LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘Novecento’

  • Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde

    Scritto il 08/7/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
    I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.
    Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.
    Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.
    (Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).

    Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.

  • Veneziani: politically correct, una piaga violenta e ignorante

    Scritto il 04/7/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Ma cos’è esattamente il politically correct? Lo citiamo ogni giorno senza magari coglierne tutto il significato. Provo a offrire una breve guida, un sunto critico e un succo concentrato. Per cominciare, il politicamente corretto è un canone ideologico e un codice etico che monopolizza la memoria storica, il racconto globale del presente e prescrive come comportarsi. Nasce dalle ceneri del ’68, cresce negli Usa e nel nord Europa, si sviluppa sostituendo il comunismo con lo spirito radical (o radical chic secondo Tom Wolfe) e sostituendo l’egemonia marxista e gramsciana col “bigottismo progressista” (come lo definisce Robert Hughes). Rompe i ponti col sentire popolare, non rappresenta più il proletariato, almeno quello delle nostre società; separa i diritti dai doveri e li lega ai desideri, rigetta i limiti e i confini personali, sociali, sessuali e territoriali, nel nome di una libertà sconfinata, sostituisce la natura col volere dei soggetti. E sostituisce l’anticapitalismo con l’antifascismo, aderendo all’establishment tecno-finanziario di cui intende accreditarsi come il precettore.
    Il politically correct è una forma di riduzionismo ideologico che produce le seguenti fratture: a) riduce la storia, l’arte, il pensiero e la letteratura al presente, nel senso che tutto quel che è avvenuto va letto, riscritto e giudicato alla luce del presente, in base ai canoni corretti e ai generi; b) riduce la realtà al moralismo, nel senso che rifiuta le cose come sono e le riscrive come dovrebbero essere in base al suo codice etico e gender; c) riduce la rivoluzione vanamente sognata nel Novecento e nel ’68 alla mutazione lessicale, nel senso che non potendo cambiare la realtà delle cose e l’imperfezione del mondo si cambiano le parole per indicarle, adottando un linguaggio ipocrita e rococò; d) riduce le differenze ideologiche a una superideologia globale o pensiero unico, che se si nega come tale. Alle quattro riduzioni di cui sopra, il politically correct aggiunge una serie di sostituzioni: 1) sostituisce il sentire comune, l’interesse popolare, il legame famigliare e comunitario con la priorità assegnata ad alcune diversità e minoranze, ritenute discriminate o emarginate. E adotta uno schema vittimistico: non sono i grandi, gli eroi, i geni a meritare onori, strade, elogi unanimi ma le vittime (retaggio cristiano, notava René Girard).
    2) sostituisce la preferenza per ciò che è nostrano – la nostra identità, le nostre tradizioni, il nostro modo di vedere, la nostra civiltà e religione, i nostri legami e le nostre appartenenze – con la preferenza per tutto ciò che è remoto – le culture e i costumi altrui, i migranti, i mondi lontani, le ragioni di chi viene da fuori (quella che Roger Scruton chiamava oicofobia); 3) sostituisce l’antica dicotomia tra il compatriota e lo straniero, o quella politico-militare tra l’amico e il nemico con la dicotomia tra il Bene e il Male, per cui chi non è allineato al canone non è uno che la pensa differentemente né un avversario da combattere ma è il male assoluto da sradicare e annientare. Col nemico si può arrivare a patti, lo puoi sconfiggere e sottomettere; il Male no, va cancellato e dannato nella memoria. 4) sostituisce l’oppositore, il dissidente, l’antagonista col razzista, nemico dell’umanità, del progresso e della ragione. E gli riserva un trattamento a metà strada fra la patologia e la criminologia, accusandolo di fobie: è omofobo, sessuofobo, islamofobo, xenofobo, e via dicendo.
    Di conseguenza non c’è contesa con lui, ma lo si isola tramite cordone sanitario, lo si affida alla profilassi medica e prevenzione nelle scuole, università, media; o quando il caso è conclamato, lo si affida ai tribunali e alla condanna. Il pregiudizio ideologico riduce i dissidenti al rango di pregiudicati, ovvero di condannati dalla storia, dal progresso, dalla ragione. Non conflitti ma bombe umanitarie, operazioni di polizia culturale o internazionale. Per il politically correct la realtà, la natura, la famiglia, la civiltà finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo in assenza di religione. Ecco, in breve il politically correct. Postilla finale dedicata a come si reagisce. Chi rifiuta l’imposizione del politicamente corretto e reagisce con l’insulto contro i suoi totem e i tabù, entra a pieno titolo nel suo gioco e ne conferma l’assunto e l’assetto: visto, che avevamo ragione a dire che il razzismo, l’odio, l’intolleranza albergano nei nostri nemici? È una forma stupida e istintiva di risposta che rafforza il politically correct.
    Non migliore sul piano dell’efficacia è la risposta opposta, mimetica, di chi sta al gioco, asseconda, tace o compiace, rispondendo con ipocrisia all’ipocrisia parruccona del politicamente corretto. Anche in questo caso si resta sul suo terreno, si fa il suo gioco, si mira a una sopravvivenza immediata e individuale pregiudicando in prospettiva una visione alternativa più ampia. Spesso ci si limita a opporre all’ideologia la realtà, alla sua narrazione la vita pratica. Invece, partendo da quella, si dovrebbe tentare lo sforzo opposto: smontare i loro tic, totem e tabù, usando l’arma dell’intelligenza, del paragone culturale, del senso critico e ironico. E indicando percorsi alternativi, letture diverse, altre priorità. Qui, purtroppo, l’intolleranza degli uni s’imbatte nell’insipienza degli altri, frutto di ignoranza, ignavia e indifferenza. Se il politically correct domina, è anche perché non trova adeguate risposte. Solo imprecazioni e silenzi. La città è nelle mani degli stolti, dissero al sovrano i messi di una città in rivolta; ma i “savi” nel frangente che facevano, chiese loro il Re Carlo d’Angiò? Domandiamocelo pure noi.
    (Marcello Veneziani, “Corso intensivo sul politicamente corretto”, da “La Verità” del 16 febbraio 2020).

    Ma cos’è esattamente il politically correct? Lo citiamo ogni giorno senza magari coglierne tutto il significato. Provo a offrire una breve guida, un sunto critico e un succo concentrato. Per cominciare, il politicamente corretto è un canone ideologico e un codice etico che monopolizza la memoria storica, il racconto globale del presente e prescrive come comportarsi. Nasce dalle ceneri del ’68, cresce negli Usa e nel nord Europa, si sviluppa sostituendo il comunismo con lo spirito radical (o radical chic secondo Tom Wolfe) e sostituendo l’egemonia marxista e gramsciana col “bigottismo progressista” (come lo definisce Robert Hughes). Rompe i ponti col sentire popolare, non rappresenta più il proletariato, almeno quello delle nostre società; separa i diritti dai doveri e li lega ai desideri, rigetta i limiti e i confini personali, sociali, sessuali e territoriali, nel nome di una libertà sconfinata, sostituisce la natura col volere dei soggetti. E sostituisce l’anticapitalismo con l’antifascismo, aderendo all’establishment tecno-finanziario di cui intende accreditarsi come il precettore.

