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Archivio del Tag ‘Parlamento Europeo’

  • Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra

    Scritto il 30/4/14 • nella Categoria: idee • (5)

    La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
    L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».
    L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».
    Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».
    La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».
    Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».
    Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.
    Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».

    La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».

  • La lunga marcia dei no-euro, assedio all’Europarlamento

    Scritto il 29/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.
    Per il voto alla Camera dei Comuni i sondaggi sono diversi; certo se questo dato fosse confermato sarebbe comunque piuttosto clamoroso che un partito che combatte da sempre contro l’adesione della Gran Bretagna all’Unione Europea in pochi anni sia passato da una relativa marginalità al primato nazionale, per quanto in questa specifica consultazione. Il Regno Unito non è però l’unico paese Ue dove alle prossime europee sarà possibile un’affermazione dei no-euro. Il “Movimento 5 Stelle” è una formazione che nella stampa europea viene definita no-euro, anche se il M5S non è assimilabile ai partiti di destra populista che combattono contro Bruxelles. Alle europee il primato dei 5 Stelle è un’ipotesi al momento non così probabile, ma neppure impossibile. Il fronte no-euro al Parlamento di Strasburgo sarà guidato da Marine Le Pen, e il suo Front National potrebbe conseguire una prima posizione alle consultazioni del 25 maggio.
    Come mostra la media dei sondaggi realizzata da “Electionista” su Twitter, il partito della destra repubblicana Ump e la formazione di Marine Le Pen sono praticamente appaiate poco sopra il 20%. Per il Front National si tratterebbe di una crescita clamorosa, visto che 5 anni fa raccolse poco più del 6%. I Paesi Bassi, come la Francia e l’Italia, sono una delle sei nazioni fondatrici del processo di unificazione dell’Europa. Anche l’elettorato olandese potrebbe consegnare ai no-euro del “Partito della Libertà” di Geert Wilders il primato nazionale alle consultazioni per l’Europarlamento. Al momento il Pvv è terzo dietro i liberali progressisti, ora all’opposizione, e i liberali conservatori del premier Rutte, ma il margine di distacco è molto ridotto. La terza formazione assai rilevante che aderisce al blocco no euro della destra populista sono i liberali austriaci della Fpö di Heinz-Christian Strache. Anche in Austria le europee potrebbero essere vinte dai no -uro, ora al terzo posto nella media delle intenzioni di voto, dietro ai popolari e ai socialdemocratici.
    In Germania i no-euro di “Alternativa per la Germania”, che hanno recentemente rifiutato la proposta di alleanza offerta loro da Marine Le Pen, non vinceranno le elezioni europee ma sicuramente entreranno all’Europarlamento, con un risultato in costante crescita, che danneggia la Cdu della vera leader dell’Ue, Angela Merkel. Come si vede nell’ultimo sondaggio pubblicato su “Bild”, “Alternativa per la Germania”, Afd, è rilevata al 7,5%, in aumento rispetto al 4,9% conseguito alle ultime federali. E’ difficile definire “Syriza” un partito no-euro, visto che la formazione guidata da Tsipras è favorevole alla moneta unica. Le critiche radicali alle politiche di austerità hanno però tratti accomunabili al variegato fronte che combatte contro i governi dell’Ue, ed in questa prospettiva la possibile affermazione di “Syriza” in Grecia alle prossime europee rappresenterebbe uno scossone a Bruxelles non così dissimile dal primato nazionale del Front National della Le Pen o del Pvv di Wilders.
    (Andrea Mollica, “I paesi dove i no-euro hanno chance di vittoria alle europee”, dal blog di Gad Lerner del 28 aprile 2014).

    In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.

  • La guerra di Ugo: il 25 aprile e l’euro-Italia di Renzi

    Scritto il 25/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?
    Il 25 aprile, per decenni ricorrenza sacra alla sinistra ufficiale (quella del partito di Gramsci, Togliatti, Berlinguer) pare ormai una questione da nonni, capace di appassionare soltanto novantenni – oppure ventenni, ma con sciarpa No-Tav. Nonni che hanno lasciato un segno, in valle di Susa e altrove. Come il grande Giorgio Bocca, che nel 2005 – dopo il primo atto di forza contro la popolazione, ostile alla grande opera più inutile d’Europa – scrisse, testualmente: se qualcuno mi parla ancora di Tav Torino-Lione tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo sepolto nell’aprile del ‘45. Almeno dieci anni prima, sempre in valle di Susa, i futuri No-Tav ascoltarono parole profetiche da un altro venerabile nonno, Nuto Revelli, partigiano sulle stesse montagne di Bocca. Vi vogliono remissivi e disclipinati – disse Nuto – ma voi, ragazzi, imparate a ribellarvi: dovete dare fastidio, al potere. Non dategliela vinta, resistete, non arrendetevi.
    Nuto Revelli fiutava i tempi: l’eclissi della sinistra come patria politica dei diritti sacrificati alla nuova dittatura, quella del mercato. Oggi, i pronipoti di Togliatti – la sinistra di potere – inaugura a Torino l’Hotel Gramsci, lusso a 5 stelle sulle ceneri della casa del più grande intellettuale e militante della sinistra italiana. Ieri, Massimo D’Alema autorizzava i bombardamenti sulla Jugoslavia, dopo che gli infiltrati dell’Unione Europea – a cominciare da Romano Prodi – avevano impacchettato l’Italia, all’insaputa degli italiani, dentro trattati-capestro i cui effetti catastrofici si rivelano al grande pubblico soltanto oggi, caduto lo schermo di comodo dell’antiberlusconismo. Su quel palco ora volteggia Renzi, l’illusionista che prende ordini dalla Jp Morgan tramite Tony Blair. Sa benissimo che i devoti elettori del Pd lo voteranno lo stesso, anche se rottama gli ultimi diritti sociali come vuole il neoliberismo dell’élite, l’oligarchia che sta restaurando il feudalelismo in Europa. Con tanti saluti a Ugo Berga, Giorgio Bocca, Nuto Revelli e tutti gli altri nonni, per i quali il 25 aprile era la data di una vittoria storica: un mondo onesto e pulito, fatto di pari opportunità per tutti, non solo per i ricchi.

