LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘opportunismo’

  • Messora: bei tempi, quando esisteva il Movimento 5 Stelle

    Scritto il 02/10/17 • nella Categoria: idee • (3)

    «C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».
    Le riunioni a porte chiuse? Atra «eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza»: per definizione «ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste». Democrazia diretta e strategie di palazzo? «Incompatibili a priori». Il titolo di “onorevole”, poi, «era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine». All’epoca, il capo politico non esisteva ancora: non lo era neppure Beppe Grillo. C’erano solo due garanti, Grillo e Casaleggio, «lungimiranti fondatori, che tenevano a freno le derive individualistiche di ragazzi catapultati all’improvviso nelle stanze del potere senza i necessari anticorpi, omaggiati e riveriti dai media e dalle associazioni di interessi». Erano i tempi in cui Casaleggio rimetteva alla rete ogni decisione, e la rete talvolta votava perfino contro a quello che avrebbe voluto lui, come nel caso della depenalizzazione del reato di clandestinità, continua Messora. «Il rispetto degli attivisti era non solo formale, ma sostanziale, e questo si traduceva in referendum online dagli esiti mai scontati e presentati con completezza di informazione. Anche perché gli attivisti di una volta, quelli che si erano scorticati la pelle delle mani nel corso di interminabili banchetti al freddo e al gelo, non avrebbero mai e poi mai accettato niente di meno».
    Erano i tempi in cui Grillo girava senza scorta per le strade di Roma, perché lui poteva permetterselo e se ne vantava. Oggi invece Di Maio «ha bisogno di girare circondato dalla security». Bei tempi, appunto, quando il Movimento 5 Stelle «provava a declinare in politica il suo retroterra antieuropeista e sovranista, antielitario e fieramente populista», come rivendicato dallo stesso Casaleggio, «il genio comunicativo» che spesso «stravolgeva ogni aspettativa e ribaltava la prospettiva». E lo stesso Grillo «scendeva a Roma chiamando il popolo in piazza Montecitorio, e i politici scappavano dal palazzo come topi in fuga, mentre le acque si facevano agitate e rombavano minacciose, facendo tremare i muri delle aule». Quelli, continua Messora, erano i tempi in cui il Movimento 5 Stelle era diverso da tutte le altre forze del sistema, da Bersani ai mostri di Bruxelles, «il peggio degli europeisti banchieri, artefici dell’austerity come l’Alde, in cui i 5 Stelle Europa volevano confluire sotto la sapiente guida di europarlamentari stimati da Mario Monti e ormai dimentichi della logica dei portavoce, ma sempre più calati nei panni del perfetto manovratore di palazzo».
    Quei tempi sono finiti, scrive Messora. «Oggi il Movimento 5 Stelle è un partito. Si comporta da partito. Ha i riti di un partito. Accentra il potere, come un partito. Ha i suoi servi, i suoi yes-men, i suoi adoratori, i suoi fan, la sua terminologia, i suoi giornalisti, come un partito. Ha perfino il culto della personalità del capo». E’ finita la spinta propulsiva, la voglia di rottura, «la narrazione dirompente, la creazione di un linguaggio differente, motivante, sferzante, con i suoi neologismi dissacranti». Si è esaurita «la componente di attivismo disinteressato e un po’ ingenuo, l’esaltazione dell’uguaglianza», che aveva attratto «intellettuali anticonvenzionali che rappresentavano visioni diverse e inascoltate sulla società, sulle tematiche ambientali, sul futuro». Tutto questo non esiste più, dice Messora: il Movimento 5 Stelle ha compiuto la sua metamorfosi. «Dal bozzolo è uscito un leader (termine che un tempo avrebbe procurato inguaribili allergie e insopportabili pruriti)», il quale «ha vinto primarie senza rivali, con risultati bulgari, che in ossequio all’era dei reality show hanno tuttavia beneficiato di una suspence artificiale, con tanto di musica da nomination del Grande Fratello». Poco seria, la faccenda: i vertici avevano già scelto Di Maio da tempo, «quindi la cosa più ragionevole da fare (e più onesta) sarebbe stata per il garante prendersi la responsabilità di proporre Di Maio e sottoporre il suo nome a una ratifica referendaria sul blog, da parte degli attivisti». Sempre meglio che una (finta) vittoria, senza concorrenti.
    Nel sogno della diversità, i primi “grillini” ci avevano creduto «quando tutti gli altri li prendevano in giro». E avevano combattuto contro qualunque pregiudizio perché erano davvero affascinati «dalla purezza cristallina di un’idea coraggiosa e sfrontata», ed erano riusciti a coinvolgere con il loro disinteressato entusiasmo ben 9 milioni di elettori «che nulla sapevano dei Cinque Stelle», ma avevano «interiorizzato solo un grande, immenso vaffanculo». Alla fine di questa metamorfosi, ecco dunque un partito in pole position nei sondaggi: un partito leaderistico, «nato pescando nelle ideologie di sinistra, così come nel serbatoio di elettori delusi a destra», ma che ora – rinnegato Farage con la sua Brexit e sfatato il mito dell’accoglienza tout court dei rifugiati – si è «riposizionato con nonchalance al centro, lontano dagli estremi e in corsa per Palazzo Chigi con il beneplacito della Chiesa, del potere transazionale della Trilaterale (Monti, Napolitano & Co), delle lobby, dell’establishment americano in cui il Cinque Stelle è di casa, dei circoli europeisti di Bruxelles, della finanza internazionale e dei mercati, cui Di Maio si è appellato personalmente».
    Ma attenzione, continua Messora: è un partito che non ha segreterie né strutture dirigenziali, non ha correnti ma neppure regole, non ha tempi certi per sostituire il capo politico, che può decidere candidature ed espulsioni. Un partito ibrido, «dove tutti sono d’accordo perché gli altri per definizione sono già stati espulsi», e molti di quelli che avevano remore e hanno pensato per lungo tempo di esternarle «ora sorridono sul palco dietro a Luigi che abbraccia Beppe, come se fossero tutti una grande famiglia da Mulino Bianco». Ma dov’è la democrazia, cioè la facoltà di dissentire? «Poi il risultato sono primarie che assomigliano più a un sorteggio di Champions, dove in un girone da una parte c’è la Juventus e dall’altra tre squadrette dell’oratorio». Di certo, concede Messora, «non ci troviamo di fronte a una forza politica peggiore del Pd, di Forza Italia, della Lega e di tanti altri soggetti che da lungo tempo calcano il palcoscenico istituzionale».
    Magra consolazione: questo nuovo partito «non ha ancora avuto modo di fare i danni che i vecchi partiti hanno certamente e incontestabilmente apportato al tessuto sociale, produttivo ed economico del paese». E’ vero, il nuovo “partito” 5 Stelle non ha un solido programma alternativo. Però «non lo si può accusare di essere responsabile delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, delle cessioni di sovranità, della sottomissione ai mercati, della distruzione del tessuto produttivo e della domanda interna, della ratifica del pareggio di bilancio, del Fiscal Compact, del Mes». Tutte «disgrazie», aggiunge Messora, che il partito ora capeggiato da Di Maio «ha finora dimostrato di non avere compreso e alle quali non sembra intenzionato a porre rimedio». E questo è l’aspetto di gran lunga più preoccupante: gli ex “ribelli” pentastellati non si impegnano contro il vero nemico, nemmeno lo vedono. O fingono di non vederlo, che è ancora peggio.