  • Magaldi: socialismo liberale, il virus salva-Italia siamo noi

    Scritto il 30/6/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Siamo piccoli, ma attentamente monitorati: ai piani alti, c’è chi si domanda in che modo contiamo di riuscire nell’impresa, e non manca chi vorrebbe attuare le nostre proposte. Che poi sono le uniche in grado di ribaltare la situazione: perché le nostre idee sono uno scandalo, un’eresia. Un virus benefico, destinato a contaminare finalmente il sistema». Gioele Magaldi sintetizza il concetto in due parole: socialismo liberale. Keynes e Roosevelt, Carlo Rosselli, Olof Palme. I semi migliori del Novecento: l’antidoto contro l’ingiustizia. Dove sono finiti? Dispersi: soffocati dalla sovragestione del neoliberismo globalizzato. Ma oggi, per un movimento d’opinione come quello fondato nel 2015 da Magaldi, rappresentano l’unico salvagente per evitare il naufragio della democrazia, schiacciata dalle possenti oligarchie planetarie che ora speculano anche sul disastro del coronavirus. Il loro piano: mantenere il potere a tutti i costi, anche instaurando una sorta di polizia sanitaria mondiale, pronta a usare il ricatto della paura e il fantasma della depressione economica. Risultato: l’Europa ridotta a nullità politica, capace però di tenere in ostaggio un paese come l’Italia, il cui governo – lasciato senza soldi – non ha la minima idea di come evitare il massacro sociale a orologeria che già si annuncia per l’autunno. «Famiglie e aziende avranno l’acqua alla gola, per effetto del terribile lockdown imposto senza nessun vero paracadute economico».
    «A Conte faremo una proposta che non potrà rifiutare», annunciò Magaldi tempo fa, tra il serio e il faceto, indossando una maglietta con l’icona di Marlon Brando nei panni del “Padrino”. Ora rilancia: «In settimana, il nostro piano salva-Italia sarà pronto e illustrato anche in un video, sul nuovo canale MrTv». Il succo: proposte ragionevoli, il “minimo sindacale” per evitare il peggio. Attenti: «La nostra non è una provocazione arrogante, tutt’altro: sono iniziative che qualsiasi governo (di centrodestra o centrosinistra, non importa) avrebbe dovuto adottare già durante il lockdown». Un pacchetto di misure «attuabili da subito», che il Movimento Roosevelt guidato da Magaldi insiste nel voler impacchettare sotto forma di “ultimatum”: «Sarà recapitato nei prossimi giorni all’esecutivo, che avrà a disposizione l’intera estate per valutare le nostre proposte. L’ultimatum scadrà in occasione dell’election-day del 20-21 settembre». Giuseppe Conte accoglierà quei consigli? Tanto meglio: «Se saranno soddisfatte le esigenze minime degli italiani – dice Magaldi – ne prenderemo atto e ringrazieremo: in una prospettiva laica come la nostra non ci sono nemici, né antagonisti o pregiudizi».
    Se Conte e i suoi ministri, «da quei brocchi che hanno mostrato di essere sinora, dimostrassero di diventare dei purosangue, a partire da settembre», allora «mi toglierei il cappello e ne sarei felice, come cittadino italiano e come europeo», assicura il leader “rooseveltiano”. «C’è però la “legittima suspicione” che così non sarà», aggiunge: «E allora, in quel caso si avrà il debutto della Milizia Rooseveltiana il 5 ottobre, nell’anniversario della data fatidica del 1789 in cui le donne della Rivoluzione Francese marciarono su Versailles per chiedere al Re perché mai non volesse sottoscrivere la nuova Costituzione». Milizia Rooseveltiana? Una formazione “marziale” solo a livello teatrale, con uno slogan (”dubitare, disobbedire, osare”) che capovolge ironicamente il mussoliniano “credere, obbedire, combattere”. «Missione: incalzare il governo, in modo nonviolento ma divenendo una vera spina nel fianco: nelle piazze italiane, la Milizia chiederà conto – ogni giorno – dell’eventuale, mancato recepimento del piano salva-Italia».
    Altra avvertenza: non è un’iniziativa di parte, contro Conte. «Neppure l’opposizione ha brillato», sottolinea Magadi: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia «non hanno strutturato una vera proposta alternativa per il paese». Un consiglio? «Qualcuno di loro dovrebbe andare politicamente in pensione. Altri dovrebbero guardarsi dentro e sviluppare un vero progetto per l’Italia, che oggi non hanno». Ce l’ha Magaldi, il progetto? La sua risposta è scontata: certamente sì. Ma chi è, il presidente del Movimento Roosevelt? Due cose insieme: un intellettuale, e un massone. Laureato in filosofia, appassionato storico, tagliente politologo. E’ ultra-trasparente, il suo impegno nel mondo libero-muratorio: nel suo saggio “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere (bestseller italiano, oscurato dai media), da un lato denuncia le superlogge sovranazionali neo-oligarchiche e il loro sogno di Nuovo Ordine Mondiale neoliberista, “neoaristocratico” e post-democratico, e dall’altro rivendica il ruolo della massoneria settecentesca nella fondazione dell’attuale modernità: suffragio universale, libere elezioni, laicità e Stato di diritto.
    «La democrazia è un’anomalia della storia: e non ce l’ha portata la cicogna, è il frutto della massoneria rivoluzionaria che riuscì ad abbattere l’Ancien Régime in Europa a partire dalla Francia fino poi a guidare il Risorgimento italiano, dopo aver animato la stessa Rivoluzione Americana». Insiste: «L’architettura istituzionale del mondo in cui viviamo è interamente massonica. Per questo mi domando se siano in grado di fare il loro mestiere i magistrati come Nicola Gratteri, che tendono a criminalizzare la massoneria: si rendono conto che la stessa Costituzione italiana nasce dalle idee ultra-massoniche alla base della primissima Costituzione della Repubblica Romana di Mazzini e di Garibaldi, primo “gran maestro” del Grande Oriente d’Italia?». Discorsi lunari, in un’Italia che associa regolarmente i grembiulini alla P2 di Gelli, o a qualche congrega infiltrata dalla mafia. «Quelle sono conventicole che non contano niente, e lo sanno tutti. Ma fingono di non sapere che i grandi decisori dei nostri tempi – anche italiani, da Monti a Napolitano – appartengono tutti all’aristocrazia massonica internazionale: il mondo delle Ur-Lodges, quello che orienta davvero i destini del pianeta».
    Ne fa parte lo stesso Magaldi, già “iniziato” alla superloggia “Thomas Paine”, punta di lancia del progressismo novecentesco. Una filiera che ha “allevato” e sostenuto personaggi come Gandhi e Papa Giovanni XXIII, i Kennedy e i Roosevelt, Martin Luther King, Nelson Mandela, Yitzhak Rabin. Sempre di massoneria si tratta, ma di segno opposto. Ed ecco il punto: «Il sistema massonico oligarchico stava perdendo la sua presa sul mondo, lo si è visto con l’inattesa elezione di Donald Trump, fiero avversario del globalismo neoliberista: Trump ha imposto uno stop all’egemonia della Cina, che era e resta la creatura preferita dell’élite massonica reazionaria». Il progetto: efficienza economica, ma senza democrazia. Un modello da esportare in Occidente? «Sicuramente è stato esportato il modello-Wuhan per il coronavirus: massimo rigore e sospensione della libertà. Ed è successo appena dopo che Trump ha inflitto a Xi Jinping l’umiliazione dei dazi». Come dire: è in corso una partita cruciale per le sorti del pianeta, di portata epocale. Da una parte i neoliberisti, che si sono riciclati come gendarmi sociali in nome del Covid, favoloso pretesto per rendere eterna l’austerity degli ultimi decenni. Dall’altra, sono in campo quelli che Magaldi chiama massoni progressisti: avversari del rigore già prima della pandemia, e ora impegnati a evitare che il virus diventi un alibi per seppellire quel che resta della nostra democrazia.
    Di più: per il fronte in cui Magaldi milita, la crisi pandemica è un’occasione irripetibile. Il collasso indotto dal lockdown rappresenta un assist perfetto, per archiviare il dogma della scarsità – solo immaginaria – e il falso riformismo sulla pelle degli altri (”ce lo chiede l’Europa”). Il Piano-B l’ha esposto Mario Draghi a fine marzo, sul “Financial Times”: tornare a Keynes. Cioè: inondare di miliardi l’economia, senza paura di spendere. Soldi che non si trasformino in debiti: proprio come in tempo di guerra. Ma Draghi non era il sommo custode dell’ordoliberismo europeo in salsa teutonica? Lo era, dice Magaldi, ma nell’ultimo anno ha abbandonato la comitiva. «Il “fratello” Draghi è tornato alle sue origini keynesiane e ha chiesto di essere accolto nel circuito massonico progressista, come anche la “sorella” Christine Lagarde». A muoversi sono pesi massimi del potere economico, come la stessa Kristalina Georgieva del Fmi e Premi Nobel del calibro di Krugman e Stiglitz. Tutti a dire che non è possibile insistere con la “terapia” che ha impoverito l’Europa: vista la gravità della crisi economica indotta dal Covid, bisogna buttare a mare trent’anni di rigore finanziario e metter mano al “bazooka” dell’emissione monetaria illimitata e gratuita, non a debito, pena il collasso del sistema economico.
    «Ci stiamo accorgendo che nessun denaro verrà dato all’Italia con spirito solidaristico e risolutivo», riassume Magaldi. «Concedere denaro in prestito, vincolato alle solite condizionalità – poco importa che si tratti del Mes o di altro – è inaccettabile, in questa temperie. E se la classe politica europea non è all’altezza, quella italiana rispecchia perfettamente questa mediocrità complessiva». Così almeno la vede Magaldi: «L’Europa è un nano politico, economicamente sempre più problematico (benché ricco, perché eredita posizioni di privilegio). Ma il nanismo politico, geopolitico, diplomatico e militare, nella nuova guerra fredda tra sistema-Cina e sistema-Usa, con in mezzo la Russia a fare da terzo incomodo, non aiuta i futuri sviluppi economici dell’Europa». Lo spettacolo è eloquente: «L’Ue è incapace di darsi un’unità fiscale, evitando il dumping che molti paesi esercitano, ed è incapace di costruire un tessuto socio-economico più equo e lungimirante». E intanto il mondo non ci aspetta: «La Cina ci ha insegnato che un paese molto povero può aumentare in modo significativo il proprio Pil, anno dopo anno, e proiettarsi sullo scenario globale da protagonista neo-imperiale». Domani, tutto potrebbe cambiare. E noi, semplicemente, subiamo gli eventi: «C’è davvero un’assenza di visione, da parte di tutti i leader europei».
    A soffrire le pene dell’inferno, tanto per cambiare, è in primo luogo l’Italia: «Troppe famiglie, lavoratori, aziende ed esercizi sono ancora appesi a decisioni che non vengono prese. C’è un menare il can per l’aia, del governo e anche delle opposizioni: litigano e cazzeggiano. Gli uni (al governo) sono del tutto inefficaci, ma non è ben chiaro cosa farebbero al loro posto gli altri, che stanno all’opposizione». La verità, dice il presidente “rooseveltiano”, è che l’emergenza coronavirus non è mai cessata: «Ieri c’era un’emergenza sanitaria, e adesso c’è un’emergenza che è economica e sociale. Ce ne accorgeremo proprio a settembre: molti nodi verranno al pettine e ci sarà il baratro, per molti». A partire da settembre, «diventeranno lampanti i disastri che la cattiva gestione e la mancata reazione del governo provocherà, nella società e nell’economia italiana». E il guaio è che i leader europei sembrano ectoplasmi: «Troppi cincischiamenti, al di là dell’azione benemerita di Christine Lagarde, contro ogni previsione (salvo la mia). Per il resto solo parole, passi indietro e traccheggiamenti odiosamente studiati: quando era forte la pressione mediatica sul lockdown e sull’emergenza sanitaria strombazzata, si parlava del dovere dell’Europa di intervenire subito. E invece, di Recovery Fund stiamo ancora soltanto discutendo».
    Quest’anno il bilancio è molto negativo, sin qui, perché secondo Magaldi si è persa anche la grande opportunità – generata dal coronavirus – per un cambio di paradigma. Obiettivo mancato: archiviare gli ultimi disastrosi decenni di austerity. «La mia previsione però non è catastrofica: io continuo a rilanciare l’ottimismo della volontà, a patto però che diventi anche “ottimismo del fare”». Spiegazioni: «I massoni progressisti operano dietro le quinte, mentre il Movimento Roosevelt opera davanti alle quinte». Ma da solo non basta: «Si decidano a operare tutti i cittadini, aderendo a strumenti di azione politica». Concretezza e realismo: «Bisogna evitare di andare appresso ai soliti piagnoni apocalittici, che parlano di uscire dalla Nato e dall’euro, e magari strizzano l’occhio alla Russia ma odiano gli americani. Tutto questo “pastone” di “alternativi” non ha mai prodotto nulla, in questi anni, e continuerà a non produrre niente. Se si vuole cambiare la situazione, occorre iniziare dalle cose che si possono fare già da domani: e questo è l’unico cammino serio che il Movimento Roosevelt vuole intraprendere».
    Piccola profezia: «Il Movimento Roosevelt è destinato a crescere, perché la censura che l’ha finora colpito sarà destinata a crollare». Quel giorno, «risulterà che in questi anni si sono avvicendati partitini e partitoni, grandi e piccoli protagonisti, piccole narrazioni, litanie e piagnistei, mentre il Movimento Roosevelt è stato granitico, dal punto di vista ideologico, nel proporre qualcosa che è ancora un’eresia, uno scandalo». Ovvero: «Il socialismo liberale di cui parliamo noi non è quella parodia che ne ha fatto Renzi, e che tuttora ne fanno Calenda e altri, che declinano una forma di neoliberismo “de sinistra”». Magaldi allude al socialismo liberale in versione rooseveltiana, post-keynesiana, rosselliana. «Ci richiamiamo alla migliore tradizione del socialismo democratico, quella di Olof Palme. E’ il socialismo liberale che, in qualche modo, anche l’esecrato e demonizzato Bettino Craxi aveva comunque cercato di introdurre, tra luci e ombre, nella coscienza politica degli italiani». Già, Craxi: «Ebbe indubbie benemerenze, che però vennero stroncate: in Italia, quei socialisti che non erano subalterni ai comunisti erano definiti “social-traditori”. E Craxi era odiato da quella sedicente sinistra che da Pci si trasformò in Pds, poi in Ds, poi in Pd, e che certo non ha operato bene».
    Secondo Magaldi, «oggi è paradossale che il Pd appartenga al Partito Socialista Europeo, considerando che non c’è più nulla, di socialista, nella politica del Pd». Peraltro, «non c’è più nulla di socialista neppure nel Pse: dovrebbero vergognarsi, i sedicenti socialisti europei, ricordando l’esempio di personaggi come Olof Palme». Non solo: «Dovrebbero vergognarsi i socialdemocratici tedeschi, come anche i socialisti francesi, guardando a cosa si sono ridotti, e a quanto sono subalterni a narrative neoliberiste che in altri tempi sarebbero state definite “di destra conservatrice”. Il loro è un mondo fasullo, capovolto». Il Movimento Roosevelt, al contrario, rivendica un’assoluta e granitica coerenza: «Parliamo di socialismo liberale e democrazia sostanziale, e denunciamo i riti fasulli, vuoti e retorici di una democrazia priva di anima. Abbiamo idee all’avanguardia sull’istruzione, sull’ambiente, sull’energia, sulla difesa, sull’economia, sulla stessa riforma costituzionale dello Stato. Tutti seguono le nostre mosse con attenzione, e si chiedono cosa ne sarà di queste nostre idee forti, che qualcuno vorrebbe attuare. Domani, io credo che questa nostra influenza uscirà alla luce del sole e diventerà pienamente percepibile». Tanto ottimismo è motivato: «Per fortuna, c’è chi – accanto a noi, a livello globale – agisce dietro le quinte e prepara le condizioni più propizie perché le nostre idee possano affermarsi, presso la coscienza del popolo sovrano».
    Questo, ribadisce Magaldi, deve fare la differenza: «Il Movimento Roosevelt non vuole candidarsi a raccogliere voti alle elezioni, ma vuole influenzare politica e cittadini in modo solare, come una lobby apertamente dichiarata: una lobby della democrazia e del socialismo liberale». La missione: «Contaminare, come un virus benigno, le coscienze e le istituzioni. E vogliamo farlo in Italia, in Europa e nel mondo: per far sì che diventi un imperativo categorico, quello che è scritto nel nostro statuto, cioè la promozione e l’estensione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani». Il mondo di oggi è pieno di piaghe: «Democrazia assente, diritti calpestati, disuguaglianze mostruose. Oligarchie e teocrazie che dominano, imperterrite, con la loro arroganza». Ci dimentichiamo, ricorda Magaldi, che nel 1948 tutte le nazioni si erano impegnate a promuovere i diritti umani. «Il Movimento Roosevelt è qui per ricordarlo a tutti. E io credo che la sua influenza si misurerà negli anni e resterà nella storia: il giorno in cui certe cose verranno affermate, non si potrà non ricordare che questo è stato, perché a un certo punto il Movimento Roosevelt ha suonato la campana, e ha detto “la ricreazione è finita”».
    Pensieri visionari? Forse, dando per scontato che ogni avanguardia tende a esplorare orizzonti lunghi. Il monitor italiano, peraltro, s’è incantato su un fermo-immagine: il paese è a terra, e il governo non sa dove trovare i soldi per rianimarlo. «Quei soldi non c’erano nemmeno prima», dice Magaldi, che già un anno fa parlava di «almeno duemila miliardi» per rimettere in sesto infrastrutture, servizi e occupazione. Come trovare quel fiume di soldi, ora che la crisi post-Covid morde gli italiani? Nel solo modo possibile: creandoli dal nulla, come sempre si è fatto di fronte alle grandi crisi. L’Ue non lo consente? Male: perché l’alternativa non esiste. Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, predica da anni il ricorso – temporaneo – all’emissione di moneta parallela, di Stato, spendibile solo in Italia: un toccasana, per resuscitare stipendi e consumi. Chi pensa in grande – da Draghi in giù – sa che un’Unione Europea così conciata non ha futuro: è indispensabile cambiare le regole, gettando a mare la religione del rigore finanziario. Rosselli credeva nel socialismo come ricetta socio-economica bilanciata dalla giustizia sociale. Un altro campione democratico come Olof Palme, autore del rinomato welfare svedese, impegnò lo Stato per salvare aziende traballanti e posti di lavoro.
    Lo stesso Roosevelt, che ereditò un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione, adottando le ricette di Keynes trasformò gli Stati Uniti nella prima superpotenza mondiale. E noi che facciamo, stiamo ancora a pietire le concessioni usuraie dei signori di Bruxelles, mentre milioni di italiani tra poco non sapranno come arrivare a fine mese? «Per inciso: Rosselli, Palme, Keynes e Roosevelt erano tutti massoni progressisti», precisa Magaldi, come per rimarcare che – se qualcuno oggi li evoca – intende avvertire il pubblico che s’è messo in moto qualcosa di importante, che affonda le sue radici in cent’anni di battaglie per i diritti sociali. «L’essenziale, in un momento come questo, è non cadere nella tentazione del complottismo stupido che demonizza qualsiasi potere, a prescindere: il cospirazionismo apocalittico è l’alleato perfetto della peggior oligarchia, quella che noi democratici vogliamo abbattere». Ecco perché non è il caso di sottilizzare, su Conte e soci: «Se saranno loro, ad accettare il nuovo corso, benissimo. Ridurre la politica a tifo da stadio è una pessima idea: serve solo ad allungare la vita al sistema che ci ha messo di fronte avversari solo apparenti, come Prodi e Berlusconi, di fatto esecutori dei medesimi diktat». Magaldi ne è certo: sarà la durezza della crisi a imporre le scelte giuste. E allora cadranno, di colpo, tutte le storielle che ci hanno finora propinato: dalla criminalizzazione del deficit all’odio tribale che spinge le tifoserie a dilaniarsi l’un l’altra, come i capponi di Renzo destinati a finire in padella.