    Ugo Berga è un anziano signore di novant’anni, nipote di Palmiro Togliatti. Vive in valle di Susa, dove ha combattuto come partigiano. Dice: oggi, i partigiani della libertà e della giustizia sono i No-Tav, coi quali peraltro l’anziano Berga solidarizza, anche con happening a Chiomonte, a cento passi dalla baita in cui Beppe Grillo qualche anno fa violò i sigilli giudiziari, finendo anche lui in tribunale. Dalla parte dei No-Tav – cioè della libertà e della giustizia, per dirla con nonno Ugo – è dunque schierato il populista Grillo, mentre gli ultimi eredi piemontesi di quello che fu il partito di Togliatti – il sindaco torinese Fassino, l’ex sindaco Chiamparino ora in corsa per la Regione Piemonte, l’ex presidente Mercedes Bresso candidata al Parlamento Europeo – sono i più acerrimi avversari degli “eretici” valsusini. Proprio loro, gli ex-Pci, sono i nemici giurati dei ragazzi per i quali fa il tifo il partigiano comunista Ugo Berga, nipote di Togliatti. Dov’è l’errore?

  • Bruxelles teme il voto: boom dei no-euro in tutta Europa

    Scritto il 24/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Aria di rivolta elettorale contro l’euro e l’Unione Europea gestita dalla Troika: i partiti euroscettici e sovranisti potrebbero ottenere quasi la metà dei seggi al Parlamento Europeo, per protesta contro la disoccupazione dilagante e la recessione imposta dall’austerity. Allarme rosso, dunque, per l’establishment di Bruxelles: secondo lo European Policy Institute Network, la grande crisi ha prodotto un’ondata di indignazione che si abbatterà sull’Unione Europea il prossimo 25 maggio. Mentre in Italia il Movimento 5 Stelle continua a crescere, superando Berlusconi e avvicinandosi al Pd di Renzi, il sondaggio Infop realizzato in Francia per “Paris Match” incorona il Front National di Marine Le Pen primo partito col 24%. Stesso scenario in Gran Bretagna, dove lo Ukip di Nigel Farage si appresta a superare conservatori e laburisti. E se in Austria gli anti-europeisti sono dati al 20%, in Olanda stravince Geert Wilders, leader del “partito della libertà”.
    In linea con l’andamento europeo anche l’Italia, dove – secondo l’ultimo sondaggio di “Scenari politici”, in controtendenza rispetto ai sondaggi più diffusi in televisione – il Partito democratico scende al di sotto della temuta soglia del 30% dei consensi, quasi raggiunto dal Movimento 5 Stelle in crescita continua (quasi al 28%). L’altra notizia riguarda la lista “L’Altra Europa”, capeggiata da Alexis Tsipras, valutata saldamente al di sopra della soglia di sbarramento (4,8%) e quindi al riparo dal rischio-esclusione. «A poco meno di un mese dalle elezioni europee del 25 maggio – prende nota il “Fatto Quotidiano” – il Pd è al primo posto, dato al 28,6% dei consensi, seguito dal M5S al 27,9% e Forza Italia al 18%. Sorprendente la percentuale della Lega Nord che si attesta al 7%. L’alleanza tra Nuovo Centro Destra e Udc viene data al 6%, Fratelli d’Italia al 4,2%. Scelta Europea si attesta al 2,5% e non supera la soglia di sbarramento del 4%, insieme agli altri partiti dati all’1%».
    I dati, raccolti attraverso un campione di 4.000 interviste tra il 15 e il 17 aprile, sono in molto differenti da quelli dell’ultimo sondaggio Ixè, realizzato in esclusiva per “Agorà” (Rai3). «Rispetto alle intenzioni di voto diffuse dal programma Rai, il Pd (dato al 32,8%) perde circa quattro punti percentuali, mentre il M5S ne guadagna due. Identico in entrambi è il risultato di Forza Italia che si attesta in entrambi al 18%». Sorprendenti, nel sondaggio di “Scenaripolitici.com” i risultati della Lega Nord, che rispetto a quelli Ixè guadagna poco meno di due punti, e quelli della lista di Tsipras. La Lega è la formazione con la campagna elettorale più ostile all’euro, sommata a quella di Fratelli d’Italia (totale, oltre il 10% delle intenzioni di voto). Un altro 33% lo si aggiunge sommando Grillo e Tsipras, anche se la loro posizione – sull’euro e l’Ue – non è così radicale come quella dei no-euro italiani, francesi, inglesi e olandesi. In ogni caso la tendenza è chiara: nonostante i giochi di prestigio di Renzi, il partito dell’establishment italiano pro-euro finirebbe in minoranza, sconfitto da un’opinione pubblica prostrata dalla crisi indotta dalla moneta unica.

