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Archivio del Tag ‘opinione pubblica’

  • Tsipras, la sinistra rinnegata che sta con gli euro-padroni

    Scritto il 24/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.
    Il quadro a cui, nell’immaginario comune, sempre più si dovrebbe abbinare l’idea della sinistra (Tsipras in testa!) non è più “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, bensì “L’urlo” di Edvard Munch: dove, tuttavia, il volto trasfigurato dal dolore e immortalato nell’atto di gridare scompostamente è quello di Antonio Gramsci, ucciso una seconda volta, dopo il carcere fascista, dalle stesse forze politiche che hanno tradito il suo messaggio e disonorato la sua memoria. Il paradosso sta nel fatto che la sinistra di Tsipras oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva del’ormai defunto Partito Comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale alla sovranità irresponsabile dell’economia e della dittatura finanziaria.
    I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione conservatrice. La sinistra di Tsipras è il fronte avanzato dell’opposizione ideale a sua maestà Le Capital. Nel loro esercizio di una critica già da sempre metabolizzata dal cosmo mercatistico, i tanti fustigatori à la Tsipras della società esistente svolgono sempre e solo la stessa duplice funzione apologetica di tipo indiretto. La loro critica addomesticata e perfettamente inseribile nei circuiti della manipolazione organizzata occulta la propria natura apotropaica rispetto a una critica non assimilabile nell’ordine dominante. La loro critica già metabolizza l’ordine neoliberale (euro, finanza, spoliticizzazione, rimozione della sovranità, ecc.).
    Tsipras e la “sinistra Bilderberg” neutralizzano la pensabilità, se non altro per l’opinione pubblica, di critiche effettivamente antisistemiche. In tal maniera, all’opinione pubblica e alla cultura universitaria pervengono sempre e solo idee inoffensive e organiche al sistema, ma contrabbandate come le più “pericolose” in assoluto, creando l’illusione che esse coincidano con il massimo della critica possibile. Prova ne è che oggi le sole idee veramente “pericolose”, cioè incompatibili con lo Zeitgeist postborghese e ultracapitalista, coincidono con il recupero integrale della sovranità nazionale (economica, politica, culturale, militare) come passaggio necessario per la creazione dell’universalismo dell’emancipazione, con la deglobalizzazione pratica e con il riorientamento geopolitico contro la civiltà del dollaro. E invece, i pensatori osannati come i più pericolosi dalla dittatura della pubblicità propongono l’innocuo altermondismo in luogo della deglobalizzazione, l’inoffensivo multiculturalismo dei diritti umani in luogo della sovranità nazionale, la demonizzazione dei dittatori e degli “Stati canaglia” in luogo del suddetto riorientamento geopolitico.
    Muovendosi entro i confini del politically correct fissati dal sistema, essi criticano il presente con toni che, quanto più sembrano radicali, tanto più rinsaldano il potere nel suo autocelebrarsi come intrascendibile e democratico. Che lo sappiano o no, Tsipras e i suoi compagni di partito sono pedine del capitale, mere “maschere di carattere” (Marx), meri agenti della produzione: essi svolgono – lo ripeto – la funzione di oppositori di sua maestà il capitale. Come sappiamo (ma repetita juvant), il progetto eurocratico si rivela organico alla dinamica post-1989, di: a) destrutturazione degli Stati nazionali come centri politici autonomi, con annesso disciplinamento dell’economico da parte del politico, e b) di “spoliticizzazione” (Carl Schmitt) integrale dell’economia, trasfigurata in nuovo Assoluto. Dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), la creazione del regime eurocratico ha provveduto a esautorare l’egemonia del politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, della precarizzazione forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti sociali.
    Spinelli e Tsipras vorrebbero rimuovere gli effetti lasciando però le cause. Il che, evidentemente, non è possibile. Sicché essi, con la loro falsa opposizione, sono parte integrante della grande recita del capitale, svolgendo la funzione dei finti oppositori, vuoi anche del nemico che si finge amico, ingannando popoli lavoratori e gonzi di ogni estrazione. Che ha mai a che fare il signor Tsipras con Marx e Gramsci? Nulla, ovviamente. Tsipras ha assistito al genocidio finanziario del suo popolo causato dall’euro: egli stesso è greco. E, non di meno, vuole mantenere l’euro: non passa giorno senza che egli rassicuri le élites finanziarie circa la propria volontà di non toccare l’euro. E, in questo modo, offre una fulgida testimonianza – se ancora ve ne fosse bisogno – del fatto che Marx e Gramsci stanno all’odierna “sinistra Tsipras” venduta al capitale come Cristo e il discorso della montagna stanno al banchiere Marcinkus.
    (Diego Fusaro, “Tsipras e la sinistra al soldo della finanza”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2015).

    Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.

  • Giannuli: disfare l’euro e subito, prima che ci crolli addosso

    Scritto il 21/1/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.
    Quindi, la Grecia non può permettersi di pagare questi interessi sul debito e, tantomeno, di pagare un debito ormai non restituibile. Ma questo significa dichiarare default: è compatibile con l’appartenenza all’euro? Non ci sono precedenti, per cui non sappiamo come il default di un componente possa riflettersi sulla moneta comune e neppure se il paese fallito possa continuare a far parte del patto monetario e a quali condizioni; però ci pare scarsamente realistico che tutto possa restare come prima, dopo il default di uno dei paesi membri, anche se piccolo come la Grecia. La Bce potrebbe continuare a fornire allo Stato greco le banconote per il circolante necessario? Se ciò non fosse, Atene sarebbe costretta a battere moneta in proprio, anche solo in forma di moneta provvisoria o di buoni rimborsabili o altro, perché diversamente non avrebbe di che pagare gli stipendi statali e le pensioni e, più in generale, l’intera economia del paese si paralizzerebbe. E a quel punto, la scelta spetterebbe alla Bce: o continuare a fornire in qualche modo la propria moneta alla Grecia o accettare la sua uscita dal patto e aprire la crisi della moneta e del suo stesso patto istitutivo, che non prevede l’uscita di nessuno.
    Insomma, questa, più che una moneta, sembra essere un penitenziario di massima sicurezza. D’altro canto, una moneta che diventasse l’hotel del libero scambio, con gente che va e gente che viene, crollerebbe in brevissimo tempo sui mercati. Perché, se si accettasse di tenere nel club un paese in default, poi la stessa scelta potrebbe essere fatta da altri, magari Lisbona, Bruxelles, Madrid, Cipro e (perché no?) Roma. Stabilito il precedente, sarebbe difficile impedire agli altri di fare altrettanto, qualora le condizioni costringessero a quel passo. E così la moneta diventerebbe un aggregato molto instabile, troppo instabile per poterci investire qualsiasi cifra: io compero un qualsiasi titolo finanziario in euro (non importa se di uno Stato o una impresa) però non so, fra cinque anni, chi ci sarà dietro questa moneta, forse nessuno, perché uno alla volta se ne saranno andati tutti e resta solo la Bce come sorta di banca privata. Chi scommetterebbe un centesimo su una moneta così?
    D’altro canto, se la Bce decidesse di continuare a tenere la Grecia anche in stato di insolvenza, questo avrebbe inevitabilmente conseguenze sull’apprezzamento della moneta, perché, anche in questo caso, stabilito il precedente, non ci sarebbe modo di evitare l’assalto degli altri scarsamente solventi. In fondo, per i primi cinque anni di esistenza dell’euro, anche i paesi più indebitati (come l’Italia) hanno avuto la possibilità di emettere titoli a interessi bassissimi (ricordiamo, non troppo superiori all’1%) nel presupposto che vi fosse una garanzia implicita della Bce. Oggi si scopre che così non è, ma a questo punto chi volete che investa il becco di un quattrino in titoli del genere, se non per una sostanziosa rivalutazione degli interessi? E con un salto in avanti degli interessi, quanti Stati fallirebbero? Qui avrebbero da temere non solo l’Italia o la Spagna, ma anche la Francia e molti minori.
    Ci sarebbe la strada dell’haircut: una rinegoziazione parziale del debito greco, ribassando gli interessi e allungando i tempi per dar fiato alla Grecia. Ma, anche qui, il problema sarebbe il precedente: passato il precedente, che si fa se anche gli altri si mettono in fila per una transazione del genere? E se il debito greco è intorno ai 350 miliardi di euro, e una rinegoziazione potrebbe essere sopportata soprattutto dalle banche tedesche e francesi che ne detengono una bella fetta, se poi la cifra da rinegoziare dovesse raggiungere alcune migliaia di miliardi per l’arrivo di tutti gli altri, la cosa diventerebbe assai meno praticabile. Il punto è che l’euro è stato il più clamoroso abbaglio della storia economica mondiale: non si mettono insieme 27 economie diverse e con esigenze opposte, sotto lo stesso tetto monetario. O meglio, lo si può anche fare ma dandosi un unico centro decisionale, un unico sistema fiscale, un unico sistema sociale e contributivo, una stessa contabilità pubblica, insomma un governo comune.
    In effetti, l’euro fu venduto all’opinione pubblica mondiale e agli ignari europei come l’immediata premessa dell’unificazione politica, di cui, manco a dirlo, non si è visto neppure l’ombra, perché mancavano le più elementari premesse, per lo meno in tempi brevi o anche medi. E la realtà si vendica sugli architetti troppo audaci che costruiscono cattedrali su malferme palafitte. Il problema oggi non è se abbandonare l’euro, ma in che tempi e in che modi. L’euro è un esperimento fallito politicamente, prima ancora che monetariamente, e non c’è prova d’appello. Il crollo di questa moneta è solo questione di tempo. Il problema è quello di decidere se restare sotto la volta, ad aspettare che ci cada addosso, o magari prepararci ordinatamente ad uscire, prima che accada l’irreparabile. Il guaio è che dall’euro non si può uscire unilateralmente, con un colpo di testa – o, per lo meno, chi lo facesse si candiderebbe a sfasciarsi le ossa, e così uno alla volta, sino all’ultimo. E quel che è peggio è che non ci sono procedure previste per uscirne: che io sappia, l’euro è l’unico trattato al mondo senza procedure di recesso. Una follia unica.
    Immaginiamo che domani si faccia un referendum sull’euro, magari perché ammesso dalla Corte Costituzionale sulla base di non so quali ragionamenti giuridici, e immaginiamo che vinca la tesi favorevole all’uscita, cosa accadrebbe? Nulla, non accadrebbe nulla; e il referendum resterebbe senza conseguenze, perché l’Italia si è impegnata sottoscrivendo un trattato che non prevede libertà di recesso. Però, la realtà è sempre più testarda delle parole, anche se in forma di trattati. Per cui, possiamo fare i trattati che vogliamo, ma se le dinamiche oggettive vanno verso il crollo, non c’è nulla da fare. Per cui, non sarebbe il caso di iniziare a discutere su come se ne può uscire? Ad esempio, perché non fare una campagna per un referendum sull’euro in tutti i paesi dell’Eurozona e nello stesso giorno? Avremmo almeno un indirizzo su cui ragionare. Oppure, perché non provare a dar vita a un movimento europeo per la revisione del trattato, a cominciare dall’introduzione di procedure di regresso? Magari potremmo anche varare una doppia circolazione, o anche tenere l’euro come unità di conto, articolato in monete nazionali con parità variabili in una certa banda (come era lo Sme). Insomma ci si può pensare, ma in fretta. Qui il tema è molto più complesso del solito e non conviene pensarci ciascuno per proprio conto.
    (Aldo Giannuli, “Disfare l’euro: il problema non è se, ma come e quando”, dal blog di Giannuli del 4 gennaio 2015).

    Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.

  • Il terrorismo dei fantasmi che organizza funerali e ipocrisia

    Scritto il 11/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.
    L’odio incandescente è quello che preme il grilletto a colpo sicuro e fa fuori il vignettista e il banchiere eretico, ma il suo mandante è l’odio freddo di chi progetta stragi e concepisce il mondo come un teatro da insanguinare costantemente, in modo che non si spenga la paura dei molti e la fiamma dell’odio non si estingua mai. L’odio è una promessa, una minaccia. Una punizione. Esemplare, a Parigi, la punizione degli irriverenti. Una lezione valida per tutti, musulmani e cristiani, mediorientali e occidentali: nessuno può ritenersi al sicuro, specie se ostenta idee spericolate e sciorina sberleffi, se pensa davvero di potersi prendere gioco del potere. La punizione prima o poi arriva, ed è un missile a testata multipla. Terrorizza la cosiddetta opinione pubblica, minaccia una nazione come la Francia e la ricatta, temendo la conversione sovranista del grande paese su cui si fonda l’Unione Europea. Minaccia e ricatta qualunque cittadino occidentale si creda libero. Minaccia e ricatta gli europei, trascinati loro malgrado nell’oscuro braccio di ferro autolesionistico con la Russia del gas. Il terrorismo spegne la democrazia, la ricaccia nella paura. Ed è sempre sporco, opaco e bugiardo, prima ancora che mostruoso e sanguinario.
    L’odio ha riempito un cimitero mondiale di oppositori, caduti sotto il fuoco dei golpisti, sotto le bombe, sotto il velo di strani incidenti. L’odio parla sempre con una sola voce: dobbiamo tutti avere paura, molta paura. Perché i primi a cadere sono sempre stati quelli che si erano battuti senza risparmio per insegnare all’umanità a non avere paura. Perché il potere ha davvero paura soltanto di chi non lo teme, di chi osa sfidarlo, di chi dimostra che l’oligarchia non è invincibile, sapendo che la storia dell’uomo è millenaria e nessun potere è eterno. Per questo l’odio teme la verità e predilige la menzogna, sfornando narrazioni mancine, fuorivianti, suggestive. I terroristi grotteschi, cavernicoli e deliranti, sono comparsi sulla scena soltanto negli anni ‘90, quando l’equilibrio della guerra fredda si era rotto per sempre. Prima, c’era stato soprattutto il terrorismo irredentista delle lotte di liberazione, sempre rivendicato, collegato a precise cause geopolitiche, l’Ira in Irlanda, l’Eta in Spagna, l’Olp in Palestina. Eserciti clandestini e irregolari, ma non fantasmi come quelli che misero le bombe nelle piazze italiane, sui treni, sugli aerei. L’altro terrorismo, quello dei fantasmi, è diventato improvvisamente internazionale solo dopo la fine dell’Urss, quando il teatro d’azione non era più solo l’Occidente, ma anche e soprattutto il resto del mondo.
    Oggi, il terrorismo fantasma torna invece nel cortile di casa. E’ comparso negli Stati Uniti, poi si è esteso all’Europa per mani di stragisti isolati, fanatici, pazzi, di cui però poi sono emersi imbarazzanti collegamenti con apparati di polizia e spezzoni di intelligence. Tutto questo, mentre il grande terrorismo – il più estremo e feroce – si è scatenato senza tregua contro le popolazioni civili della Cecenia, della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, contro gli inermi della Siria, i bambini di Gaza, gli abitanti del Donbass persi a cannonate. Chi piange le vittime di “Charlie Hebdo” macellate senza pietà dovrebbe domandarsi da dove viene la barbarie, chi l’ha coltivata. Chi è ben deciso probabilmente ad impiegarla ancora, e sempre di più, nel timore che il mondo si risvegli, che si risvegli la Francia, che si risvegli l’Europa. In Sicilia, ai tempi, si diceva che era sempre del killer la prima corona di fiori sulla bara dell’ucciso, sfregio definitivo alla memoria dell’assassinato e terribile monito per la comunità in lutto: siamo stati noi, e siamo invincibili. Rinunciare all’odio comporta prima di tutto un tributo supremo di verità, di ripudio dell’ipocrisia. Viceversa, si rischia di partecipare al funerale a braccetto coi camerieri dei veri mandanti del delitto, i “ministri dei temporali” pronti a tuonare comodamente contro una barbarie lontana e straniera. In un giallo, il commissario scoprirebbe che quei signori non hanno un alibi: alcuni di loro, la sera prima, erano a cena con l’assassino.

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.

  • Magaldi a Grillo: insieme, contro l’élite che minaccia l’Italia

    Scritto il 11/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.
    Le dimissioni Napolitano sono state, da qualcuno, messe anche in connessione con questa operazione editoriale che noi abbiamo lanciato (il libro “Massoni”, edito da Chiarelettere). Questa nostra operazione, unita ad altre, ha creato molti nervosismi. Questi fattori, naturalmente insieme ad altri, hanno indotto Napolitano a dimettersi. Il sostituto di Napolitano? Noi vigileremo, perché nel libro si parla non soltanto di massoneria aristocratica, quella che gestisce da 30-40 anni i grandi processi di globalizzazione e di insana costruzione europea, ma si parla anche di riscatto delle Ur-Lodges progressiste, l’ambiente democratico, di cui sono un “gran maestro”. Noi vigileremo su chi sarà il prossimo inquilino del Colle. In termini democratici, limpidi e trasparenti diremo di evitare che vada al Quirinale un altro personaggio nefasto come Napolitano. Se uno guarda l’Ur-Lodge a cui appartiene Napolitano e ne vede la storia, non esce benissimo uno che, come lui, è stato appartenente fino al 1978. Il prossimo presidente non sarà però influente e importante come lo è stato Napolitano, perché i tempi sono cambiati e la gente inizia ad aprire gli occhi e le orecchie. Prodi? E’ senz’altro parte del network massonico sovranazionale, in termini perfino clamorosi e insospettabili.
    Il “Movimento 5 Stelle”? E’ nato su esigenze molto importanti e utili, avrebbe da modificare alcune cose. Ha poi un problema interno di articolazione democratica e liberale. Noi stiamo fondando un movimento metapartitico che quindi non chiederà il consenso e non sarà concorrente né del Movimento 5 Stelle né di altri partiti, ma vuole riunire tutti i progressisti italiani ed extra-italiani, europei, per cambiare paradigma in Italia, in Europa e nel mondo, in questa cattiva globalizzazione. Questo movimento si chiama “Movimento Roosevelt” e vedrà la luce tra gennaio e febbraio 2015. Riunisce massoni e non massoni, purché accomunati da una vocazione progressista. Il nome “Movimento Roosevelt” richiama la dichiarazione dei diritti umani patrocinata da Eleanor Roosevelt, richiama la grande lezione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la lezione economica di John Maynard Keynes, dimenticata in questa Europa tutta quanta friedmaniana e basata sui principi di un neoliberismo feroce e anche ottuso, se non fosse che è un neoliberismo in malafede, è fatto apposta, con le sue valide declinazioni per destrutturare la società europea, i suoi principi di welfare la sua prosperità.
    La massoneria rivendica la costruzione delle società aperte, libere, democratiche, e del pluralismo di informazione. Anche le lamentele sullo svuotamento di sostanzialità, la democrazia contemporanea, si possono fare, oggi, perché qualcuno in passato l’ha inventata, la democrazia: la democrazia e la libertà non le ha portate la cicogna, ma i massoni progressisti. L’opinione pubblica media, non solo italiana, purtroppo è facilmente manipolata dai grandi mezzi di informazione, concentrati nelle mani di editori non puri in gran parte, e questo è un caso eclatante per l’Italia. Da noi c’è poca editoria pura, il Quarto Potere che controlli gli altri tre poteri non esiste perché giornali e televisioni sono in mano a signori che hanno anche banche, assicurazioni e altri interessi industriali o finanziari. Agli italiani, e non solo a a loro, viene fatta una narrazione delle cose che prepara poi l’arrivo con le fanfare di personaggi come Monti e Letta e poi anche di Renzi che è un grande affabulatore molto più carismatico e vendibile di Monti e Letta, ma che nella sostanza ha proseguito le stesse politiche recessive e distruttive dell’interesse pubblico.
    Invito il “Movimento 5 Stelle” e i suoi dirigenti ad abbeverarsi, perché faremo una scuola di alta formazione politologica: faremo una Fondazione Roosevelt con interventi importanti di welfare sul territorio europeo per dimostrare che la politica dovrebbe essere intervento sulle cose, sui territori, riunendo le persone di sano intelletto e buona volontà anche di diversi schieramenti. Ma vorrei dare un ultimo consiglio agli ispiratori e ai gestori del “Movimento 5 Stelle”: accettino l’idea che non si possono abolire i partiti, e che l’alleanza tra diversi, pur mantenendo la propria identità, è l’unica possibilità di ridare sostanza alla democrazia italiana e non solo italiana. Se il “Movimento 5 Stelle” accetterà di dialogare e di allearsi con chi li considera il meno peggio nel panorama politico italiano, noi potremo avere una svolta politica importante, altrimenti si rischia di congelare milioni di voti che credono e hanno creduto, giustamente, al Movimento 5 Stelle come fattore di rinnovamento.
    (Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate al blog di Beppe Grillo per il “Passaparola” del 5 gennaio 2015).

    Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.

  • Francesi coi terroristi in Siria, segreto che inchioda Hollande

    Scritto il 09/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.
    Oggi, grazie alle nostre fonti presenti sul posto, possiamo dire come sono avvenute le cose in quelle ore: Baba Amr è stata letteralmente consegnata all’Esercito di Damasco in cambio del silenzio. Quegli ufficiali, tra i quali molti francesi, hanno abbandonato la Siria in dieci bus, nascosti alla vista di tutti grazie ai finestrini oscurati. Per garantire l’anonimato vennero perfino montate delle tende all’interno dei mezzi. Nessuno doveva sapere che in mezzo ai terroristi erano presenti anche gli ufficiali e i militari francesi. Nessuno doveva vedere.
    Quel convoglio di dieci bus lasciò la Siria attraversando il confine con la Turchia. Poi si persero le tracce. Quello che è successo a Parigi è terribile. Ma non sfugge a nessuno come la Francia sia responsabile di aver armato e addestrato questi finti rivoluzionari. Alcuni di questi sono partiti da Parigi alla volta della Siria per far cadere un governo che fino a quel momento aveva vissuto in pace con chiunque. Mai in alcun modo Bashar al Assad aveva attentato alla sicurezza nazionale dell’Europa, degli Stati Uniti, dei paesi del Golfo. Mai.
    Il presidente siriano era rispettato a livello internazionale e considerato come uno dei più importanti attori per la stabilità del Medio Oriente. Di questa opinione era, ad esempio, l’attuale sottosegretario di Stato americano John Kerry. Chi ha ucciso le 12 persone a Parigi non può essere considerato un “terrorista” in patria e, allo stesso tempo, un “ribelle democratico” in Siria. Bisogna essere onesti e avere il coraggio di dire che questa sporca guerra voluta dall’Occidente ha molte mani insanguinate. Quelle dei terroristi. E anche quelle di Hollande. Il peggior presidente della storia della repubblica francese. Lunga vita a “Charlie Hebdo”. Lunga vita soprattutto a quei giornalisti che in Siria sono morti per raccontare le atrocità commesse dai terroristi, nel silenzio assoluto dei media nazionali che solo oggi parlano di libertà di stampa e di espressione. Per loro mai una copertina e neppure un titolo sul giornale.
    (Alessandro Aramu, “Quegli ufficiali francesi nella roccaforte dei terroristi a Baba Amr in Siria”, da “Sponda Sud” dell’8 gennaio 2015. Giornalista, Aramu è autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas, Messico, e sul movimento Hezbollah in Libano, ed è co-autore dei volumi “Syria. Quello che i media non dicono” e “Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria”, entrambi editi da Arkadia).

    Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.

  • Hathor-Isis, il clan occulto del terrore e la strage di Parigi

    Scritto il 09/1/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il 16 dicembre del 2014, sulla scia di alcuni attentati appena avvenuti in Pakistan ed Australia, avevo scritto un pezzo dal titolo “Esiste un nesso fra la discesa in campo di Jeb Bush e l’aggravarsi della recrudescenza terroristica di matrice talebana?”. All’interno dell’articolo in questione, frutto di una attenta meditazione di alcuni preziosi spunti contenuti nel libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi, delineavo uno spaccato in grado di evidenziare il palese nesso di causalità che lega il rinnovato protagonismo della famiglia Bush in politica con l’improvviso riesplodere su scala planetaria del terrorismo islamico. Il califfo dell’Isis Abu Bakr Al Baghdadi, perfettamente calatosi nei panni di un nuovo Bin Laden, risulta infatti affiliato presso la Ur-Lodge Hathor Pentalpha, officina del sangue e della vendetta fondata da Bush padre in compagnia di personaggi del calibro di Dick Cheney, Don Rumsfeld, Bill Kristol, Sam Huntington, Tony Blair, Paul Wolfowitz e molti altri ancora. Una superloggia, cresciuta negli anni come una mala-pianta, che annovera al proprio interno pure ex capi di Stato europei come Josè Maria Aznar e Nicolas Sarkozy.
    Anche gli italiani Antonio Martino e Marcello Pera sono organici alla Hathor Pentalpha, mentre a Silvio Berlusconi, pur formalmente proposto nel 2003 da George W. Bush in persona, non è mai stato concesso di accedere direttamente ai lavori di questo perverso quanto elitario consesso (“Massoni”, pag. 537). La Hathor Pentalpha è una Ur-Lodge eretica e incontrollabile, punto nevralgico e occulto di una strategia del terrore senza patria e senza confini. A chi serve una escalation criminale e sanguinaria presuntivamente ispirata da una fanatica interpretazione dell’insegnamento del profeta Maometto? Serve a tutti quelli che hanno bisogno di alcune pezze d’appoggio indispensabili per pianificare e giustificare la prosecuzione di quello “scontro di civiltà” teorizzato non a caso da un gruppo di intellettuali che orbitano intorno al think-tank Pnac, schermo paramassonico etero-diretto dagli iniziati della Hathor Pentalpha. L’Islam non c’entra nulla con gli attentati parigini di oggi così come non c’entrava nulla con l’attacco alle Torri Gemelle di ieri, trattandosi in realtà di stragi orchestrate da uomini che strumentalizzano il cielo per comandare in terra.
    Se così non fosse, come spiegare altrimenti la presenza all’interno della superloggia Hathor Pentalpha di personaggi formalmente espressione di differenti declinazioni dell’Islam politico, come il sultano dell’Oman, quello del Bahrein, o come i principi regnanti dell’Arabia Saudita? Siamo quindi in presenza di una cinica operazione di manipolazione su larghissima scala, così raffinata e precisa da obnubilare la capacità di discernimento non solo della gran parte della pubblica opinione, ma anche di molti aspiranti intellettuali alla Ernesto Galli della Loggia, protagonista odierno di uno sgangherato editoriale uscito sul “Corriere della Sera” che di buono conserva solo il titolo (“L’undici settembre europeo”). L’ignobile attacco costato la vita ai giornalisti e ai vignettisti di “Charlie Hebdo” ricorda davvero i fatti dell’undici settembre; ma non perché, come crede nella sua beata innocenza Galli della Loggia, l’eccidio di ieri testimonia la mai sopita furia di gruppi appartenenti alla galassia del fanatismo islamico (buonanotte, Ernesto!); quanto perché, al contrario, sia i tragici fatti del 2001 che quelli appena accaduti sembrano portare in controluce i segni della stessa identica superloggia, quella dedicata alla divinità egizia Hathor, altrimenti detta Iside (ovvero Isis).
    La domanda giusta a questo punto è un’altra: perché colpire la Francia? Forse per consentire a Marine Le Pen di vincere le prossime elezioni presidenziali cavalcando con sapienza i crescenti e comprensibili sentimenti di ostilità nei confronti del diverso? Esistono politici francesi, oltre Sarkozy, certamente organici alla Hathor Pentalpha? Forse, provando a trovare risposte a simili interrogativi sarà possibile rendere giustizia alle povere vittime di un attacco barbarico e riprovevole che ripugna le coscienze dei giusti. (Nb: Aver citato alcuni personaggi, italiani o stranieri, come appartenenti ad una determinata Ur-Lodge – nel caso di specie, la Hathor Pentalpha – non rende costoro automaticamente responsabili di eventuali atti o strategie efferate compiute da singoli individui o gruppi affiliati alla medesima superloggia. Punto quest’ultimo peraltro chiarito a più riprese nelle pagine del libro “Massoni”).
    (Francesco Maria Toscano, “L’eccidio parigino e l’ombra lunga della Ur-Lodge Hathor Pentalpha”, dal blog “Il Moralista” dell’8 gennaio 2015).