    «Siamo piccoli, ma attentamente monitorati: ai piani alti, c’è chi si domanda in che modo contiamo di riuscire nell’impresa, e non manca chi vorrebbe attuare le nostre proposte. Che poi sono le uniche in grado di ribaltare la situazione: perché le nostre idee sono uno scandalo, un’eresia. Un virus benefico, destinato a contaminare finalmente il sistema». Gioele Magaldi sintetizza il concetto in due parole: socialismo liberale. Keynes e Roosevelt, Carlo Rosselli, Olof Palme. I semi migliori del Novecento: l’antidoto contro l’ingiustizia. Dove sono finiti? Dispersi: soffocati dalla sovragestione del neoliberismo globalizzato. Ma oggi, per un movimento d’opinione come quello fondato nel 2015 da Magaldi, rappresentano l’unico salvagente per evitare il naufragio della democrazia, schiacciata dalle possenti oligarchie planetarie che ora speculano anche sul disastro del coronavirus. Il loro piano: mantenere il potere a tutti i costi, anche instaurando una sorta di polizia sanitaria mondiale, pronta a usare il ricatto della paura e il fantasma della depressione economica. Risultato: l’Europa ridotta a nullità politica, capace però di tenere in ostaggio un paese come l’Italia, il cui governo – lasciato senza soldi – non ha la minima idea di come evitare il massacro sociale a orologeria che già si annuncia per l’autunno. «Famiglie e aziende avranno l’acqua alla gola, per effetto del terribile lockdown imposto senza nessun vero paracadute economico».

  • Abbiamo un problema: siamo in guerra, ma non lo vediamo

    Scritto il 18/6/20 • nella Categoria: idee • (1)

    Houston, abbiamo un problema. Il pubblico si spella le mani, pro o contro i suoi gladiatori di cartapesta, mentre là fuori impazza una specie di guerra mai vista, spaventosa, insidiosissima perché subdola: c’è in giro un killer, travestito da infermiere. Ha anche aperto una macelleria sfrontata, fino a ieri impensabile: e il peggio non è neppure la disinvoltura delle amputazioni senza anestesia (le pagine oscurate, i blog censurati, i video desaparecidos), ma il fatto che metà del pubblico sbeffeggi come vittimisti e inguaribili visionari gli autori delle denunce “bannate”, cancellate con un colpo di spugna. E’ il pubblico che trova normale che nell’anno 2020 dopo Cristo, non in Corea del Nord ma in un paese dell’Unione Europea, il governo istituisca una sorta di Ministero della Verità, senza vergognarsi di filtrare le informazioni destinate ai sudditi, a loro volta ben divisi in due ostinate tifoserie cementate da un rancore surreale, fuori luogo. Che il genere fantasy sia forse il più appropriato, per descrive l’attuale situazione psico-politica, lo suggerisce il lessico usato da un cardinale nel promuovere Donald Trump come “figlio della luce”, nemico del tenebroso Deep State che usa questa stranissima emergenza sanitaria per imprigionare il mondo nel cerchio magico della paura, oscurando l’orizzonte di una libertà democratica erroneamente data per scontata, ormai al sicuro per sempre.