    «C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».

  • Carpeoro: servizi deviati e politici paraculi, la truffa infinita

    Scritto il 17/9/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Da Renzi a Salvini, da Mastella a Di Maio. Non conta chi, ma cosa. E come. Un copione invariabile: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone». E gli elettori, regolarmente, ci cascano. Parola dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, che rilegge sotto quest’ottica l’attualità italiana, persino il decreto-monstre sui vaccini obbligatori. «I partiti italiani cavalcano tutti le posizioni che gli sono convenienti». I partiti di maggioranza «hanno cavalcato i vaccini perché probabilmente sono stati finanziati dalle case farmaceutiche». Per contro, i partiti dell’opposizione cavalcano la protesta contro i vaccini «perché quello che non riscuotono sul piano economico lo vogliono riscuotere sul piano elettorale: prontissimi, quando saranno al potere, a prendere anche loro i quattrini e a cavalcare loro i vaccini», mentre «gli altri faranno l’opposto», in una perfetta inversione di ruoli. Una presa in giro spudorata: possibile che nessuno se ne accorga? Scandisce Carpeoro, in collegamento web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Io mi meraviglio che gli italiani non si siano rotti i coglioni di questo gioco delle parti».
    L’ultimo episodio del giochino speculare vittima-carnefice? La polemica sul caso giudiziario subito da Clemente Mastella, già sottosegretario agli interni, poi ministro con Berlusconi (lavoro) e con Prodi (giustizia), e ora scagionato, dopo 9 anni di “gogna” mediatica, dall’accusa di aver pilotato nomine alla Regione Campania. A “Porta a Porta”, da Bruno Vespa, ha accusato i “servizi deviati”. «I politici si lamentano dei servizi deviati solo quando a deviarli sono gli altri: quando li deviano loro non si lamentano affatto», dichiara Carpeoro, studioso di simbologia e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. «Mastella sa molto bene come funziano i servizi segreti: conosce bene tutti i meccanismi e ha ben poco da imparare, sotto questo profilo», continua Carpeoro. «Mi piacerebbe che i politici imparassero che non è che le cose sono sbagliate solo quando le fanno gli altri. Le cose, se sono sbagliate, sono sbagliate: non le devono fare loro, come non le devono fare gli altri». Mastella? «Ha deviato su tante cose i servizi segreti. Non dico che quello che adesso ha subito sia giusto. Credo che faccia parte di un meccanismo – ingiusto – che ha contribuito anche lui a creare, e che forse – quando gli faceva comodo usufrirne – avrebbe dovuto cercare di cambiare».
    Carpeoro imputa anche a Mastella «tutte quelle simpatiche operazioni degli anni ‘80 e ‘90, a cominciare da quelle che hanno interessato Tangentopoli: Mastella c’è stato dentro, in pieno». E poi, anni dopo, «tutte le operazioni dei servizi segreti innestate nella guerra con Berlusconi», guerra di cui proprio Mastella «è stato uno dei gangli operativi, visto che con la sua mini-scissione, assieme a Casini» (cui poi si aggiunge anche Fini) «nell’arco di vent’anni si è prestato a manovre molto losche». Magari Berlusconi «se le meritava», ma siamo alla solita storia, dice Carpeoro: «Non c’è un meglio e un peggio, io non sono in grado di giudicare eticamente se uno è meglio di un altro: questi si fanno la guerra con tutti i mezzi, quegli stessi mezzi che poi criticano quando ne finiscono vittime». Anche Matteo Renzi, per fare un esempio, messo alla berlina per i maxi-appalti del caso Consip. C’è chi parla di indagini addirittura a scopo eversivo? «La realtà è molto più pietosa», taglia corto Carpeoro: «Renzi aveva cercato – per poi fare le stesse cose che hanno fatto altri, prima di lui – di mettere interamente le mani sui servizi segreti», nomimando per il controllo dell’intelligence il fedelissimo Marco Carrai, «e accentrando tutti i poteri su di lui». Missione complicata: chiaramente, con tanti interessi in gioco e altrettante strutture, «quella parte dei servizi che non voleva stare completamente sotto Renzi si è attivata e ha cercato di non farsi “possedere”».
    Per Carpeoro, quella che spiega il caso Consip «è una verità molto semplice, molto elementare». Retroscena: la «piccola guerra» scoppiata due anni fa, quando Renzi voleva unificare servizi d’intelligence e informatici. «Chiaramente, chi non aveva interesse che Renzi avesse questa gestione, per motivi ugualmente comprensibili rispetto a quelli a cui Renzi tendeva, si è attivato per evitare tutto questo: è una guerra tra di loro». Oggi a te, domani a me, dal Pd alla Lega: sulle prime pagine campeggia la notizia del blocco dei conti correnti del Carroccio, con Salvini che parla di “democrazia a rischio”. Niente di strano, dice Carpeoro: è solo diventata esecutiva la parte patrimoniale di una sentenza ormai definitiva (condannati ex segretario ed ex tesoriere). «Le strutture burocratiche hanno scoperto che la Lega stava svuotando i conti, e allora hanno messo in atto dei provvedimenti cautelari: se scopri che rischi di non trovare i soldi, fai i sequestri». E la figura di Salvini? «E’ quella di un paraculo», dice Carpeoro, «perché Salvini viene da un partito che è andato col cappio, in Parlamento, e adesso non vuole pagare i soldi che ha rubato».
    Salvini “paraculo”? E la sbandierata “discontinuità” con la Lega di Bossi? «Con la scusa della discontinuità, in Italia si sono fatte le meglio porcherie», aggiunge Carpeoro: «Nell’89 Occhetto ha fatto il partito nuovo e ha creato la discontinuità per cui i comunisti non dovevano pagare se avevano preso i soldi dai russi, mentre gli altri hanno pagato per aver preso i soldi da altre parti». Fuor d’ipocrisia: «La discontinuità è una delle truffe italiane: Salvini, ai tempi il cui Bossi e il tesoriere della Lega facevano quelle cose, era uno dei dirigenti del partito. Adesso non può dire “c’ero, ma non sapevo”, perché lui stesso, come il suo partito, ha ripetuto per anni, in Parlamento, che Craxi “non poteva non sapere”. E adesso perché lui può non sapere?». Il campione assoluto di discontinuità oggi è il Movimento 5 Stelle, che secondo Carperoro «è stato creato per un interesse politico», ovvero: «La massoneria reazionaria e la parte americana del potere avevano interesse a cavalcare il grande dissenso del paese, o comunque a “possederlo”». Ma attenzione: non ha funzionato, le cose non sono andate come i registi occulti speravano.
    I grillini docili strumenti di poteri forti? Non esattamente: «Non è che poi il Movimento 5 Stelle è diventato questo: gli è scappato di mano, il cavallo». Tradotto: «Se c’è un Di Maio che risponde a ordini, c’è una base che invece dà continui segni di volersi ribellare a tutto questo». Quindi «il progetto non gli è riuscito», ai super-manovratori. Ci sono anche i militanti, gli elettori. Prima dei 5 Stelle, la stessa Lega Nord «è stata funzionale a fottere il sistema», dice esplicitamente Carpeoro, alludendo al crollo della Prima Repubblica. «Però poi la Lega ha avuto una sua evoluzione “di sistema”». Il Carroccio «doveva fottere il sistema e poi sparire», e invece è ancora qui (decisamente in forma, a quanto pare grazie anche a Salvini). I leader fanno i loro giochi sempre uguali: spesso sembrano pedine del potere, incasellare dentro schemi piramidali e gerarchici, che poi degenerano nello stesso modo, «configurando poteri senza responsabilità», cioè senza il coraggio di assumersi la piena responsabilità di ciò che decidono. Però poi, appunto, c’è anche la base dei partiti, fatta di cittadini. Una dicotomia che sembra fotografare i 5 Stelle: Di Maio è stato fin dall’inizio «il candidato di certi poteri, americani e di conseguenza italiani, prescelto per prendere il posto di Renzi», conclude Carpeoro. «Ma non ho mai detto che diventerà premier: esiste sempre un barlume di fiducia, nel raziocinio degli italiani».

    Da Renzi a Salvini, da Mastella a Di Maio. Non conta chi, ma cosa. E come. Un copione invariabile: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone». E gli elettori, regolarmente, ci cascano. Parola dell’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che rilegge sotto quest’ottica l’attualità italiana, persino il decreto-monstre sui vaccini obbligatori. «I partiti italiani cavalcano tutti le posizioni che gli sono convenienti». I partiti di maggioranza «hanno cavalcato i vaccini perché probabilmente sono stati finanziati dalle case farmaceutiche». Per contro, i partiti dell’opposizione cavalcano la protesta contro i vaccini «perché quello che non riscuotono sul piano economico lo vogliono riscuotere sul piano elettorale: prontissimi, quando saranno al potere, a prendere anche loro i quattrini e a cavalcare loro i vaccini», mentre «gli altri faranno l’opposto», in una perfetta inversione di ruoli. Una presa in giro spudorata: possibile che nessuno se ne accorga? Scandisce Carpeoro, in collegamento web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Io mi meraviglio che gli italiani non si siano rotti i coglioni di questo gioco delle parti».

  • Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero

    Scritto il 10/9/17 • nella Categoria: idee • (11)

    Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
    Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.
    Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.
    Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.
    Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.
    Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.
    Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.
    Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.
    E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.
    Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.
    (Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).

    Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.

  • Rousseau: noi, schiavi del benessere indotto dalla scienza

    Scritto il 15/8/17 • nella Categoria: idee • (1)

    «Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’. Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono. Quanti pericoli, quante false vie nella ricerca scientifica! Era antica tradizione, passata d’Egitto in Grecia, che un Dio nemico della quiete degli uomini fosse l’inventore delle scienze. Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa un’arma pericolosa dalle mani del figlio. Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna… La preferenza degli ingegni piacevoli sugli utili… Hanno messo una gioventù frivola in grado di dare il tono alla vita. Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscretamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi… Socrate non aiuterebbe mai ad accrescere questa folla di libri che ci inonda d’ogni parte… I disordini orribili che la stampa ha già prodotto in Europa».
    «Da che i sapienti han cominciato ad apparir fra noi, dicevan i loro propri filosofi, le persone dabbene sono scomparse…S enza saper discernere l’errore dalla verità, possederanno l’arte di renderli irriconoscibili agli altri con argomenti speciosi…A sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’?… Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere. Oggi, che le ricerche più sottili e un gusto più fine hanno ridotto a princìpi l’arte di piacere, regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio».
    «Non si osa più apparire ciò che si è…Che se per caso, fra gli uomini straordinari per il loro ingegno, se ne trovi qualcuno che abbia fermezza nell’anima e che rifiuti di prestarsi al genio del suo secolo e di avvilirsi con produzioni puerili, guai a lui! Morrà nell’indigenza e nell’oblio. Gli antichi politici parlavano senza posa di costumi e di virtù: i nostri non parlano che di commercio e di danaro… un uomo non vale per lo Stato che il consumo che vi fa… i Principi sanno benissimo che tutti i bisogni che il popolo si dà, sono altrettante catene di cui si carica… qual giogo potrebbe imporsi ad uomini che non han bisogno di nulla?… L’anima si proporziona insensibilmente agli oggetti che l’occupano. O Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti e rendici l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che sian preziosi al tuo cospetto».
    Queste espressioni sono tratte dal “Discorso sulle scienze e sulle arti” di Rousseau del 1750. Rousseau è un illuminista – perché il “contratto sociale” è uno dei fondamenti della democrazia, peraltro intesa come democrazia diretta, in spazi limitati – ma è un illuminista molto, molto particolare. In questo straordinario “Discorso sulle scienze e sulle arti”, non a caso pochissimo richiamato ai giorni nostri, Rousseau anticipa alcune delle conseguenze più devastanti della democrazia. Si oppone alle scienze, “idola” che oggi dominano incontrastate, in quanto asserviscono a sé gli uomini e invece di renderli liberi li fa schiavi («soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù»). Anticipa la società dello spettacolo con le sue futilità, il prevalere dell’apparire sull’essere («Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna»). Sottolinea come l’eccesso di comunicazione e di divulgazione abbia dato spazio a ogni tipo di ciarlatani. E come la parola possa essere fonte di ogni falsità (del resto lo stesso Cristo ha affermato: «Il tuo dire sia sì, sì, no, no. Tutto il resto è farina del diavolo»).
    Quando Rousseau afferma «a sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’», non sembra di sentir parlar Renzi o Berlusconi o qualsiasi altro leader politico, italiano e anche non italiano? E, in aggiunta, c’è anche un accenno alle “fake news” («Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere»). Si scaglia contro l’omologazione – tema di scottante attualità, portato al suo apice dalla globalizzazione – che cancella il merito e annulla l’ingegno. Nell’ultima parte del “Discorso” c’è la considerazione che, forse, riguarda più da vicino la modernità. Dopo l’affermarsi della Rivoluzione Industriale sono stati introdotti bisogni di cui l’uomo non aveva mai sentito il bisogno. Si è affermata la pazzesca legge di Say, “l’offerta crea la domanda”, su cui si regge tutta la società di oggi. La stragrande maggioranza degli oggetti che oggi ci circondano e che, come osserva Rousseau contribuiscono a formare la nostra mentalità, sono del tutto superflui ma essenziali al meccanismo che ci domina e che ormai è uscito fuori dal nostro controllo: noi non produciamo più per consumare ma produciamo perché il meccanismo possa costantemente autoriprodursi e autorafforzarsi. Questa è la straordinaria modernità di Rousseau, l’antimoderno.
    (Massimo Fini, “Rousseau e la lotta al consumismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 25 luglio 2017).

    «Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’. Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono. Quanti pericoli, quante false vie nella ricerca scientifica! Era antica tradizione, passata d’Egitto in Grecia, che un Dio nemico della quiete degli uomini fosse l’inventore delle scienze. Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa un’arma pericolosa dalle mani del figlio. Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna… La preferenza degli ingegni piacevoli sugli utili… Hanno messo una gioventù frivola in grado di dare il tono alla vita. Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscretamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi… Socrate non aiuterebbe mai ad accrescere questa folla di libri che ci inonda d’ogni parte… I disordini orribili che la stampa ha già prodotto in Europa».

  • Giannuli: ma gli anti-Renzi del Pd sono peggiori di Matteo

    Scritto il 18/7/17 • nella Categoria: idee • (2)

    Come al solito, non nascondo le mie opinioni e, nel nuovo braccio di ferro interno al Pd dico subito che sto dalla parte di Renzi senza se e senza ma. E vengo a spiegare il perché. Cominciamo da chi sono i suoi attuali contestatori: Romano Prodi, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Nicola Zingaretti, tutti militanti “antemarcia” del Pd che ne hanno condiviso ogni nefandezza pre-renziana, ma che poi hanno seguito pedissequamente anche ogni nefandezza renziana, dalla “buona scuola”, all’abolizione dell’articolo 18, sino a quella riforma autoritaria della Costituzione per la quale hanno votato Sì anche nel referendum (e questo non glielo perdoneremo mai). Quindi, degli opportunisti incalliti. Dopo il 4 dicembre 2016, non hanno azzardato nessuna autocritica, nessun ripensamento, si sono limitati a fare i pesci in barile come se il referendum non ci fosse stato, e tantomeno hanno avuto il coraggio di mettere sotto processo il segretario che li aveva portati alla disfatta. Quindi anche vigliacchi. Poi è venuto il congresso e si sono schierati come un sol uomo con la sua maggioranza, magari nell’illusione di poterlo condizionare, così perdendo l’ultima occasione di deporre il despota. Quindi anche imbecilli.
    Ora cercando di disarcionare il tiranno con una congiura di palazzo che, ovviamente, si sgonfierà appena Renzi tossirà. E dovremmo fare il tifo per questa congrega di opportunisti vigliacchi ed imbecilli? Ma, mi si dirà, Renzi non ammette nemmeno la sconfitta e “non ragiona”. Ma quando mai?! Renzi, che non è un’aquila, ma non è nemmeno scemo, lo sa perfettamente che si è trattato di una sconfitta pesantissima. Ma, proprio perché ragiona, sa di non poterlo ammettere: se lo facesse, dovrebbe anche riconoscere che questo è il risultato dei suoi errori, magari dovrebbe accettare di riaprire il discorso sulle coalizioni e subire veti e oltraggi vari, o addirittura farsi da parte. Come ha giustamente detto Sorgi: la coalizione di centrosinistra si fa se Renzi fa un passo indietro, ma Renzi non ha alcuna intenzione di fare quel passo. Ma così condanna il Pd a perdere? Sì, ma a Renzi del Pd non interessa assolutamente nulla, a lui interessa la sua posizione di potere anche a costo di una nuova scissione. E sa che di possibilità di arrivare al 40% non se ne parla nemmeno.
    Secondo voi perché è diventato proporzionalista? A lui interessa restare alla testa di quella che ormai è la lista Renzi. Questo non lo hanno capito i suoi “oppositori” della venicinquesima ora che, peraltro, non riescono a pensare altro che la minestra riscaldata del centrosinistra anni Novanta riunito intorno ad un nome nuovo: Romano Prodi! Renzi è un avversario, per la verità un po’ grossier, sleale, cafone, di destra, truffatore. Tutto vero, ma ha almeno la qualità di esistere e avere qualche consistenza; i suoi avversari sono mediocri ectoplasmi. E poi, diciamocelo, qui il problema non è quello di un miglior segretario del Pd ma quello di cancellare il Pd dalla carta geografica. E, sotto questo profilo, Renzi ci dà forti garanzie di farlo più in fretta degli altri, che magari se la trascinano per chissà quanto altri tempo. Ergo: dai Matteo, pestali!
    (Aldo Giannuli, “Forza Matteo: rottamali, smembrali, pattumierizzali!!!”, dal blog di Giannuli del 3 luglio 2017).

    Come al solito, non nascondo le mie opinioni e, nel nuovo braccio di ferro interno al Pd dico subito che sto dalla parte di Renzi senza se e senza ma. E vengo a spiegare il perché. Cominciamo da chi sono i suoi attuali contestatori: Romano Prodi, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Nicola Zingaretti, tutti militanti “antemarcia” del Pd che ne hanno condiviso ogni nefandezza pre-renziana, ma che poi hanno seguito pedissequamente anche ogni nefandezza renziana, dalla “buona scuola”, all’abolizione dell’articolo 18, sino a quella riforma autoritaria della Costituzione per la quale hanno votato Sì anche nel referendum (e questo non glielo perdoneremo mai). Quindi, degli opportunisti incalliti. Dopo il 4 dicembre 2016, non hanno azzardato nessuna autocritica, nessun ripensamento, si sono limitati a fare i pesci in barile come se il referendum non ci fosse stato, e tantomeno hanno avuto il coraggio di mettere sotto processo il segretario che li aveva portati alla disfatta. Quindi anche vigliacchi. Poi è venuto il congresso e si sono schierati come un sol uomo con la sua maggioranza, magari nell’illusione di poterlo condizionare, così perdendo l’ultima occasione di deporre il despota. Quindi anche imbecilli.

  • Siamo un virus che devasta la Terra: chi ci deviò il genoma?

    Scritto il 11/6/17 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    «Desidero condividere con te, Morpheus, una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura» (Agente Smith – Matrix). Perchè l’uomo non è in armonia con il cosmo? Il male è senza dubbio un fenomeno reale sperimentabile nel corso della storia umana. Ma allo stesso tempo è anche un mistero inspiegabile. Qual’è la sua origine? Se il cosmo e la natura umana fossero radicalmente malvagie, come si spiega la nostalgia del bene che abita il cuore umano, il rifiuto del male e dell’ingiustizia? D’altro canto, se il cosmo e l’uomo sono buoni, allora come si è giunti dunque a questa perversione?
    Spesso si giustifica il male come un’assenza di bene, ma a guardare bene le azioni dell’uomo nella storia, non possiamo limitarci a descrivere il male come una carenza di bene, ma come una vera e propria perversione, una perversione del senso dell’essere e dell’esistere. Il male degrada e violenta l’uomo. Esso lo pone in contraddizione con se stesso. Non è altro, dunque, che nonsenso e perversione. La gente se lo chiede: esiste un problema nella relazione tra l’uomo e l’uomo e tra l’uomo e il creato? Esiste una ferita nell’armonia cosmica che contraddistingue il creato e che l’uomo non è in grado di realizzare nel suo rapporto con la natura e con se stesso? Da più parti giungono segnali di un disagio profondo nel cuore umano, come se questo mondo non fosse il nostro. Non si comprende bene se siamo noi umani stranieri ad esso, vermi ingordi precipitati qui per caso, e perchè abbiamo ridotto questo pianeta, un giorno nostra culla accogliente, in un mondo ostile e minaccioso, tale da fargli assumere i nostri connotati di avidità distruttiva e di cinismo indifferente.
    L’uomo, da custode a predatore del creato. Forse bisogna andare all’inconoscibile giorno in cui l’uomo non avvertì più se stesso come natura, come figlio della terra. Da uomo della natura si scopri uomo nella natura, con niente simile a sé. Fu allora che si sentì padrone della Terra e non più custode, dominatore di tutto, per dimenticare l’orrore della sua fragilità e del suo destino di morte. Egli ridusse tutte le cose ad “oggetti” da tenere a bada e da sfruttare a suo piacimento. E’ così che nasce la cultura umana, la cultura tecnologica, del dominio e dello sfruttamento razionale, freddo, della natura. Per un po’ le cose vanno bene. La tecnica dà una mano allo spadroneggiare dell’uomo sulla terra, fino a quando il criterio che dirige ogni scelta sul pianeta non diventa l’economia. L’uomo-padrone arraffa quanto è economicamente utile e nel modo in cui è economicamente vantaggioso. Se serve, si devasta un territorio, lo si avvelena anche. Se serve, si cura un nemico o un operaio ferito. Se non serve, lo si lascia morire.
    La “new economy”, come oggi la si definisce, oltre a devastare la natura, schiaccia l’uomo, gli impedisce di vivere, a meno che non appartenga ad un ristretto numero di privilegiati. Perchè il creato è stato scippato a tutti ed è diventato proprietà di alcuni, con la complicità di chi ha definito diritto divino la proprietà privata. Così l’economia diventa incertezza quotidiana, guerra, annullamento dei diritti umani, menzogna, sovvertimento insensato della natura. Dobbiamo all’economia se oggi a presiedere uno Stato, molto spesso, non è un presidente ma la “banca”. La tecnica è il braccio armato dell’economia, una economia che annulla la dignità umana e che lo asserve all’avidità di pochi gruppi che influenzano la vita dell’intero pianeta. L’atomo gli fa vincere una guerra, ma inquina generazioni e generazioni. La biologia ci assiste nella fecondità umana, ma non è un suo problema se un giorno programmeremo, secondo le nostre esigenze, una generazione di atleti senza sentimenti, oppure soldati ottusi ed ubbidienti, oppure carne per il consumo sessuale. Gli organismi geneticamente modificati possono aumentare la produzione, ma la Monsanto si sente innocente se poi magari scopriremo che ci siamo avvelenati coi nostri soldi. Paradossale ma vero: l’economia non sa che farsene dell’uomo, non vuole la natura umana che in sé è collegata col tutto; vuole solo la propria autoconservazione. Cioè, in fondo, l’idolatria del dollaro e delle merci.
    Questa civiltà che ogni giorno, rispetto ad uomini e cose, si connota con il cinico usa e getta, non è ancora riuscita a farci dimenticare che se non siamo padroni della natura, tuttavia siamo ad essa inscindibilmente collegati, tanto che deturpare il creato è gesto autodistruttivo, e disprezzare l’uomo predispone ad assalire il creato. Una umanità senza sentimenti, puramente tecnica, non si accorge nemmeno della scomparsa di migliaia di specie animali e vegetali. Non prova nessuna nostalgia per una bellezza sprofondata nel nulla dopo millenni di cammino sulla terra. Dopo averne privato una parte consistente dell’umanità, abbiamo anche privato di diritti animali e piante. Questo discorso, nella logica occidentale viene presa per idiozia! Può una pianta, un animale avere dei diritti? Il punto è che sentendoci padroni di tutto, riconosciamo il diritto alla vita a chi vogliamo noi, secondo le convenienze. Si comincia a ridurre la pianta e l’animale ad oggetto, aprendo così la strada a vergognarci di quanto di animale c’è in noi! Fino a dire che anche certi umani sono sottouomini, privi di ogni dignità. E stabiliamo noi che deve vivere e chi deve morire.
    L’uomo è nato per distruggere? E’ biologicamente destinato alla distruttività? Quali dinamiche ostacolano o agevolano la possibilità di una società multiculturale? Con la fine della Guerra fredda, molti hanno sperato che si aprisse un’era di pace, in cui tanta parte delle risorse indirizzate a mantenere l’equilibrio del terrore potesse indirizzarsi finalmente al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Non è andata così. E’ solo cambiata la tipologia dei conflitti, con una diminuzione di quelli fra Stati, un aumento dei conflitti interni internazionalizzati, ossia di quelli che pur mantenendo l’epicentro all’interno di uno Stato finiscono per coinvolgere altre nazioni, e una prosecuzione inalterata degli altri conflitti interni, ma con potenziale coinvolgimento di un numero sempre superiore di persone, anche in relazione alla diffusione del terrorismo.
    E’ possibile guardare da una prospettiva scientifica a questo fenomeno? Può la scienza aiutare a chiarire i principali fattori che influenzano il rischio di conflitti e di violenze di massa? La domanda potrà apparire fuori luogo, o quanto meno fuori epoca, a chi ritiene che con l’Olocausto e la bomba atomica la scienza abbia “perso l’innocenza” e posto fine all’ultima delle “grandi narrazioni” che avevano permesso la coesione sociale e ispirato le utopie che si sono succedute nella storia dell’umanità, per aprire le porte a quella società post-moderna descritta da tanti sociologi, da Jean-François Lyotard a Zygmunt Bauman, che, divenuta “liquida” e priva di un senso di comunità, cerca di ritrovarlo attraverso la creazione di ghetti identitari più indifferenti che tolleranti verso gli altri e sempre pronti a entrarvi in conflitto.
    L’umanità è un virus per la Terra? Tutti noi potremmo essere meno umani di quanto pensiamo. Quantomeno è ciò che suggerisce una nuova ricerca, rivelando che il genoma umano è in parte un virus, per la precisione il Bornavirus, portatore di morte per cavalli e pecore. Sembra che 2 milioni di anni fa, questo virus abbia inserito parte del suo materiale genetico nel nostro Dna. La scoperta, pubblicata su “Nature” del 7 gennaio, dimostra come questi virus di tipo Rna possono comportarsi come i retrovirus (ad esempio Hiv) ed integrarsi stabilmente come ospiti dei nostri geni. Questo lavoro di ricerca potrebbe consentire di capirne molto di più sulla nostra evoluzione, rivelando come il mondo attuale sia anche il frutto del lavoro di un virus contenuto in ognuno di noi. «La conoscenza di noi stessi come specie è stata leggermente mal interpretata», afferma Robert Gifford, paleo-virologo presso l’Aaron Diamond Aids Research Center. Insomma non abbiamo tenuto conto che il Dna umano si evoluto anche grazie al contributo di batteri ed altri microrganismi e che le nostre difese immunitarie hanno fatto ricorso a quel materiale genetico per difendersi dalle infezioni. Sembra che fino all’8% del nostro genoma potrebbe ospitare materiale genetico dei virus.
    Nello studio, ricercatori giapponesi hanno trovato copie di un gene del Bornavirus inserite in almeno quattro zone diverse del nostro genoma. Ricerche condotte su altri mammiferi hanno rivelato la sua presenza in una vasta quantità di specie per milioni di anni. «Hanno fornito le prove di un reperto fossile con tracce del Bornavirus», afferma John Coffin, virologo alla Tufts University School of Medicine di Boston e coautore dello studio “Questo ci dice anche che l’evoluzione dei virus non è andata come pensavamo”. Nei risultati dello studio, i ricercatori guidati da Keizo Tomonaga della Osaka University, hanno scoperto che due geni umani sono molto simili al gene del Bornavirus. Gli scienziati sostengono che il questa “infezione preistorica” potrebbe essere una fonte di mutazione umana, specialmente nei nostri neuroni. A questo punto non si può che dare ragione all’Agente Smith di “Matrix” nella sua convinzione che soltanto un altro organismo sul pianeta si comporta come l’uomo: il virus.
    Quel misterioso salto evolutivo dell’Homo Erectus. Zecharia Sitchin in molti dei suoi libri afferma la teoria secondo la quale, in un passato molto remoto, un gruppo di viaggiatori extraterrestri provenienti dal pianeta Nibiru, chiamati Anunnaki, sarebbero scesi sulla Terra per sfruttare le risorse minerarie del nostro pianeta. Secondo Sitchin, avendo bisogno di manodopera per l’estrazione di minerali, gli Anunnaki pensarono di manipolare geneticamente la specie terrestre più simile a loro, innestandovi il proprio Dna: fu scelto un ominide, l’Homo Erectus. E’ possibile che questo intervento possa aver alterato il corso della naturale evoluzione umana? La nostra rapida evoluzione, incapace di armonizzarsi con i tempi e le regole della natura, potrebbe dipendere da questo? Nuovi ritrovamenti complicano il dibattito fra quanti ritengono che l’Homo Erectus abbia avuto origine in Africa orientale e quanti sostengono un’origine asiatica. Homo Erectus sarebbe stato in grado di fabbricare sofisticati utensili già 1,8 milioni anni fa, vale a dire almeno 300.000 anni prima di quanto si pensasse. Ad affermarlo è uno studio pubblicato su “Nature”, da un gruppo di paleoantropologi della Rutgers University e del Columbia University Lamont-Doherty Earth Observatory.
    Homo Erectus apparve circa 2 milioni di anni fa, andando a occupare vaste aree dell’Asia e dell’Africa. E proprio in Africa orientale si è ritenuto a lungo che si fosse evoluto, ma la scoperta nel 1990 di fossili altrettanto antichi in Georgia ha aperto la possibilità che esso abbia avuto origine in Asia. I nuovi reperti complicano ulteriormente la situazione in quanto gli strumenti trovati accanto ai fossili georgiani del sito di Dmanisi sono piccoli strumenti da taglio e raschiatori che mostrano caratteristiche piuttosto semplici simili a quelle della cultura di Olduvai, mentre fra quelli rinvenuti nella regione occidentale del Turkana, in Kenya, vi sono asce, picconi e altri strumenti innovativi che gli antropologi chiamano di tipo “acheuleano”, che permettevano di macellare e smembrare un animale per mangiarlo. Le abilità coinvolte nella produzione di uno strumento di questo tipo suggerisce fra l’altro che Homo Erectus fosse in grado di un pensiero “anticipatorio”.
    «Gli strumenti acheuleani rappresentano un grande salto tecnologico», ha osservato Dennis Kent, uno degli autori dello studio. «Perché Homo Erectus non avrebbe dovuto portare con sé questi strumenti con sé in Asia?». Gli strumenti analizzati provengono dal sito di Kokiselei, dove erano stati raccolti insieme a parte dei sedimenti immediatamente circostanti per poterne datare l’età. Parlando di salto tecnologico, vale la pena ricordare i misteriosi miti che narrano la nascita della civiltà e della tecnologia. Quasi tutte le culture umane raccontano di una divinità che nella notte dei tempi insegnò agli umani la fabbricazione di oggetti, l’agricoltura, le arti e le leggi civili. Basti pensare al mito greco di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per consegnarlo agli uomini, oppure al dio dei Maya Quetzalcoatl, che agli albori della storia umana consegnò la sapienza agli uomini, ed infine, al racconto biblico del peccato originale nel quale l’uomo, sedotto da un serpente, esce dall’ordine cosmico per divenire “simile a Dio”.
    Gli antichi e misteriosi miti della “Colpa di Origine”. Quasi tutte le culture umane hanno miti che raccontano di una “colpa di origine”, di un evento antico che avrebbe “deviato” l’uomo dal suo percorso evolutivo naturale. Il più conosciuto è sicuramente quello raccontato dalla Bibbia e secondo l’interpretazione di un autore cristiano del III secolo, Ireneo di Lione, quello di Adamo è stato un peccato d’impazienza, un voler bruciare le tappe. Benchè già creato ad “immagine e somiglianza” di Dio, l’uomo cede alle lusinghe del serpente che gli promette di farlo diventare uguale a Dio. Ma chi è questo serpente? E’ possibile che antichi esseri extraterrestri abbiano modificato il genoma umano, intervenendo indebitamente sull’evoluzione naturale dell’umanità?
    (“Perché l’evoluzione umana è fuori dall’armonia del cosmo?”, dal blog “Il Navigatore Curioso”, 2017).

    «Desidero condividere con te, Morpheus, una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura» (Agente Smith – “Matrix”). Perchè l’uomo non è in armonia con il cosmo? Il male è senza dubbio un fenomeno reale sperimentabile nel corso della storia umana. Ma allo stesso tempo è anche un mistero inspiegabile. Qual’è la sua origine? Se il cosmo e la natura umana fossero radicalmente malvagie, come si spiega la nostalgia del bene che abita il cuore umano, il rifiuto del male e dell’ingiustizia? D’altro canto, se il cosmo e l’uomo sono buoni, allora come si è giunti dunque a questa perversione?

  • Euro e vaccini: e io che credevo alla serietà dei 5 Stelle…

    Scritto il 16/5/17 • nella Categoria: idee • (12)

    Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?
    Questa lampante contraddizione nasconde una evidente paura che ha assalito i 5 Stelle da quando è esplosa la polemica sui vaccini. Messi sotto attacco da ogni angolo (compreso il “New York Times”, che non è poco), e accusati di essere anti-vax in modo categorico, i 5 Stelle non hanno trovato di meglio che fare una violenta retromarcia, per andare a nascondersi dietro ad una posizione palesemente allineata con il pensiero mainstream. La stessa cosa è successa con l’euro. Inizialmente i 5 Stelle denunciavano apertamente la moneta unica come evidente strumento per tenere in schiavitù le diverse economie nazionali, ma da un po’ di tempo a questa parte le loro posizioni si sono progressivamente annacquate, al punto da non essere più distinguibili dal pensiero mainstream. Il problema dei 5 Stelle è molto chiaro: quando sentono di poter diventare vulnerabili su un certo argomento, o fanno una netta marcia indietro (come nel caso dei vaccini) oppure annacquano talmente le loro posizioni (come nel caso dell’euro) da finire per assomigliare a tutti gli altri.
    Ma a questo punto a cosa servono i 5 Stelle? Se da partito di rottura stanno diventando lentamente allineati con gli altri su tutte le questioni più importanti, tanto vale votare Berlusconi oppure Matteo Renzi, no? Purtroppo i 5 Stelle seguono questa strategia convinti di poter conquistare più voti “fra gli indecisi”, ovvero fra coloro che sarebbero magari disponibili a votare per loro, ma che ne temono alcune posizioni troppo estreme. Ma in realtà avviene l’esatto contrario: l’indeciso rimane comunque indeciso (a causa delle posizioni poco chiare dei 5 Stelle), mentre chi prima li appoggiava apertamente rischia di sentirsi tradito dai loro voltafaccia, e di disamorarsi di questo movimento. Prendiamo ancora l’esempio dei vaccini: quante madri credono di aver conquistato, dicendo che «l’obbligo delle vaccinazioni non verrà messo in discussione»? Pochissime, in realtà, perchè comunque le madri che già sono favorevoli all’obbligo sono certamente persone che non votano 5 Stelle. E quante invece ne avranno perse? Moltissime, a mio parere, e cioè tutte quelle madri che speravano in una rimozione dell’obbligo vaccinale, proprio per poter decidere in piena libertà sul futuro e sulla salute dei propri figli.
    Quando ci si trova di fronte ad argomenti controversi non bisogna arretrare “per paura del nemico”, ma bisogna andargli incontro sostenendo con coraggio le proprie idee, in modo documentato ed informato. Io voglio poter votare per un movimento che sostiene apertamente e coraggiosamente quello che è giusto, documentando e argomentando in modo adeguato le proprie posizioni. Non me ne faccio nulla invece di un movimento che ha paura di tutto e di tutti, nascondendosi dietro ad un filo d’erba ogni volta che rischia di essere attaccato. Altrimenti, davvero, evviva la Democrazia Cristiana.
    (Massimo Mazzucco, “I 5 Stelle stanno perdendo la loro qualità migliore: la coerenza”, dal blog “Luogo Comune” del 9 maggio 2017).

    Se vanno avanti così i 5 Stelle non vinceranno mai le elezioni (con margini sufficienti per andare al governo, intendo) perchè non hanno più il coraggio delle proprie idee. Prendiamo ad esempio la posizione ambigua, e sostanzialmente contraddittoria, che hanno assunto di recente riguardo al problema dei vaccini. Ospite della Gruber un paio di settimane fa, Alessandro Di Battista si è sentito fare una domanda-trabocchetto da una giornalista di “Sky-Tv”: «Lei vaccinerà suo figlio [che sta per nascere, ndr]?». «Certamente», ha risposto Di Battista senza esitazioni, e dimenticandosi di aggiungere una qualunque obiezione rispetto all’obbligatorietà dei vaccini. In altre parole, Di Battista ha voluto far passare il messaggio che “per i 5 Stelle i vaccini, così come sono somministrati oggi, non rappresentano un problema”. Peggio di lui ha fatto Luigi Di Maio, che pochi giorni dopo ad Harvard ha dichiarato: «I vaccini in Italia sono obbligatori per legge. Noi non abbiamo nessuna intenzione di eliminare questa obbligatorietà. Per noi sono fondamentali, e vogliamo promuovere il più possibile la cultura dell’informazione». Ma scusa un attimo, caro Di Maio, che cosa ce ne facciamo noi dell’“informazione”, se poi tanto i vaccini restano obbligatori?

  • La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia

    Scritto il 01/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (17)

    Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
    Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».
    In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».
    Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».
    Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».
    Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».
    Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».
    Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».
    La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.
    Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.
    Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».
    È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».
    Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».
    Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».
    Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».
    Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».
    È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».
    Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».

    Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».

  • La gang dell’euro, associazione a delinquere per derubarci

    Scritto il 16/2/17 • nella Categoria: idee • (74)

    La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
    Ma ciò non accadrà, poiché l’Ue non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli Usa sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli Usa erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania. D’altro canto il presunto “disimpegno” americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E’ vero che gli Usa non sono riusciti a mettere Putin all’angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il “protezionismo coloniale” avrebbe qualche difficoltà.
    Senza una ostentazione di forza militare da parte degli Usa, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’Ue e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata. Non sarebbe comunque la prima volta che gli Usa distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente Usa, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli Usa in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva stati che erano apparsi prima inamovibili.
    Pur collocata dagli Usa sul maggiore scranno della Ue, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione Usa dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apiva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile. Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’Ue e dell’euro; e che l’Ue e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea.
    La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia. Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e “CialTrump” non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’Ue, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.
    L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, e il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici. A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’Ue. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.
    La farneticazione del presidente della Bce contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori. La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della pubblica amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa – non si sa quanto seriamente – anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari.
    (“Dopo i sacrifici per entrare nell’euro e i sacrifici per restare nell’euro, i sacrifici per uscire dall’euro”, dal blog Anarchismo.Comidad del 9 febbraio 2017).

    La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.

  • Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo

    Scritto il 10/2/17 • nella Categoria: idee • (2)

    Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
    Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».
    Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».
    Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».
    In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.
    Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».
    Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».
    Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».
    Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».

    Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».