    Il 16 dicembre del 2014, sulla scia di alcuni attentati appena avvenuti in Pakistan ed Australia, avevo scritto un pezzo dal titolo “Esiste un nesso fra la discesa in campo di Jeb Bush e l’aggravarsi della recrudescenza terroristica di matrice talebana?”. All’interno dell’articolo in questione, frutto di una attenta meditazione di alcuni preziosi spunti contenuti nel libro “Massoni” scritto da Gioele Magaldi, delineavo uno spaccato in grado di evidenziare il palese nesso di causalità che lega il rinnovato protagonismo della famiglia Bush in politica con l’improvviso riesplodere su scala planetaria del terrorismo islamico. Il califfo dell’Isis Abu Bakr Al Baghdadi, perfettamente calatosi nei panni di un nuovo Bin Laden, risulta infatti affiliato presso la Ur-Lodge Hathor Pentalpha, officina del sangue e della vendetta fondata da Bush padre in compagnia di personaggi del calibro di Dick Cheney, Don Rumsfeld, Bill Kristol, Sam Huntington, Tony Blair, Paul Wolfowitz e molti altri ancora. Una superloggia, cresciuta negli anni come una mala-pianta, che annovera al proprio interno pure ex capi di Stato europei come Josè Maria Aznar e Nicolas Sarkozy.

  • Io non sono Charlie, che è complice dei nostri veri assassini

    Scritto il 09/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.
    Accanita seminatrice di odio antislamico, beceramente razzista, un concentrato di volgarità, vuoi di solleticamenti pruriginosi (Wolinski), vuoi da ufficio propaganda dei macellai di musulmani, al servizio del suprematismo euro-atlantico-sionista e, dunque, vessillo della civiltà occidentale a tutti cara, pure alle banche. Tanto che queste la salvarono dal fallimento e le infilarono economisti di vaglia, come Bernard Maris, pure dirigente nel Consiglio Generale della Banca di Francia. Rientra in questo ordine di cose l’entusiasmo con cui il mattinale ha accolto l’opera del sodale Michel Houellebecq, celebratissimo e ora protettissimo romanziere, il cui capolavoro, “La sottomissione”, è uscito in felice sincronismo con l’attentato. La sottomissione deprecata per tutte le centinaia di pagine è quella dell’Occidente che ha “rinunciato a difendere i suoi valori” e “ha ceduto all’Islam, la più stupida delle religioni”. Non meraviglia che, sul “Il Fatto Quotidiano”, il vignettista Disegni solidarizzi con i colleghi parigini e, in particolare, con il già citato amico e maestro Wolinski.
    Chissà perché m’è venuto in mente il giorno, al tempo del disfacimento Nato della Jugoslavia, quando collaboravo a una sua rivista, in cui Disegni mi cacciò dal giornale, spiegandomi che non poteva tollerare nel suo giornale uno che stava dalla parte dei serbi. House Organ di sinistra, con altri (“Libération”, “Le Monde”), dei servizi segreti franco-israeliani, è anello fintamente satirico della catena psicoterrorista che ci deve ammanettare tutti e trascinarci convinti alla guerra contro democrazia e resto del mondo. L’attentato parigino, preceduto dagli altri tre grandi episodi della campagna per il Nuovo Ordine Mondiale, Torri Gemelle-Pentagono, metrò di Londra, ferrovia di Madrid (ma noi siamo stati gli antesignani: Piazza Fontana, Italicus, Brescia, Moro, le bombe del mafia-regime), si inserisce alla perfezione nella storia del terrorismo “false flag”. Minimo, o massimo, comune denominatore, un cui prodest che si risolve immancabilmente a vantaggio della vittima conclamata e a esiziale detrimento dei responsabili inventati.
    L’apocalisse scatenata dal capitalismo terrorista in tutto il mondo, come di prammatica anche stavolta è stata firmata dall’urlo Allah-U-Akbar. Prova inconfutabile di chi siano i mandanti, no? A prima vista, l’operazione rientra nella campagna di destabilizzazione dell’Europa che, attraverso sfascio economico-sociale, conflitti interetnici e misure di “sicurezza”, deve rafforzare la marcia verso Stati di polizia, politicamente ed economicamente assoggettati all’élite sovranazionale, ma controllati da proconsoli e signori incontrastati della vita dei loro sudditi. Si possono individuare due motivazioni specifiche: una punizione USraeliana a Hollande, che non si era peritato di invocare la revoca delle sanzioni al mostro russo, inaccettabile incrinatura del blocco bellico del Nuovo Ordine Mondiale (avviso alla Merkel e ad altri devianti), con effetti a lungo termine di disgregazione sociale e conflitto inter-etnico; oppure un contributo della casta antropofaga francese, in questo caso concordato con i padrini d’oltremare, alla guerra infinita esercitata, fuori, contro le colonie recuperande (Mali, Chad, Rca, Maghreb) e, a casa, contro il cuneo sociale islamico e l’insubordinazione di massa che compromettono le mire dei correligionari dei maestri di Tel Aviv, Hollande, Fabius, Sarkozy, Lagarde.
    Pensate alle ricadute della carneficina “islamista” di Parigi, ascoltate gli ululati delle mute di sciacalli che per un bel po’ avranno modo di cibarsi di cadaveri della verità. Quante ragioni di più avranno, agli occhi dei decerebrati dai media, i trogloditi nazifascisti e razzisti che si aggirano in sparuti ma vociferanti drappelli per l’Europa, e sono tanto utili a spostare il giudizio di estrema destra, di fascismo, dalla classe dirigente a queste bande di manipolati. Quanto si attenuerà la protesta per le immonde condizioni dei migranti invasori. Quanto ne saranno rafforzati l’impeto e l’impunità degli addetti alla repressione di “corpi estranei”, come dei dissidenti autoctoni: Ilva, Tav, Tap, Trivelle, basi militari, disoccupazione, miseria, Renzi che toglie gli ultimi lacciuoli ai grandi evasori (avete visto che chi guadagna di più potrà evadere di più) e a quelli in cui era stata costretta l’inclinazione a delinquere di Berlusconi. Sempre più degna dei suoi antichi e recenti titolari, si ergerà una civiltà partorita dai roghi e dagli squartamenti di mille Torquemada, dalle crociate da mille anni mai interrotte, dalla guerra infinita, dal dio bliblico, il più sanguinario e protervo della storia.
    Bonus aggiuntivo, la distrazione di massa occidentale dalla dittatura neoliberista in progress, dal genocidio sociale euro-atlantico e dalle guerre militari ed economiche che portano avanti. La distrazione, da noi, dalle canagliate, una dopo l’altra, che ci infliggono il ciarlatano zannuto e le sue risibili ancelle. Tutto questo si ripete nei secoli della tirannia feudalcapitalista, monotonamente e anche con trasparente pressapochismo, salvaguardato, però, dalle coperture mediatiche. Coperture nelle grandi occasioni condivise con passione sfrenata dal “Manifesto”: mobilitati tutti i furbi e i naives della redazione e del suo cerchio magico per ben 13 articoli fiammanti per 6 pagine, fotone e vignette, in difesa della libertà di stampa offesa. Ce ne fosse uno, tra questi pensosi guru del politically correct, che, sulla scorta di una storia clamorosa di “false flag” padronali, da Pearl Harbour al Golfo del Tonchino, dallo stesso 11 Settembre al piano del  Pentagono (Northwoods) di far saltare per aria, sotto etichetta cubana, palazzi governativi negli Usa e abbattere un aereo di studenti statunitensi nel cielo dell’Isola, avesse osato un assolo problematico, dubbioso.
    Gli autori dell’eccidio, veri professionisti che non avevano nemmeno effettuato un sopralluogo sulla scena. Che bisogno c’era? Servono così, bruti selvaggi, tanto dietro hanno chi professionista lo è davvero. Kalachnikov alla mano e passamontagna sul viso, hanno sbagliato portone e cercato indicazioni da un passante. Sono stati identificati prima ancora che si asciugasse il sangue. Nuovamente esponenti di quella comunità islamica che stoltamente si è tollerata, che deve stare bagnata con la coda tra le gambe. Tre di quei 18mila tagliagole stranieri, perlopiù europei, di cui l’Intelligence e la polizia sapevano tutto e li tenevano fissi d’occhio e di intercettazioni, ma che potevano agevolmente espatriare, addestrarsi nelle basi governate da istruttori Usa-Nato e gestite dai subalterni giordani, turchi, qatarioti, sauditi. Per poi altrettanto agevolmente rientrare, sotto lo sguardo comprensivo dei protettori dello Stato, e dedicarsi al mercenariato imperiale domestico. Di conseguenza, si ammette, sorveglianza zero sui “potenziali terroristi”, pur celebrati dall’ossessiva vulgata del “nemico della porta accanto”.
    Ora, vista la figuraccia del mancato controllo su uscite verso il Medioriente e rientro, cambiano versione: quelli lì non sono affatto stati in Siria. Invece si sono addestrati sparacchiando qua e là per Parigi, con tanto di istruttori di rango, sempre fuori da sguardi e cimici indiscreti. Figuraccia al cubo. E così, dal momento in cui è iniziata la sparatoria, subito ripresa e telefonata dai giornalisti di “Ch” con telefonino e comunicata dal furgone della polizia sul posto, poi mitragliato, è passata quasi mezz’ora prima dell’arrivo di rinforzi, in una delle metropoli più sorvegliata e tecnologizzata del mondo. Chi fossero i tre, mica s’è saputo grazie al costante controllo su movimenti e discorsi scientificamente condotto dai modernissimi flic tecnologizzati francesi. Figurati, è bastata una carta d’identità abbandonata nella fuga da un attentatore che, comprensibilmente, terminata la sparatoria e in fuga frenetica dalla scena, ha ammazzato il tempo tirando fuori il portafoglio (per vedere se bastava per il taxi?) e frugatoci dentro, estratta la tessera, l’ha posta in bella evidenza sul sedile.
    Ricorda quell’umoristico passaporto di Mohammed Atta, presunto capofila dei dirottatori dell’11/9, trovato lindo e intonso nel pulviscolo di tre grattacieli disintegrati. Con Atta che dal padre viene rivelato vivo, nella disattenzione assoluta dei gazzettieri. Visto che ovviamente la carta d’identità è stata lasciata a bella posta, quale sarà stato lo scopo? Indicare una testa di legno come autore e coprire quelle vere? Vedremo, nei prossimi giorni, quanto questa operazioni prodest all’Obama in precipitoso calo di consensi (come lo era Bush al tempo delle Torri), a multinazionali, banche, Pentagono e armieri, tutti quelli che devono gestire il trasferimento di ricchezza dalla periferia al centro e dal basso verso l’alto. E poi, scendendo per li rami, a un’Ue di nominati da business e arsenali, in crisi di credibilità e fiducia; a despoti europei reclutati per fare da capro espiatorio pagatore nella guerra alla Russia e al resto del mondo; a produttori di tecnologie per il controllo sociale; alle combine mafiose tra Pd e soci e faccendieri. Allo sparaballe in carenza di aria fritta. Al papa che sollecita gli islamici, solo loro, a farla finita con il terrorismo. Dall’altra parte, vedremo di che prodest ci avvantaggeremo noi, comuni mortali, islamici, cristiani o niente, di che lacrime gronderemo e di che sangue….
    Concludendo, un esercizio di fantasia. Immaginiamo cosa sarebbe successo, in termini di esecrazione e persecuzione degli antisemiti, se quelle vignette su Allah a culo all’aria e Maometto stupratore bombarolo avessero preso di mira Jahve, Mosé, o un qualsiasi “eterno ebreo” alla Himmler. E immaginiamo anche cosa risponderebbero quelli delle attuali chiassate per la libertà di stampa, nel paese al 69° posto per libertà di stampa, Ordine dei giornalisti e categoria tutta, se gli si chiedesse di manifestare per le centinaia di giornalisti assassinati nei paesi sotto tutela amica, Iraq, Messico, Honduras. Sempre più urgente e credibile, fondata su potenzialità politico-economico-militari letali per la criminalità organizzata che regge un impero in decadenza, diventa la formazione del fronte antagonista avviato da Hugo Chavez e portato avanti con intelligenza e dinamismo da Vladimir Putin: blocco asiatico-latinoamericano di Russia, Cina, Brics, governi e masse insubordinati. Ne consegue l’urgenza di smascherare e spazzare via i contractors della sedicente “Sinistra” che abitano nei sottoscala del menzognificio imperiale e ne ripetono le deformazioni della realtà finalizzate alla criminalizzazione dei diversi non sottomessi: lo “zar” omofobo Putin, “dittatori” vari, i musulmani, “violenti” asociali di varia estrazione, purchè non militari e poliziotti.
    (Fulvio Grimaldi, “Io non sono Charlie”, dal blog di Grimaldi dell’8 gennaio 2014.

    Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.

  • Foa: avremo un altro Napolitano, pronto a tradire l’Italia

    Scritto il 04/1/15 • nella Categoria: idee • (5)

    L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio alla sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».
    Non illudiamoci che a Napolitano subentri un eletto «autenticamente patriottico», continua Foa, visto che le condizioni non sono affatto cambiate: il “padrone” è sempre l’élite finanziaria europea neoliberista, mercantilista, neo-feudale, quella a cui – probabilmente con l’eccezione del solo Berlusconi, peraltro prigioniero dei suoi conflitti d’interesse – ogni potente italiano ha sempre obbedito, negli ultimi decenni. Napolitano non fa certo eccezione: «Non è stato un buon presidente – scrive Foa – per la semplice ragione che non ha rispettato l’essenza, l’anima, la missione di un Capo dello Stato: che è quello di servire il popolo, di rispettare in modo inflessibile la Costituzione, di difendere la sovranità». L’uomo del Colle, invece, «appartiene a quella élite di politici che, in Italia ma non solo, di fatto si prodiga per svuotare di significato proprio la carica, le istituzioni e in ultima analisi il paese che dovrebbe difendere», anche se lo fa illudendo l’opinione pubblica con «il rispetto formale del mandato e della Costituzione», così come «i richiami ai valori nazionali e al senso dello Stato». Un copione «rituale, retorico, obbligato».
    Ma attenzione: «Il tono cambia quando il presidente parla di Unione Europea; in questo caso – osserva Foa – trapela l’appartenenza, la convinzione, il senso storico di una missione». Infatti, «il presidente che dovrebbe difendere la Costituzione curiosamente lancia continuamente appelli alla cessione di sovranità e di poteri a favore della Ue, di cui auspica l’unione politica», naturalmente «per il bene degli italiani». Peccato che Napolitano si sia prodigato «per difendere, proteggere e al momento giusto lanciare quei politici o quei tecnici che la pensano come lui e con cui condivide le stesse referenze sovranazionali», non esattamente “amiche” dell’Italia. «E’ stato Napolitano ad avallare il colpo di Stato con cui le élite europee hanno fatto cadere Berlusconi nel 2011, attribuendo simultaneamente l’incarico al suo grande amico e sodale Mario Monti, tra l’altro beneficiandolo della nomina improvvisa a senatore a vita; dunque rendendo possibile l’attuazione di un piano che, come ormai ampiamente dimostrato, è stato concepito mesi prima della caduta del Cavaliere».
    Poco dopo, è lo stesso Napolitano a spingere «un altro giovane emergente sodale», Enrico Letta, a Palazzo Chigi. E poi, dopo pochi mesi, a «benedire l’improvvisa ascesa, ma gradita a certi ambienti, di Matteo Renzi, superando un’antipatia e una diffidenza personale che ora traspare, ma a cui si è inchinato in ossequio a logiche che al popolo non vengono mai spiegate: un “obbedisco” a modo suo». Nessuna illusione sul futuro: le forze che dominano in Parlamento, inclusa Forza Italia, non osano infatti mettere in discussione i diktat del rigore, dal Fiscal Compact al pareggio di bilancio, cioè le misure (da tutti votate) che in tre anni hanno “suicidato” il paese, facendogli pagare una flessione del Pil da 450 miliardi e provocando la catastrofe della disoccupazione, il fallimento di migliaia di aziende, il crollo dei consumi e del gettito fiscale, l’esplosione di un debito pubblico micidiale perché non denominato in moneta sovrana. Gli italiani fiutano la rovina: tre anni di guerra, milioni di poveri, le pensioni tagliate dalla riforma Fornero votata anche dal Pd. Italia kaputt, come voleva il “padrone” tedesco che temeva la concorrenza del made in Italy. Ecco perché «via un Napolitano se ne farà un altro, che offra le stesse garanzie e vanti le stesse appartenenze», profetizza Foa. «Perché questa è la logica del potere che governa davvero l’Europa. E dunque anche quel che resta dell’Italia. Ma agli italiani non va detto e men che meno spiegato».

    L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio all’obbedienza ai poteri forti da parte della sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».

  • Napolitano, l’antipolitica di regime che ha ucciso la politica

    Scritto il 22/12/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Giorgio Napolitano è un anziano signore che tuona contro l’antipolitica, non rendendosi minimamente conto del paradosso che incarna: il suo modo di concepire la politica è pura essenza antipolitica. Del resto tutto questo non è poi così strano, visto che la biografia dell’anziano signore è quella di chi ha smarrito la Fede (il Comunismo) già negli anni giovanili, riversando la propria passione (fredda) sul ruolo di controllo sociale esercitato da una minoranza, a mezzo politica fattasi istituzione. Pier Paolo Pasolini coniò la metafora “Palazzo” per questa mutazione genetica, che allontanava la collettività dalle scelte riguardanti il suo stesso futuro; dirottandole in un ultramondo inavvicinabile e imperscrutabile, dove manipoli di eletti – facendo finta di accudire l’araba fenice dell’Interesse Generale – coltivavano con inesausta passione i propri privilegi corporativi; badando bene che il mondo esterno non penetrasse mai nelle loro stanze dorate rovinandone la festa. Un incantesimo durato per decenni (e alimentato con illusionismi verbali, di cui l’ultima trovata è la demonizzazione del cosiddetto “populismo”, ossia l’intromissione indebita delle persone negli affari che “li riguardano”).
    E mentre i distinti signori diventavano sempre più anziani, senza mai avvertire quanto gli stava capitando attorno, gli occupanti del Palazzo dei privilegi incanaglivano e incarognivano. Tanto che ogni nuova leva di questi inquilini finiva per rivelarsi peggiore della precedente. Anche qui perché stupirsi: è legge della natura che l’acqua stagnante imputridisce. O forse questi signori, sempre molto distinti ma un po’ meno distratti di quanto vorrebbero farci credere, anche loro contraevano qualche abitudine propria della corporazione trasversale del potere. Magari entrando in contatto con qualche grande elemosiniere interessato al lucroso business del monopolio in materia della vendita di spazi pubblicitari sulle televisioni dell’allora Unione Sovietica. Un tipo che si chiamava Silvio Berlusconi, ma da cui la bella gente della politica iperuranica teneva le distanze, preferendo delegare il contatto rischioso a qualche maldestro migliorista milanese (che incassò dalle aziende del suddetto Berlusconi ricchi finanziamenti sotto forma di pagine pubblicitarie per iniziative editoriali consegnate alla clandestinità).
    In seguito il distinto signore, quale presidente della Repubblica, quel grande elemosiniere dovette incontrarlo sistematicamente per ragioni istituzionali. Ma – nel frattempo – costui era diventato un pezzo di ceto politico, anzi il suo primario puntello sotto i cieli della Seconda Repubblica. Sicché andava supportato, perfino regalandogli il tempo necessario per comprarsi pezzi di Parlamento; e – così – restare sempre in sella. Gli anni passavano e dalle cloache del Palazzo la melma usciva a fiotti. Tanto che il disgusto dei cittadini elettori superava la soglia del tollerabile, riversandosi verso due uscite dall’impasse: il rifiuto di farsi coinvolgere emigrando nel non voto, dare credito a imprenditori politici che promettevano pulizie nel Palazzo.
    Purtroppo entrambe le uscite di sicurezza non hanno funzionato: il non-voto va traducendosi in regalo per chi presidia organigrammi pubblici ripartendo in poltrone le percentuali residue (ormai le elezioni sono vinte per assenza di alternative); i salvatori della Patria si sono rivelati vuoi degli inconsistenti parolai, vuoi dei cinici strumentalizzatori di stati emotivi di massa. Un panorama di mediocri ovunque si giri lo sguardo. Del resto cosa aspettarci da un sistema democratico svuotato e incaprettato da decenni? Fa specie che l’anziano signore, osannato dai suoi pari come emblema del ceto di professional che hanno svilito la politica, si indigni se la pubblica opinione trova inguardabile gli effetti di questa lunga opera di devastazione civile. Perché l’antipolitica è il bel risultato che ci hanno regalato i suoi stupefacenti critici odierni.
    (Pierfranco Pellizzetti, “Napolitano-antipolitica: surreale!”, da “Micromega” dell’11 dicembre 2014).

    Giorgio Napolitano è un anziano signore che tuona contro l’antipolitica, non rendendosi minimamente conto del paradosso che incarna: il suo modo di concepire la politica è pura essenza antipolitica. Del resto tutto questo non è poi così strano, visto che la biografia dell’anziano signore è quella di chi ha smarrito la Fede (il Comunismo) già negli anni giovanili, riversando la propria passione (fredda) sul ruolo di controllo sociale esercitato da una minoranza, a mezzo politica fattasi istituzione. Pier Paolo Pasolini coniò la metafora “Palazzo” per questa mutazione genetica, che allontanava la collettività dalle scelte riguardanti il suo stesso futuro; dirottandole in un ultramondo inavvicinabile e imperscrutabile, dove manipoli di eletti – facendo finta di accudire l’araba fenice dell’Interesse Generale – coltivavano con inesausta passione i propri privilegi corporativi; badando bene che il mondo esterno non penetrasse mai nelle loro stanze dorate rovinandone la festa. Un incantesimo durato per decenni (e alimentato con illusionismi verbali, di cui l’ultima trovata è la demonizzazione del cosiddetto “populismo”, ossia l’intromissione indebita delle persone negli affari che “li riguardano”).

  • Stati Uniti e impuniti: eroina afghana, business record

    Scritto il 17/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.
    Oggi un vero scoop sarebbe consistito nel registrare un decremento della produzione di droga in Afghanistan, ma si tratta di un’eventualità che al momento non avrebbe alcuna base realistica. Gli organi di stampa che hanno riportato la notizia hanno insistito sul dettaglio che il governo statunitense avrebbe speso 7,6 miliardi di dollari per contrastare la produzione ed il traffico di oppio, ma senza risultato. La cosa fa sorridere, dato che, da almeno cinque anni, neppure il diretto coinvolgimento della Nato nel business dell’oppio rappresenterebbe più uno scoop. Lo scorso anno qualche barlume di notizia a riguardo è trapelato anche sulla stampa ufficiale, ma riferendosi solo ai casi di soldati della Nato coinvolti nel traffico; casi, peraltro, tutti rigorosamente insabbiati, sia in Italia, che in Canada, che nel Regno Unito. La stampa ha fatto finta di credere che il coinvolgimento riguardasse soltanto dei militari di bassa forza o, al più, dei sottufficiali, oltre che i già ampiamente screditati “contractors”.
    Il massimo della critica che ci si è concesso è stato quello di fustigare il cinismo o l’ingenuità della Nato, la quale, pur di sconfiggere i cattivissimi Talebani, avrebbe “chiuso gli occhi” sui loschi traffici di personaggi legati al governo filo-occidentale di Karzai. Si tratta della solita fiaba ufficiale sugli “scomodi alleati” degli Usa. Se dalla carta stampata si passa alla “informazione” televisiva, le cose vanno addirittura peggio, poiché lì è obbligatorio far finta di credere che siano i malvagi Talebani ad autofinanziarsi con l’oppio, perciò persino accennare alla “giovane narcodemocrazia” afghana rappresenta ancora un tabù. Eppure si tratta di notizie ufficiali che si riscontrano sui siti delle organizzazioni internazionali. La Banca Mondiale ha recentemente dedicato un rapporto alla situazione in Afghanistan, osservando che il 90% della produzione mondiale di eroina proviene oggi da quel paese. La Banca Mondiale si lancia in solenni ammonimenti al governo afghano circa i rischi di “deragliamento” che la drug-economy potrebbe provocare ad un paese così faticosamente avviato verso la democrazia e lo sviluppo.
    Lo stesso carosello di ipocrisie lo si riscontra da parte dell’organizzazione gemella della Banca Mondiale, cioè il Fondo Monetario Internazionale. Più di dieci anni fa, addirittura nel 2003, il Fmi già ammoniva il governo afghano circa i rischi di trasformarsi in un narco-stato. La colpevolizzazione anche allora era tutta per il paese colonizzato, mentre non si accennava alle responsabilità dell’occupante Usa-Nato, il quale, se “sbaglia”, lo farebbe solo per troppa bontà. Del resto il Fmi e la Nato sono praticamente la stessa cosa. Quindi si può riscontrare una pseudo-informazione a doppio livello: uno per le masse, le quali devono credere che i Talebani, oltre che fanatici, siano anche narcotrafficanti, e un altro livello per i “cittadini più informati”, ai quali è concesso di sapere che il governo Karzai è coinvolto nel traffico, e per questo ogni tanto è costretto a beccarsi una reprimenda dagli organismi internazionali. Paradossalmente, il maggior grado di infantilizzazione tocca proprio ai “cittadini più informati”, ai quali spetta di credere che il “troppo buono” papà statunitense spenda 7,6 miliardi per redimere dalla droga il figlioletto discolo, ma che questi continua a deluderlo.
    La realtà è invece che come narcostato e narcodemocrazia, l’Afghanistan di Karzai ha ancora parecchio da imparare dai Narcostati Uniti d’America. Ma legioni di giornalisti e di intellettuali si incaricano di narrare alle masse la storia inversa, secondo la quale i guai del mondo deriverebbero dal parassitismo e dall’indisciplina dei poveri, ritratti come sempre pronti ad estorcere favori da governi troppo generosi e premurosi. L’impunità che gli Usa e la Nato possono ostentare nella vicenda della droga afghana, è davvero totale; nel senso che, grazie all’armatura propagandistica del “troppobuonismo”, riescono a sfuggire persino a sanzioni puramente morali. L’impunità viene addirittura percepita da gran parte dell’opinione pubblica come garanzia di moralità, perciò non vi è nulla di strano nel fatto che agli Usa si riconosca tranquillamente un ruolo internazionale di giudice e di censore nei confronti di altri Stati; cosa che consente agli Usa ogni genere di provocazione e di doppio gioco. Infatti, mentre l’amministrazione Obama dichiara di essere in guerra contro l’Isis, in realtà sta ancora cercando di colpire e isolare la Siria di Assad con insistenti accuse per il presunto uso di armi chimiche.
    (“I Narcostati Uniti d’America”, da “Comidad” del 30 ottobre 2014).

    Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.