  • La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende

    Scritto il 02/5/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.
    L’espressione “compagni di merende” deriva dal contesto oscuro e luttuoso del Mostro di Firenze, atroce caso nazionale tuttora irrisolto, benché rischiarato (solo nei suoi successivi romanzi, tuttavia) dall’allora commissario Michele Giuttari, a cui tagliarono le gomme dell’auto parcheggiata in questura, dopo essere giunto a un passo dalla verità insieme al pm perugino Giuseppe Mignini, colpito – insieme a Giuttari – dall’accusa di abuso d’ufficio. Poliziotto e magistrato avevano intuito che a macellare 16 persone sulle colline di Firenze non erano stati i patetici Pacciani, Vanni e Lotti, ma ben altri compagni di merende. I tre rozzi paesani (uno dei quali, Pacciani, prima incastrato con prove false e poi ucciso con farmaci letali per un cardiopatico come lui) sapevano probabilmente qualcosa dell’organizzazione chiamata Mostro di Firenze, ma sono stati utilizzati essenzialmente come diversivo per depistare le indagini, allontanandole dalla zona off limits, quella degli intoccabili. Un copione schematico, usato anche nella tragedia nazionale di Tangentopoli: come compagni di merende furono trattati i protagonisti dell’intera classe politica della Prima Repubblica, debolissima e declinante, diffusamente corrotta, ma non pericolosa quanto quella che le sarebbe succeduta, autrice della storica svendita del paese, oggi in ginocchio.
    La fu-sinistra, in blocco, credette davvero alla storiella dei compagni di merende. E così sostenne compatta tutti i tagli previsti dall’austerity, a partire dal primo decreto Treu sulla flessibilità del lavoro, premessa generale per il crollo dei diritti sociali che ha aperto la precaria stagione dei laureati nei call center e della fuga dei cervelli, poi comodamente imputata al cattivone di turno, l’orrido Berlusconi. Il primo a distaccarsi da quella sinistra, da cui pure proveniva, fu il grande Giulietto Chiesa, appena scomparso. Non hanno capito quello che è successo, ripeteva: non hanno la minima idea di chi siano i poteri a cui hanno consegnato l’Italia. Era avanti anni luce, Giulietto Chiesa: aveva compreso perfettamente che la dicotomia destra-sinistra apparteneva al Novecento, e che la nuova partita fra alto e basso era un derby spietato tra oligarchia e democrazia, tra finanza e politica. Guerra o pace, abuso o diritto, pochi o molti. Le bandiere di ieri? Scolorite, tutte: da custodire, ma come gloriosi cimeli storici, in nome del senso della realtà (quello che il 25 aprile 2020 s’è fatto fatica a rintracciare, sui balconi italiani pavesati in tricolore per lo spettacolo più surreale: prigionieri della post-democrazia, sottoposti al nuovo regime di polizia sanitaria, ma felici di cantare Bella Ciao come se fossero liberi).
    Se qualcuno pensa di essere in Corea del Nord, ascoltando il soave Scanzi decantare il Caro Leader, si sbaglia: siamo in Italia, più che mai. Siamo nel paese che un tempo era la quinta potenza industriale del pianeta, benché frenata dalle sue piaghe endemiche come l’evasione fiscale, la corruzione dilagante, lo strapotere delle mafie. Vent’anni di disinformazione martellante hanno fatto il miracolo: nessuno dei mali storici è scomparso, ma le condizioni generali sono precipitate grazie alle minacce letali che i Travaglio e gli Scanzi non hanno mai voluto vedere, denunciare, indagare. Sono le regole truccate dell’austerity europea, quelle che oggi costringono Giuseppi a dare di sé uno spettacolo indecoroso, al punto da chiedere scusa – fuori tempo massimo – per l’assoluta inettitudine del suo governo, di fronte a una catastrofe come quella del coronavirus. Ma nemmeno l’ammenda tardiva di Conte basta a smuovere la “rockstar del giornalismo italiano”, che esorta a venerare il Re Sole, l’Avvocato del Popolo venuto da Volturara Appula (e dal Vaticano). Giuseppe Conte? E’ il nulla assoluto, sentenzia Alessandro Di Battista, a lungo coccolato dal “Fatto Quotidiano” e ora ridotto a recitare il ruolo di immacolato outsider. Ma anche il Dibba, in fondo, dice – senza ridere – che un governo di unità nazionale sarebbe ancora peggio di quello in carica, visto che farebbe strame di quel che resta del paese.
    Sembra l’ultima edizione della storia dei compagni di merende: Di Battista evoca i lupi mannari che, guidati magari dal un super-tecnocrate come Draghi, darebbero la stura a ogni possibile speculazione, maxi-appalti fuori controllo e grandi opere inutili. Di nuovo: non è una barzelletta, l’ha detto veramente (lui, che fa ancora parte del Movimento 5 Stelle, cioè l’illusione ottica nazionale che – dopo aver insediato Giuseppi – ha rinnegato una dopo l’altra tutte le promesse elettorali, nessuna esclusa: Tap e Tav, trivelle in Adriatico, F-35, obbligo vaccinale). Di fronte a questo, il grande Andrea Scanzi non ha trovato di meglio che esprimere la sua arte sopraffina, tra una comparsata e l’altra del salotto televisivo di Lilli Bilderberg Gruber, nel vergare l’immortale capolavoro “Il cazzaro verde”, dedicato al demagogo che straparlò in un comizio di Pieni Poteri – prima che a prenderseli, i Pieni Poteri, e senza avvisare gli italiani, fosse il favoloso Giuseppi, il premier che gli italiani ingrati non si meriterebbero. Riavvolgendo il nastro: che faceva, Salvini, un anno fa? La buttava in caciara, per non dover ammettere il cocente fallimento del governo gialloverde di fronte al suo avversario, il rigore Ue. E che faceva, la stampa? Niente di meglio: la buttava in caciara, anche lei, prendendosela comodamente con il “cazzaro verde”. Facile, no?
    Sta per scadere, finalmente, il tempo di Giuseppi? Marta Cartabia (Corte Costituzionale, vicinissima a Mattarella) avverte che la Carta non la si può deformare, neppure di fronte a un’emergenza sanitaria. Entro un mese potrebbe subentrare Draghi, si sbilancia in televisione Stefano Zurlo, di “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri (veterano della stampa italiana, che i Bilderberg Boys del giornalismo-rockstar ormai manganellano, trattandolo come un soggetto psichiatrico). E a proposito di giornalisti: oscuri dilettanti come Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa sostenevano che con un politico fosse lecito, al massimo, prendere un caffè. Poco prima che l’Italia si trasformasse nel più grande carcere del mondo, Marco Travaglio si appartò con il primo ministro: cenetta intima in un ristorante sull’Appennino, celebre per i piatti a base di funghi. Anche Giulietto Chiesa frequentava politici, ma nel suo caso si chiamavano Mikhail Gorbaciov. E le cene si succedettero solo quando l’uomo che mise fine alla guerra fredda era ridiventato un privato cittadino, benché illustre. A Gorby diedero anche il Nobel per la Pace. E Giuseppi, a quale Nobel potrebbe ambire? Bel problema, ma niente paura: una formidabile menzione adorante potrebbe sempre scrivergliela l’immaginifico Scanzi, la rockstar di cui l’Italia prostrata dalla galera-Covid sentiva davvero il bisogno.
    (Giorgio Cattaneo, “La rockstar Andrea Scanzi e l’Italia dei compagni di merende”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 maggio 2020).

    Cos’è più avvilente, in questa primavera italiana? L’ex giornalista Andrea Scanzi o l’ex politico Pierluigi Bersani? Il primo intasa i social network per svelare agli italiani la loro immensa fortuna: essere governati da Giuseppi, cioè l’unico premier europeo che vanta almeno due record assoluti, il maggior numero di morti da Covid e il maggior numero di persone rimaste senza assistenza economica, sull’orlo della disperazione. Il secondo, lo Smacchiatore, dopo aver promosso a pieni voti il professor Monti e il suo micidiale pareggio di bilancio in Costituzione, ora torna a dare segni di vita spiegando, in televisione, che tedeschi e olandesi fanno benissimo a massacrare gli italiani, notoriamente un popolo di lazzaroni e incalliti evasori fiscali. Se a festeggiare il fantasma di Bersani è un tripudio di pernacchie, tutt’altra accoglienza incoraggia invece l’autoproclamata “rockstar del giornalismo italiano” (testuale, dal suo profilo Facebook), il cui ego-mongolfiera ora si gonfia a dismisura, nei giorni del lockdown infinito, beandosi dello strabiliante punteggio raggiunto dai suoi gargarismi quotidiani: un milione e mezzo di “like” e oltre centomila visualizzazioni per le imperdibili dirette video. «Ma ho anche dei difetti», ci informa, umilmente magnanimo, il nuovo amicone di Giuseppi.

