Archivio del Tag ‘negrieri’
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Ma non fuggono dalla fame, gli africani che sbarcano da noi
Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.Ad alimentare questa illusione sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5 milioni di persone, delle quali quasi 400.000 verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe. Chi arriva in Europa, per lo più, non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito.Le traversate nel deserto, i campi di detenzione libici, le tragedie nel Mediterraneo: non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire? Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa. Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene, nel lungo periodo, ad emigrare in paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale. Stanno svolgendo questo lavoro i governi del Senegal e del Niger – dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone, a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare, per migliorare il proprio paese.L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60 milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20 milioni. Di questi, soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578. Perché sono così pochi? Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine; del resto, la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile.Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? C’è il land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di paesi stranieri o industrie. Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi. Nel 2014, su 77 miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del continente, importa il greggio già raffinato dall’estero.L’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche élite. Al recente Consiglio Europeo, gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500 milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione? Questi 500 milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un “Piano Marshall per l’Africa” resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Un esempio: in Somalia, che è uno dei paesi maggiormente assistiti, la Banca Mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10 dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla.E’ possibile che, dove è forte la presenza del radicalismo islamico, quei soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti? Chi lo sa. Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40% dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Considerate che in Kenya c’è un detto: “Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo”, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo. Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa come fenomeno sempre più ineluttabile? Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi, in termini demografici.Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti. A mio avviso il modus operandi di molte Ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali.Chiudere i porti significa smettere di “restare umani”? L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia, sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5 milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero; l’Italia è 20esima tra i paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata. Chiudere i porti può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere.(Anna Bono, dichiarazioni rilasciate a Federico Cenci per l’intervista “Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché”, pubblicata da “In Terris” l’11 luglio 2018. Africanista dell’università di Torino, la professoressa Bono ha pubblicato importanti studi sul fenomeno dell’immigrazione di origine africana).Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.
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Con Palme e Sankara, Europa e Africa sarebbero oasi felici
Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.Prima di finire ad Hammamet, detronizzato da Mani Pulite, lo stesso Craxi aveva fatto in tempo a rilanciare, ad alta voce, la politica di Sankara: primo passo, la cancellazione unilaterale del debito a carico dei paesi del Terzo Mondo. Un tema particolarmente caro ad Olof Palme, che – alla vigilia dell’omicidio – stava per diventare segretario generale delle Nazioni Unite: carica su cui avrebbe riversato la sua statura morale e politica per cambiare paradigma e rimediare alla storica ingiustizia che oggi costringe milioni di esseri umani ad attraversare il Sahara verso il miraggio di un’Europa ormai barbarica, irriconoscibile, devastata dalla crisi. Che ne sarebbe, dell’Unione Europea, se fosse ancora in circolazione uno statista del calibro di Palme? E dove sarebbe, oggi, l’Africa, se la “primavera” di Sankara avesse potuto contagiare il continente nero? Certo non sarebbe andato in scena lo spettacolo dei barconi, dei negrieri, dei trafficanti di esseri umani. Il Burkina Faso stava diventando un modello pericoloso: siamo piccoli, diceva Sankara, ma cresceremo. Agricoltura, autosufficienza alimentare: obiettivi a portata di mano. Unica condizione: la cancellazione del debito. «I soldi che vi dobbiamo – scandì Sankara al vertice etiope – non sono niente, in confronto a quello che ci avete portato via, in decenni, in termini di risorse pregiate».Insisteva: «Accettare altri finanziamenti dal Fmi e dalla Banca Mondiale significa restare “schiavi” in eterno dell’Occidente». Diceva: facciamo un patto, diventiamo amici; voi ci abbuonate il debito, e noi ci dimentichiamo di tutto il male che ci avete fatto. Gli applausi della platea di Addis Abeba furono la condanna a morte per il leader africano, il cui carisma stava infiammando i giovani di paesi ben più importanti, come il Senegal e il Kenya, la Costa d’Avorio, il Camerun. Meglio ucciderlo, Sankara, facendogli fare la stessa fine di Palme. Risultato: un’Europa inquietante e impoverita, preda di oligarchie fameliche e antidemocratiche. E un’Africa ridotta all’esodo forzato: oltre al consueto sfruttamento coloniale – le risorse “rapinate” dall’Occidente grazie al solito dittatore ladro e “amico” dell’Europa, con l’aggravante del mastodontico “land grabbing” promosso dall’emergente potenza cinese – ora sta letteralmente esplodendo anche la tragedia climatica: il Sahara galoppa a vista d’occhio verso sud, rendendo sterile l’immensa fascia sotto il Sahel, fino a ieri coltivabile. Alle Nazioni Unite c’è chi paventa un “trasloco” mai visto nella storia: fino a mezzo miliardo di profughi climatici, in rotta verso l’emisfero nord.Scenari da apocalisse, che avrebbero bisogno di Premi Nobel per essere almeno inquadrati nella loro devastante pericolosità. Gli attuali leader, invece, si chiamano Juncker e Merkel, Macron, Draghi. Viene da chiedersi a quale differente umanità appartenessero i Palme e i Sankara. C’è da domandarsi da quale miracolosa genetica fossero scaturiti i Gandhi, i Mandela, i Martin Luther King. Visione globale e coraggio personale: qualità indispensabili ma in via di estinzione, a quanto pare, così come i migratori per i quali sta diventando proibitivo l’attraversamento stagionale delle regioni subsahariane ormai desertiche. Sembra che il pianeta Terra non riesca a sottrarsi all’autismo del capitale finanziario globalizzato, la regola del business che – pur di far soldi – non si accorge di stare segando il ramo su cui è appollaiato. Siamo stati abituati alla follia quotidiana del Pil suicida, che sta accumulando costi ambientali incalcolabili. Viviamo in un mondo che mai, nella sua storia, è stato così ricco e, al tempo stesso, così pieno di poveri. E mentre scrutiamo inutilmente l’orizzonte in attesa che torni il sale della giustizia, i maggiori climatologi ci avvertono che potremmo non avere il tempo di rimediare al disastro, perché la Terra potrebbe esaurire la sua pazienza molto prima che questa umanità impazzita si decida a rinsavire, mettendo fine all’orrore delle divisioni che la devastano.Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.
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Piramide schiavista: gli “amici” dei migranti sono i loro killer
Si dice spesso che quello dell’immigrazione sia “un problema complesso”, e che non lo si possa quindi risolvere con una semplice formula di due righe. Questo è verissimo, ma quando poi si cerca di analizzare questa complessità ci si trova davanti ad un garbuglio intricato di concetti che tendono a mescolarsi continuamente fra di loro. Forse un piccolo grafico può aiutare, se non altro a separare fra di loro i vari livelli del problema. Al livello più basso ci sono sicuramente i migranti stessi. Ovvero la carne umana, l’oggetto del contendere, la cristallizzazione fisica del problema reale. Centinaia di migliaia di disperati che lasciano le loro terre vuote di promesse alla ricerca di un futuro migliore. Queste masse si spingono istintivamente verso nord, attratte dal miraggio del benessere europeo. Ma fra loro e questo miraggio si frappone un problema: il viaggio. I paesi europei infatti non accettano un’immigrazione libera, da qualunque parte del mondo. E’ quindi necessario arrivare in Europa con metodi illegali. E qui subentrano gli schiavisti, che si approfittano del desiderio di queste persone di raggiungere l’Europa, e ne traggono un notevole vantaggio economico.I migranti vengono raccolti in veri e propri lager sulle coste africane, e vengono spediti con mezzi di fortuna attraverso il mare, dopo essere stati torturati, schiavizzati e sfruttati, e dopo che a loro è stato spremuto dalle tasche fino all’ultimo soldo che possedevano. In mezzo al mare ci sono ad attenderli le navi delle Ong, che rappresentano il “lato buono” dello schiavismo. Mentre i negrieri africani sfruttano apertamente i migranti prima di mandarli in mezzo al mare, coloro che li raccolgono lo fanno – almeno ufficialmente – per motivi umanitari. Chi paghi il costo di queste navi, chi paghi lo stipendio ai suoi marinai, chi paghi le tonnellate di viveri che trasportano non è mai stato molto chiaro, perché a quanto pare queste Ong non sono obbligate ad una particolare trasparenza finanziaria. Ma diciamo, almeno per adesso, che siano tutti motivati da puro spirito umanitario, e andiamo avanti. Una volta che le navi hanno raccolto in mare i naufraghi li rifocillano, li curano se ne hanno bisogno, e li scaricano in qualche porto europeo, quasi sempre italiano (o almeno fino a ieri le cose funzionavano così).A questo punto entrano in scena i popoli europei, ovvero coloro che si vedono riversare queste masse di migranti nelle loro strade e nelle loro piazze, e che non sono quasi mai contenti di assistere a questo spettacolo. Un po’ perché la presenza di questi migranti crea un senso di insicurezza fisica nelle popolazioni, un po’ perché si teme una lenta ma irreversibile “colonizzazione” del nostro sistema culturale (curioso, vero? I colonizzatori di una volta temono oggi di essere colonizzati). I popoli europei lamentano la loro insoddisfazione per questa “invasione” di popoli africani, e quindi si rivolgono alla politica perché metta un freno a questo fenomeno. E così i politici, che traggono la loro linfa vitale dallo stesso consenso popolare, cercano di agire in modo da ottenere un ampliamento del loro supporto elettorale. Ma c’è anche un altro aspetto della faccenda, che impedisce ai politici di viaggiare tutti nella stessa direzione: i migranti infatti creano problemi, ma rendono anche dei soldi. Molti soldi. Per ogni migrante presente sul suolo nazionale, lo Stato eroga 35 euro a testa al giorno. E di questi 35 euro soltanto due vanno direttamente nelle tasche dei migranti. Tutti gli altri vengono dati alle cooperative che li gestiscono, e che – teoricamente – dovrebbero mantenerli in modo dignitoso.Ma tutti sappiamo che buona parte di quei soldi rimangono invece nelle tasche delle cooperative stesse. Il guadagno è proprio lì, nel non dover rendere conto allo stato di come vengono spesi i soldi ricevuti. E a questo punto sarebbe stupido pensare che queste cooperative non abbiano un legame, diretto o indiretto, proprio con quella politica che determina da una parte i flussi migratori, e dall’altra i flussi di denaro verso di loro. La famosa frase di Buzzi, «c’è più da guadagnare con i migranti che con la droga», sintetizza il problema in maniera esemplare. Abbiamo quindi, da una parte, una classe politica che vorrebbe soddisfare le necessità di sicurezza e tranquillità della propria popolazione, ma dall’altra una classe politica che è anche inevitabilmente tentata di fare affari con l’immigrazione stessa. Nascono così i due partiti: quello del “tutti a casa”, e quello dell’“accogliamoli a braccia aperte, siamo tutti fratelli su questo pianeta”. Ovvero, il cosiddetto “razzismo xenofobo” da una parte, e il cosiddetto “buonismo universale” dall’altra. Ma, fra i politici che incarnano queste diverse posizioni e la popolazione che tende a polarizzarsi su di esse, esiste una categoria intermedia, che è quella dei giornalisti. Sono loro infatti a rimestare nel calderone, e a fare continuamente leva – nei loro infiniti talk-show – sulle varie emozioni della popolazione. A volte calcano in modo quasi terroristico sul senso di insicurezza diffuso, altre volte promuovono in modo disgustoso il buonismo a 360°.E fin qui abbiamo descritto solo quella che può essere la parte visibile del problema, e cioè la catena di interessi concorrenti che ci ha portato allo scontro sociale a cui siamo assistendo in questi giorni. Poi però c’è il lato nascosto del problema, ovvero le élites finanziarie. “Quelli che hanno i soldi”, tanto per capirci, ovvero quelli che detengono il vero potere nel mondo di oggi. Sono infatti le stesse élites finanziarie, nella forma di inappuntabili corporations, che hanno invaso e depauperato il continente africano nell’ultimo secolo, e che non esitano a causare guerre e genocidi pur di trarre un vantaggio economico per i propri azionisti. E’ quindi lo sfruttamento macro-economico dei grandi capitali che sta alla base dell’impulso migratorio dall’Africa verso l’Europa. E nel cedere a questo impulso, gli stessi africani vengono ad alimentare, nel micro, tutta una catena di sub-economie che rendono denaro a schiavisti, mafiosi e forse alle stesse organizzazioni “umanitarie” che gestiscono il fenomeno migratorio. Pensate che bello: a generare il problema all’ultimo livello sono quelli del primo livello. E in mezzo ci sono tutti gli altri – ci siamo noi, e ci sono loro – a scannarci gli uni contro gli altri per un tozzo di pane dal mattino alla sera.(Massimo Mazzucco, “La piramide del fenomeno migratorio”, dal blog “Luogo Comune” del 13 giugno 2018).Si dice spesso che quello dell’immigrazione sia “un problema complesso”, e che non lo si possa quindi risolvere con una semplice formula di due righe. Questo è verissimo, ma quando poi si cerca di analizzare questa complessità ci si trova davanti ad un garbuglio intricato di concetti che tendono a mescolarsi continuamente fra di loro. Forse un piccolo grafico può aiutare, se non altro a separare fra di loro i vari livelli del problema. Al livello più basso ci sono sicuramente i migranti stessi. Ovvero la carne umana, l’oggetto del contendere, la cristallizzazione fisica del problema reale. Centinaia di migliaia di disperati che lasciano le loro terre vuote di promesse alla ricerca di un futuro migliore. Queste masse si spingono istintivamente verso nord, attratte dal miraggio del benessere europeo. Ma fra loro e questo miraggio si frappone un problema: il viaggio. I paesi europei infatti non accettano un’immigrazione libera, da qualunque parte del mondo. E’ quindi necessario arrivare in Europa con metodi illegali. E qui subentrano gli schiavisti, che si approfittano del desiderio di queste persone di raggiungere l’Europa, e ne traggono un notevole vantaggio economico.
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Schiavisti: chi spara sui barconi sta già sparando su di noi
Il film “Amistad” di Spielberg, che narra la storia vera di schiavi ribellatisi su una nave ai propri negrieri e finiti così negli Stati Uniti, si conclude con il bombardamento da parte della flotta britannica del forte schiavista di Lomboko, sulle coste dell’attuale Sierra Leone. Magari questa storia del primo 800 avrà ispirato Matteo Renzi e quanti nella Ue pensano di affrontare le migrazioni con il bombardamento dei barconi, ma è proprio la falsità e la malafede del paragone a definire tutta l’infamia di questa intenzione. Nel 1839 gli africani della nave Amistad erano stati rapiti e consegnati ai mercanti di schiavi europei, molti gli italiani tra questi, per essere trasportati e venduti nel sud degli Stati Uniti. La loro ribellione li fece approdare al Nord ove, dopo un celebre processo, furono liberati. Essi allora chiesero e ottennero di essere riportati in Africa. Ecco il punto fondamentale di differenza: coloro che muoiono o approdano sulle nostre coste non sono stati rapiti e non vogliono tornare a casa, essi sono semplicemente migranti.La cattiva coscienza europea usa il paragone con la tratta degli schiavi per spargere un belletto di umanità e progresso sopra una bieca scelta di respingimento. La differenza tra Renzi e Salvini è che il primo dice di ispirarsi a Lincoln mentre il secondo imita il Ku Klux Klan. Ma entrambi alla fine sono per il respingimento dei migranti, che – lo ripeto perché non pare sufficientemente chiaro – vengono qui volontariamente e volontariamente non tornerebbero mai là da dove, pagando e rischiando la vita, sono partiti. Certo che organizzazioni criminali lucrano su di loro e aggiungono ferocia a ferocia. Nel 1946 decine di migranti clandestini italiani che volevano raggiungere la Francia furono abbandonati dai loro caporali in mezzo a una tormenta di neve. In gran parte furono salvati dai carabinieri, ma poi riprovarono a passare di là. Nessuno di loro pensò di tornare nella miseria delle campagne meridionali devastate dal latifondo e dalla mafia.La stupidità e la malafede di chi trasforma la questione sociale delle migrazioni in una operazione di polizia contro le mafie degli scafisti la dice lunga sulla ottusità con cui è governata l’Europa. Sì perché i migranti sono, lo ripeto ancora, volontari; e non è certo colpendo chi specula sui loro bisogni che quei bisogni si cancellano. Siamo in troppi, scrive anche un intellettuale illuminato come Claudio Magris. Che paragona il nostro paese, o forse tutta l’Europa, a un ospedale pieno, nel quale sarebbe un disastro far entrare migliaia di persone. A parte il fatto che di fronte ad una emergenza, un ospedale cerca sempre di organizzarsi per aiutare più persone possibile. Come ben sanno i medici palestinesi che in piccoli ospedali a Gaza han prestato assistenza a migliaia di persone colpite dalle bombe di Israele. Ma a parte la singolare interpretazione del giuramento di Ippocrate da parte di Magris, chi ha deciso che l’Europa è una clinica a numero chiuso?Chi lo ha deciso? Sono state le politiche di austerità rigore e pareggio di bilancio. Quanto costerebbe stabilire dei corridoi umanitari, investire con un piano di veri aiuti nei paesi da cui i disperati fuggono, stabilire un percorso di accoglienza e al tempo stesso di ricostruzione? Non sono in grado di fare un conto per tutte le aree da cui partono i migranti, ma so che a Gaza erano stati promessi 3,5 miliardi di euro che il milione di abitanti di quell’area devastata non ha neppure intravisto. Sono tanti soldi? Ma ci ricordiamo che il Quantitative Easing di Draghi finanzia le banche europee, Grecia esclusa, con 60 miliardi al mese? E tutte le missioni militari contro il terrorismo che quando non uccidono cooperanti provocano milioni di profughi, quanto costano? Ma la povera Mogherini dovrà occuparsi di trovare la via legale per bombardare i barconi.Ma poi siamo troppi in che senso? Certo è facile far credere che in Europa 50 milioni di disoccupati siano minacciati dal possibile arrivo di qualche milione di profughi. È facile a condizione però che li si convinca che contro le politiche di austerità non c’è nulla da fare. Eppure se tutti i paesi europei rinunciassero alle politiche di austerità e allargassero i cordoni della borsa per creare sul serio lavoro, se i disoccupati europei ed italiani cominciassero davvero a ridursi di numero ed i salari di chi lavora ad aumentare, se la scuola, la sanità e i servizi pubblici riprendessero a garantire le loro prestazioni ai cittadini, se le nostra società riprendessero a cercare la giustizia sociale, perché non sarebbe possibile aggiungere posti a tavola? La verità è che la teoria e la pratica del respingimento dei migranti serve perfettamente a giustificare la distruzione della eguaglianza sociale in Europa. Anzi serve a creare consenso verso di essa: “Avete visto quanti milioni di persone vogliono venire qui? E voi poveri che qui già vivete baciate questa terra e soprattutto ringraziate chi la protegge”.Da tempo non credo che la disoccupazione di massa sia un incidente o un prezzo da pagare e sono invece convinto che sia perfettamente voluta per affermare quella società di mercato voluta dalla finanza globalizzata. Ora sono anche convinto che la politica del respingimento dei migranti sia altrettanto voluta e per le stesse ragioni. Per questo penso che Matteo Salvini e quelli come lui siano solo utili idioti di un disegno ben più sofisticato a cui fa comodo anche la loro squallida rozzezza. Chi difende il rigore economico europeo promuove il respingimento dei migranti, chi diffonde paura e odio verso i migranti difende il rigore economico europeo. Per questo trovo insopportabili sia il razzismo sia l’ipocrisia di Stato che gli si oppone mentre nei fatti lo alimenta. Gli schiavisti sono tra noi.(Giorgio Cremaschi, “Gli schiavisti stanno tra noi”, da “Micromega” del 25 aprile 2015).Il film “Amistad” di Spielberg, che narra la storia vera di schiavi ribellatisi su una nave ai propri negrieri e finiti così negli Stati Uniti, si conclude con il bombardamento da parte della flotta britannica del forte schiavista di Lomboko, sulle coste dell’attuale Sierra Leone. Magari questa storia del primo 800 avrà ispirato Matteo Renzi e quanti nella Ue pensano di affrontare le migrazioni con il bombardamento dei barconi, ma è proprio la falsità e la malafede del paragone a definire tutta l’infamia di questa intenzione. Nel 1839 gli africani della nave Amistad erano stati rapiti e consegnati ai mercanti di schiavi europei, molti gli italiani tra questi, per essere trasportati e venduti nel sud degli Stati Uniti. La loro ribellione li fece approdare al Nord ove, dopo un celebre processo, furono liberati. Essi allora chiesero e ottennero di essere riportati in Africa. Ecco il punto fondamentale di differenza: coloro che muoiono o approdano sulle nostre coste non sono stati rapiti e non vogliono tornare a casa, essi sono semplicemente migranti.