  • Verità proibita in Europa, la vergogna dell’arresto di Chiesa

    Scritto il 16/12/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.
    E’ abbastanza evidente, dice, il maldestro tentativo di impedire a un cittadino europeo di esprimere le proprie idee e raccontare le verità che conosce. «Questa – aggiunge Giulietto Chiesa dopo il rilascio – non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli». Il “decreto di espulsione” dall’Estonia, scrive Pino Cabras su “Megachip”, il newsmagazine web fondato da Chiesa, sarebbe stato «emanato ad personam» dal governo di un paese membro dell’Unione Europea, «senza nessuna accusa formulata in nome di una qualche fattispecie di reato». Quindi, «si è voluto colpire un cittadino di quella stessa Unione Europea, una personalità pubblica nel pieno dei suoi diritti politici e di parola, da sempre proclamati come il miglior primato dell’Europa». In teoria, aggiunge Cabras, tutti hanno quei diritti, «ma vengono usati poco e sempre meno», anche perché «per i diritti funziona al contrario dei vestiti: meno li usi più si sgualciscono». Giulietto? «Indossa invece tutte le sfumature del diritto di parola e perciò mostra la veste integra della libertà, che spicca in mezzo a un sistema dell’informazione ormai agli stracci».
    Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità». Durissime le denunce sulla Guerra del Golfo, costruita con le false accuse contro Saddam, e sui crimini di Israele verso i palestinesi. E poi la mattanza nei Balcani, i bombardamenti “umanitari” per il Kosovo, le atrocità della guerra in Cecenia: tra i pochissimi, Giulietto Chiesa, a denunciare la Russia per la guerra nel Caucaso, “organizzata” direttamente dal Cremlino per creare un fronte interno in grado di fabbricare consenso a beneficio del pericolante “zar” privatizzatore Boris Eltsin. In contatto con Gino Strada e la struttura di “Emergency”, Giulietto Chiesa è stato il primo giornalista italiano – tra i primi al mondo – a entrare a Kabul nella primavera 2002, durante la “liberazione” dai Talebani, nel corso dell’offensiva dell’Alleanza del Nord scatenata per “punire” Al-Qaeda all’indomani del super-attentato dell’11 settembre 2001, rispetto al quale – oggi è accertato – il network terroristico di Bin Laden non ebbe alcuna responsabilità.
    «Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia sovietica “Tass” ai tempi dell’Urss, sperando di liberarsi dell’allora corrispondente de “L’Unità”, ritenuto scomodo perché sincero, non allineato al potere. Fu Berlinguer in persona, ricorda Chiesa, a chiarire al Cremlino che il giornale non lo avrebbe sostituito. Un’autorevolezza, quella di Chiesa, che gli ha consentito di collaborare per lunghi anni coi maggiori organi d’informazione italiani, da “La Stampa” ai telegiornali Rai e Mediaset. Stretto collaboratore di Mikhail Gorbaciov a partire dagli anni ‘90, Chiesa ha condiviso l’impegno del “padre della perestrojka” per sviluppare una visione multipolare del mondo, archiviata la guerra fredda. Ma la storia s’è rimessa a correre in direzione contraria: la “guerra infinita”, innescata proprio dall’11 Settembre, ci ha regalato un conflitto dopo l’altro. «La peggiore arma di distruzione di massa è la menzogna», dice Chiesa. «Proprio sulla manipolazione della verità si basa la preparazione di ogni guerra di aggressione: tutte guerre asimmetriche, ormai, particolarmente sanguinose, non più tra eserciti contrapposti ma tra milizie e popolazioni civili». In crisi, Giulietto Chiesa, anche con la sinistra, da cui pure proviene: «La sinistra – dice – non ha “visto” il rivolgimento epocale in corso, l’affermarsi delle grandi oligarchie finanziarie che hanno piegato la politica al loro volere. E se la politica democratica sparisce, non abbiamo più difese».
    Le ultime grandi battaglie civili l’hanno condotto, ancora una volta, nell’ex Unione Sovietica. Prima nell’Ossezia del Sud, aggredita dalla Georgia armata dalla Nato su ordine di Bush. E poi nell’Ucraina sfigurata dal golpe di Kiev, orchestrato da Washington e affidato alla manovalanza neonazista che ha sparato sulla folla di piazza Maidan e assassinato più di cento inermi alla “casa dei sindacati” di Odessa, provocando la secessione della Crimea. Poi, a seguire, i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile del Donbass “ribelle”. Tutti episodi documentati e filmati, ma oscurati dal mainstream occidentale secondo cui l’aggressore è il vecchio nemico, l’Orso russo, incarnato oggi da quel Putin a cui non si perdona di non volersi “arrendere” al dominio occidentale. «Il mondo sta cambiando e cambierà sempre più in fretta», ha avvertito Pepe Escobar di “Asia Times” al simposio organizzato a Roma da Giulietto Chiesa il 12 dicembre. «Il problema – ha aggiunto Marcello Foa, opinionista del “Giornale” e a allievo di Indro Montanelli – è che l’opinione pubblica occidentale non se rende conto, perché i media non la informano».
    L’attività più recente di Giulietto Chiesa, la direzione della web-tv “Pandora Tv”, impegnata a svelare i torbidi retroscena della crisi ucraina, gli è probabilmente costata l’inaudito arresto a Tallinn, in quel Baltico dove il risentimento contro l’ex “padrone imperiale” sovietico è ancora così forte da armare violente discriminazioni contro le minoranze russe, fino al punto da applaudire i “rivoluzionari” di Kiev che sfilano sotto bandiere con la svastica. Non è un caso, osserva Pino Cabras, che nel punire con metodi squadristici gli scomodi portatori di verità «si cominci da uno dei paesi baltici, quelli in cui, assieme alla Polonia e all’Ucraina, con la benedizione della Nato, si sta formando un cuore nero dell’Occidente: lì, in piena Europa, si sta “normalizzando” un modo di concepire l’Occidente alla maniera dell’America Latina degli anni Settanta». Per essere chiari: «È un sistema in cui le strategie militari e finanziarie le decide Washington, gli apparati repressivi sono in mano a manovalanza di ispirazione nazista, i simboli storici sono manipolati con ogni mezzo, si rimuove con la forza ogni memoria antifascista e si recuperano segni, monumenti, cimeli legati al peggiore nazionalismo. Per le idee diverse c’è la repressione».
    Anche in questo caso, Giulietto Chiesa aveva fiutato il pericolo con largo anticipo: si era candidato al Parlamento Europeo in una lista creata per tutelare la minoranza russa della Lettonia. E nel 2009, nel libro “Il candidato lettone”, scriveva:  «Mi rendevo conto, nonostante fossi lontano, che si stava preparando un focolaio, che avrebbe presto potuto trasformarsi in un incendio. E avvertivo anche che l’informazione che arrivava da Tallinn era – per usare un eufemismo – incompleta, inadeguata, e che, per capirci qualche cosa, si doveva integrarla con le notizie che venivano da Mosca. L’esperienza mi diceva che le crisi non nascono per caso. Anche se appaiono all’improvviso, hanno sempre una gestazione lunga ed è quella che bisogna scandagliare. Sono come corsi d’acqua, che escono dagli argini all’ultimo momento. Ma è evidente che la questione non è soltanto se gli argini siano sufficientemente alti; bisogna capire perché tanta acqua sia scesa dai monti». L’acqua baltica dell’ultimo decennio, aggiunge Cabras, è quella del recupero della memoria delle SS, della persecuzione dei russi, delle ondate repressive in stile G8 di Genova, tutte raccontate nel libro, «che ancora non poteva descrivere gli sviluppi che invece nel 2014 ha poi raccontato “Pandora Tv”: la guerra ucraina, la veloce e drammatica militarizzazione Nato dell’Est europeo; l’oltranzismo dei leader di quell’area, sempre più organici ai loro burattinai d’Oltreoceano, al punto che cedono platealmente i ministeri chiave e la finanza a ministri stranieri, come in Ucraina; le stragi naziste e i villaggi bombardati dall’artiglieria, le centinaia di migliaia di profughi, l’Europa delle sanzioni autolesioniste».
    Su questo fiume di eventi, conclude Cabras, c’è l’alba cupa dell’Europa che va incontro alla guerra da Est, non trattenuta dall’altra Europa più a Ovest, a sua volta devastata dall’austerity del regime europeo. «Solo in un contesto simile potevano eleggere il polacco Donald Tusk come presidente del Consiglio Europeo: ai piani alti vogliono quanta più russofobia possibile». L’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza». Per Pino Cabras, evidentemente, «il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte – qui e lì per l’Europa – che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome». Per Giulietto Chiesa, l’arresto è anche «una lezione da imparare», perché «ci aiuta a capire che razza di Europa è quella che ci troviamo davanti ora, e che battaglia dovremo fare per cambiarla, per rovesciarla come un calzino, se non vogliamo che questa gente rovesci noi».

    Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.

  • Ciao Usa, l’oro di Putin rottama l’impero militare del dollaro

    Scritto il 07/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.
    «La vera politica di Putin non è pubblica», afferma Kalinichenko in post ripreso da “Megachip”. Per questo, pochissimi capiscono le attuali mosse del Cremlino. «Oggi, Putin vende petrolio e gas russi solo in cambio di “oro fisico”», ma «non lo grida ai quattro venti, e naturalmente accetta ancora il dollaro come mezzo di pagamento». Ma, attenzione, «cambia immediatamente tutti i dollari ottenuti dalla vendita di petrolio e gas con l’oro fisico». Basta osservare la vorticosa crescita delle riserve auree della Russia e confrontarle con le entrate in valuta estera della Federazione Russa dovute alla vendita di petrolio e gas nello stesso periodo. Nel terzo trimestre 2014, gli acquisti da parte della Russia di “oro fisico” sono i più alti di tutti i tempi, a livelli record. Nello stesso periodo, le banche centrali di tutti i paesi del mondo hanno acquistato 93 tonnellate del prezioso metallo, dopo 14 trimestri di acquisti ininterrotti. Ma, di queste 93 tonnellate, ben 55 sono state acquisite dalla Russia.
    Per gli scienziati britannici e la “Us Geological”, l’Europa non potrà sopravvivere senza l’offerta energetica russa, cioè se il petrolio e il gas della Russia saranno sottratti dal bilancio globale dell’offerta energetica. «Così, il mondo occidentale, costruito sull’egemonia del petrodollaro, si trova in una situazione catastrofica, non potendo sopravvivere senza petrolio e gas dalla Russia. E la Russia – aggiunge Kalinichenko – è pronta a vendere petrolio e gas all’Occidente solo in cambio dell’oro fisico». La svolta, nel gioco di Putin, è che il meccanismo della vendita di energia russa all’Occidente solo con l’oro «funziona indipendentemente dal fatto che l’Occidente sia d’accordo o meno nel pagare petrolio e gas russi con il suo oro, tenuto artificialmente a buon mercato». Questo perché la Russia, avendo un flusso regolare di dollari dalla vendita di petrolio e gas, «in ogni caso potrà convertirli in oro ai prezzi attuali, depressi con ogni mezzo dall’Occidente», attraverso le manovre della Fed e dell’Esf, (Exchange Stabilization Fund), che abbassano il prezzo dell’oro per sorreggere un dollaro dal potere d’acquisto artificialmente gonfiato dalle manipolazioni nel mercato.
    Nel mondo finanziario, continua Kalinichenko, è assodato che l’oro sia un fattore anti-dollaro: nel 1971, Richard Nixon chiuse la “finestra d’oro”, ponendo fine al libero scambio tra dollari e oro, garantito dagli Stati Uniti nel 1944 a Bretton Woods. Ma ora, «Putin ha riaperto la “finestra d’oro”, senza chiedere il permesso a Washington». Premessa: «In questo momento, l’Occidente spende gran parte di sforzi e risorse nel comprimere i prezzi di oro e petrolio. In tal modo, da un lato distorce la realtà economica esistente a favore del dollaro statunitense, e d’altra parte vuole distruggere l’economia russa che si rifiuta di svolgere il ruolo di vassallo obbediente dell’Occidente». Oggi, oro e petrolio sono molto sottovalutati, rispetto al dollaro. Sicché, «Putin vende risorse energetiche russe in cambio di quei dollari artificialmente gonfiati dagli sforzi dell’Occidente, e con cui compra oro artificialmente svalutato rispetto al dollaro». Idem per l’uranio russo, da cui dipende «una lampadina americana su sei». Attenzione: «Putin usa questi dollari solo per ritirare “oro fisico” dall’Occidente al prezzo denominato in dollari Usa e quindi artificialmente abbassato dallo stesso Occidente». Ma la mossa dell’Occidente – svalutare l’oro per rivalutare il dollaro – gli si ritorce contro: quell’oro, Putin lo sta comprando sottocosto.
    Il cervello della «trappola economica dell’oro tesa all’Occidente», aggiunge Kalinichenko, probabilmente è il consigliere economico di Putin, Sergej Glazev, non a caso incluso da Washington nella lista nera dei “sanzionati”. Minacce inutili: il piano è perfettamente condiviso dal leader cinese Xi Jinping. Dalla Banca Centrale di Russia, intanto, Ksenia Judaeva fa sapere che la Bcr può utilizzare l’oro delle sue riserve per pagare le importazioni, se necessario: importazioni ovviamente provenienti dai Brics, date le sanzioni occidentali. Conviene a tutti, a cominciare da Pechino: per la Cina, la volontà della Russia di pagare le merci con l’oro occidentale è molto vantaggiosa. Infatti, spiega Kalinichenko, Pechino ha annunciato che cesserà di aumentare le riserve auree e valutarie denominate in dollari. Considerando il crescente deficit commerciale tra Usa e Cina (la differenza attuale è cinque volte a favore della Cina), questa dichiarazione tradotta dal linguaggio finanziario dice: “La Cina non vende più i suoi prodotti in cambio dei dollari”.
    «I media mondiali hanno scelto di non far notare questo storico passaggio monetario», rileva Kalinichenko. «Il problema non è che la Cina si rifiuti letteralmente di vendere i propri prodotti in dollari Usa». Come la Russia, anche la Cina continuerà ad accettare i dollari come mezzo di pagamento intermedio per i propri prodotti. «Ma, appena presi, se ne sbarazzerà immediatamente, sostituendoli con qualcosa di diverso», cioè l’oro. Di fatto, Pechino non acquisterà più titoli del Tesoro degli Stati Uniti con i dollari guadagnati dal commercio mondiale, come ha fatto finora. Così, «sostituirà i dollari che riceverà per i suoi prodotti, non solo dagli Usa ma da tutto il mondo, con qualcos’altro» appositamente «per non aumentare le riserve valutarie in oro denominate in dollari Usa». D’ora in poi solo oro, quindi, anche per i cinesi. Politica di fatto già inaugurata da Russia e Cina, per i loro scambi bilaterali: «La Russia acquista merce direttamente dalla Cina con l’oro al prezzo attuale, mentre la Cina compra risorse energetiche russe con l’oro al prezzo attuale». Il dollaro? Archiviato.
    Tutto questo non sorprende, dice Kalinichenko, perché il biglietto verde non è un prodotto cinese, né una risorsa energetica russa. «È solo uno strumento finanziario intermedio di liquidazione». E se l’intermediario non conviene più, visto che i partner sono ormai in relazione diretta, viene escluso. Le speranze occidentali che Russia e Cina, per le loro risorse energetiche e beni, accettino in pagamento “shitcoin” o il cosiddetto “oro cartaceo” di vario genere, non si sono concretizzate: «Russia e Cina sono interessate solo all’oro, metallo fisico, come mezzo di pagamento finale». Il fatturato del mercato dell’oro cartaceo, quello dei “futures” sull’oro, è stimato sui 360 miliardi di dollari al mese, ma le consegne fisiche di oro sono pari solo a 280 milioni di dollari al mese. «Il che fa sì che il rapporto tra commercio di oro cartaceo contro oro fisico sia pari a 1000 a 1». Sicché, «utilizzando il meccanismo di recesso attivo dal mercato, artificialmente ribassato dall’attività finanziaria occidentale (oro), in cambio di un altro artificialmente gonfiato dall’attività finanziaria occidentale (dollaro), Putin ha così iniziato il conto alla rovescia della fine dell’egemonia mondiale del petrodollaro».
    In questa maniera, prosegue Kalinichenko, il presidente russo «ha messo l’Occidente in una situazione di stallo, priva di alcuna prospettiva economica positiva». L’Occidente, infatti, «può usare la maggior parte dei suoi sforzi e risorse per aumentare artificialmente il potere d’acquisto del dollaro, nonché ridurre artificialmente i prezzi del petrolio e il potere d’acquisto dell’oro», ma il suo problema è che «le scorte di oro fisico in suo possesso non sono illimitate». Risultato: «Più l’Occidente svaluta petrolio e oro contro dollaro statunitense, più velocemente svaluterà l’oro dalle sue non infinite riserve». Il metallo prezioso detenuto da Usa ed Europa, e pesantemente svalutato, finisce quindi rapidamente in Russia e in Cina, ma anche in Brasile, in India, in Kazakhstan e negli altri paesi Brics. «Al ritmo attuale di riduzione delle riserve di “oro fisico”, l’Occidente semplicemente non avrà tempo di fare nulla contro la Russia di Putin, fino al crollo dell’intero mondo del petrodollaro occidentale». Scacco matto?
    «Il mondo occidentale non ha mai affrontato eventi e fenomeni economici come quelli attuali», sostiene Kalinichenko. «L’Urss vendette rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», mentre la Russia di Putin, al contrario, «acquista rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», minando il monopolio finanziario del dollaro statunitense. «Il principio fondamentale del modello mondiale basato sul petrodollaro permette che i paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti vivano a spese del lavoro e delle risorse di altri paesi e popoli, grazie al ruolo della moneta statunitense, dominante nel Sistema Monetario Globale (Smg). Il ruolo del dollaro Usa nell’Smg consiste nell’essere il mezzo ultimo di pagamento. Ciò significa che la moneta nazionale degli Stati Uniti, nella struttura dell’Smg, è l’accumulatore finale degli attivi patrimoniali, e scambiarlo con qualsiasi altro bene non avrebbe senso». Quel che fanno ora i paesi Brics, guidati da Russia e Cina, consiste invece nel cambiare, di fatto, il ruolo e lo status del dollaro Usa nel sistema monetario globale: da «ultimo mezzo di pagamento e accumulazione del patrimonio», la moneta Usa «viene trasformata in un mero mezzo di pagamento intermedio, destinato solo allo scambio con un’altra attività finanziaria ultima: l’oro», che come il dollaro è «un bene monetario riconosciuto», col vantaggio di essere «denazionalizzato e depoliticizzato».
    Impensabile, ovviamente, che gli Stati Uniti accettino una sconfitta epocale e planetaria così bruciante. E qui, infatti, entriamo in zona-pericolo. «Tradizionalmente, l’Occidente utilizza due metodi per eliminare la minaccia all’egemonia mondiale del modello fondato sul petrodollaro e ai conseguenti eccessivi privilegi occidentali. Uno di questi metodi è costituito dalle “rivoluzioni colorate”. Il secondo metodo, di solito applicato dall’Occidente se il primo fallisce, sono le aggressioni militari e i bombardamenti. Ma nel caso della Russia entrambi questi metodi sono impossibili o inaccettabili per l’Occidente», afferma Kalinichenko. Intanto, tutta la popolazione russa è con Putin: impossibile fabbricare una “rivoluzione colorata” per eliminare il capo del Cremlino. Restano le armi, cioè i missili. Ma la Russia non è la Jugoslavia, né l’Iraq, né la Libia. «In ogni operazione militare non-nucleare contro la Russia, sul territorio della Russia, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti è destinato alla disfatta. E i generali del Pentagono che esercitano la vera guida delle forze della Nato ne sono consapevoli». Una guerra nucleare? «Sarebbe egualmente senza speranza», perché la Nato «non è tecnicamente in grado di infliggere un colpo che disarmi completamente la Russia del potenziale nucleare». La rappresaglia equivarrebbe all’apocalisse: sarebbe «la nota finale e l’ultimo punto dell’esistenza della Storia», cioè «la fine della vita sul pianeta, fatta eccezione per i batteri».
    I principali economisti occidentali, conclude Kalinichenko, sono certamente consapevoli di quanto grave e disperata sia la situazione in cui si trova l’Occidente, caduto nella trappola economica d’oro predisposta da Putin. «Sin dagli accordi di Bretton Woods conosciamo tutti la regola aurea, “Chi ha più oro detta le regole”. Ma in Occidente stanno tutti zitti. Sono silenziosi perché nessuno sa come uscire da tale situazione». Se si svelassero all’opinione pubblica occidentale tutti i dettagli del disastro economico incombente, l’élite del sistema basato sul petrodollaro si troverebbe a dover rispondere alle domande più terribili. Ovvero: per quanto ancora l’Occidente potrà acquistare petrolio e gas dalla Russia in cambio di oro fisico? E cosa accadrà ai petrodollari Usa dopo che l’Occidente esaurirà l’oro fisico per pagare petrolio, gas e uranio russi, così come per pagare le merci cinesi? «Nessuno in Occidente oggi può rispondere». E questo, aggiunge Kalinichenko, si chiama davvero scacco matto.

    L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.

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