  • Barnard a Burioni: non siete scienza, se oscurate Montanari

    Scritto il 29/3/20 • nella Categoria: idee • (4)

    Caro dottor Roberto Burioni, e suoi colleghi del Patto Trasversale per la Scienza, so che avete preso di petto il giornalista Claudio Messora, la sua testata “ByoBlu” e il naopatologo Montanari, Messora pubblicato. Be’, giusto per creare un “level plain field”, vi dico che non sono amico di nessuno dei due e ho sempre rifiutato di comparire sulla testata. Ma… c’è un “ma”. Il “ma” è che quando vedo che la scienza, nata da Galileo Galilei, si comporta come una cordata democristiana ai tempi di Ciriaco De Mita, be’, allora devo parlare, dottor Burioni. Le faccio dei nomi. Ignác Fülöp Semmelweis, Kery Mullys, Richard Horton, Freeman Dyson, Galileo Galilei. Abbia la pazienza, per cortesia, di ascoltare questi pochi minuti. Ignác Fülöp Semmelweis fu il medico ungherese che perse la vita, letteralmente, perché si accorse che la sepsi pureperale, che ai suoi tempi ammazzava decine di migliaia di donne gravide e di feti, era dovuta al fatto che i medici passavano da malato a malato, per poi infine visitare le gravide, senza lavarsi le mani nude. Le sue grida d’allarme furono prima ridicolizzate, poi fecero infuririare quelli che fanno i Patti per la Scienza, e infine – letteralmente – lo ammazzarono, rinchiudendolo in un manicomio, dove dopo due settimane di torture morì. Ma aveva ragione. Ci vollero decenni, e vallate di morti innocenti, perché la scienza se ne accorgesse.
    Kery Mullys fu l’inventore della “polymerase chain reaction” la Pcr, la tecnica di amplificazione di pezzi di acido nucleico, che non solo ha cambiato la storia dell’intera scienza biomedica, ma è ciò che oggi ci permette di identificare con certezza la presenza del coronavirus negli umani. Per questa scoperta, tra l’altro, Mullys vinse il Premio Nobel nel ‘93. Era un mio amico, Kery Mullys: lo invervistai per due mie inchieste di “Report”, negli anni Novanta, mangiavano gli spaghetti ai gamberoni fatti ha me nella sua casa di La Hoja, in California. Mullys mi disse, e l’aveva detto all’America delle scienze, che l’intero establishment scientifico globale aveva preso un immenso abbaglio, in virologia, cona la scoperta dell’Hiv come unica causa dell’Aids. Immagini, Burioni, il caos che ne seguì, quando “Report” di Gabanelli trasmise alla Rai quella mia inchiesta, quella mia intervista: Furio Colombo si “scarabattò” sudaticcio in qualche talkshow di punta, a smentire Mullys, e a chiedere implicitamente che lui, “Report” e io fossimo relegati alla vergogna. Anni dopo, Luc Montagner – il vero scopritore dell’Hiv – ammise che dovevano esserci dei co-fattori ad aiutare l’Hiv a causare l’Aids.
    In realtà, poi, il grande dissidente dell’Hiv come causa dell’Aids è un altro luminare americano, Peter Duesberg – altro mio caro amico, che fu eletto membro dell’Accademia delle Scienze Usa, per esser stato lo scopritore del primo onco-virus al mondo. Duesberg, letteralmente, fece perdere la testa agli scienziati: quando nel 1996, su Mullys e Duesberg, io intervistai il “baronissimo” dei baroni, cioè Anthony Fauci all’Nih, sperimentai i 25 minuti di odio più intensi, da parte di un intervistato, nella storia del giornalismo. Ma qui arriva Richard Horton (e lei sa chi è). Per il pubblico, è il direttore della più prestigiosa rivista scientifica del mondo, il “The Lancet”, su cui mi auguro che lei, Burioni, abbia abbondantemente pubblicato (immagino di sì). Richard Horton fu talmente scandalizzato dai tentativi della scienza di mettere a tacere delle voci scomode, che sul “The New York Review of Books”, nientemeno, scrisse: «Sono voci che comunque meritano di essere ascoltate, e l’assassinio ideologico che hanno subito rimarrà come un testamento imbarazzante delle tendenze reazionarie della scienza moderna». Cari Burioni e colleghi del Patto Trasversale per la Scienza, inizia a venirvi in mente qualcosa che avete fatto, in questi giorni, in Italia?
    E infine Freeman Dyson, deceduto a 96 anni, proprio il 28 febbraio scorso: era l’ultimo sopravvissuto dell’immenso “cluster” di geni della fisica e della matematica del Novecento, da Albert Einstein a Robert Oppenheimer, da Enrico Fermi a Alan Turing fino a Richard Feynman e Stephen Hawking. Freeman Dyson lavorò con tutti loro, e sedette fino alla sua morte nell’ufficio accanto a quello di Einstein, nell’Institute of Advanced Studies di Princeton, in America (più alto di lì non si va – almeno, con la relatività generale di questo universo). Lo conobbi brevemente: un uomo meraviglioso. Ma Dyson non era solo un “contrarian”: era proprio l’eretico degli eretici, in scienza. C’è una sua meravigliosa “lecture” al Pardee Centre della Boston University, dove inizia dicendo: «I dogmi scientifici odierni probabilmente sono giusti, ma devono essere sfidati». Quest’uomo, che fu definito un genio ha Hans Bethe (e spero che lei, Burioni, sappia chi era, Hans Bethe: fu il cervello che scrisse la matematica di quasi tutta la fisica quantistica, da Niels Bohr fino a Richard Feynman), trascorse gli ultimi anni della sua vita a prendersi tegole in testa dai Patti Trasversali per la Scienza, quando: 1) sfidò i modelli matematici dei climatologi sul “climate change”, definendoli “flat wrong”, cioè pessima aritmetica; 2) si mise contro l’invero movimento verde globale, dichiarando che gli orgamismi geneticamente modificati sono un tesoro di salvezza per i poveri, e non il loro veleno; 3) quando dichiarò che Darwin ci aveva forse preso, su come si sono evolute le macro-forme viventi, ma non aveva capito nulla dell’evoluzione dei microorganismi della Terra per miliardi di anni.
    E le tegole in testa, caro dottor Burioni, se le presero pure quelli che lo pubblicavano, cioè che pubblicavano un ostinato negazionista dei teoremi scientifici oggi dati per scontati. Ma mai – mai e poi e mai, Burioni – i suoi colleghi internazionali, ai livelli dell’Institute for Advanced Studies di Princeton, la seconda patria di Einstein, o ai livelli del “The Lancet”, si sognarono di trottare nelle Procure a denunciare chi aveva dato voce agli iconoclasti. Anzi – e ve lo ripeto, esimi Burioni e colleghi del Patto Trasversale per la Scienza: Horton, direttore del “The Lancet”, scrisse: «Sono voci che meritano di essere ascoltate, e l’assasinio ideologico che hanno subito rimarrà come testamento imbarazzante delle tendenze reazionarie delle scienza moderna». State umiliando il ricordo di Galileo Galilei, dottor Burioni e Patto Trasversale per la Scienza: il Galileo scandaloso e le sue folli idee, eretiche e pericolose al pubblico dei fedeli, zittito dalle Procure di allora (l’Inquisizione). Ritirate l’esposto contro “ByoBlu”, oppure togliete la parola “scienza” dal vostro Patto. E cito, ancora: «I dogmi scientifici odierni probabilmente sono giusti, ma devono essere sfidati» (Freeman Dyson).
    (Paolo Barnard, “Il testamento imbarazzante delle tendenze reazionarie della scienza moderna”, video-messaggio del 28 marzo 2020 in sostegno di “ByoBlu”, video-blog denunciato dal Patto Trasversale per la Scienza guidato da Roberto Burioni per aver dato spazio a Stefano Montanari e alle sue tesi alternative sul coronavirus).

    Caro dottor Roberto Burioni, e suoi colleghi del Patto Trasversale per la Scienza, so che avete preso di petto il giornalista Claudio Messora, la sua testata “ByoBlu” e il naopatologo Montanari, Messora pubblicato. Be’, giusto per creare un “level plain field”, vi dico che non sono amico di nessuno dei due e ho sempre rifiutato di comparire sulla testata. Ma… c’è un “ma”. Il “ma” è che quando vedo che la scienza, nata da Galileo Galilei, si comporta come una cordata democristiana ai tempi di Ciriaco De Mita, be’, allora devo parlare, dottor Burioni. Le faccio dei nomi. Ignác Fülöp Semmelweis, Kery Mullys, Richard Horton, Freeman Dyson, Galileo Galilei. Abbia la pazienza, per cortesia, di ascoltare questi pochi minuti. Ignác Fülöp Semmelweis fu il medico ungherese che perse la vita, letteralmente, perché si accorse che la sepsi pureperale, che ai suoi tempi ammazzava decine di migliaia di donne gravide e di feti, era dovuta al fatto che i medici passavano da malato a malato, per poi infine visitare le gravide, senza lavarsi le mani nude. Le sue grida d’allarme furono prima ridicolizzate, poi fecero infuririare quelli che fanno i Patti per la Scienza, e infine – letteralmente – lo ammazzarono, rinchiudendolo in un manicomio, dove dopo due settimane di torture morì. Ma aveva ragione. Ci vollero decenni, e vallate di morti innocenti, perché la scienza se ne accorgesse.

