Archivio del Tag ‘operaismo’
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Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde
Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.(Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
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Linera: la globalizzazione è morta, Trump ne è il becchino
Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da “La7”, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jinping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. «La globalizzazione», scrive Linera, «come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi».Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti. Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos «che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate».(Carlo Formenti, “La globalizzazione è morta”, da “Micromega” del 27 gennaio 2017).Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.