  • Piovra invincibile? La teoria del complotto aiuta il potere

    Scritto il 25/1/17 • nella Categoria: idee • (5)

    La teoria del complotto? E’ perfetta, per il potere: se il “nemico” è onnipotente, imbattibile, tanto vale lasciar perdere e non provare nemmeno a sfidarlo, sarebbe inutile. «C’è una corruzione semantica: si usa abilmente la parola complotto quando si dovrebbe usare il termine da sempre utilizzato, cioè sfruttamento», sostiene il blog “La Crepa nel Muro”. Chiaro, no? Del resto, la parola “complotto” «è più astratta, più ad effetto, più intrigante», quindi «devia la mente delle persone e in qualche modo le affascina, le fa sognare creando quel clima di suspence da romanzo giallo». Di fatto, «invita la gente a rincorrere le teorie più strampalate, più suggestive, costruite ad arte con le combinazioni più fantasiose che legano tra loro le coincidenze più distanti», evocate apposta, «con affettazione, per impressionare». Risultato, nessuno muove più un dito: «Si paralizzano in tal modo le azioni delle masse, che non sanno contro chi prendersela», e questo aiuta a «nascondere i furbi di ogni tempo», quelli che «sanno abilmente approfittare di questa situazione di degrado e ignoranza collettiva, alimentandola costantemente per avvantaggiarsene».
    Oggi, in realtà – scrive “Aramires Araras” – ci sono semplicemente gli approfittatori del sistema, quelli di sempre ma con armi più raffinate», che sono «i banchieri, i grandi finanzieri, i personaggi a capo delle multinazionali» che hanno in pugno «l’economia, la politica e tutti i poteri mondiali». Hanno un immenso potere, certo, «perché è la gente che glielo consegna». Siamo noi, «lavorando per loro incoscientemente», che riusciamo ad «alimentare il sistema dal basso». Non ci vorrebbe molto a capire il meccanismo, ma è meglio non farsi illusioni: «Questo risveglio è un’utopia, non avverrà mai», sostiene “Araras”, «innanzitutto perché l’ignoranza è una malattia congenita dalla quale la massa non potrà mai guarire». E poi, soprattutto, «perché la gente deve mangiare, deve vivere», quindi «ha bisogno del denaro, della finanza, del conto in banca, della carta di credito, delle transazioni on line». Ha necessità di «prendere l’aereo, andare in vacanza, fare la spesa al centro commerciale». E ha bisogno «dei prodotti per la casa, di pagare il mutuo, l’elettricità e gli altri consumi», ha “bisogno” «di guardare la televisione, di navigare in Internet, di parlare al cellulare, di andare in macchina, di fare sesso, di andare in discoteca, di riscaldarsi per l’inverno e rinfrescarsi per l’estate».
    Questa è la società, sintetizza il blog: «Senza queste cose crollerebbe». Ma tutto ciò «non può essere controllato dalla collettività», perché il sistema è troppo complesso per essere gestito da una moltitudine, «ed ecco allora che si crea la paralisi». Qualcuno prova a contrastarlo? Il sistema «dorme su dieci cuscini e se la ride di tutti coloro che, come noi, gli inveisce contro o grida impotente e puerilmente al complotto». Poi, certo, la crisi può deflagrare: «Quando il sistema, cioè la società che gira nel modo suddetto, entra in saturazione e non ce la fa più a ruotare, si scatenerà una guerra, sempre gestita dai suddetti signori, perché costoro hanno in mano anche gli apparati militari». Anche in caso di conflito armato, comunque, «ci sarà la manovalanza – costituita dai soldati che prendono lo stipendio – che puntualmente eseguirà gli ordini: e così la ruota ripartirà». Soluzioni? Guardarsi innanzitutto “dentro”. E maneggiare con cura le più ardite “teorie del complotto”, specie se troppo fantasiose: i famosi “rettiliani” di David Icke servono solo a screditare pubblicamente chi ci crede, nonché a consolidare l’immagine di un nemico mostruoso, dunque invincibile.

    La teoria del complotto? E’ perfetta, per il potere: se il “nemico” è onnipotente, imbattibile, tanto vale lasciar perdere e non provare nemmeno a sfidarlo, sarebbe inutile. «C’è una corruzione semantica: si usa abilmente la parola complotto quando si dovrebbe usare il termine da sempre utilizzato, cioè sfruttamento», sostiene il blog “La Crepa nel Muro”. Chiaro, no? Del resto, la parola “complotto” «è più astratta, più ad effetto, più intrigante», quindi «devia la mente delle persone e in qualche modo le affascina, le fa sognare creando quel clima di suspence da romanzo giallo». Di fatto, «invita la gente a rincorrere le teorie più strampalate, più suggestive, costruite ad arte con le combinazioni più fantasiose che legano tra loro le coincidenze più distanti», evocate apposta, «con affettazione, per impressionare». Risultato, nessuno muove più un dito: «Si paralizzano in tal modo le azioni delle masse, che non sanno contro chi prendersela», e questo aiuta a «nascondere i furbi di ogni tempo», quelli che «sanno abilmente approfittare di questa situazione di degrado e ignoranza collettiva, alimentandola costantemente per avvantaggiarsene».

  • L’Italia nell’Ue finirà all’inferno: così parlò Craxi, 20 anni fa

    Scritto il 22/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (47)

    Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».
    «Ciò che si profila, ormai – profetizzava Craxi – è un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre le riserve, le preoccupazioni, le prese d’atto realistiche, si stanno levando in diversi paesi che si apprestano a prendere le distanze da un progetto congeniato in modo non corrispondente alla concreta realtà delle economie e agli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati». Il governo italiano, visto l’andazzo, «avrebbe dovuto, per primo, essendo l’Italia, tra i maggiori paesi, la più interessata, porre con forza nel concerto europeo il problema della rinegoziazione di un Trattato che nei suoi termini è divenuto obsoleto e financo pericoloso». Rinegoziare Maastricht? Nemmeno per idea: «Non lo ha fatto il governo italiano. Non lo fa l’opposizione, che rotola anch’essa nella demagogia europeistica. Lo faranno altri, e lo determineranno soprattutto gli scontri sociali che si annunciano e che saranno duri come le pietre». A tener banco, ancora, saranno «i declamatori retorici dell’Europa», ovvero «il delirio europeistico che non tiene conto della realtà». Sbatteremo contro «la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione», un disastro che – secondo il “profeta” Craxi – è stato quindi accuratamente programmato.
    L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Già, il mondo globalizzato: «La globalizzazione non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Questo mortificante mutamento, aggiunge Craxi, si colloca «in un quadro internazionale, europeo, mediterraneo, mondiale, che ha visto l’Italia perdere, una dopo l’altra, note altamente significative che erano espressione di prestigio, di autorevolezza, di forza politica e morale». Non è certo amica della pace questa «spericolata globalizzazione forzata», in cui ogni nazione perde la sua identità, la consapevolezza della sua storia, il proprio ruolo geopolitico.
    «Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione, aggiunge Craxi, si avverte «il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare», opportunamente “accolti” da politici perfettamente adatti a questo nuovo ruolo di maggiordomi. Un nome? Romano Prodi. «Nel vecchio sistema – scrive Craxi – il signor Prodi era il classico sughero che galleggiava tra i gruppi pubblici e i gruppi privati con una certa preferenza per quest’ultimi ed una annoiata ma non disinteressata partecipazione ai palazzi dei primi». Come presidente dell’Iri non era nient’altro che «una costola staccata dal sistema correntizio democristiano» e, lungo il cammino, si era dimostrato «poco più di un fiumiciattolo che rispondeva sempre, sulle cose essenziali, alla sua sorgente originaria». Il “signor Prodi”, come leader politico? «Nient’altro che il classico bidone». Infatti se ne sono accorti tutti. Vent’anni dopo.

    Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».

  • Page 7 of 10
  • <
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
  • 6
  • 7
  • 8
  • 9
  • 10
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo