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Archivio del Tag ‘morale’

  • Giulietto Chiesa: difendiamoci, niente sarà più come prima

    Scritto il 12/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Sappiamo già che andremo in recessione. La crisi è sicuramente molto grave, molto seria, e sarà una crisi non soltanto italiana: sarà una crisi mondiale. Cosa ha che fare, col Mes? Con tutta probabilità, nel caso venisse approvato, questo cosiddetto “meccanismo salva-Stati”, presto ci troveremmo in una situazione insostenibile, in Italia. Perché adesso ci lasceranno sforare, ci lasceranno spendere un po’ di più – o meglio, ci diranno che potremo spendere un po’ di più. Quanto più spenderemo (e credo che dovremo spendere molto, per fermare questa emergenza), tanto più fra qualche mese ci diranno che siamo inadempienti, che siamo in debito e che dovremo pagare. E siccome dovremo pagare, ci dovremo rivolgere a questo nuovo organismo internazionale, che ci darà i soldi. Cioè: ci darà i soldi prendendoli dalle nostre tasche, perché sono i soldi che ci abbiamo messo noi. Quindi dovremo pagare al tasso d’interesse che loro decidono e che noi non potremo controllare, perché saranno “i mercati” a dire quanto e quando dovremo pagare. Non potremo farlo, e dunque ci commissarieranno. Quindi il Mes è uno scivolo, per andare velocemente in Grecia. E a prendere queste decisioni, come sempre, non sono quelli che governano in Italia: queste decisioni si prendono un po’ più in su, al piano di sopra. E i “padroni universali” sfruttano anche le crisi che nascono: lo fanno per fregare la gente, cioè tutti noi.
    Sostanzialmente, quindi, noi andiamo verso una grave crisi sociale: per pagare la quale, la prima cosa che decideranno di fare sarà mettere i soldi nelle tasche di tutti gli italiani, nei loro conti correnti. Ci porteranno via i soldi: quello che abbiamo risparmiato, tutti insieme, resterà a disposizione delle banche. Poi c’è la dimensione mondiale della crisi (sanitaria, epidemica, pandemica). Abbiamo di fronte un problema nuovo: la società nella quale viviamo non è più sostenibile. Quello che sta accadendo ci dice che è cominciata l’era della insostenibilità. Il che vuol dire che dobbiamo abituarci a pensare in termini molto più vasti, perché quello che sta accadendo non è transitorio: è un cambio d’epoca. Forse non tutti se ne sono ancora accorti, ma io lo dico perché vorrei che ce ne accorgessimo. Questo è un cambio d’epoca, nel quale tutti i criteri e i parametri della nostra vita saranno rimessi in discussione: l’economia, la cultura, la morale, i rapporti sociali. Tutto sta saltando.
    Quello su cui tutti vivevamo tranquilli, più o meno, era l’accettazione di una società che, ora lo vediamo, non può più stare in piedi. Non sta in piedi, sicuramente, insieme alla democrazia. Tant’è vero che in questo momento noi oggi siamo qui (su YouTube, ndr) perché non c’è democrazia: è una democrazia sospesa. Dobbiamo cominciare a pensare di organizzarci in un mondo diverso, che non sarà più quello dell’altro ieri. E organizzarci per difenderci significa mettere in piedi degli strumenti che ci consentano, appunto, di sapere che cosa sta accadendo. Questa informazione che noi oggi stiamo dando, in questa forma, dice questo: o noi avremo un canale di comunicazione per il popolo, in grado di dire la verità al popolo, o ci troveremo improvvisamente indifesi in una situazione in cui non potremo agire. E’ l’inizio di una nuova riflessione politica, per tutto il movimento di opposizione al potere dei “padroni universali”. Vi saluto con un augurio: che questa riflessione la facciamo tutti insieme, in qualunque parte d’Italia, e possibilmente anche in qualunque parte del mondo. Buona fortuna.
    (Giulietto Chiesa, intervento nella diretta web-streaming “Mes, fermare il contagio” trasmessa su “ByoBlu” e “Pandora Tv” il 7 marzo 2020, registrata su YouTube).

    Sappiamo già che andremo in recessione. La crisi è sicuramente molto grave, molto seria, e sarà una crisi non soltanto italiana: sarà una crisi mondiale. Cosa ha che fare, col Mes? Con tutta probabilità, nel caso venisse approvato, questo cosiddetto “meccanismo salva-Stati”, presto ci troveremmo in una situazione insostenibile, in Italia. Perché adesso ci lasceranno sforare, ci lasceranno spendere un po’ di più – o meglio, ci diranno che potremo spendere un po’ di più. Quanto più spenderemo (e credo che dovremo spendere molto, per fermare questa emergenza), tanto più fra qualche mese ci diranno che siamo inadempienti, che siamo in debito e che dovremo pagare. E siccome dovremo pagare, ci dovremo rivolgere a questo nuovo organismo internazionale, che ci darà i soldi. Cioè: ci darà i soldi prendendoli dalle nostre tasche, perché sono i soldi che ci abbiamo messo noi. Quindi dovremo pagare al tasso d’interesse che loro decidono e che noi non potremo controllare, perché saranno “i mercati” a dire quanto e quando dovremo pagare. Non potremo farlo, e dunque ci commissarieranno. Quindi il Mes è uno scivolo, per andare velocemente in Grecia. E a prendere queste decisioni, come sempre, non sono quelli che governano in Italia: queste decisioni si prendono un po’ più in su, al piano di sopra. E i “padroni universali” sfruttano anche le crisi che nascono: lo fanno per fregare la gente, cioè tutti noi.