  • I nostri leader nani: durano poco perché sono senza storia

    Scritto il 15/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.
    Venivano da qualcosa, in loro vedevi riflessa una storia, anche una storia collettiva, che magari era controversa, non ti piaceva, ti urtava o ti spaventava, ma c’era: la storia dei partiti e dei movimenti popolari di massa, la storia dei cristiano-democratici e dei socialisti e dei comunisti, dei missini o neofascisti e dei liberali e dei repubblicani; poi c’era la storia dei socialdemocratici, dei monarchici e di altre famiglie politiche e culturali, altre comunità con altri eroi, autori e simboli. Ciascuno non era giudicato a sé, in sé, ma come proveniente da una storia, ed erede di una cultura politica. Dietro di loro vedevi un simbolo, un tragitto, il riassunto di un albero genealogico. Invece, i dieci protagonisti odierni che abbiamo citato vengono praticamente da se stessi, non hanno storia e movimento politico; fanno parziale eccezione Zingaretti e la Meloni, che derivano quantomeno da tradizioni politiche seppur rifratte, di cui erano rappresentanti giovanili; ma gli altri no, sono parvenu o apolitici, apolidi, apatridi, self made man, mutanti, o come altro volete definirli. Pensate che sia una differenza da poco? Pensate che non conti nulla essere e sentirsi eredi e continuatori di una storia, di un modo di pensare, di un’ideologia, perfino, o comunque di una tradizione sociale, oltre che politica, di una comunità vivente oltre che di una collettività di interessi e valori? O solitari interpreti di una fase, attori che recitano a soggetto, personaggi in cerca d’autore e di target?
    Questa è la vera differenza e il vero salto nel buio che abbiamo fatto. La cosiddetta seconda repubblica fu ancora una via di mezzo, c’erano tradizioni politiche, storie di partiti che si spegnevano, si piegavano, mutavano nome e fattezze; ma qualche eredità ancora s’intravedeva di una storia comune venuta dal Pci, dalla Dc, dal Msi, e via dicendo. E restava in piedi sotto l’egida del bipolarismo, qualche richiamo alla destra o centro-destra e alla sinistra o centro-sinistra. Il primo parvenu della politica fu Berlusconi, che aveva, si, bazzicato molti leader ma da imprenditore, in cerca di protezioni, sponde, benefici reciproci per le sue aziende private. Con lui c’era Umberto Bossi, contro di lui ci fu Tonino Di Pietro. Ma la collocazione in un quadro bipolare rendeva riconoscibile la loro posizione e per certi versi risaltava un’appartenenza e una derivazione. Poi tutti gli altri avevano qualche precedente storico: D’Alema e Veltroni, Fini e Casini, in parte lo stesso Prodi, solo per citare i più eminenti; provenivano dal Novecento, perlomeno.
    Ora, invece, i leader sono autoreferenziali, traggono legittimazione da se stessi e dalle condizioni del momento, dai loro movimenti nuovi o sempre differenziati da ogni passato. I partiti aggiornano continuamente la loro app politica, cambiano ciclicamente nome, mission, struttura. Ma anche i leader devono rigenerarsi, hanno la durata di uno smartphone. Anzi è un male avere un curriculum, provenire da una storia, rivelare un’antichità. Preferibile essere marziani, extraterrestri, vergini, parvenu. Io sono il Nuovo. Ma è un’affermazione suicida nel medio periodo, perché il Nuovo invecchia in fretta e viene presto scavalcato dal più Nuovo. Per durare, il Nuovo deve scommettere sull’oblio, ovvero sulla perdita di memoria collettiva.
    Il populismo a questo punto diventa un’ancora per approdare nel presente e restare a tiro, in pole-position: non rappresento una storia ma un’opinione corrente, non rappresento radici ma umori diffusi. Il popolo tramite il sondaggio diventa il sostituto della tradizione e ben si sposa con la logica mercantile del nostro tempo riassunta nella formula “il cliente ha sempre ragione”. Ancor peggio del populismo è il suo nemico, il settarismo correttivo, ovvero l’assunzione di un canone ideologico obbligato rispetto a cui attenersi, che non deriva né dall’esperienza, cioè dalla realtà, dalla storia e dalla tradizione, né dal consenso popolare. Ma è mero bigottismo radical-progressista. Al di là delle specifiche stature dei dieci piccoli indiani citati come protagonisti della stagione politica in corso, a loro volta assai differenti, il paragone è disastroso perché non rappresentano altro che se stessi, in un determinato momento. Ed è questa la ragione per cui la loro parabola è breve, non lascia tracce, non si inscrive in nessuna storia ma solo in un presente che passa in fretta. Il precariato della politica, con i suoi fuochi fatui.
    (Marcello Veneziani, “Nani sulle spalle dei giganti”, da “Il Borghese” del febbraio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.

  • Magaldi: massoni in guerra, ma per vincere serve il popolo

    Scritto il 04/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La guerra dei poveri, la chiamò Nuto Revelli. E i poveri erano gli alpini in Russia con le suole di cartone, i partigiani in armi dopo l’8 settembre, i montanari che li nutrivano con pane duro e castagne. Un memoriale-capolavoro, quello uscito per Einaudi nel 1962, in cui Revelli racconta in modo magistrale la vertiginosa trasformazione di un intero paese, grazie allo choc collettivo della catastrofe bellica. Metamorfosi che investe lo stesso protagonista: da ufficiale fascista, imbevuto di retorica militarista, a comandante della Resistenza, nelle brigate “Giustizia e Libertà”. Il brusco risveglio, nel 1943, è propiziato dallo sfacelo delle forze armate allo sbando, il 25 luglio. Un anno dopo, quando gli Alleati sbarcheranno in Provenza, una divisione corazzata della Wehrmacht si muoverà dal Cuneese per affrontarli. Nuto Revelli e i suoi riusciranno a rallentare i panzer per dieci giorni, inchiodandoli tra le gole della valle Stura, permettendo così agli americani di conquistare le alture di Nizza. Finita la battaglia, il comandante vorrebbe marciare verso la Liguria. Ma gli uomini glielo impediscono, vogliono svalicare in Francia. E la spuntano: votando, per alzata di mano. Democrazia, in alta montagna, dopo vent’anni di adunate nere: il riscatto della coscienza. Ma non è mai gratis, la libertà. Lo ripete anche oggi chi combatte un’altra guerra, sotterranea ma non troppo, tra le fila della cosiddetta massoneria progressista.

  • Carotenuto: nel potere mondiale, buoni e cattivi sono soci

    Scritto il 26/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Libia e Medio Oriente bruciano, ma il racconto dei media non ci parla dei veri obiettivi: non ci dice dove nascono le crisi, dove vogliono arrivare e perché si fanno. Di questi scenari ho un’esperienza personale e profonda, vissuta spesso dietro le quinte. Le motivazioni delle guerre e dei conflitti non sono quelle apparenti. Nel mondo è in corso una lotta tra forze del bene, che stanno facendo crescere le coscienze, e forze che ostacolano questa crescita per cercare di assopire il risveglio coscienziale che è in corso da anni. Per tentare di frenare questo risveglio si creano problemi nell’anima, scoraggiando la voglia fare cose buone per sé e per gli altri. Per fare il bene non bisogna essere pieni di paure, di rabbia e di ansia. Niente di meglio della guerra, per rovinare i nostri sentimenti: le guerre sono grandi vortici di odio, di paura e di rabbia. Subito internazionalizzate e mostrate a tutti attraverso i media, le guerre intervengono direttamente nelle nostre anime: alterano il nostro modo di sentire, ci distolgono dalla nostra voglia di bene, ci abbattono e ci impauriscono, ci fanno arrabbiare e ci inquietano. Guerre e crisi vengono combattute soprattutto nelle nostre anime.

  • Come fermare l’estinzione degli italiani: impariamo da Putin

    Scritto il 08/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La situazione della natalità in Italia sta peggiorando anno dopo anno. E’ un paese che sta sparendo, in pratica. Gufismo, pessimismo? No, dati Istat, forniti da gente che fa statistica per mestiere. «La popolazione residente in Italia al 31 dicembre 2018 è inferiore di oltre 124 mila unità rispetto all’anno precedente pari al -0,2%. Si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo Comune più popoloso d’Italia. Al primo gennaio 2019 risiedono in Italia 60.359.546 persone, di cui l’8,7% sono straniere. Il numero di cittadini stranieri che lasciano il nostro paese è in lieve flessione (-0,8%) mentre è in aumento l’emigrazione di cittadini italiani (+1,9%)». Ora, preso atto che questi sono numeri e che quindi neanche Mattarella nella sua forma più smagliante può negarli, viene da chiedersi: perché? E soprattutto, questo trend è davvero inarrestabile? Come ribadisco sempre su queste pagine, l’Italia è stata, per la maggior parte della storia delle civiltà, il paese più ricco del mondo. Su questo si trovano opinioni diverse e dati in parte contrastanti, ma basta fare un piccolo test: dove si trovano gli edifici, i monumenti, le infrastrutture artisticamente più belle, costose e grandi del mondo? E in quale paese tali opere sono numerose e diverse sia per stili, materiali impiegati ed epoche storiche?
    Ecco, appunto: se andate in Germania, Stati Uniti, Svizzera, Giappone, non c’è niente di simile, ma neanche di lontanamente paragonabile, proprio. Questo cosa significa? Significa che gli italiani non sono geneticamente né culturalmente inferiori a nessun altro popolo… anzi! E però gli italiani hanno perso la Seconda Guerra Mondiale e hanno abbracciato progetti sovranazionali guidati da “altre” nazioni: pertanto, in Italia, si è accettata una lingua straniera per i commerci, una moneta straniera (l’euro) e un governo straniero, quello della Commissione Europea. Detto diversamente, ma più chiaramente, l’Italia è oggi una colonia, un luogo dove al limite si può venire in vacanza, così come capitò ai primi del Novecento all’India, per i britannici, durante l’età vittoriana. In questa situazione, sposarsi e fare dei figli è un rischio elevato. Conviene di più farne a meno e vivere da single con l’aiuto della famiglia d’origine. Ma il quesito più interssante è il secondo: si può invertire il calo della natalità? Sì, perchè questo è già successo diverse volte nella storia dell’umanità. Nel Trecento, ad esempio, la popolazione europea crollò letteralmente di quasi un terzo a seguito di malattie come la peste, che non cessarono subito dopo, ma gli europei seppero riadattarsi alla mutata situazione e tornare a crescere di numero.
    Quindi, nella storia e nel lunghissimo periodo, la popolazione è sempre cresciuta, ma non nel breve e medio periodo, durante il quale anzi vi sono stati decenni di decrescita della natalità. In Inghilterra, nel ‘700 si ebbe un’impennata dei nati perché l’industrializzazione consentiva alle coppie di trovare lavoro subito, di sposarsi prima e dunque di avere più figli, e precocemente. In Italia, dopo la guerra, grazie alla scarsa disoccupazione dovuta alla necessità della ricostruzione, vi fu il fenomeno dei BabyBoomers, che riguardò tutto l’Occidente e che aumentò a dismisura il numero degli abitanti. Sono solo esempi, ma che dimostrano come sia possibilissimo invertire un trend. L’ultimo caso – nessuno lo sa – è quello della Russia. Come si vede da tutti i grafici forniti in questi anni dalla Banca Mondiale, la Russia – schiacciata dalle pressioni internazionali all’indomani dell’esperienza sovietica – non aveva né fiducia in se stessa, né una gestione nazionale dell’economia. Poi è arrivato un leader che ha invertito la rotta cambiando le cose grazie alla cura dell’interesse nazionale. I russi, che erano precipitati come demografia negli anni ’90, si sono “miracolosamente” ripresi mentre tutti gli altri paesi ex comunisti promuovevano la migrazione della loro forza lavoro.
    Su Wikipedia si legge: «Poche nascite e molti morti ridussero la popolazione russa dello 0,5% ogni anno, durante gli anni ’90. Questo tasso si presentava in continua accelerazione. Per ogni 1.000 russi vi furono 16 morti e solo 10,5 nascite, provocando il declino della popolazione da 800.000 a 750.000 l’anno. L’Onu stimò che la popolazione della Russia del 2006, circa 140 milioni, sarebbe potuta diminuire di un terzo entro il 2050». Nel 2005, con il secondo mandato del presidente Putin, la stabilità della situazione politica ed economica ha comportato una maggiore attenzione del governo sulla questione demografica, attraverso strumenti che favorissero da una parte l’aumento della natalità, come incentivi economici alla nascita del secondo e terzo figlio o crediti immobiliari alle coppie di neo-sposi, dall’altra parte la diminuzione della mortalità attraverso una riforma generale del sistema sanitario nazionale. Nel 2016, la popolazione russa ha registrato un +0,2% rispetto al 2015, segnando così una inversione che si protrae nel tempo, pur molto lentamente. Quelli appena trascorsi sono stati anni difficili, per i russi, a causa di sanzioni, tensioni in Ucraina e nel Medio Oriente. Ma il declino è stato fermato, contrariamente a quanto avviene da noi, in Italia. Ricette semplici ed efficaci da copiare quanto prima: come noto agli economisti di ogni latitudine ed epoca storica, non è possibile crescere economicamente con un crollo costante della natalità nazionale.
    (Massimo Bordin, “Come fermare l’estinzione degli italiani”, dal blog “Micidial” del 2 gennaio 2020).

    La situazione della natalità in Italia sta peggiorando anno dopo anno. E’ un paese che sta sparendo, in pratica. Gufismo, pessimismo? No, dati Istat, forniti da gente che fa statistica per mestiere. «La popolazione residente in Italia al 31 dicembre 2018 è inferiore di oltre 124 mila unità rispetto all’anno precedente pari al -0,2%. Si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo Comune più popoloso d’Italia. Al primo gennaio 2019 risiedono in Italia 60.359.546 persone, di cui l’8,7% sono straniere. Il numero di cittadini stranieri che lasciano il nostro paese è in lieve flessione (-0,8%) mentre è in aumento l’emigrazione di cittadini italiani (+1,9%)». Ora, preso atto che questi sono numeri e che quindi neanche Mattarella nella sua forma più smagliante può negarli, viene da chiedersi: perché? E soprattutto, questo trend è davvero inarrestabile? Come ribadisco sempre su queste pagine, l’Italia è stata, per la maggior parte della storia delle civiltà, il paese più ricco del mondo. Su questo si trovano opinioni diverse e dati in parte contrastanti, ma basta fare un piccolo test: dove si trovano gli edifici, i monumenti, le infrastrutture artisticamente più belle, costose e grandi del mondo? E in quale paese tali opere sono numerose e diverse sia per stili, materiali impiegati ed epoche storiche?

  • La “teoria del chiasso” oscura la verità sul clima terrestre

    Scritto il 06/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.
    Il terzo dato necessita di una comparazione; ossia due recipienti, come sopra, con del ghiaccio alla medesima temperatura e peso: in quello a maggior temperatura, nella stessa unità di tempo, si scioglierà una maggior quantità di ghiaccio. Ciò che possiamo provare scientificamente è tutto qui: il resto richiede la preparazione di modelli matematici, poiché un conto è operare un esperimento in laboratorio, un altro espanderlo a livello della biosfera, dove intervengono miliardi d’interazioni delle quali non conosciamo interamente i rapporti, e per questo li indaghiamo con modelli matematici i quali, come ogni modello prodotto dall’uomo, è passibile di critica. Perché il chiasso? Il primo obiettivo dei fautori del chiasso è disperdere la concentrazione, effettuando un’operazione di per sé semplice, soprattutto nei confronti di coloro che non sono molto avvezzi nell’epistemologia delle scienze sperimentali: assegnare il medesimo valore d’inesistenza inerente fra la critica dei modelli matematici e l’evidenza dei dati scientifici. E’ un chiasso un poco furbetto e sempliciotto: in altre parole, se dimostro che il modello matematico è imperfetto, lo saranno anche i dati scientifici che lo alimentano. Il che è pietosamente falso: sarebbe come sostenere, nella costruzione di due grattacieli, che essendo errato in uno dei due il calcolo delle masse e delle relative pressioni, sono errati i concetti fisici di massa e pressione.
    Più interessante, invece, la critica proveniente dagli ambienti del “complotto”. Si sostiene che, siccome il sistema politico-economico è una piovra che tutto controlla e decide, allora l’evidenza di nuovi ed enormi profitti conduce ad esaltare la necessità di compiere questi interventi, finalizzati ad un maggior profitto per gli azionisti. Nulla da eccepire sotto l’aspetto della critica: nessuno di noi ha mai pensato che le holding economiche del pianeta siano istituti di beneficienza sociale. Il nesso, però – inconsistente – è fra le nuove tecnologie energetiche e l’intervento finanziario. Prima del secolo XVIII, era la nobiltà ad assumersi oneri ed onori per quanto riguardava gli interventi, ma la macchina a vapore sconvolse questi equilibri: troppo grandi gli interventi richiesti, estesi sui cinque continenti, in continua evoluzione. La ferrovia fu il canto del cigno per il potere economico della nobiltà, la quale – anche per altri fattori storici – si vide relegata in un angolo del potere finanziario ed economico. Precisando il fenomeno, nel secolo XIX, per la macchina a vapore e il carbone, furono le banche ad investire e a fare profitti, sorrette dal patrimonio azionario dell’espansione borghese, mentre nel XX secolo s’affermarono mezzi di finanziamento ancor più evoluti, quali fondi d’investimento, fondi pensione, fondi sovrani.
    Ricapitolando, c’è da operare una distinzione fra sviluppo e ricerca tecnologica e mezzi di finanziamento: mentre i primi possono essere anche frutto di ricerche e sviluppi nati nell’ambito pubblico – gli istituti universitari, ad esempio – i secondi sono quasi interamente rivolti agli investitori privati, siano essi banche o strutture finanziarie. Aprendo una breve parentesi, si può notare come in Italia si sia generato un fenomeno che dire “assai strano” è ancora riduttivo: il sistema autostradale, costruito col finanziamento pubblico, è diventato una gestione privata, in cambio – diciamolo chiaro – di un piatto di lenticchie. E la dimostrazione, lampante, è dei nostri giorni e di cosa sta accadendo. Quindi, è assolutamente normale che il sistema finanziario s’adoperi per entrare e guadagnare nel comparto delle nuove tecnologie energetiche: compito della parte pubblica sarà, invece, definire il quadro degli investimenti per fare in modo che questi interventi non siano “a gamba tesa”. Alternative? Ancor più ampio, come prospettive, è la definizione del sistema economico di riferimento: non si può tacere sul fatto, evidente, che la maggior potenza economica in forte ascesa sia la Cina – la Cina popolare, che si dice ancora comunista, qualsivoglia sia il significato che i dirigenti cinesi assegnano oggi a quel termine (sarebbero, però, analisi che richiederebbero ben altro spazio di un articolo).
    Il ministro del petrolio saudita, molti anni fa, ebbe a pronunciare una frase profetica: «L’Era della Pietra non terminò certo per la mancanza di pietre, e l’Era del Petrolio potrebbe terminare molto prima dell’esaurimento del petrolio». E se così non fosse, sarebbe un dramma. Oggi, a nostro favore, abbiamo la ricerca tecnologica, la quale è passata da un processo combustione>energia meccanica>energia elettrica alla più semplice captazione diretta dell’energia elettrica, vuoi con la captazione eolica, vuoi con quella fotovoltaica. E molto rimane ancora da esplorare, sul fronte delle energie dalle correnti sottomarine e dal moto ondoso, sull’eolico d’alta quota, sul geotermico, sullo sfruttamento delle biomasse di scarto, sull’idroelettrico da grandi masse e modeste cadute e quanto, sicuramente, ci segnaleranno nel futuro scienza e tecnologia. Perché rifiutare? Non sappiamo cosa significhino quelle 390 ppm di CO2 nell’atmosfera, come non sappiamo cosa ci porterà quel mezzo grado in più, né quei 40 millimetri in più d’acqua negli oceani. Possiamo solo dire che quei miseri 40 millimetri d’innalzamento del livello di mari e oceani significano circa 14.500 miliardi di tonnellate d’acqua in più negli oceani. Non cambierà nulla? Lo cambierà? Non lo sappiamo.
    Sappiamo però che, qualsiasi mutamento questo quadro porterà, sarà fuori dalle capacità umane, in futuro, porvi rimedio: l’unico atteggiamento da assumere, oggi, è l’elementare principio di prudenza, cercando di salvaguardare un equilibrio che ben conosciamo e nel quale siamo vissuti per migliaia di anni. I mezzi li abbiamo tutti: sarà solo l’ennesima transizione della civiltà umana verso sistemi più evoluti: dalla trazione animale a quella meccanica, alla trazione elettrica. Dall’energia muscolare a quella meccanica, a quella elettrica fino a quella nucleare, che non ha dato i risultati sperati, poiché basta un solo errore (e ce ne sono stati ben due) per condannare intere regioni all’inesistenza per la vita umana. Ci sono gli aspetti economici e finanziari, ma questo non è un principio immutabile – come le leggi della fisica – bensì soltanto un metodo costruito dall’uomo per governare l’economia delle società umane. Se dovesse risultare un errore, un obbrobrio oppure un ostacolo per l’evoluzione umana, basterà rimuoverlo o modificarlo. Questo lo possiamo fare: basta averne consapevolezza.
    (Carlo Bertani, “Teoria del chiasso”, dal blog di Bertani del 1° gennaio 2020).

    Sulla questione climatica, oramai, si sente soltanto chiasso. Chiasso mediatico, chiasso rabbioso, chiasso interessato, genuino, ispirato, malevolo… ma sempre e solo chiasso. Perché il chiasso è il fenomeno che più s’oppone al ragionamento e alla meditazione, unica via per giungere alla sintesi di qualsiasi evidenza naturale, per trovarne una soluzione o, almeno, comprenderne la genesi. Potremmo definire il chiasso come l’antitesi vera e propria della ricerca scientifica. A parte il chiasso, quali sono i dati in nostro possesso? La percentuale di CO2 nell’atmosfera terrestre nel 1975 era di 320 ppm (parti per milione), oggi abbiamo superato le 390 ppm: in 45 anni è aumentata del 22%. Nello stesso periodo, la temperatura media globale è aumentata di circa 0,5 gradi Celsius e i mari sono saliti di circa 40 millimetri. Possono indicarci qualcosa questi pochi dati certi? Il rapporto fra questi dati è provato e riproducibile in laboratorio: se in un laboratorio, a temperatura e illuminazione costanti, immettiamo in un recipiente di vetro una miscela di aria e CO2 ed aumentiamo la CO2, otteniamo un aumento di temperatura, perché l’anidride carbonica (e altri gas) riflettono la radiazione infrarossa che, dal suolo, viene riflessa verso il cielo e la proiettano nuovamente verso terra. Insomma, come in una serra, non la lasciano sfuggire.

  • Le Sardine in Tv: che meraviglia, non contestano il potere

    Scritto il 14/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Evviva, i ragazzi scoprono la politica, l’impegno civile, il gusto del dissenso. L’onda lunga delle sardine è stata salutata da un boato di speranza e di sostegno con una sfilata di sponsor da grandi eventi, preti inclusi. Che gioia il ritorno del figliol prodigo, la gioventù ritrovata. Da troppo tempo latitante dalla politica, eccola che si fa largo. Risale il Novecento, secolo della giovinezza, almeno fino al ’68, si ritrovano i ragazzi sulla breccia, come li vedemmo sull’orlo infranto del Muro di Berlino, salvo poi sparire nei pub, nei display e nei consumi privati. Superata la prima fase di euforia, sorgono i dubbi. Il primo, già noto. Non vi pare strano che i ragazzi scendano in piazza non per contestare un potere, un governo, una dominazione politica e culturale ma per attaccare l’opposizione, per condannare un libero e vasto consenso popolare, per opporsi a chi si oppone all’establishment politico e culturale, all’ideologia dominante e al relativo conformismo? Non ci sono precedenti… Il secondo dubbio è se sono davvero un fenomeno spontaneo: chi c’è dietro? Non siamo in grado di confermare o smentire niente. Ma possiamo dire che appena sono apparsi, la ditta dei santini si è messa subito al loro servizio, compatta, come già aveva fatto per Greta e i manifestanti a scuola, per Carola e i suoi tifosi, per tutte le icone, Papa Francesco incluso, di volta in volta agitate per sostituire – usando le parole di Gramsci – un populismo progressivo al populismo regressivo.
    Qual è la differenza tra i due? E’ ideologica, pregiudiziale, tautologica: questi sono buoni perché progressisti, quelli sono nefasti perché bollati come regressisti. Dietro le sardine non ci sarà nessuno ma i pescivendoli hanno già lanciato le loro reti politiche. La terza osservazione è sulla loro consistenza. Leggi il loro manifesto e non trovi nulla che giustifichi qualcosa di più di una manifestazione di piazza. Non ci sono idee, non ci sono ragionamenti, non ci sono programmi, niente. E intorno c’è solo una residua simbologia venuta dal passato: Bella Ciao, via retrocedendo nel tempo e nelle forme. Qualcuno dirà, e siamo al quarto inciampo, ma fateli parlare, ascoltateli prima di emettere giudizi. E invece dopo aver sentito i loro esordi pubblici, direi il contrario: sardine, disertate i talk show, per il vostro bene, non andate mai in tv e nei dibattiti. Quando vanno sono una delusione: il vuoto assoluto, il balbettante carosello di luoghi comuni, istanze generiche, più l’odio verso Salvini & C., come unico segno comune distintivo. E poi le vaghe menate sui muri da abbattere, l’ambiente, il senso civico, il politically correct. Troppo poco per dare consistenza a un movimento. Meglio restare sott’acqua, meglio far tappezzeria in piazza, nascondersi nel branco e restare muti come pesci, piuttosto che dire ovvietà con la scusante che sono ragazzi e vanno al Dams.
    In certi casi si fa miglior figura a essere figuranti. Restate nei collettivi, non separatevi mai dal coro, perché se dite, sapete solo ripetere le banalità dei grandi, con l’attenuante dell’inesperienza e il candore dell’estraneità. Quinta obiezione. I giovani scoprono la politica, ma dieci anni fa, i ragazzi che si affacciavano ai vaffa day di Grillo non erano in prevalenza giovani? E poi il popolo viola, i girotondini, le pantere… Non è dunque una novità assoluta. Diciamo che ciclicamente accade e di solito la rapidità con cui spuntano dal nulla è pari alla rapidità con cui spariscono nel nulla. Sesto dubbio, sono l’iceberg di una vasta gioventù o rappresentano su scala giovanile la stessa minoranza che la sinistra dem rappresenta a livello adulto? Dubbio più che legittimo perché sondaggi di altro tipo dimostrano una diffusa se non prevalente tendenza giovanile inversa rispetto alle sardine. E a tal proposito sorge una domanda congiunta: ma perché non si vedono le triglie conservatrici, le alici destrorse che avversano questo governo, l’establishment e la sua ideologia politically correct? Non esistono, non riescono a fare gruppo, passano inosservati? Difficile che non esistano, possibile che non riescano a fare gruppo, probabile che passino inosservati all’occhio dei media. Dico occhio al singolare, perché si sa che la fabbrica delle opinioni vede solo con l’occhio sinistro. Intanto si parla di pinguini e di gattini…
    A parte questi dubbi, alla fine fa piacere che ci siano dei ragazzi che si impegnino sul piano civile e politico, non dirò che si espongano perché non hanno da rischiare più che non abbiano da trarre vantaggi. Ma il dubbio che resta è: dureranno? Andranno oltre le elezioni amministrative di gennaio e forse di primavera, o avranno vita breve e finiranno nelle reti della pesca a strascico? Alla fine, però, con tutti i limiti, i difetti e i dubbi espressi, e ben sapendo che sono dalla parte opposta di chi vi scrive, ben vengano le sardine e altri animali politici. Anche perché suscitano l’impegno avverso, come già accadde alla generazione sessantottina che stimolò per reazione e contrappasso una vasta gioventù di “destra” negli anni Settanta. Ne abbiamo visti tanti di proclami e annunci di nuove generazioni alle porte, e poi dopo poco hanno sciolto le righe, si sono imboscati, sono rimasti in carriera politica solo i caporioni. Non devono impressionare le recriminazioni delle generazioni precedenti verso quelle successive, ci sono sempre state. Ognuna si esprime a suo modo. La vera novità è che gli ultimi ragazzi sembrano più sconnessi dalla storia, dalla polis, dal rapporto anche conflittuale con le altre generazioni. Com’è profondo il mare, troppo vasto, liquido, cangiante, per essere riempito dalle esili sardine.
    (Marcello Veneziani, “Quanto dureranno le sardine”, dal numero 50 di “Panorama”, 2019; articiolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Evviva, i ragazzi scoprono la politica, l’impegno civile, il gusto del dissenso. L’onda lunga delle sardine è stata salutata da un boato di speranza e di sostegno con una sfilata di sponsor da grandi eventi, preti inclusi. Che gioia il ritorno del figliol prodigo, la gioventù ritrovata. Da troppo tempo latitante dalla politica, eccola che si fa largo. Risale il Novecento, secolo della giovinezza, almeno fino al ’68, si ritrovano i ragazzi sulla breccia, come li vedemmo sull’orlo infranto del Muro di Berlino, salvo poi sparire nei pub, nei display e nei consumi privati. Superata la prima fase di euforia, sorgono i dubbi. Il primo, già noto. Non vi pare strano che i ragazzi scendano in piazza non per contestare un potere, un governo, una dominazione politica e culturale ma per attaccare l’opposizione, per condannare un libero e vasto consenso popolare, per opporsi a chi si oppone all’establishment politico e culturale, all’ideologia dominante e al relativo conformismo? Non ci sono precedenti… Il secondo dubbio è se sono davvero un fenomeno spontaneo: chi c’è dietro? Non siamo in grado di confermare o smentire niente. Ma possiamo dire che appena sono apparsi, la ditta dei santini si è messa subito al loro servizio, compatta, come già aveva fatto per Greta e i manifestanti a scuola, per Carola e i suoi tifosi, per tutte le icone, Papa Francesco incluso, di volta in volta agitate per sostituire – usando le parole di Gramsci – un populismo progressivo al populismo regressivo.

  • Page 2 of 14
  • <
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
  • 6
  • 7
  • 8
  • 9
  • 10
  • ...
  • 14
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo