azionari europei.
    Nel frattempo, l’uomo della strada ha appena visto il suo potere d’acquisto scendere drammaticamente a mano a mano che l’euro continua la sua caduta libera, da 1,39 dollari lo scorso marzo a un recente minimo di 1,04 , con la  previsione che nel futuro – non troppo lontano – vada in parità o scenda anche al di sotto del dollaro. Breaking Point 2.0. Le iniezioni multi-trilionarie di dollari da parte delle banche centrali, le politiche a tasso zero, i tassi d’interesse negativi, i rendimenti obbligazionari negativi e i fiumi di dollari a basso prezzo che gonfiano artificialmente i mercati azionari e alimentano i giochi perversi di investimenti di capitali/private equity/hedge fund, hanno già avuto dei precedenti nella storia del mondo. E quando sulla terra esplode la Grande Bolla Speculativa, lo scoppio si avverte in tutto il mondo – e per generazioni.
    (Gerald Celente, “Il tuo denaro, la tua vita”, da “Information Clearing House” del 26 marzo 2015, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Fondatore e direttore del “Trends Research Institute”, autore di “Trends 2000” e “Trend Tracking” nonché editore del “The Trends Journal”, Celente fa previsioni economiche e finanziarie fin dal 1980 e di recente ha pubblicato “Il Collasso del ‘09”).

    Non è mai accaduto niente di simile nella storia del mondo. Sotto gli occhi di tutti, e a spese di tutti, i governi continuano a razziare ingenti ricchezze per arricchire i responsabili dei più efferati crimini e nefandezze economico-finanziarie. Prima c’era la Tarp. Come pretesto per arginare le turbolenze nel mercato azionario dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il presidente George W. Bush approvò solo un mese dopo il “Troubled Asset Relief Program”. Il piano permise al Tesoro degli Stati Uniti di assicurare 700 miliardi di dollari di “beni in difficoltà”, un eufemismo che in realtà significa coprire le nefandezze finanziarie commesse dalle grandi banche e dai grandi speculatori di Wall Street. Poco dopo, il neo-eletto presidente Barack Obama appioppò alla sua nazione nel 2009 il “Recovery and Reinvestment Act”, un piano da 900 miliardi, il più vasto programma finanziario del genere nell’intera storia americana.

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