Archivio del Tag ‘neoplatonismo’
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Ipazia, la filosofa martire a cui i cristiani cavarono gli occhi
Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda e trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica.La storiografia l’ha strumentalizzata, la letteratura l’ha trasfigurata e tradita: scienziata punita per le sue scoperte, eroina protofemminista, martire della libertà di pensiero, illuminista e romantica, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. Ma Ipazia non era nulla di tutto questo. Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione (diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata.Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico (demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” (idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’“educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici.I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide. Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri.In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa.Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato «la grande energia» del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.(Silvia Ronchey, profilo storico di Ipazia d’Alessandria pubblicato da “Repubblica” l’8 marzo 2017. Storica e filologa, come ricorda il “Post”, Silvia Ronchey è una delle massime studiose di Ipazia; alla filosofa-martire, massacrata dal fondamentalismo cristiano, ha dedicato, tra gli altri, il libro “Ipazia. La vera storia”, che uscì nel 2011 per Bur-Rizzoli e ottenne grande successo anche tra il pubblico non specializzato. Sempre a Ipazia è dedicato il recente volume “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, di Nicola Bizzi, pubblicato nel 2018 da Aurora Boreale. Ancora: a Ipazia è dedicato il film “Agora” di Alejandro Amenábar, con Rachel Weisz, Max Minghella e Oscar Isaac. Girato in inglese, il film ha ottenuto un vasto consenso, aggiudicandosi 7 Premi Goya 2010 – sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, trucco, produzione ed effetti speciali – nonché il Nastro d’Argento 2010 per i migliori costumi e il Premio Lumia per la migliore storia. Presentato al Festival di Cannes 2009 come film fuori concorso e al Festival internazionale del film di Toronto del 2009, era uscito il 9 ottobre 2009 in Spagna. Uscì però solo il 23 aprile 2010 in Italia, dove la distribuzione sarebbe stata ostacolata da ambienti vaticani. La Chiesa cattolica ha ancora «un rapporto ambiguo con Cirillo, vescovo di Alessandria che ordinò l’assassinio di Ipazia», rammenta il “Post”: «Cirillo è stato fatto santo ed è ancora celebrato della Chiesa: l’ultima volta è stato ricordato nel 2007 da Papa Benedetto XVI, mentre i suoi crimini sono in gran parte dimenticati»).Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda e trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica.
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Rosa Rossa: quei simboli svelano la verità indicibile su Moro
Da via Fani a via Caetani, passando per via Montalcini. Nomi e date, segni e simboli a cui pochissimi hanno fatto caso. Racconterebbero l’atroce “operazione Moro” – italiana e internazionale, politica e geopolitica – riletta secondo il codice segreto di un disegno meno evidente, ma forse decisivo: capace di cioè di “firmare”, in modo occulto, il sanguinoso sequestro e poi il calvario del presidente “eretico” della Dc, fino alla sua spietata uccisione. Messaggio: quell’assassinio è stato l’atto d’inizio di una nuova epoca di dominazione mondializzata. Ne parlò la giornalista Gabriella Carlizzi, indagatrice atipica e indipendente dei misteri italiani, così come Solange Manfredi, avvocato e saggista. Ne accenna lo storico Giuseppe De Lutiis nel libro “Il lato oscuro del potere” (Editori Riuniti). Ne parla diffusamente Sergio Flamigni nel romanzo “La tela del ragno” (Kaos). L’argomento lo sfiora lo stesso Giovanni Fasanella, autore di bestseller come “Il golpe inglese”, che nel recentissimo libro-indagine “Il puzzle Moro” (Chiarelettere) ricostruisce il ruolo di Londra nella strategia della tensione in Italia, mettendo anche l’accento sul Vaticano, dopo le dirompenti conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni: per il blitz di via Fani sarebbe stata usata una palazzina di via Massimi di proprietà dello Ior, la banca vaticana.
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La rivoluzione di Paracelso, genio eretico della medicina
Uno dei ‘medici’ del Rinascimento con cui nessuno poté competere per fama e seguaci fu Paracelso: un nome che, per almeno un secolo, ebbe una forza esplosiva. I suoi discepoli furono numerosissimi, e per loro Paracelso fu il profeta di una nuova era. Paracelso mise in discussione la medicina accademica del tempo, tentando di rompere il monopolio della casta sociale che la professava. Dal Potere fu considerato un eretico ignorante, un ciarlatano, propugnatore di idee rivoluzionarie che minacciavano l’intera scienza medica e le sue onorevoli istituzioni. Paracelso sferrò un attacco frontale tanto contro la medicina ufficiale galenica, quanto contro le facoltà mediche delle università. E lo scontro fu assoluto, ideologico, sociale e anche religioso. Paracelso in realtà si chiamava Philip Theophrastus Bombast von Honenheim; era nato a Einsielde, vicino a Zurigo, nel 1493 o 1494. Il padre, membro illegittimo di una nobile famiglia sveva, era il medico locale. A nove anni, trasferitosi a Villach, in Austria, con tutta la famiglia, Paracelso iniziò a lavorare come apprendista nelle miniere d’argento di Hutenberg che appartenevano ai potentissimi banchieri Fugger di Augusta. In seguito, cresciuto, viaggiò molto studiando e praticando medicina in Italia, Olanda, Prussia, Polonia, Scandinavia e anche nel Levante.Nel 1526 fu imprigionato a Salisburgo per le sue aperte simpatie per la rivolta dei contadini, fuggì e riparò a Basilea dove riuscì a curare con successo dai suoi disturbi lo stampatore Johann Froben, editore di Erasmo, del quale diventò medico. Grazie a questa cerchia speciale di amicizie, Paracelso fu nominato Staadtphysicus, col titolo di professore di medicina e il diritto di tener lezione all’università. Ma all’udire le sue lezioni le autorità della facoltà di medicina inorridirono: Paracelso si rifiutava di rifarsi, nelle sue lezioni, alle autorità consolidate di Ippocrate, Galeno, Avicenna, annunciando che invece avrebbe basato le sue lezioni sulla propria esperienza, formatasi anche sulle malattie dei minatori e sulle ferite di guerra che egli aveva curato come chirurgo militare alle dipendenze della Repubblica di Venezia nel 1522. Le facoltà mediche del tempo prevedevano per il medico un curriculum di studi approvato e provvisto degli speciali dottorati. Il medico del tempo interpretava la scienza, che era filosofia medica, e il chirurgo o il farmacista erano considerati di grado inferiore, tanto che a loro non era richiesta formazione universitaria e conoscenza del latino.Chirurghi e farmacisti dovevano solamente eseguire gli ordini dei medici usciti dalle facoltà universitarie. Paracelso aveva ottenuto una laurea a Ferrara, per cui conosceva bene il curriculum di studi richiesto al medico dalle autorità. Tuttavia il suo insegnamento fu una sfida contro la gerarchia e il curriculum richiesto dalle istituzioni accademiche. Paracelso dissertava di medicina in volgare, nel suo dialetto svizzero tedesco. E il giorno di San Giovanni del 1527 buttò nel tradizionale falò di mezza estate il Canon di Avicenna, un testo sacro della facoltà di medicina. Purtroppo, subito dopo questo eclatante gesto, il suo protettore, l’editore Froben, morì. E un canonico della cattedrale, suo paziente, mise in discussione una sua parcella. Ad un tratto Paracelso si trovò contro Stato e Chiesa e dovette fuggire, ritornando ad una vita di vagabondaggio per il nord Europa. Nel suo vagabondaggio a volte fu accolto come un eroe, altre volte fu ridotto alla mendicità. Viveva comunque alla grande e beveva molto. Indossava abiti costosi e portava al suo fianco, sempre, una spada. Dormiva poco e trascorreva intere giornate alla sua fornace. Sfidava i contadini nel bere e vinceva, poi – apparentemente lucido – dettava le sue opere filosofiche. Morì a Strasburgo nel 1541 a quarantasette anni.Pochissime sue opere furono pubblicate durante la sua vita. Tra queste, un’opera sulla sifilide o “mal francese”, che contestava la cura ufficiale a base di legno guaiaco e mercurio liquido, fu proibita dal consiglio cittadino di Norimberga su ‘consiglio’ degli stessi Fugger, che all’epoca detenevano il lucroso monopolio del guaiaco. Paracelso scrisse molte opere e pare le avesse consegnate ai suoi discepoli viaggiando per l’Europa, per cui vennero alla luce solo dopo la sua morte. E su queste opere postume sorse il movimento paracelsiano. Certo il periodo più produttivo di Paracelso fu quello di Basilea. E in questa città il medico rivoluzionario lasciò le sue opere nelle mani di un giovane di nome Johannes Herbst, che autorizzò a diventare suo editore. Herbst fece carriera a Basilea e divenne il sommo stampatore degli studiosi della Riforma, ma non stampò mai i manoscritti di Paracelso, che così giacquero inediti fino a che Adam von Bodestein, un medico entrato a far parte della facoltà di medicina di Basilea nel 1538, figlio di un riformatore protestante e anche noto con il nome di Carlostadio, non li scoprì.Carlostadio, medico seguace della medicina galenica, medico personale dell’elettore palatino capo della famiglia Wittelsbach, colpito nel 1556 dalla febbre terzana che lo rese infermo per circa un anno, disperato, accettò di farsi curare da un medico paracelsiano, e nel giro di un mese si ritrovò guarito. Divenne così seguace di Paracelso e fu il primo a insegnarne la dottrina a Basilea. Fu ammonito dalle autorità universitarie e alla fine nel 1564 fu espulso dalla facoltà di medicina per aver pubblicato libri eretici e scandalosi, e per essere un seguace del falso insegnamento di Paracelso. Pur espulso, restò a Basilea e si batté con coraggio, pubblicando più di quaranta opere del suo maestro, divulgandone gli insegnamenti. Opere paracelsiane uscirono a dozzine nell’ultimo quarto del XVI secolo, apocrife. E alla fine del secolo, idee paracelsiane furono ascritte a immaginari alchimisti del XV secolo, rafforzando il credito di Paracelso collocandolo nel quadro di una rispettabile tradizione medievale.Inizialmente le opere di Paracelso ebbero larga diffusione soprattutto nel mondo di lingua tedesca. Dopo la sua morte alcune furono tradotte in latino. Certo l’uso della lingua tedesca da parte sua aveva avuto una precisa motivazione: rompere con la tradizione ufficiale e crearne una nuova, infrangendo il monopolio della medicina universitaria e istituzionale. Paracelso chiamò a raccolta gli artigiani della professione medica, i chirurghi e i farmacisti: un atto di sfida alle istituzioni pari a quello di Lutero e di altri riformatori protestanti in campo religioso. Paracelso è spesso stato descritto come il Lutero della medicina; e in effetti, protestantesimo e paracelsismo acquisirono nel tempo interessi comuni. A livello metafisico la medicina di Paracelso si rifaceva al platonismo ermetico del Rinascimento, e dunque la sua dottrina era essenzialmente antiaristotelica, a differenza di quella della medicina istituzionale. Paracelso riteneva Aristotele un pagano che aveva distorto e impregnato di materialismo la vera filosofia, che secondo la sua visione era neoplatonica ed ermetica.La sua teoria si fondava sulla cosmologia neoplatonica elaborata da Marsilio Ficino del macrocosmo e del microsomo. Il corpo e l’anima dell’uomo rispecchierebbero in miniatura il corpo e l’anima del mondo, e tra di loro esisterebbero corrispondenze e simpatie che il “magus” può comprendere e controllare. Sulla base delle sue esperienze di lavoro nelle miniere e nelle fornaci dei Fugger, e dallo studio degli alchimisti medievali, Paracelso teorizzò un macrocosmo chimicamente controllato, quasi un gigantesco crogiuolo, creato tramite un’operazione chimica, che aveva separato il puro dall’impuro. Per cui il microcosmo umano era a sua volta un sistema chimico che poteva essere alterato, corretto e curato mediante un trattamento chimico. Secondo Paracelso le malattie non erano uno squilibrio degli umori, come prevedeva la medicina galenica ufficiale, ma parassiti vivi impiantati nel corpo umano. I tre principi fondamentali della medicina paracelsiana erano lo zolfo, il mercurio e il sale. I veleni diventano elementi curativi a piccole dosi, e la ricerca assoluta era quella di un solvente universale.La medicina di Paracelso aveva anche un carattere profetico, messianico e rivoluzionario. Se l’inizio del mondo era stato un inizio chimico, anche la sua fine, la fine del mondo, poteva essere chimica. La profezia del ritorno di Elia prima dell’avvento del terribile giorno del Signore, e l’avvento dell’Anticristo, ripresa dal monaco calabrese Gioacchino da Fiore nel XII secolo e collocata all’inizio della terza e ultima età del mondo, fu ripresa da Paracelso e modificata. Paracelso affermò che Elia sarebbe apparso cinquantotto anni dopo la sua morte, e sarebbe apparso come ‘Elia l’artista’ cioè, nel linguaggio degli adepti, l’Alchimista. E come tale, Elia avrebbe rivelato tutti i segreti della chimica, mostrando come il ferro potesse essere trasformato in oro. Da qui poi sarebbe seguita un’ultima trasformazione del mondo: non una battaglia di Armageddon ma una separazione chimica, come era stato all’inizio del mondo.A livello pratico, a dispetto della teoria, la medicina paracelsiana ottenne buoni risultati usando farmaci chimici o minerali. Alla luce dei criteri medici moderni, il trattamento delle ferite dei medici paralcelsiani fu estremamente intelligente. Essi attribuirono grande importanza alle acque e ai bagni minerali, impiegando dosaggi medicinali moderati e semplici. Idearono narcotici e oppiacei per alleviare il dolore; il più famoso analgesico di Paracelso fu il laudanum (termine da lui inventato), usato fino all’Ottocento. Paracelso scoprì anche come preparare e usare l’etere. I medici paracelsiani in realtà ebbero un gran successo per la semplice ragione che i loro pazienti guarivano, o avevano l’impressione di guarire. I medici ortodossi rispondevano compilando liste e statistiche di quanti pazienti erano stati uccisi dai medici paracelsiani – dall’antimonio, ad esempio. Tuttavia dovettero alla fine ammettere gli effetti positivi pratici di laudano e, appunto, antimonio.La medicina paracelsiana fu teosofia neoplatonica, profezia messianica e medicina chimica, e la storia del movimento paracelsiano è la storia complicata e difficile della convivenza di questi tre aspetti. La medicina paracelsiana non poteva prescindere dalla teosofia e dalla profezia, per cui alla fine divenne una visione radicale che minacciava di sovvertire l’ideologia e le istituzioni canoniche del mondo medico, e non solo di quello. La dottrina di Paracelso scardinava il potere delle corporazioni mediche ufficiali, minacciando antichi diritti e privilegi acquisiti. Il paracelsismo, come il protestantesimo, fu una filosofia di rivolta contro l’ordine costituito. Paracelso fu avidamente studiato dal più grande dei maghi elisabettiani, John Dee. Con il Concilio di Trento, la Chiesa cattolica romana divenne meno tollerante verso il neoplatonismo, ribadendo l’ortodossia aristotelica e considerando il neoplatonismo una pericolosa filosofia irenica, mirante a riunire la cristianità sulla base di una erronea religione ‘naturale’. La Chiesa romana divenne il naturale alleato delle corporazioni mediche, proteggendone il monopolio. Per cui il movimento paracelsiano fu spinto gioco forza ad allearsi col protestantesimo.(Lara Pavanetto, “Paracelso: lo scontro rivoluzionario, filosofico e religioso con la medicina accademica, dal quale nacquero la medicina, la chimica e le scienze moderne. La storia è viva”, dal blog della Pavanetto del 9 luglio 2017).Uno dei ‘medici’ del Rinascimento con cui nessuno poté competere per fama e seguaci fu Paracelso: un nome che, per almeno un secolo, ebbe una forza esplosiva. I suoi discepoli furono numerosissimi, e per loro Paracelso fu il profeta di una nuova era. Paracelso mise in discussione la medicina accademica del tempo, tentando di rompere il monopolio della casta sociale che la professava. Dal Potere fu considerato un eretico ignorante, un ciarlatano, propugnatore di idee rivoluzionarie che minacciavano l’intera scienza medica e le sue onorevoli istituzioni. Paracelso sferrò un attacco frontale tanto contro la medicina ufficiale galenica, quanto contro le facoltà mediche delle università. E lo scontro fu assoluto, ideologico, sociale e anche religioso. Paracelso in realtà si chiamava Philip Theophrastus Bombast von Honenheim; era nato a Einsielde, vicino a Zurigo, nel 1493 o 1494. Il padre, membro illegittimo di una nobile famiglia sveva, era il medico locale. A nove anni, trasferitosi a Villach, in Austria, con tutta la famiglia, Paracelso iniziò a lavorare come apprendista nelle miniere d’argento di Hutenberg che appartenevano ai potentissimi banchieri Fugger di Augusta. In seguito, cresciuto, viaggiò molto studiando e praticando medicina in Italia, Olanda, Prussia, Polonia, Scandinavia e anche nel Levante.