  • Carotenuto: la Cina guarisce dal virus, ma non ce lo dicono

    Scritto il 12/3/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Questa mattina, per vedere le ultime notizie sul coronavirus, apro il sito dell’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana, quella che dà il la alla comunicazione dei media. E trovo il seguente comunicato, che è in comune tra l’agenzia italiana e la francese Afp. Eccolo: «Roma, 6 marzo. La Cina ha riportato 30 nuovi morti legati al coronavirus, 143 nuove infezioni e 16 cosiddetti “contagi di ritorno”, i casi importati da persone arrivate nel paese. Nel complesso, sono 3.042 le persone decedute in Cina per il Covid-19, ha riferito la Commissione sanitaria nazionale (Nhc)». Bene, questo l’aggiornamento. Ma d’istinto non mi fido, visto come viene fatta la comunicazione dei media su certi argomenti, diciamo, “delicati” per l’opinione pubblica. Anche perché nei giorni precedenti una notizia che mi era sembrata importante, era che in Cina l’epidemia stava perdendo forza. Che era quella che mi interessava di più. Ma da questo comunicato proprio non si evinceva. E allora mi sono ricordato di quando – quasi 50 anni fa – ero un giovanissimo praticante giornalista, e dei giornalisti anziani – proprio dell’Ansa – mi diedero un loro libro a scopo istruttivo.
    Il libro era una sorta di manualetto su come presentare, come scrivere una notizia. Nel quale trovai un tesoro di indicazioni su come, scrivendo sempre cose vere, si poteva camuffare, deviare, alterare la verità di certi fatti. E condurre di conseguenza i lettori a farsi un’idea sbagliata dei fatti, o tale da indirizzarli a trarne certe, volute conclusioni. E allora, sulla base di questo ricordo, mi dico: bene, facciamo una verifica. Visto che Ansa e Afp citano la fonte, il governo cinese, vado a vedere cosa scrive il comunicato originale cinese. E cosa scopro? Che nel comunicato Ansa manca un pezzo… e il pezzo, guarda caso, sono le buone notizie: quelle che non vanno troppo evidenziate, se si vuole tenere la gente in tensione. Chi vuole vada a vedere tutto il comunicato cinese del 6 marzo, e si renderà conto del fatto che in quello dell’Ansa manca proprio la parte fondamentale: i dati su quanti sono i guariti del giorno e il loro totale, e su quanto si stanno riducendo i malati.
    E’ questo il classico modo tendenzioso di dare notizie, che segue la linea editoriale attuale di tutti i principali media: esaltare il problema e mandare in panico la gente, per trarre il massimo di benefici nel rafforzare il potere e gli interessi di quei gruppi anti-coscienza dai quali anche i media dipendono. E inoltre terrorizzare non aiuta nemmeno ad allertare maggiormente la gente a prendere le giuste misure di contenimento e igieniche. In effetti non fa altro che mandare in confusione le persone; e anzi, proprio per questo creare ulteriori ansie, agitazione e confusione che rischiano di produrre l’effetto opposto: una minore attenzione logica alle misure da prendere. E allora mi è venuto in mente di fare il contrario: di valutare direttamente – senza l’ulteriore filtro dei media, cosa emerge dai numeri cinesi. Pur sapendo che potrebbero essere in parte manipolati. Ma fiducioso nel fatto che, dopo i primi tentativi falliti di nascondere il problema, Pechino ha optato per una maggiore trasparenza. Confermata da alcune équipes di scienziati e osservatori internazionali che stanno seguendo le vicende sul territorio.
    I numeri dovrebbero essere sostanzialmente giusti, nella direzione di un retrocedere dell’epidemia, anche perché in varie province cinesi stanno diminuendo ufficialmente i livelli di allerta e di misure anti-contagio. Ma vediamoli, questi numeri, partendo da un grafico costantemente aggiornato da parte della John Hopkins University. Ecco, in questo grafico si vede l’andamento del virus: la linea superiore ocra è quella dei contagiati cinesi, quella verde quella dei guariti mondiali, in grandissima parte cinesi, e quella gialla mostra l’andamento dei contagiati nel resto del mondo. Cosa si vede? Che la tendenza dei contagiati cinesi non è più in rapida salita: circa 100-200 contagiati in più al giorno negli ultimi giorni, rispetto ai 3-4000 al giorno di un mese fa. Mentre la linea gialla in basso, dei contagiati del resto del mondo, comincia a salire negli ultimi 10 giorni, anche se ancora per il momento a ritmi inferiori a quelli cinesi.
    Ma quello che è interessante e positivo è che non solo stanno diminuendo di molto i contagiati cinesi; a questo si aggiunge il dato fondamentale espresso dalla linea verde: le guarigioni – soprattutto cinesi – stanno aumentando: tra le 1.770 e le quasi 3.000 al giorno negli ultimi giorni. Il che fa vedere anche graficamente come le due linee, ocra e verde, almeno per quello che riguarda la componente cinese, tendano ad unirsi entro un paio di settimane. Evidenziando una probabile, totale o pressoché totale scomparsa del virus in Cina. Avete sentito sui media qualcuno evidenziare la possibile prossima fine dell’epidemia cinese? Poco o niente, altro è quello che si vuole suscitare nella gente. E per l’Italia e il resto del mondo? Se la tendenza fosse simile, e le misure di contenimento messe in atto dai governi sufficientemente efficaci, l’evoluzione del virus potrebbe essere la stessa.
    In Italia stiamo entrando nella zona di picco, in particolare nelle zone rosse, e potremmo vedere tra non molto una diminuzione analoga a quella cinese dei nuovi casi ed un aumento giorno per giorno dei guariti, fino all’auspicabile esaurimento dell’epidemia. E questo, senza che si sia trovato ancora il vaccino o l’antivirale specifico. Ma esaminiamo ancora meglio e in particolare il caso più eclatante, quello della provincia dell’Hubei, con capoluogo Wuhan (undici milioni di abitanti). E lo facciamo per due motivi: per capire come si comporta questa epidemia in una zona rossa chiusa, dove ormai la gente è esposta al contagio, contagiata, guarita o già morta. E perchè questa provincia ha quasi lo stesso numero di abitanti dell’Italia: 58.500.000.
    Nell’Hubei, come nelle zone rosse ormai chiuse, non si tratta tanto e solo di limitare il contagio per non estenderlo fuori dalla zona rossa, quanto soprattutto di farlo finire. Le autorità cinesi hanno chiuso la zona, compartimentato, isolato le persone in casa, anche con estrema durezza, e costruito ospedali in tutta fretta. Reagendo forse con minore preparazione della nostra, presi di sorpresa dall’esplodere del virus, che probabilmente circolava già da qualche mese nella provincia senza suscitare alcun allarme. Vediamo allora la sintesi di cosa è successo e di cosa sta succedendo nell’Hubei in questa tabella, i cui dati sono estratti dai bollettini del governo cinese. Da questi dati si vede che nell’Hubei il 5 febbraio c’è stato il massimo di nuovi contagiati giornalieri, ancora relativamente pochi morti, e pochi guariti. Poi il 19 febbraio si arriva al punto di svolta: i guariti superano i contagi giornalieri, improvvisamente di parecchio: 1.209 guariti rispetto a 349 contagiati.
    E infine i dati del 5 marzo, quando l’evoluzione dell’epidemia ha progressivamente prodotto molti meno contagiati giornalieri, fino a 126, un numero più limitato di morti, 29, e soprattutto un numero più elevato di guarigioni, 1487. E molto interessante appare il fatto che nei totali, sulla destra della tabella, al momento del punto di svolta del 19 febbraio, su 62.031 contagiati ne erano guariti 10.337 e ne rimanevano da guarire 49.665, mentre ora su 67.592 ne sono guariti ben 41.956 e ne rimangono da guarire molti di meno: 22.695. E vediamo anche qualche dato percentuale di bilancio su questa vicenda sia nell’Hubei che in tutta la Cina. Cosa si vede? Che fino ad ora le percentuali di contagiati e di morti sono veramente minime, anche in relazione alla sola provincia dell’Hubei, di gran lunga fino ad ora il principale focolaio del mondo: 0,12% di contagiati e 0,005% di morti.
    Se tutto andasse secondo quanto prevedibile dagli andamenti statistici attuali, alla fine dell’epidemia la provincia-focolaio dell’Hubei avrà avuto circa 3.500 morti, pari allo 0,006% della sua popolazione. A meno di inattese riprese della virulenza dell’epidemia. Vediamo ora se da questi dati possiamo trarre qualche considerazione che riguarda la situazione italiana. Prima di tutto diciamo che nelle prossime settimane vedremo quando si raggiunge il picco, vale a dire il massimo di contagi giornalieri, quando questi cominciano a diminuire, e poi osservando quando si verifica il punto di svolta, quando i guariti giornalieri pareggeranno i contagiati, e poi finalmente quando i guariti giornalieri cominceranno ad essere sostanzialmente superiori ai nuovi contagi. E capiremo meglio le dimensioni del fenomeno che ci riguarda ed i suoi prevedibili tempi. Andasse nella maniera peggiore, come nell’Hubei, cosa che al momento riteniamo alquanto remota, avremmo 3.500 morti.
    In questa ipotesi ne potremmo avere anche di più, perché la percentuale di popolazione molto anziana italiana è superiore a quella cinese. Sarebbe qualcosa di drammatico, certamente, ma comunque non al di là di quello al quale siamo abituati ogni anno, anzi forse meno. Infatti, secondo una stima del nostro Istituto Superiore di Sanità, ogni anno ci sono in Italia dagli 8 ai 12.000 morti per la normale influenza. Con tutto che i vaccini anti-influenzali ci sono e vengono usati da circa metà della popolazione anziana. Quindi non andiamo in panico. Aspettiamo serenamente che l’epidemia passi, rinviando svaghi, vacanze e impegni laddove è possibile: non durerà per sempre. Sopportiamo il peso anche economico delle conseguenze dell’epidemia, con pazienza e fiducia. E osserviamo le misure cautelari che vengono indicate, più che altro per salvaguardare gli anziani in peggiori condizioni fisiche: più si espande il virus, più sono destinati a morirne.
    Non facciamoci prendere da ansie e paure immotivate, che favoriscono una maggiore presa su di noi da parte dei vari poteri di manipolazione, che sfruttano questo virus per condizionare la nostra psiche, dirigendola verso pensieri e scelte a loro favorevoli: per chi vuole convincerci a prendere per paura più farmaci e vaccini, anche quando non servono e ci ammalano; per chi vuole renderci sempre più dipendenti dalle macchine, dall’elettronica, e avvolgerci in una rete digitale disumanizzante e pericolosa per la salute; per chi vuole farci lavorare e studiare da soli, chiusi in una stanza, a contatto solo con una macchina, invece che nella meravigliosa esperienza di crescita della interazione umana con gli altri: gli insegnanti, i colleghi, i parenti, gli amici… E allora noi adottiamo un atteggiamento di vera e propria resistenza morale: prima di tutto informiamoci bene, per sfuggire alle sirene portatrici di disastri dei media; e portiamo ancora più al centro della nostra vita e del nostro tempo i valori umani, gli scambi di bene tra individui, gli ideali elevati, il rapporto con la natura, lo sforzo creativo del bene da fare ogni giorno. Fare questo ogni giorno, proprio nonostante le continue aggressioni alla nostra psiche e ai nostri corpi, ci renderà interiormente molto più forti ed evoluti nella giusta direzione della coscienza.
    (Fausto Carotenuto, “Coronavirus, cosa avviene veramente in Cina e quanto riguarda l’Italia”, dal blog “Coscienze in Rete” del 6 marzo 2020).

    Questa mattina, per vedere le ultime notizie sul coronavirus, apro il sito dell’Ansa, la principale agenzia di stampa italiana, quella che dà il la alla comunicazione dei media. E trovo il seguente comunicato, che è in comune tra l’agenzia italiana e la francese Afp. Eccolo: «Roma, 6 marzo. La Cina ha riportato 30 nuovi morti legati al coronavirus, 143 nuove infezioni e 16 cosiddetti “contagi di ritorno”, i casi importati da persone arrivate nel paese. Nel complesso, sono 3.042 le persone decedute in Cina per il Covid-19, ha riferito la Commissione sanitaria nazionale (Nhc)». Bene, questo l’aggiornamento. Ma d’istinto non mi fido, visto come viene fatta la comunicazione dei media su certi argomenti, diciamo, “delicati” per l’opinione pubblica. Anche perché nei giorni precedenti una notizia che mi era sembrata importante, era che in Cina l’epidemia stava perdendo forza. Che era quella che mi interessava di più. Ma da questo comunicato proprio non si evinceva. E allora mi sono ricordato di quando – quasi 50 anni fa – ero un giovanissimo praticante giornalista, e dei giornalisti anziani – proprio dell’Ansa – mi diedero un loro libro a scopo istruttivo.

  • L’Iran: perché noi sciiti detestiamo l’Occidente, che ci odia

    Scritto il 02/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.
    Personalmente, ho percorso questa strada della conoscenza fin dalla fine degli anni ’90 e sono ancora solo uno umile studente. Nello spirito di un primo approccio, per iniziare un dibattito informato Est-Ovest su un importante problema culturale, in Occidente totalmente accantonato o affogato in uno tsunami di propaganda, ho chiesto a tre validissimi studiosi quali fossero le loro prime impressioni. Questi sono: il professor Mohammad Marandi, dell’Università di Teheran, esperto di orientalismo; Arash Najaf-Zadeh, che scrive sotto lo pseudonimo di Blake Archer Williams ed è esperto di teologia sciita, e la coltissima principessa Vittoria Alliata, siciliana, tra le migliori islamiste italiane e autrice, tra le altre cose, di libri come l’incantevole “Harem”, che descrive in dettaglio i suoi viaggi in terra araba. Due settimane fa sono stato ospite della principessa Vittoria a Villa Valguarnera in Sicilia. C’eravamo immersi in una lunga ed avvincente discussione geopolitica, in cui uno dei temi chiave era stato lo scontro Usa-Iran, solo poche ore prima che un attacco di droni all’aeroporto di Baghdad uccidesse i due principali combattenti sciiti nella vera guerra al terrorismo dell’Isis/Daesh e di al-Qaeda/al-Nusra: il maggiore generale iraniano Qāsem Soleymānī e l’iracheno Hashd al-Shaabi, il braccio destro di Abu Mahdi al-Muhandis.
    Il professor Marandi fornisce una spiegazione sintetica: «L’odio irrazionale americano nei confronti dello Sciismo deriva dalla sua forte propensione a resistere all’ingiustizia: la storia di Karbala e Imam Hussein e lo sforzo sciita nel proteggere e difendere gli oppressi e lottare contro l’oppressore. Questo è qualcosa che gli Stati Uniti e le potenze egemoniche occidentali non riescono assolutamente a tollerare». Blake Archer Williams mi ha inviato una risposta che ho pubblicato come pezzo originale. Questo passaggio, che sviluppa il concetto di sacralità, sottolinea chiaramente l’abisso che separa il concetto sciita di martirio dal relativismo culturale occidentale: «Non c’è niente di più glorioso, per un musulmano, che raggiungere il martirio mentre combatte nel nome di Dio. Il generale Qāsem Soleymānī ha combattuto per molti anni con l’obiettivo di risvegliare il popolo iracheno e indurlo a riprendere nelle proprie mani il timone del destino del paese. Il voto del Parlamento iracheno ha dimostrato che il suo obiettivo è stato raggiunto. Il suo corpo ci è stato portato via, ma il suo spirito è stato amplificato mille volte e il suo martirio ha fatto sì che i frammenti della sua luce benedetta arrivassero ai cuori e alle menti di ogni uomo, donna e bambino mussulmano, immunizzandoli dal mortifero cancro dei relativisti culturali del diabolico Novus Ordo Seclorum».
    Un punto da chiarire: Novus Ordo Seclorum, o Saeculorum, significa “nuovo ordine dei secoli” e deriva da un famoso poema di Virgilio che, nel medioevo, era considerato dai cristiani la profezia della venuta di Cristo. Su questo punto, Williams ha risposto che «mentre questo significato etimologico della frase è vero e rimane valido, la frase era stata usata da George Bush figlio per caratterizzare la cabala globalista del Nuovo Ordine Mondiale, ed è questo il senso che è attualmente predominante». La principessa Vittoria preferirebbe centrare il dibattito sull’indiscutibile atteggiamento americano nei confronti del Wahhabismo: «Non credo che tutto ciò abbia a che fare con l’odiare o l’ignorare lo Sciismo. Dopotutto, l’Aga Khan è molto ben integrato nella sicurezza degli Stati Uniti, una sorta di Dalai Lama del mondo islamico. Credo che l’influenza satanica derivi dal Wahhabismo e dai reali sauditi, che, per tutti i Sunniti del mondo, sono molto più eretici degli Sciiti, ma che, per i governanti statunitensi, sono l’unico contatto con l’Islam. I sauditi hanno dapprima finanziato la maggior parte degli omicidi e delle guerre della Fratellanza Islamica, poi le altre forme di Salafismo, tutte incentrate su una base wahhabita».
    Quindi, continua la principessa Vittoria, «non proverei tanto a spiegare lo Sciismo, quanto il Wahhabismo e le sue devastanti conseguenze: ha dato origine a tutte le forme di estremismo, al revisionismo, all’ateismo, alla distruzione dei santuari e dei leader Sufi in tutto il mondo islamico. E ovviamente, il Wahhabismo è molto vicino al Sionismo. Ci sono anche ricercatori che hanno prodotto documenti secondo cui Casa Saud sarebbe una tribù Dunmeh di ebrei convertiti e scacciati da Medina dal Profeta, dopo che avevano tentato di ucciderlo, nonostante avessero firmato un trattato di pace». La principessa Vittoria sottolinea anche il fatto che «la Rivoluzione Iraniana e i gruppi sciiti in Medio Oriente sono oggi l’unica forza di successo in grado di resistere agli Stati Uniti, e questo li fa odiare più degli altri. Ma solo dopo che tutti gli altri avversari sunniti sono stati eliminati, uccisi, terrorizzati (basti pensare all’Algeria, ma ci sono dozzine di altri esempi) o corrotti. Questa ovviamente non è solo la mia opinione, ma quella della maggior parte degli islamologi di oggi».
    Essendo al corrente delle ampie conoscenze di Williams sulla teologia sciita e della sua padronanza della filosofia occidentale, l’ho spinto, letteralmente, a “cercare la giugulare”. E mi ha risposto: «La domanda sul perché i politici americani non siano in grado di comprendere l’Islam sciita (o l’Islam in generale) è semplice: lo sfrenato capitalismo neoliberista ingenera l’oligarchia, e gli oligarchi ‘selezionano’ i candidati che rappresentano i loro interessi prima ancora che vengano ‘eletti’ dalle masse ignoranti. Eccezioni populiste come Trump, di tanto in tanto, filtrano tra le maglie della rete (o non ci riescono, come nel caso di Ross Perot, che si era ritirato sotto coercizione), ma anche Trump è stato poi messo sotto controllo dagli oligarchi attraverso minacce di impeachment, ecc. Quindi, il ruolo dei politici nelle democrazie non sembra essere quello di cercare di capirci qualcosa, ma, semplicemente, quello di portare a termine l’agenda delle élite che li controllano». “L’attacco alla giugulare” di Williams è un saggio lungo e complesso che mi piacerebbe pubblicare per intero solo quando il nostro dibattito si sarà approfondito, insieme a possibili confutazioni.
    Per riassumerlo, Williams delinea e discute le due principali tendenze della filosofia occidentale: i dogmatici contrapposti agli scettici. Spiega come «la santa trinità del mondo antico fosse, in effetti, la seconda ondata dei dogmatici che cercavano di salvare le città-Stato della Grecia e, più in generale, il mondo greco dalla decadenza dei sofisti», approfondisce il concetto di “terza ondata di scetticismo” che era iniziata con il Rinascimento e aveva raggiunto il culmine nel 17° secolo con Montaigne e Cartesio, e poi traccia connessioni «con l’Islam sciita e l’incapacità dell’Occidente di comprenderlo». E questo lo porta al “nocciolo della questione”: «Una terza opzione e un terzo flusso intellettuale su e al di sopra dei dogmatici e degli scettici: questa è la posizione degli studiosi di religione sciiti tradizionali (non quelli di indirizzo filosofico)». Ora confrontatelo con l’ultimo sforzo degli scettici, «come ammette lo stesso Cartesio quando parla del ’demone’ che gli era apparso in sogno e che lo aveva indotto a scrivere il “Discorso sul metodo” (1637) e “Meditazioni sulla prima filosofia” (1641).
    L’Occidente si sta ancora riprendendo dal colpo, e sembra che abbia deciso di mettere da parte i trampoli della ragione e dei sensi (che Kant aveva cercato invano di conciliare, rendendo le cose mille volte peggiori, più contorte e circonvolute) e voglia sguazzare in quella forma auto-congratulativa di irrazionalismo nota come postmodernismo, che dovrebbe essere giustamente chiamato ultra-modernismo o iper-modernismo, dal momento che non è meno radicato nella ‘svolta soggettiva’ cartesiana e nella ‘rivoluzione copernicana’ kantiana di quanto non lo fossero i primi moderni e i moderni veri e propri». Per riassumere un accostamento piuttosto complesso, «tutto ciò significa che le due civiltà hanno due visioni completamente diverse di quello che dovrebbe essere l’ordine mondiale. L’Iran crede che l’ordine del mondo dovrebbe essere quello che è sempre stato e che attualmente è nella realtà, che ci piaccia o no o che crediamo, o meno, nella realtà (come alcuni in Occidente non fanno). E l’Occidente secolarizzato crede in un nuovo ordine mondiale (contrapposto ad un ordine mondiale o divino). E quindi non è tanto uno scontro di civiltà quanto uno scontro di sacro contro profano, con gli elementi profani di entrambe le civiltà schierati contro le forze sacre di entrambe le civiltà. È lo scontro del sacro ordine di giustizia con l’ordine profano dello sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili; [è lo scontro] della profanazione della giustizia di Dio per il beneficio (a breve termine o di questo mondo) dei ribelli rispetto alla giustizia di Dio».
    Williams fornisce un esempio concreto per illustrare questi concetti astratti: «Il problema è che anche se tutti sanno che lo sfruttamento del Terzo Mondo nel 19° e nel 20° secolo da parte delle potenze occidentali era stato ingiusto e immorale, questo stesso sfruttamento continua ancora oggi. Il persistere di questa vergognosa ingiustizia è la ragione principale delle differenze esistenti tra Iran e Stati Uniti, che continueranno inevitabilmente finché gli Stati Uniti insisteranno nelle loro politiche di sfruttamento e fintanto che continueranno a proteggere i loro governi di occupazione, che riescono a sopravvivere contro la schiacciante volontà dei loro cittadini solo grazie alla ingombrante presenza delle forze statunitensi che li sostengono affinché possano continuare a servire gli interessi americani piuttosto che quelli delle loro popolazioni. È una guerra spirituale per il trionfo della giustizia e dell’autonomia nel Terzo Mondo. L’Occidente può continuare ad apparire bello ai propri occhi perché controlla tutta la messa in scena (del discorso mondiale), ma la sua immagine reale è evidente a tutti, anche se l’Occidente continua a vedersi come il Dorian Gray del romanzo di Oscar Wilde: una persona giovane e bella i cui peccati si riflettevano solo nel suo ritratto. Così, il ritratto riflette la realtà che il Terzo Mondo vede ogni giorno, mentre il Dorian Gray occidentale si vede come viene rappresentato dalla Cnn, dalla Bbc e dal “New York Times”».
    «L’imperialismo dell’Occidente in Asia occidentale è di solito simboleggiato dalla guerra di Napoleone Bonaparte contro gli Ottomani in Egitto e in Siria (1798-1801). Sin dall’inizio del 19° secolo, l’Occidente ha succhiato la vena giugulare del corpo politico musulmano come un vero vampiro, mai sazio di sangue musulmano, che si rifiuta di lasciare il corpo. Dal 1979, l’Iran, che ha sempre avuto il ruolo di leader intellettuale del mondo islamico, si è ribellato per porre fine a questo oltraggio contro la legge e la volontà di Dio e contro ogni decenza. Si tratta quindi del processo di revisione di una visione falsa e distorta della realtà per ritornare a ciò che la realtà è e dovrebbe effettivamente essere: un ordine giusto. Ma questa revisione è ostacolata sia dal fatto che i vampiri controllano la rappresentazione della realtà, sia dall’inettitudine degli intellettuali musulmani e dalla loro incapacità di comprendere anche solo i rudimenti della storia del pensiero occidentale, nel suo periodo antico, medievale e moderno».
    C’è una possibilità di distruggere tutta questa messa in scena? Forse: «Quello che deve succedere è il passaggio dell’autocoscienza mondiale dal paradigma in cui le persone credono che un pazzo come Pompeo e un buffone come Trump rappresentino l’essenza della normalità, ad un paradigma in cui le persone vedano Pompeo e Trump solo come un paio di gangster che fanno tutto ciò che vogliono, non importa quanto disgustoso e depravato, in completa e totale impunità. E questo è un processo di revisione ed un processo di risveglio verso un nuovo e più alto stato di coscienza politica. È un processo di rigetto del paradigma dominante e di unione all’Asse della Resistenza, il cui leader militare era il generale martire Qāsem Soleymānī. Non da ultimo, [questo processo] comporta il rifiuto dell’assurdo concetto di verità relativa (ed anche della relatività del tempo e dello spazio, scusaci Einstein), l’abbandono dell’assurda e nichilista filosofia dell’umanesimo, e il risveglio alla realtà dell’esistenza di un Creatore e del suo ruolo di comando. Ma, ovviamente, questo è troppo per la mentalità moderna, così illuminata da sapere tutto». Eccoci qua. E questo è solo l’inizio. Commenti pro e contro sono i benvenuti. Date una voce a tutte le anime bene informate: il dibattito è aperto.
    (Pepe Escobar, “Le radici della demonizzazione dell’Islam sciita da parte dell’America”, da “Unz.com” del 17 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).

    L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.

  • Giampaolo Pansa, l’ultimo gigante del giornalismo italiano

    Scritto il 13/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.
    E’ difficile immaginare il giornalismo italiano senza Giampaolo Pansa, scrive “Repubblica”: è stato protagonista di oltre mezzo secolo di carta stampata. Scomparso a Roma il 12 gennaio all’età di 84 anni, era nato nel 1935 a Casale Monferrato e aveva esordito a 26 anni alla “Stampa”, frequentando poi le redazioni delle testate più autorevoli, «lasciando ovunque una traccia della sua forte personalità: impetuosa, travolgente, anche generosa». La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont. Sul “Giorno” di Italo Pietra si dedicò a fotografare le trasformazioni dell’Italia del boom, con le contraddizioni del passaggio all’età industriale. Tornato alla “Stampa”, nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. Pochi anni più tardi, al “Corriere”, firmò con Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed. Nel 1977 l’approdo a “Repubblica” e l’inizio del suo lungo sodalizio con Eugenio Scalfari, ferocemente anticraxiano. Pietra miliare nell’attività saggistica di Pansa, il bestseller “Carte false” con cui, nel 1986, inquadrò profeticamente i maggiori vizi del giornalismo italiano “dimezzato”, al servizio del potere politico ed economico.
    In anni più recenti, la sua attività di storico lo ha posto al centro di furiose polemiche con volumi come “Il sangue dei vinti”, che smaschera i retroscena meno eroici della Resistenza: «Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti». Dopo tante pagine scritte «sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai “repubblichini”», disse Pansa a “Repubblica”, «mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia, ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Alla passione storiografica, Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza. Sul fascismo, Pansa non ha mai cambiato idea: ha definito la Resistenza partigiana la sua «patria morale». Lo ha ricordato ad Aldo Cazzullo, che l’ha intervistato per il “Corriere” nel 2018. La Resistenza come patria morale? «Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca». L’accusa: «La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo». Ancora: «Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è».
    Le guerre civili furono due, ricordava Pansa: «Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro». In pratica: «Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di Liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano, e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno». L’ottantenne Pansa probabilmente non scorse appieno – neppure voltandosi indietro – la grande manipolazione attorno a Mani Pulite che gambizzò l’Italia spazzando via l’intera classe politica italiana proprio alla vigilia della infelice stagione neo-europea, fatale per il nostro paese. Tendeva a liquidare sotto il peso delle loro colpe i campioni della Prima Repubblica, formidabilmente raccontati soprattutto nei loro difetti, fino a farne caricature magistrali (divertenti, e divertite). La penna acuminata di Pansa, tuttavia, restava lontana mille miglia dallo squadrismo post-giornalistico di oggi, che evita di farsi domande e si limita a colpire gli obiettivi indicati, di volta in volta, dai padroni del mainstream.
    Formatosi nella sinistra culturale italiana, era giunto a fustigare in modo impietoso sia la sinistra “baronale” dell’ex Pci, sbiadita nell’ossequio al neoliberismo, sia il populismo grillo-leghista, di cui Pansa temeva la possibile deriva fascistoide e xenofoba. Dell’antica classe politica che aveva contribuito a “picconare”, probabilmente Pansa rimpiangeva lo stile. E dopo aver fatto infuriare l’Anpi e la propaganda resistenziale egemonizzata dai post-comunisti, Pansa ricordava con immenso rispetto – anche di recente, sul “Corriere” – la sua storica intervista con il capo del Pci. «Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino», scriveva, il 2 novembre 2019. «Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione». Alla fine, Berlinguer gli disse: «L’Italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo paese, la nostra povera Italia».

    Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente e debordante Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.

  • Bradanini: gli Usa Stato-canaglia, ritiriamo le truppe italiane

    Scritto il 10/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.
    Però c’è un’altra cosa che mi preme dire: e cioè che, forse, gli eventi politici nella storia si giustificano anche quando una certa massa critica, in una determinata direzione, prende forma. Ora, l’America ha dimostrato negli ultimi anni di essere in declino, e di temere questo declino, sia pure relativo – rimane sempre una talassocrazia pericolosissima: ormai è uno Stato-canaglia, è il pericolo numero uno per la pace nel mondo. Tuttavia è un paese che si difende, e lo fa in maniera brutale: ad esempio stracciando quel poco di diritto internazionale di organizzazioni internazionali che eravamo riusciti a costruire. Ha messo in ginocchio il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Le Nazioni Unite ormai non contano più: l’America ha deciso di non pagare più il suo contribuito annuale, mettendo in ginocchio anche questa organizzazione. Poi ha strappato l’accordo nucleare con l’Iran, che era stato negoziato dalle grandi potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania, grande potenza aspirante). Per quanto riguarda Israele, l’America ha già dimostrato la sua affezione nei confronti delle politiche irrazionali israeliane, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato e riconoscendo le alture del Golan (che appartengono alla Siria).
    Tutta la comunità internazionale è insorta molto poco, davanti a queste due aberrazioni, dal punto di vista del diritto internazionale, e non fa che sostenere Israele nella sua politica degli insediamenti, che ormai impediscono in via definitiva la soluzione dei due Stati. In Medio Oriente tutto è cominciato lì, con la Palestina, che ancora non trova pace: anche i palestinesi hanno diritto a una patria. Il punto è che gli Stati Uniti vogliono agire come battitori liberi: non riconoscono più nessuna autorità morale, politica e giuridica alla comunità internazionale. Da parte dell’Europa ci vorrebbe un sussulto di tutela dell’etica politica, nella politica internazionale. E questo è un momento storico straordinario, per questo sussulto. L’Italia dovrebbe intanto ritirare tutti i suoi soldati presenti nell’area. Cosa ci stanno a fare, lì? Stanno facendo o il lavoro sporco al servizio degli interessi americani e israeliani, come nel Sud del Libano, oppure cose misteriose, in Iraq e in altre aree del Medio Oriente. Non sappiamo bene cosa stiano facendo; ma, se ci sono, è perché ce lo hanno imposto gli americani. Questo è il primo passo che un governo serio dovrebbe compiere.
    E’ un governo di due partiti che, sulla carta, si dicono contrari alla guerra, favorevoli alla pace, alla solidarietà e all’amicizia tra i popoli. Questo lo dovrebbero fare anche le altre nazioni europee. Quantop all’Ue, Josep Borrell non è il “ministro degli esteri dell’Europa”: è semplicemente un portavoce. La politica estera, in Europa, è appannaggio dei singoli Stati. L’Europa agisce e si fa sentire “ad una voce” quando lo vogliono le ex grandi potenze europee, cioè Francia e Germania, e fino a ieri anche la Gran Bretagna. Gli altri paesi, semplicemente, obbediscono. L’Italia non conta nulla. Questo è quello che, a mio avviso, si dovrebbe fare. Quello che l’Italia farà, molto probabilmente, è invece una sceneggiata: una presa di distanze soltanto formale, per poi allinearsi ai dettami americani. Questo è inevitabile, da parte di un paese colonizzato: non dimentichiamo che gli americani in Italia hanno 90 bombe atomiche, a prescindere da quelle che potrebbero arrivare dalla Turchia nei prossimi mesi, dislocate nei siti di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone). Inoltre gli Usa hanno oltre 100 siti militari, alcuni misteriosi, sparsi per tutto il paese. E la Germania è in una situazione analoga, insieme a piccoli paesi come l’Olanda e il Belgio. Poi ci sono le bombe atomiche inglesi, sempre al servizio dello Zio Sam, e quelle francesi, in apparenza più nazionali.
    In sostanza, la Nato (che al 90% significa “esercito americano”) e gli americani direttamente occupano l’Europa, che quindi è un territorio colonizzato. Quanto a noi, nessun governo italiano sarebbe in grado di fare quello che auspichiamo, in una situazione del genere: questo sarebbe il momento di cominciare a sbrogliare la matassa, per riconquistare la nostra indipendenza nazionale. E quindi: prendere le distanze da questo groviglio inestricabile, e da questo rischio gravissimo di un conflitto regionale e anche mondiale, che Trump ha messo in moto. Occorrerebbe rititare le nostre truppe e cominciare a ridiscutere una politica di indipendenza nei confronti della Nato e degli americani. Non c’è più nessun Patto di Varsavia che minaccia i paesi dell’Europa occidentale: semplicemente, la Nato non ha più senso.
    (Alberto Bradanini, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Maria Toscano. Bradanini, esponente di primissimo piano della diplomazia italiana, è stato a lungo ambasciatore a Teheran e poi a Pechino).

    La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.

  • Cabras a Salvini: per gli sciiti, Soleimani era come Garibaldi

    Scritto il 07/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.
    Un incendio che costerà lutti e caos, e che va fermato spegnendo anche le complicità dei mentecatti. Fra questi includo quel Salvini che si dimostra una volta di più un sovranista di cartone con l’anima del vassallo che si vende per un piatto di lenticchie ai padroni da lui cercati spasmodicamente, un irresponsabile impreparato che mette da subito in pericolo migliaia di militari italiani in Libano e in Iraq. Occorre risollevare la capacità di analisi, mettere da parte i sovranisti di cartone e i bacia-pantofole, e capire immediatamente qual è il nostro preminente interesse nazionale in un momento di così gravi tensioni internazionali. L’epoca del comando unilaterale ha superato ogni soglia di pericolo. Va evitata ogni escalation del conflitto, a partire dai rischi di guerra civile in Iraq e in tutta la Mezzaluna sciita. Potrà riuscirci solo un sistema di relazioni multilaterali che coinvolga tutte le capitali che contano, con cui parlare e da far parlare immediatamente.
    (Pino Cabras, “Capire la gravità di un omicidio politico. Mettiamo da parte i sovranisti di cartone”, da “Megachip” del 4 gennaio 2020. Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras è stato eletto deputato nel 2018 con i 5 Stelle ed è membro della commissione affari esteri della Camera. Ha pubblicato svariati saggi, tra cui “Balducci e Berlinguer. Il principio della speranza”, edito da La Zisa nel 1995, nonché “Strategie per una guerra mondiale. Dall’11 settembre al delitto Bhutto”, pubblicato da Aìsara nel 2008. Insieme allo stesso Chiesa, per Ponte alle Grazie, nel 2012 ha pubblicato “Barack Obush. La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino”. Veemente, lo scorso anno, la sua denuncia delle violenze scatenate a Caracas dai seguaci di Juan Guaidò, appoggiato dagli Usa, nel tentativo di rovesciare il presidente venezuelano Nicolas Maduro).

    Per rendersi conto – da italiani – dell’impatto morale e politico dell’assassinio deciso da Donald Trump e dai suoi falchi, potremmo paragonare il generale Qasem Soleimani alla forza iconica celebratissima di un Giuseppe Garibaldi, ma senza gli sbiadimenti e le annacquature dei secoli che passano. Un Garibaldi contemporaneo, dunque, con l’audacia propria del militare di razza, ma dotato anche di un’aura da predestinato – percepita a livello popolare in molti paesi – assimilabile a quella di un difensore della giustizia disinteressato, una sorta di Paolo Borsellino del mondo sciita. Per le caratteristiche dello sciismo contemporaneo – molto propenso ad attualizzare nella Storia di oggi le proprie tradizioni e la propria identità più profonda – un’altra figura eroica e martire diventa un’indispensabile termine di paragone: l’Imam Hussein. Il che crea una saldatura dalla forza inimmaginabile tra fede e passione politica rispetto alle inaridite passioni occidentali. Donald Trump non ha decapitato una forza. Nell’ascoltare il suo partito della guerra ha invece appiccato, come i suoi predecessori, un incendio che non saprà spegnere, perché circonda il Medio Oriente di basi militari ma non lo capisce.

  • De Benoist: il liberalismo dei diritti è nemico dell’umanità

    Scritto il 08/12/19 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    «Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.
    Alla sua base – traduce Blondet, sul suo blog – c’è l’individualismo, inteso nel modo più radicale: «L’idea che esistono solo gli individui, che sono primari rispetto alla comunità», la quale «non è che somma di individui-atomi», che alla società «non devono niente». Secondo de Benoist, il liberalismo non è (come pretende essere) l’ideologia della libertà, ma «l’ideologia che mette la libertà al servizio del solo individuo, affrancato da ogni appartenenza», e trasformato essenialmente in consumatore. Questa teoria sostiene che l’uomo è anzitutto «quello che ha liberamente scelto di essere, interamente padrone di sé e delle sue scelte, a partire non da qualcosa che già c’è, ma a partire dal niente». In questo, Blondet ravvisa le tracce ideologiche della “sinistra fucsia” messa alla frusta da Diego Fusaro, fondatore di Vox Italia. Blondet evoca un «partito radicale di massa, imperante totalitariamente». E spiega: il guaio, secondo lui, è «l’idea che la libertà sia “il diritto di avere diritti”, che “lo Stato esiste solo per soddisfare i desideri individuali, subito elevati a diritti”». E’ la mentalità diffusa nell’uomo comune odierno, «che si sente “liberato” dai “tabù”, e si fa adirittura psico-poliziotto a difesa di questa ideologia, ormai “fatto sociale totale”».
    Ma la più radicale asserzione del pensiero contro cui si scaglia de Benoist, aggiunge Blondet, viene dallo storico tempio intellettuale del liberismo, la Mont Pélerin Society, fondata nel ’47 nientemeno da Milton Friedman, Friedrich von Hayek e Karl Popper «per promuovere il libero mercato e la società aperta». La afferma un socio francese della Mont Pélerin, Bernard Lemennicier: ogni nazione, ha scritto, «è semplicemente un aggregato di esseri umani», quindi un «feticcio politico introvabile». Infatti, dice: «Come può una società avere dei valori e delle preferenze indipendentemente dai membri che la costituiscono?». Aggiunge Lemennicier: «Non bisogna ingannarsi sul sentimento di appartenenza. Non si appartiene ad una nazione, né a un territorio, né a uno Stato, che sono qualcosa di non-esistente, senza alienare il proprio libero arbitrio e la propria condizione di essere umano». Si capisce che, se aderisco a questa ideologia, «non ho, per principio, alcuna regola collettiva da rispettare, e nessun potere pubblico può ordinarmi di sacrificare la mia vita per una causa qualsiasi». Da questa affermazione dell’uomo della Mont Pélerin, secondo Blondet, «discendono direttamente la globalizzazione e tutti i “diritti umani”, il gender e lo spalancare le porte all’immigrazione senza limiti».
    Aggiunge Blondet: «Il nigeriano che è arrivato qui pagando gli scafisti e senza documenti è “un individuo” e quindi detentore assoluto dei ”diritti” superiori alla società, e un ministro che provi a frenare l’invasione viene catalogato come liberticida e malvagio», un delinquente da incriminare. Secondo de Benoist, «in nome dei diritti umani, si vuole proibire alle nazioni di approvare leggi che giudicherebbero eventualmente utili per preservare o incoraggiare la vita comune e l’educazione comune». Attenzione: come nel liberismo economico puro «non occorre tener conto della moralità o immoralità del bisogno cui risponde la cosa utile», la merce che acquistiamo, così uno Stato veramente liberale deve essere «indifferente rispetto ai fini», garante solo dei diritti «senza presupporre la minima concezione del bene». Ayn Rand, il celebre guru del libertarismo radicale, giunge a sancire: «L’altruismo è incompatibile con la libertà». Blondet riprende queste parole: «Il “diritto” che vige nel totalitarismo chiamato libertario, infatti, dissocia il senso della “giustizia” dal concetto di bene». E aggiunge: «Asserendo di prescindere da tutte le convinzioni etiche, religiose, filosofiche dei membri della comunità, rompe con l’idea secondo cui la salute pubblica e il bene comune passano anzitutto attraverso una presa in considerazione delle concezioni del bene nel dibattito pubblico».
    Blondet dice chiaramente come la pensa: “esagerando” con la libertà «ci si può drogare fino alla morte (depenalizzazione), infettarsi nelle dark rooms sodomitiche, farsi mutilare per cambiare sesso, affittare l’utero, esigere dallo Stato il suicidio assistito – e guai a chi giudica chi lo fa: è omofobo, fascista, bigotto». Nel falò morale finiscono «le madri che fanno somministrare ai figlioletti il farmaco che ritarda la pubertà perché possa scegliere più tardi cosa vuol essere sessualmente», assimilate alle «assistenti sociali di Bibbiano», le quali, «strappando i figli ai genitori per darli a coppie gay, puntano a creare “l’uomo nuovo”, l’individuo astratto senza appartenenze». Lo stesso individualismo radicale, sempre secondo Blondet (e de Benoist), provoca addirittura «la corruzione della democrazia». Il politico, si rammarica de Benoist, «non è più portatore di alcuna dimensione etica, nel senso che nel suo nome non si può esigere e nemmeno promuovere alcuna concezione del bene comune». E allora, conclude Blondet, perché poi ci stupiamo se quelli che eleggiamo sono senza principi? «Che svendano i monopoli pubblici redditizi come Autostrade agli amici, che intaschino i milioni del Mose invece di metterlo in funzione? Tout se tient: se volete avere come “diritti” i vostri vizi privati, dovete accettare gli effetti collaterali di questo “individualismo” radicale».
    Del resto, nonostante tutto il loro parlare di “democrazia”, contonua Blondet, i dirigenti liberisti sono ben pronti a eliminarla, come vediamo fare nella Ue. «Perché il loro credo è stato espresso nel modo più agghiacciante da Alain Minc, intellettuale-imprenditore a capo di una ditta autostradale: «Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è». C’è politica – sottolinea de Benoist – solo in riferimento a popoli e comunità: la “dittatura” del liberismo sotto cui oggi viviamo «è in sé un regime di devastazione dell’umano», come anche «della natura». Un regime «incompatibile con la cultura». Per de Benoist, è sempre il liberalismo (non il liberismo) a promuovere «l’abolizione di ogni morale che reprime la soddisfazione immediata del desiderio». E lo fa «attraverso la “deregolamentazione”», cioè la «distruzione generalizzata di tutto ciò che non ha valore mercantile». Come la famiglia: residuale «struttura collettiva non contrattuale», spazio di gratuità sottratto al mercato: in fondo, chiosa Blondet, è per questo che non facciamo più figli.
    Avere figli, per de Benoist, è «un sacrificio» dei nostri desideri individuali («pardon, “diritti”», corregge Blondet), oltreché «un costo» che di fatto «ostacola la nostra efficienza sul mercato del lavoro» e penalizza la nostra «competitività» nei confronti dei colleghi single. Conclusione: «Il liberalismo è il progetto politico di smantellamento completo dell’ordine della legge e uno dei più potenti motori del nichilismo». E tutta questa devastazione, scrive Blondet, si concretizza oggi «perché si è rigettata la verità antropologica sull’uomo». Ovvero: «L’uomo è un animale sociale, la cui esistenza è consustanziale alla società». Per Blondet, la comunità storica nazionale «gli ha dato quasi tutto, a cominciare dalla lingua, dalla cultura e dalla rete delle solidarietà giuridiche ed extra-giuridiche basate sulla appartenenza». La nazione, scrive de Benoist, «può chiedere alle persone di operare in primo luogo per il bene comune». Questo, secondo Blondet, distingue il cittadino dal semplice «individuo», in quanto tale «egoista, auto-distruttore e narciso».
    (Il libro: Alain de Benoist, “Critica al liberalismo. La società non è un mercato”, Arianna editrice, 286 pagine, euro 23,5).

    «Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.

  • Distruggere l’Italia: i grillini eguagliano il “record” di Monti

    Scritto il 29/11/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.
    Nel mezzo scorrono le relative faccine che testimoniano i vari capitoli del fallimento grillino: la fatuità egizio-partenopea del tardoprogressista Roberto Fico, col suo gne-gne napoletano sinistrese, pessima imitazione della già pessima Boldrini che l’ha preceduto; le improvvisate sciampiste cinquestelle che occuparono i ministeri con risultati penosi; il proverbiale Danilo Tonninelli (una enne l’ha guadagnata sul campo), prototipo del grillino doc, simbolo ottuso di tutti i no grillini a ogni opera; la ministra dell’autoDifesa Elisabetta Trenta che si è moltiplicata per sei ed è passata da Trenta a Centottanta (metri quadri), con le forze armate che portavano a spasso il cane, e lei che riceve gli eserciti di tutto il mondo a casa, perciò ha bisogno di una casa grande; il ministro alla pubblica ricreazione Lorenzo Fioramonti, che ha ridotto la scuola a un osservatorio climatico e si occupa di plastica e merendine da un punto di vista eco-progressista; per non dire delle pulcinellate di Gigino Di Maio, i suoi voltafaccia e i suoi vistosi errori presentati in modo trionfale: povertà abolita, disoccupazione battuta, acciaieria risanata, Alitalia in via di decollo, manette annunciate ai grandi evasori e occhiolino strizzato ai molti evasori, l’infatuazione suicida filo-cinese e altre enormi cappellate. Oggi lui è diventato il capro espiatorio ma il difetto è nel manico e in tutti gli ombrelli della ditta.
    Il reddito di cittadinanza resta la porcata più vistosa dei grillini, dal punto di vista del danno erariale, del danno sociale, del danno morale. Si ha ogni giorno di più la certezza che non produrrà un solo posto di lavoro in più né un solo lavoro nero in meno. Non è un reddito d’inclusione o d’inserimento, è solo un gravoso costo, parassitario e diseducativo, che peggiora il tessuto sociale del paese e il bilancio dello Stato, santifica l’inerzia, la demeritocrazia e pure il malaffare. È la versione stracciona, plebea e lazzarona del comunismo. All’inizio si disse che era un’indennità-divano, i grillini reagivano indignati, ma quella previsione era già ottimistica: molti titolari del reddito non stanno nemmeno a casa loro ma continuano di soppiatto i loro lavori neri e qualcuno addirittura continua le attività criminose, come si è visto. C’è poi TeleCasalino, un tempo Tg1, un imbarazzante volantino grillino e contino. Per non dire degli altri, dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede al ministro Vincenzo Spadafora e a tutta la gaia compagnia dei grillini. E per non risalire ai mandanti, Beppe Grillo e la Casaleggio & Associati, più qualche predicatore manettaro.
    Il fallimento dei grillini ha la faccia sconsolata dell’esule, il Comandante Ale Diba, al secolo Alessandro Di Battista, la cui eclissi dimostra la fine del fervore originario, quando i grillini erano ancora una minacciosa promessa in pubertà. Non si è mai visto un movimento perdere nel giro di pochi mesi di governo tante milionate di voti e sparire dai territori con una velocità impressionante. Hanno esaurito il credito, ormai. Resta il problema di trovare quale discarica possa contenere così tanti rifiuti ammassati in così poco tempo. La parabola dei grillini è un monito per gli elettori e i cittadini che votandoli s’illusero di punire tutti gli altri: i movimenti eruttati dal nulla, nati soltanto dal cabaret, dal vaffa e dal rifiuto di tutto, dove uno vale l’altro, dove i deputati sono burattini nelle mani della Piattaforma, dove la democrazia diretta è una caricatura che nasconde un’autocrazia eterodiretta da non-eletti, dove si può nominare a sorteggio e si può diventare ministri non sapendo nulla, non avendo mai fatto nulla nella vita, non avendo la più pallida idea, poi producono solo danni e nulla.
    Per arginare la deriva corrotta della politica, il malaffare, devi trovare gente motivata e seria, non pescata così, random, spesso nullafacente. Appena a uno di questi dai in mano un po’ di potere, diventa un arraffone e vuole sistemarsi per la vita. E quando gli ricapita? Infine i grillini hanno fatto saltare l’unica eredità buona della seconda repubblica, l’alternanza bipolare, reimmettendo al centro un partito bifronte. La sinistra merita giudizi negativi molto severi, sa essere più contro che con i cittadini, almeno quelli in regola. Ma è un avversario da sconfiggere sul terreno dei fatti, della politica e delle idee; invece i grillini sono una mucillagine urticante, una grottesca complicazione del quadro, e da alleati della sinistra al governo sono solo un’aggravante del malgoverno. Che tornino presto al Nulla da cui provengono. È l’augurio per un paese stremato, che ha già troppi guai per doversi caricare pure dei grillini.
    (Marcello Veneziani, “Il gaio fallimento dei grillini al governo”, da “La Verità” del 24 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.

  • Mazzucco: tutti i governi ormai ignorano qualsiasi protesta

    Scritto il 21/11/19 • nella Categoria: idee • (5)

    Le proteste di strada divampano ovunque nel mondo. In Francia i Gilet Gialli continuano imperterriti a distruggere tutto quello che trovano. A Hong-Kong i manifestanti continuano a combattere armati di arco e frecce, contro i proiettili della polizia sparati anche ad altezza uomo. In Iran la gente scende in strada e protesta per il caro-prezzi. In Cile continuano le manifestazioni di piazza contro il governo. La stessa cosa accade in Libano. In Bolivia i sostenitori di Morales scendono in strada contro il colpo di Stato. Ma c’è una cosa che accomuna tutte queste situazioni: la totale sordità dei rispettivi governi alle proteste popolari. In fondo, se il suo popolo protesta, un buon governante dovrebbe prendere atto dei problemi che vengono denunciati, e cercare di porvi rimedio. Invece sembra che ci sia quasi una forma di cinismo di fronte a queste manifestazioni di piazza: è come se i governanti si limitassero a dire “lasciamoli sfogare, prima o poi si stancheranno e torneranno a casa”.
    Questa è una sensazione che si prova soprattutto guardando la vicenda dei Gilet Gialli: come è possibile, ci si domanda, che in uno dei paesi più moderni del mondo la gente debba continuare a scendere in strada per un anno intero, ogni sabato che il buon Dio manda in terra, senza che nulla venga fatto per ascoltare le loro proteste? E’ possibile che ci sia una frattura così completa fra il popolo e chi lo governa? Una volta non era così. Quando ci furono le storiche proteste del ’68, queste portarono a profondi cambiamenti nelle regole sociali. Nuove leggi vennero fatte, nuovi codici morali vennero stabiliti, e la società cambiò radicalmente. Oggi invece la piazza è diventata semplicemente uno sfogatoio di rabbia e frustrazione, mentre i governi stanno semplicemente lì a guardare, aspettando che la rabbia gli passi. E’ come se i governi sapessero che ormai non ci sono alternative al sistema vigente, per cui non si preoccupano più di tanto di cambiarlo. Mandano in strada la polizia per cercare in qualche modo di arginare i danni fisici, ma dei danni morali non si preoccupa nessuno.
    La stessa cosa vale anche per le proteste non violente: scendono in strada – per fare un esempio – migliaia di genitori di bambini danneggiati da vaccino (ricordo la grande manifestazione di Pesaro di due anni fa), ma la cosa viene serenamente ignorata. Una volta eventi del genere sarebbero stati al centro dell’attenzione mediatica, e avrebbero sollevato ondate di dibattiti televisivi, con una conseguente adeguamento delle leggi vigenti. Oggi invece è come se i governanti sapessero che “tanto con le case farmaceutiche non c’è niente da fare”, e quindi scelgono di ignorare il problema umano che viene rappresentato dalla piazza. E la cosa più grave è che nessuno a casa protesti per questa mancanza di attenzione ai problemi umani dei nostri concittadini. E come se i problemi degli altri non potessero mai diventare i nostri. (Ci attiviamo solo se veniamo toccati direttamente nei nostri interessi o nel nostro portafoglio). Non riesco a capire se questa mancanza di sensibilità sia figlia del nostro tempo, oppure se siamo noi, con il nostro crescente cinismo ed egoismo edonistico, ad averla generata.
    (Massimo Mazzucco, “A cosa servono le proteste di piazza?”, da “Luogo Comune” del 18 novembre 2019. Ogni sera alle ore 21, insieme a Giulietto Chiesa, Mazzucco anima le trasmissioni live di “Contro Tv”, con uno streaming indipendente e alternativo a quello di YouTube).

    Le proteste di strada divampano ovunque nel mondo. In Francia i Gilet Gialli continuano imperterriti a distruggere tutto quello che trovano. A Hong-Kong i manifestanti continuano a combattere armati di arco e frecce, contro i proiettili della polizia sparati anche ad altezza uomo. In Iran la gente scende in strada e protesta per il caro-prezzi. In Cile continuano le manifestazioni di piazza contro il governo. La stessa cosa accade in Libano. In Bolivia i sostenitori di Morales scendono in strada contro il colpo di Stato. Ma c’è una cosa che accomuna tutte queste situazioni: la totale sordità dei rispettivi governi alle proteste popolari. In fondo, se il suo popolo protesta, un buon governante dovrebbe prendere atto dei problemi che vengono denunciati, e cercare di porvi rimedio. Invece sembra che ci sia quasi una forma di cinismo di fronte a queste manifestazioni di piazza: è come se i governanti si limitassero a dire “lasciamoli sfogare, prima o poi si stancheranno e torneranno a casa”.

  • Hebron, soldati terrorizzano padre e figlio. Haaretz: nazisti

    Scritto il 13/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Ogni giorno dell’ultima settimana ha offerto un esempio della condotta razzista, fascista e brutale dei “combattenti” dell’Idf, l’orgoglio della nazione. Lo stomaco si rivolta tutte le volte che li si vede in azione. Queste sono truppe d’assalto giudeo-naziste. Quest’ultimo video è stato girato martedì scorso ad Hebron. Hebron è una macchia nella società israeliana. Una disgrazia morale in corso. La stessa Hebron da cui Rabin, sì, lo stesso del “retaggio di Rabin,” l’instancabile combattente per la pace, non aveva rimosso i coloni quando c’era stata l’opportunità storica per farlo, dopo il massacro di Baruch Goldstein. Astar Shamir una volta cantava del “posto più in basso di Tel Aviv.” A Tel Aviv, i posti più bassi costituiscono materiale per canzoni pop. Topograficamente, il Mar Morto è il posto più in basso di Israele. Quello più in basso moralmente è Hebron. Nel video due “combattenti” si avvicinano ad un uomo palestinese che cammina con il figlio. Cosa potrebbe esserci di più banale, ordinario e umano di un padre che cammina con suo figlio?
    Sembra il coro di una canzone di Eli Mohar. Il ragazzo ha una cartella sulla schiena. Padre e figlio stanno camminando per le strade della loro città in autunno. I due “combattenti” gridano al padre e lo spingono. «Non alzare la voce con me», uno dei “combattenti” grida al padre, ammonendolo con il dito. Sembra più l’esperienza di un padre ebreo che cammini con suo figlio per le strade di Berlino nel 1934 che quella di un padre palestinese per le strade di Tel Aviv nel 2019. I “combattenti” dicono che il ragazzo ha lanciato pietre contro di loro. La canzone di Eli Mohar inizia a svanire. La situazione non si adatta nemmeno alla canzone di Yehonatan Gefen “La sedicesima pecora,” non è così bello incontrare le truppe d’assalto sulla strada per l’asilo. Il padre è sbalordito dall’affermazione che suo figlio possa aver lanciato pietre: ha solo cinque anni. (Come dice la canzone), adora il cioccolato, i compleanni e i sacchettini di caramelle. Non i pannolini pieni di escrementi che lanciano i coloni.
    Inizia un battibecco. Uno dei “combattenti” continua a dire che il bambino ha lanciato pietre e che non gli importa quanti anni abbia. Indossa l’elmetto, è armato di fucile e di chissà cos’altro. Il suo nemico ha solo cinque anni. Un bambino di cinque anni traumatizzato. Anche il “combattente” una volta adorava le gomme da masticare e le caramelle. Uno dei “combattenti” dà uno spintone padre, lo umilia, lo spaventa. Il ragazzo è terrorizzato. Il palestinese chiede che non gli vengano messe le mani addosso. Per tutta risposta, il “combattenti” lo spintonano ancora qualche volta e poi gli dicono di andarsene. A questo punto, uno dei “combattenti” imbraccia il fucile e lo punta sulla faccia del padre, sotto gli occhi del figlio. Guardate il video di Hebron e piangete. Piangete per questo bambino. Piangete per suo padre. Piangete per come si sono ridotti i “combattenti” israeliani. Il padre prende il figlio per mano e si allontanano. Non sono in una canzone di Eli Mohar. Sono in una canzone di Berthold Brecht. Questi “combattenti” hanno perso la loro umanità.
    (Rogel Alpher, “Questo video girato a Hebron vi farà piangere, pensando a cosa ne è stato dei nostri combattenti”, dalla versione online del quotidiano israeliano “Haaretz” del 7 novembre 2019; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).

    Ogni giorno dell’ultima settimana ha offerto un esempio della condotta razzista, fascista e brutale dei “combattenti” dell’Idf, l’orgoglio della nazione. Lo stomaco si rivolta tutte le volte che li si vede in azione. Queste sono truppe d’assalto giudeo-naziste. Quest’ultimo video è stato girato martedì scorso ad Hebron. Hebron è una macchia nella società israeliana. Una disgrazia morale in corso. La stessa Hebron da cui Rabin, sì, lo stesso del “retaggio di Rabin,” l’instancabile combattente per la pace, non aveva rimosso i coloni quando c’era stata l’opportunità storica per farlo, dopo il massacro di Baruch Goldstein. Astar Shamir una volta cantava del “posto più in basso di Tel Aviv.” A Tel Aviv, i posti più bassi costituiscono materiale per canzoni pop. Topograficamente, il Mar Morto è il posto più in basso di Israele. Quello più in basso moralmente è Hebron. Nel video due “combattenti” si avvicinano ad un uomo palestinese che cammina con il figlio. Cosa potrebbe esserci di più banale, ordinario e umano di un padre che cammina con suo figlio?

  • Appello a Liliana Segre: la Commissione attenta alla libertà

    Scritto il 12/11/19 • nella Categoria: idee • (12)

    Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina;
    Ai medici in Italia è stato perfino vietato, sotto pena di radiazione, di esercitare il diritto di informazione dei pazienti sugli effetti dei vaccini obbligatori. Facebook esercita arbitrariamente il potere di oscurare i suoi utenti non allineati col pensiero unico (lo ha fatto anche a me, per un mese, durante la campagna elettorale europea). Imperversa la pratica del grievance-mongering, o vittimismo di mestiere, consistente nell’attaccare, isolare, licenziare, oscurare persone che hanno espresso le proprie idee o preferenze nel rispetto della legge, e che strumentalmente il vittimista accusa di averlo offeso nella sua sensibilità religiosa o etnica o razziale o sessuale. Tutto ciò costituisce un’aggressione organica, sistemica, strategica, alla stessa esistenza di una società basata sulle predette libertà, ed esigeva l’urgente costituzione di una Commissione parlamentare per la tutela delle medesime libertà. Invece, hanno fatto la Commissione Segre per il controllo discrezionale della comunicazione via Internet (con possibilità di censura, punizione e oscuramento), onde limitare ulteriormente la libertà di informazione e di pensiero, col pretesto della lotta a un estremismo politico e a un razzismo o suprematismo o sessismo che, sì, esistono e sono talvolta lesivi di beni giuridici riconosciuti, ma sono già puniti dalle leggi italiane e che non hanno, né possono avere in questa fase storica, la forza materiale per minacciare la società.
    L’istituzione della Commissione va vista e studiata insieme con altre due ‘riforme’: il tracciamento di ogni pagamento e versamento (con la costrizione a passare per una banca ad ogni transazione); l’imposizione di vaccinazioni di massa senza trasparenza sugli effetti reali dei prodotti inoculati (con l’Ema che vuole inserire dal 2022 le certificazioni vaccinali nei passaporti come condizione di validità). Le tre suddette riforme vanno comprese come strumenti fondamentali e integrati dell’attuale fase evolutiva del controllo sociale, basata essenzialmente: sulla manipolazione e modificazione diretta degli uomini, anche biologica e genetica, via farmaci, vaccini, alimenti; sul loro monitoraggio costante e capillare nelle idee, negli spostamenti, nel denaro; sulla possibilità di escluderli unilateralmente, con un click, dalle reti (comunicazioni, servizi, accesso al proprio denaro in banca).
    Lo statuto della Commissione Segre (andatevelo a leggere) è formulato in termini vaghi, indeterminati, ampiamente soggettivi e discrezionali, non limitati all’istigazione all’odio (…intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche), in modo che essa possa censurare, impedire e reprimere non solo e non tanto le istigazioni all’odio, ma la divulgazione di informazioni e analisi oggettive che possano, per le loro implicazioni, suscitare indignazione morale, “odio” nella Neolingua politically correct.
    Infatti, è facile equivocare tra indignazione e odio, accusare colui di diffondere odio colui che in realtà diffonde informazioni e commenti su inganni, soprusi, illegalità, tradimenti politici, maxi-truffe bancarie coperte dalle istituzioni, soprattutto in relazione al nuovo ordine globale e totalizzante, il quale delegittima come eresia ogni alternativa a sé stesso. L’ordine del capitalismo finanziario e del mercato (non libero, ma) manipolato, con tutti gli effetti sulla vita delle persone e delle società, è un ordine onnipervasivo, egemonizza l’intrattenimento, la cultura e la stessa contro-cultura (vedi il fenomeno Greta). Il totalitarismo capitalista non è funzionalmente diverso da altri totalitarismi, a quelli verso cui, per il pensiero unico, è lecito esprimere odio, come quello autore dello sterminio di milioni soggetti appartenenti a categorie-bersaglio, tra cui innanzitutto gli ebrei, compresi i familiari della senatrice Segre – la quale suppongo non abbia percepito per tempo i fini liberticidi a cui è stata strumentalizzata, ma ora può ben rimediare brillantemente. Gli ebrei, ricorrenti vittime della persecuzione contro la libertà culturale, sono pure storici paladini, nonché simbolo, della medesima!
    La Commissione Segre, nata da un testo della Boldrini e che dovrebbe chiamarsi commissione Boldrini ed è stata ridenominata ‘Segre’ solo per inibire le critiche, ha uno statuto che, con la sua vaghezza, la predispone: a prevenire e contrastare lo svilupparsi una coscienza dei gravissimi, attuali conflitti di classe e tra nazioni, e a tutelare così la falsa narrazione irenica (deconflittualizzata) del mainstream; a oscurare l’informazione sugli effetti perniciosi e, per l’appunto, ‘odiosi’ del liberal-globalismo, scoraggiando la critica sistemica ad esso; a contrastare il dissenso e il suo organizzarsi in opposizione politica e sociale, ossia a difendere il pensiero unico liberale, il consenso ad esso, ai suoi esecutori politici, economici e culturali, e alle loro riforme; a colpire ogni richiamo politico allo Stato nazionale, alla sua sovranità sulla moneta, sui confini, sulle scelte di modello socioeconomico, e alla responsabilità democratica verso il bene dei propri cittadini come funzione e dovere di tale Stato (tutte cose che l’ordine finanz-capitalistico è vigorosamente impegnato a smantellare e screditare, perché ostacolano l’ottimizzazione del mondo alle sue dinamiche anche demografiche).
    Molte notizie, in materia di economia, finanza, banche, immigrazione, potranno essere censurate perché idonee a suscitare indignazione sociale, che verrà ridefinita “odio” allo scopo predetto. Del resto, già gli antichi sentenziavano: veritas odium parit. Se lo scopo della Santa Commissione fosse onesto e non liberticida, se fosse diverso da quello che ho testé descritto, il suo statuto da un lato sarebbe stato garantista, cioè preciso e oggettivo nel definire, con riferimento al Codice Penale, le espressioni da colpire; e, dall’altro lato, avrebbe compreso la tutela dì diritti – questi sì costituzionalmente fondati – di opinione, informazione, ricerca e insegnamento, mediante l’individuazione e il contrasto a tutte quelle lesioni alla libertà di parola che ho menzionato in apertura. Senatrice Segre, affido a Lei l’iniziativa di questa alta difesa della Libertà!
    (Marco Della Luna, “Santa Commissione o Santa Inquisizione?”, lettera aperta alla senatrice Liliana Segre pubblicata sul blog di Della Luna il 4 novembre 2019, “per la difesa della fede nella narrazione”).

    Questo scritto è un appello alla senatrice Segre, al suo coraggio, alla sua lucidità. Una delle più gravi violazioni in atto dei principi fondamentali della Costituzione e della stessa civiltà occidentale è la limitazione ai diritti di informazione, di insegnamento e di ricerca scientifica voluta dal pensiero unico e dai suoi beneficiari. La pubblica informazione è in mano a cinque grandi agenzie mondiali, controllate da capitali privati, dedite al filtraggio delle notizie, delle analisi e al consolidamento di un pensiero unico liberista-mercatista-globalista; ad esse quasi tutti i giornalisti e i mass media si attengono, anche quelli pubblici. I docenti, anche quelli universitari, persino quelli di filosofia, ricevono dalla politica direttive ideologiche afferenti al pensiero unico, cui devono attenersi per conservare il posto, far carriera, aver visibilità. La ricerca scientifica, con la stampa scientifica, è in gran parte finanziata e controllata da capitali privati che contrattualmente si riservano la proprietà dei risultati e il diritto di decidere che cosa divulgare e che cosa no; in tal modo il capitale orienta la scienza, il suo insegnamento, la sua applicazione, dall’economia alla medicina.

  • L’evasore aiuta l’economia, le tasse non finanziano i servizi

    Scritto il 02/11/19 • nella Categoria: idee • (7)

    L’Italia dal 1992 è in avanzo primario (a eccezione di un disavanzo dello 0,9% nel 2009). Questo significa che le entrate fiscali (tasse) sono superiori alla spesa pubblica (in soldoni, a noi cittadini torna indietro meno di quanto paghiamo). Al contrario di quanto racconta la vulgata ideologizzata “terrorista” e autorazzista del siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità, perciò, il nostro è un paese assai virtuoso da quasi 30 anni (nessuno al mondo ha fatto meglio nello stesso periodo). Fatta questa premessa passiamo ad analizzare le vere funzioni delle tasse (esse non servono infatti a pagare la spesa pubblica). Lo Stato impone tasse ai propri cittadini: 1. Per imporre la moneta a corso legale (obbligando di fatto i cittadini ad utilizzarla in quanto l’unica accettata per il pagamento, appunto, degli oneri fiscali); 2. Per controllare l’inflazione (tassando più o meno si riduce/aumenta la massa monetaria e si regolano i prezzi); 3. Per redistribuire la ricchezza. La spesa pubblica è fatta a monte del prelievo fiscale e si sostiene con l’emissione monetaria (fatta d’imperio e sovranamente dallo Stato, dal nulla). Prima si spende e si mette in circolazione la moneta, e solo poi si raccoglie tassando.

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