    Aria di rivolta elettorale contro l’euro e l’Unione Europea gestita dalla Troika: i partiti euroscettici e sovranisti potrebbero ottenere quasi la metà dei seggi al Parlamento Europeo, per protesta contro la disoccupazione dilagante e la recessione imposta dall’austerity. Allarme rosso, dunque, per l’establishment di Bruxelles: secondo lo European Policy Institute Network, la grande crisi ha prodotto un’ondata di indignazione che si abbatterà sull’Unione Europea il prossimo 25 maggio. Mentre in Italia il Movimento 5 Stelle continua a crescere, superando Berlusconi e avvicinandosi al Pd di Renzi, il sondaggio Infop realizzato in Francia per “Paris Match” incorona il Front National di Marine Le Pen primo partito col 24%. Stesso scenario in Gran Bretagna, dove lo Ukip di Nigel Farage si appresta a superare conservatori e laburisti. E se in Austria gli anti-europeisti sono dati al 20%, in Olanda stravince Geert Wilders, leader del “partito della libertà”.

  • Sveglia, sinistra: i nemici dell’Europa sono l’euro e l’Ue

    Scritto il 01/4/14 • nella Categoria: idee • (2)

    La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.
    «Oggi – scrive Grazzini su “Micromega” – bisogna avere il coraggio di affrontare dei punti di frattura con il governo di questa Ue che nessun cittadino europeo ha eletto, che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà». I promotori della “Lista Tsipras” hanno scelto di non fidarsi più della socialdemocrazia europea, e in Italia del Pd, «che sono tra i promotori e complici di obbrobri ultraliberisti come il Fiscal Compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione». Anche il governo Renzi, dopo quelli di Letta e di Monti, «si fa garante del rispetto dei crescenti vincoli europei». Grazzini non ha dubbi: «Siamo già allo stremo, ma se seguiremo la politica della Ue e di Renzi faremo la fine della Grecia». E dal centrosinistra, solo e sempre propaganda: a parole, Martin Schulz è contro la disastrosa politica europea di intransigenza liberista, ma la Spd «ha finora promosso la deregolamentazione finanziaria e la famigerata politica autoritaria europea di disoccupazione e di immiserimento della Ue».
    La cieca politica di austerità dettata dalla Ue e dalla Troika (Bce, Fmi, Ue) sarà sempre più intrusiva, rigida e antisociale, continua Grazzini. «La Ue impone ai governi di tagliare il costo del lavoro e il welfare in nome della competitività. La sua politica è destinata a provocare crisi economiche e democratiche dei paesi sottoposti ai suoi diktat, o anche a provocare il crollo dell’euro (e quindi della Ue stessa)». Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea e protagonista dello sciagurato ingresso dell’Italia nell’Eurozona, oggi ha preso atto della politica egemonica tedesca e propone di costruire un’alleanza alternativa tra Italia, Francia e Spagna e gli altri paesi del Sud Europa per contrastare «la folle (ma lucida) politica della Merkel». Soluzione impraticabile, avverte l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, intervistato dal “Corriere della Sera”: la Francia del socialista Hollande non accetterà mai di allearsi con noi, perché ha fatto della partnership con la Germania sull’euro il suo scudo (di latta) di fronte alla speculazione internazionale.
    Nulla all’orizzonte che preluda a qualcosa di diverso dal disastro nel quale stiamo sprofondando: «Ormai i bilanci dei paesi Ue vengono decisi non dai parlamenti e dai governi nazionali ma in maniera preventiva a Bruxelles, Francoforte e Berlino. E chi sgarra avrà delle sanzioni e poi verrà commissariato dalla Troika». Il disinvolto Renzi? «Magari otterrà qualche contentino da Bruxelles, ma il suo governo probabilmente cadrà proprio perché sarà costretto a trasmettere le politiche impopolari dettate dalla Ue», fatte di «lavoro sempre più precario, chiusura di aziende, disoccupazione dilagante ed eliminazione dei servizi sociali». Risultato: «Così dalla crisi non usciremo mai. E la crisi, soprattutto in Italia, potrebbe diventare irreversibile. La Grecia è vicina».
    Per rifondare l’Europa, dice Grazzini, occorre essere euroscettici. La sinistra respinge l’euroscetticismo come marchio infamante, denunciando le destre nazionaliste, xenofoba e neofasciste, il populismo nazionalista anti-europeo, senza vedere il vero pericolo, cioè l’autoritarismo dell’Ue e che fa a pezzi la nostra libertà, la nostra democrazia. «L’euroscetticismo ci riporta alla realtà», avverte Grazzini, citando uno dei maggiori storici marxisti, Eric Hobsbawn, fa poco scomparso, pessimista sul futuro europeo: «Penso che bisognerà abbandonare la speranza di trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più di una semplice alleanza di Stati e di una zona di libero scambio». Troppo diversi gli interessi delle diverse aree, troppo liberista l’ideologia della Ue e troppo forte l’egemonia della Germania, ciecamente convinta «dell’austerità forzata e di questa architettura deflazionista e repressiva dell’euro perché sia possibile invertire facilmente la direzione di marcia».
    L’Europa unita, continua Grazzini, è importante se offre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli, non se genera povertà, disoccupazione, divisione e democrazie autoritarie e magari conflitti sanguinosi. «L’unione europea va, se possibile, salvaguardata nelle sue parti migliori, ma non adorata». Sicché, «occorre lottare per democratizzare la Ue e per dare al Parlamento Europeo il potere di fare proposte di legge», potere oggi affidato alla sola Commissione. La parola chiave, per uscire dal tunnel, si chiama sovranità. «E’ indispensabile rivalutare la sovranità nazionale, e quindi anche la sovranità monetaria», perché «solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle rigide politiche liberiste e neocoloniali della Ue e della Germania, e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Solo così i governi europei potranno trovare delle forme efficaci di cooperazione per resistere alla speculazione finanziaria internazionale».
    Grazzini propone apertamente un’uscita concordata dall’euro, non-moneta palesemente insostenibile. «Bisognerebbe abolire il Trattato di Maastricht e concordare politicamente il ritorno alla sovranità monetaria degli Stati». Per prevenire la speculazione internazionale, la Ue e la Bce dovrebbero però anche creare e gestire, sulle orme di quanto proponeva Keynes a Bretton Woods, una moneta comune europea, l’Euro-Bancor, di fronte al dollaro e allo yen. «Purtroppo però gran parte (ma non tutta) della sinistra radicale ritiene che la questione della sovranità nazionale sia da demonizzare perché di destra. Eppure senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia».
    Senza moneta sovrana, resta solo questa Europa di oggi, «che schiaccia le nazioni» e le lascia in balia dello strapotere speculativo della finanza. «La sinistra – in particolare quella che si richiama al marxismo – dovrebbe ricordare le nozioni di imperialismo e di dominazione straniera, e dovrebbe sapere che le forze progressiste hanno sempre appoggiato e promosso le lotte di liberazione nazionale, in Sud America, in Africa e in tutti i paesi del mondo, di fronte all’oppressione straniera». Ora che più evolute forme di neocolonialismo economico minacciano per la prima volta anche i paesi europei, conclude Grazzini, sembra che una parte della sinistra afflitta da masochismo chieda “ancora più Europa”.

    La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.

  • Voto inutile, D’Andrea: la truffa delle europee 2014

    Scritto il 31/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.
    Se appare ormai evidente l’insostenibilità economica e democratica dei trattati-capestro europei, da Maastricht al Fiscal Compact, il blogger ricorda che «sono gli Stati dell’Unione che possono modificare i trattati, non i cittadini attraverso i loro rappresentanti eletti in Parlamento», che ha poteri paragonabili a quelli del collegio sindacale di un’azienda, non certo dell’assemblea degli azionisti. Per l’approvazione del bilancio annuale dell’Ue, Strasburgo «non ha effettivi poteri, perché la richiesta unanimità dei membri del Consiglio impone di trovare l’accordo a livello intergovernativo». Idem per la funzione legislativa: «La regola è che “un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente”. Quindi il Parlamento “legifera” ma ha una limitata iniziativa: in linea di principio legifera su impulso della Commissione. E comunque quando legifera, lo fa per per attuare i trattati».
    Quanto alle procedure di “revisione ordinaria”, oltre che dal Parlamento Europeo, un progetto di modifica «può essere presentato da qualsiasi Stato membro, dalla Commissione e dal Consiglio», il cui potere è invece vincolante: «Il Consiglio Europeo, a maggioranza semplice, decide se è opportuno procedere alle modifiche proposte: può quindi decidere che non sia opportuno. Basta dunque che la maggioranza degli Stati, ossia dei governi, sia contraria alla modifica proposta, che la procedura di revisione nemmeno inizia». E dato che l’Unione Europea è una organizzazione internazionale fondata sui trattati, «le modifiche dei trattati implicano sempre l’unanimità nel Consiglio europeo», ovvero «il consenso di tutti i governi o capi di Stato». Brutte notizie, dunque, per i “sovranisti”, cioè «coloro che intendono riconquistare la sovranità», per ridefinire su basi eque e democratiche la partnership tra Stati europei. Dunque: «Un partito che avesse una posizione politica chiaramente sovranista che si presenta a fare alle elezioni del Parlamento Europeo?».
    Sulle barricate contro Bruxelles c’è ad esempio la Lega Nord, ostile essenzialmente all’euro. Tesi: «Si può “recedere da alcuni articoli dei trattati” e segnatamente dalle norme che riguardano l’unione monetaria e assumere, secondo la propria volontà, la posizione che oggi hanno l’Inghilterra e la Danimarca, ovvero mutare la posizione dell’Italia da Stato con l’euro a Stato con deroga». Secondo D’Andrea, «se mai l’Italia assumesse unilateralmente questa decisione di rottura dell’ordine giuridico europeo, il rischio di conflitti diplomatici, commerciali e giurisdizionali sarebbe molto maggiore che non in caso di recesso dai trattati». In ogni caso, aggiunge il blogger, i partiti che sostengono questa posizione «non hanno alcuna ragione per candidarsi alle elezioni europee (salvo voler consolidare il potere, eleggere deputati e prendere rimborsi). In che modo, infatti, entrando nel Parlamento Europeo, la Lega agevolerebbe la realizzazione dell’obiettivo politico che essa dichiara di perseguire, il quale implica una decisione del governo nazionale? I deputati europei non potrebbero apportare alcun contributo all’obiettivo prefissato».
    Poi ci sono il Movimento 5 Stelle e la “Lista Tsipras”, che intendono candidarsi a Strasburgo per “modificare” i trattati. «Questi due gruppi politici non intendono né recedere dall’Unione Europea, né recedere dal solo euro, bensì modificare i trattati», a cominciare dal Fiscal Compact. Attenzione: anche nel caso (improbabile) in cui il Parlamento Europeo dovesse votare a maggioranza la richiesta di abolizione del “patto fiscale”, quel voto potrebbe essere «vanificato e mortificato dal Consiglio Europeo a maggioranza semplice, nonché modificato (nel contenuto del progetto) dalla Convenzione nella raccomandazione e stravolto discrezionalmente dalla Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri». L’assemblea degli eurodeputati – l’unica struttura democratica dell’Ue, eletta dai cittadini – non ha il potere di modificare i trattati. «Che senso ha, dunque, che un partito o movimento che è critico nei confronti dei trattati europei e voglia modificarli si candidi al Parlamento Europeo? Questo partito prende in giro gli elettori o è diretto da incompetenti. Eleggere parlamentari europei non serve assolutamente a nulla per raggiungere l’obiettivo dichiarato».
    «I trattati europei – conclude D’Andrea – saranno modificati soltanto quando la Francia, l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o forse la Spagna recederanno e recedendo costringeranno le controparti ad addivenire a modifiche sostanziali dei trattati, sempre che lo Stato recedente desideri la modifica dei trattati». Rispetto all’Ue, gli Stati «cooperano come il lavoratore subordinato al datore di lavoro», perché a Bruxelles «la cooperazione è l’ideologia per ingannare gli ingenui». Quindi, non si scappa: chi vuol veramente modificare i trattati europei deve prima «conquistare il potere all’interno dello Stato nazionale». Meglio boicottare le elezioni, se poi i parlamentari europei saranno chiamati sostanzialmente ad attuare quei trattati. «L’unica vera ragione per la quale M5S, Lega e lista Tsipras si candidano alle elezioni europee è di ottenere visibilità, posti da deputato, finanziamenti e successo da spendere sul piano politico nazionale». Chi tifa per l’astensionismo ha di che sperare: nel 2009 votò solo il 43% dei cittadini europei, in Italia il 65%. Il vero successo dei sovranisti e di coloro che intendono modificare i trattati europei, dice D’Andrea, sarebbe abbassare ulteriormente l’affluenza italiana, al di sotto del 50%.

    Vi hanno raccontato che queste elezioni europee saranno decisive per il futuro del continente prostrato dall’austerity? Sperare di cambiare le cose con il voto di maggio è una pia illusione, sostiene Stefano D’Andrea, perché chi esibisce propositi bellicosi contro Bruxelles in realtà non ha un vero programma, e perché – soprattutto – il Parlamento Europeo non conta niente. Boicottare le elezioni? Non occorrono appelli: l’astensionismo è in crescita costante. Se non altro, scrive D’Andrea su “Appello al popolo”, rinunciare alle urne può contribuire a delegittimare ulteriormente l’Unione Europea, in attesa che si “estingua” da sola, nell’unico modo possibile: cioè l’uscita unilaterale di uno dei paesi-cardine, come la Francia di Marine Le Pen o l’Inghilterra, che ha già messo in agenda un referendum per scegliere se restare o meno nell’istituzione comunitaria.

  • Il socialista Hitler: riuscirò dove Marx e Lenin fallirono

    Scritto il 30/3/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.
    George Watson così ha scritto nel “The Lost Literature of Socialism”: «E’ chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che Hitler ed i suoi collaboratori credevano di essere socialisti e che altri, inclusi i socialdemocratici, la pensavano allo stesso modo». L’indizio è nel nome. Le generazioni successive della sinistra hanno cercato di spiegare la presenza (imbarazzante) del termine “socialista” nel nome di quel partito, Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori Tedeschi, definendola come una cinica trovata pubblicitaria, o un’imbarazzante coincidenza. Il termine, invece, indicava esattamente quello che lo Nsdap si proponeva. Ad Hermann Rauschning, un prussiano che aveva brevemente lavorato per i nazisti – prima di respingere quest’ideologia e fuggire dal paese – e che aveva molto ammirato il pensiero dei rivoluzionari conosciuti in gioventù e che credeva fossero, però, più dei chiacchieroni che dei prevaricatori, Hitler, in effetti, disse: «Ho messo in pratica ciò che questi venditori ambulanti, questi pennivendoli, avevano timidamente cominciato a fare», aggiungendo che l’intero nazionalsocialismo si basava su Marx.
    Hitler credeva che l’errore di Marx fosse stato quello di favorire la guerra di classe, invece dell’unità nazionale – ovvero di aver volto i lavoratori contro gli industriali, invece di arruolare entrambi i gruppi nel rispettivo ordine corporativo. Il suo scopo, come sosteneva il suo consigliere economico, Otto Wagener, era quello di convertire il “Volk” tedesco al socialismo, senza eliminare al contempo i vecchi individualisti – termine con il quale indicava i banchieri ed i proprietari della fabbriche – che potevano meglio servire il socialismo, egli pensava, generando entrate per lo Stato. «Quello che il marxismo, il leninismo e lo stalinismo non sono riusciti a raggiungere – sosteneva Wagener – saremo in grado di ottenerlo noi». I lettori di sinistra staranno ormai ribollendo. Ogni volta che tocco quest’argomento, quelli che si ritengono progressisti e considerano l’antifascismo come parte della propria ideologia, danno in escandescenze. Beh, ragazzi, forse ora sapete com’è che ci sentiamo noi conservatori quando associate liberamente il nazismo con “la destra”.
    Per essere chiaro, non credo assolutamente che le sinistre moderne abbiano delle subliminali tendenze naziste, o che il loro odio per Hitler sia in alcun modo una finzione. Non è questo quello che voglio dire. Quello che voglio sostenere, in tutta sincerità, è che la continuità ideologica tra libero mercato e fascismo è un’idea altrettanto falsa. L’idea che il nazismo non sia che una forma di conservatorismo, seppur più estrema, si è fortemente insinuata nella cultura popolare. Ce ne rendiamo conto non solo quando dei foruncolosi studenti gridano “fascista” ai Tories, ma anche quando gli esperti definiscono i partiti rivoluzionari anticapitalisti – come ad esempio il Bnp, British National Party, e Alba Dorata – come “estrema destra”. Su che cosa si basa questa connessione? E’ come se si dicesse, puerilmente, che quelli di sinistra sono compassionevoli, mentre quelli di destra sono brutti, e che i fascisti sono cattivi.
    Messa giù in questo modo l’idea sembra un po’ idiota… ma pensate ai gruppi di tutto il mondo che la Bbc, ad esempio, definisce “di destra”: ovvero ai talebani (che vogliono la proprietà comune dei beni), oppure ai rivoluzionari iraniani (che hanno abolito la monarchia, sequestrato le industrie e distrutto la classe media), o a Vladimir Zhirinovsky, che si strugge per lo stalinismo. La barzelletta che “i nazisti erano di estrema destra” non è che un sintomo della più ampia nozione riguardo il termine “destra”, che non è altro che un sinonimo di “cattivo”. Uno dei miei elettori, una volta, si lamentò con la Bbc per un rapporto sulla repressione dei popoli indigeni del Messico, il cui governo veniva etichettato come “di destra”. Il partito al governo, fece notare, era un membro dell’Internazionale Socialista e questa cosa era rilevabile dal suo stesso nome: Partito Rivoluzionario Istituzionale. Impagabile fu la risposta della Bbc. Sì, accettiamo il fatto che si trattava di un partito socialista, «ma ciò che il nostro corrispondente stava cercando di far passare è che si trattava di un partito autoritario».
    L’autoritarismo, nella realtà, è stata una caratteristica comune ai socialisti di entrambe le varietà (quelli di tipo nazionale e quelli di tipo leninista), che si attaccavano l’un l’altro nei campi di prigionia, e usavano reciprocamente i plotoni di esecuzione. Ogni fazione detestava l’altra in quanto eretica, ma entrambi disprezzavano gli individualisti del libero mercato perché irrecuperabili. Friedrich von Hayek sottolineò, nel 1944, che la loro battaglia fu molto feroce perché si trattava, in realtà, di una battaglia tra fratelli. L’autoritarismo – ovvero, tanto per dargli un nome meno carico, la convinzione che la coazione statale sia giustificata dal perseguimento di un obiettivo più alto, come ad esempio il progresso scientifico o una maggiore uguaglianza – è stato tradizionalmente una caratteristica sia dei socialdemocratici che dei rivoluzionari.
    Jonah Goldberg ha lungamente descritto il fenomeno nella sua opera magna, “Liberal Fascism”. Molte persone si sentono offese dal suo titolo, evidentemente senza averlo letto perché, fin dalle prime pagine, egli rivela che la frase non era sua. Citava un impeccabile progressista, HG Wells, il quale, nel 1932, disse ai giovani liberali che dovevano diventare “liberal-fascisti” e “nazisti illuminati”. In quei giorni molti tra i più importanti intellettuali progressisti, tra cui Wells, Jack London, Havelock Ellis ed i Webbs, erano a favore dell’eugenetica, convinti che solo le ossessioni dei religiosi stavano trattenendo lo sviluppo di una specie più sana. Il modo asettico con cui ne furono precisate le conseguenze è stato ampiamente modificato nel nostro discorso, come del resto le reali parole di Hitler. George Bernard Shaw, ad esempio, così ebbe a dire nel 1933: «Lo sterminio deve essere fatto su base scientifica (se mai uno sterminio sia mai stato effettuato con umanità e con rimorso) e fino in fondo… Se vogliamo un certo tipo di civiltà e di cultura, dobbiamo sterminare il genere di persone che non vi rientra».
    L’eugenetica, naturalmente, sfocia facilmente nel razzismo. Lo stesso Engels parlò di «spazzatura razziale», riferendosi a quei gruppi che sarebbero stati necessariamente soppiantati una volta che il socialismo scientifico fosse stato attuato. Condite tutto ciò con una spolverata di anticapitalismo e spesso otterrete l’antisemitismo di sinistra, un qualcosa che abbiamo tagliato dalla nostra memoria, ma che una volta sarebbe passata senza obiezioni. «Com’è possibile che un socialista possa non essere antisemita?». E’ questo quello che Hitler aveva chiesto ai membri del suo partito, nel 1920. Gli intellettuali della sinistra contemporanea che criticano Israele sono, in segreto, antisemiti? No. Non nella stragrande maggioranza dei casi. Sono, i socialisti moderni, interiormente desiderosi di mettere nei campi di prigionia gli scettici del riscaldamento globale? No. Vogliono, i keynesiani, introdurre l’intero impianto del corporativismo, che fu definito da Mussolini come «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato»? Ancora una volta, no.
    Ci sono degli idioti, ovviamente, che finiscono con lo screditare ogni causa, ma la maggior parte delle persone di sinistra è sincera nel suo dichiarato impegno per i diritti umani, per la dignità personale e per il pluralismo. Il mio risentimento verso molte persone di sinistra (non tutte) è semplice da descrivere. Rifiutando di restituire il complimento, assumendo quindi una sorta di superiorità morale, rendono il dialogo politico quasi impossibile. Usare il termine “destra” per significare un qualcosa di “indesiderabile” ne costituisce un piccolo ma importante esempio. La prossima volta che sentite le sinistre usare la parola “fascista” come un insulto a carattere generale, sottolineate delicatamente la differenza che c’è tra ciò che a loro piace immaginare dello Nsdap e ciò che questo partito ha effettivamente proclamato.
    (Daniel Hannah, “La sinistra diventa incandescente se qualcuno ricorda le radici socialiste del nazismo”, da “The Telegraph”del 25 febbraio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornalista e politico britannico, esponente del Partito Conservatore, Hannah è deputato al Parlamento Europeo).

    Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.

  • Ttip, fine del diritto: ci giudicherà un Tribunale Speciale

    Scritto il 27/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.
    Il Trattato di Partenariato Usa-Ue per il Commercio e gli Investimenti, riassume Rosolen sul sito di “Attac Italia”, ci promette un reddito aggiuntivo per famiglia di 545 dollari all’anno, «a condizione che siano smantellate tutte le leggi e regolamenti di tutela sanitaria, ambientale, del lavoro, che attualmente impediscono o limitano la possibilità di realizzare il massimo profitto negli scambi e negli investimenti». Il che significa: «Libera produzione, circolazione e vendita sul mercato europeo degli organismi geneticamente modificati, della carne agli ormoni, dei polli al cloro». Addio al “principio di precauzione” contro la sospetta nocività di singoli prodotti, processi produttivi e componenti, adottato in Europa all’inizio degli anni ‘90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza”. Obiettivo: ridurre o eliminare – tramite decisioni di prevenzione – quei rischi che non sono ancora scientificamente provati. Se verrà approvato il Ttip, dovremo dunque dire addio alle tutele a cui siamo abituati: cioè l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti alimentari e chimici.
    Emblematica, continua Rosolen, la situazione riguardante l’estrazione e lo sfruttamento del gas di scisto (fracking): circa 11.000 nuovi pozzi scavati in un anno negli Stati Uniti contro una dozzina in Europa, per effetto di divieti e moratorie in attesa di verificare i rischi che quella spericolata tecnologia estrattiva può arrecare alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. «La segretezza dei negoziati si confà egregiamente alla passività dei grandi mezzi d’informazione del nostro paese, che si guardano bene dal rompere il silenzio, appena scalfito dall’impegno dei “soliti” mezzi d’informazione alternativi. E poiché la Commissione Europea tratta e firmerà l’accordo a nome e per conto degli Stati membri – aggiunge Mariangela Rosolen – rischiamo di trovarci a fine 2014, data prevista per la conclusione dei negoziati, con la brutta sorpresa del pacco di Natale già confezionato e pronto per l’uso sotto l’albero». Forse però siamo ancora in tempo per fermare la macchina infernale.
    Alla fine degli anni ‘90, «un analogo pacco-dono del libero mercato, l’Ami – Accordo Multilterale sugli Investimenti – era stato preparato segretamente dalle stesse oligarchie che oggi lo traducono nel Ttip, e venne fatto saltare proprio grazie al fatto che i suoi demenziali contenuti erano divenuti di pubblico dominio». Certo, allora «c’erano ancora i tribunali a cui ricorrere per il ripristino dei diritti negati». Oggi è sempre più dura, ma fino a quando la sovranità giudiziaria non sarà stata smantellata siamo autorizzati a sperare che qualche autorità nazionale intervenga: «La totale cancellazione dello Stato Sociale Europeo che ora il Trip si propone, la dichiarata subordinazione al profitto di ogni tutela sul lavoro, la salute, l’ambiente che non sia compatibile con il profitto, può incontrare ancora forti resistenze nel sistema giudiziario dei paesi più evoluti».
    Se invece Washington e Bruxelles – obbedendo ai “suggerimenti” delle multinazionali – riusciranno ad imporci il Ttip, sarà tecnicamente finita anche l’attuale possibilità di avere giustizia: l’ultima parola infatti l’avrà il Tribunale Speciale, «organismo sovranazionale, extra-territoriale – si dice con sede presso la Banca Mondiale», pensato sul modello del collegio arbitrale, «le cui sentenze non saranno appellabili essendo sovraordinate alle stesse Costituzioni nazionali». Secondo Rosolen, è molto probabile che si tratti di tribunali simili a quelli già previsti da accordi come il Nafta, modellati su giurie private composte da tre arbitri, scelti generalmente tra “principi del foro” «un po’ distratti rispetto ai loro conflitti di interessi». Strani “giudici” che, «una volta nominati, non devono più rendere conto a nessuno», perché possono avvalersi di «lucrosissime consulenze, test e perizie», per emanare decisioni definitive e non più impugnabili. «Una gestione della giustizia di ricchi per i ricchi», che infatti non emette sentenze ma impone «multe, sanzioni, risarcimenti».
    Così facendo, aggiunge Rosolen, la giustizia si misura in dollari. La Lone Pine ad esempio, impresa californiana dell’energia, ha chiesto al Tribunale Speciale istituito dal Nafta di condannare lo Stato del Canada a un risarcimento di 191 milioni di dollari per aver imposto una moratoria sul fracking, il sistema di frammentazione idraulica per estrarre il gas o il petrolio di scisto. La moratoria canadese era dettata dalla preoccupazione per i rischi per la salute e l’ambiente provocati da quelle lavorazioni. La Philip Morris ha invece denunciato l’Australia al Tribunale Speciale del Wto per le leggi anti-fumo e chiesto un enorme risarcimento per i mancati profitti. Addirittura 3,7 miliardi di euro, per i mancati profitti delle sue due centrali nucleari tedesche, sono stati chiesti dalla svedese Vattenfall alla Germania, che ha abbandonato la produzione di energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. Si contano ben 514 cause legali di questo genere negli ultimi vent’anni: 123 sono state promosse da investitori Usa, 50 da maxi-imprese olandesi, 30 britanniche e 20 tedesche.
    «La sola minaccia di cause legali per milioni di euro, intentate da studi legali con centinaia di avvocati per conto delle multinazionali, può mettere sul chi va là i governi e indurli ad attenuare o addirittura rinunciare a emanare leggi a tutela del lavoro, della salute e dell’ambiente», conclude Mariangela Rosolen. Traduzione: «Se le decisioni politiche a livello locale, regionale o nazionale corrono questi rischi di strangolamento economico, ben più disarticolanti di una sentenza civile o penale, è a rischio la stessa democrazia». Sarebbe la fine della nostra civiltà giuridica, difettosa e inefficiente fin che si vuole nella sua amministrazione, ma pur sempre consacrata alla difesa dei diritti fondamentali del cittadino, della sua sicurezza sociale e della sua salute. Per fortuna, un po’ ovunque – dall’Europa agli stessi Stati Uniti – si stanno organizzando movimenti sociali e sindacali che rivendicano trasparenza dei negoziati e il rifiuto dei tribunali speciali per qualsiasi tipo di trattato. Serve un impegno democratico, ora: «Chiediamolo con forza e determinazione anche ai prossimi candidati al Parlamento Europeo».

    Votare alle europee? A un patto: che i candidati si impegnino, per prima cosa, contro l’approvazione del Trattato Transatlantico. Nessuna bozza, traccia o schema di Ttip è a oggi disponibile. Di certo sappiamo solo che il presidente Obama e la Commissione Europea hanno dato mandato all’ambasciatore Usa Michael Froman e al Commissario Ue al commercio Karel de Gucht di confezionare un trattato dai mirabolanti obiettivi: incrementare il commercio Usa-Ue di 120 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni e creare due milioni di posti di lavoro. A quale prezzo? «Non si deve sapere. Le trattative si svolgono in segreto, a porte chiuse, e in quelle segrete stanze si sono già tenuti oltre 100 incontri con i più importanti lobbisti, su corpose documentazioni di parte, a totale insaputa della società civile». Le uniche vere notizie a nostra disposizione, scrive Mariangela Rosolen, provengono da blog come “s2bnetwork”, riprese da “Attac”, che presenta “Un trattato dell’altro mondo” e le informazioni diffuse da Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale dell’università di Torino.

  • Gallino: il nemico è la democrazia autoritaria dell’Ue

    Scritto il 24/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
    La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina “Lancet”, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici.
    Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale.
    Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli. Martin Schulz? Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.
    Nel mio ultimo libro ho teorizzato un “colpo di stato” da parte di banche e governi. Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un “colpo di Stato”, dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire? Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico.
    Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia “market conform”.
    (Luciano Gallino, dichiariazioni rilasciate a Mattia Ciampicacigli per l’intervista “Il nostro nemico è la democrazia autoritaria” pubbicata da “Il Manifesto” e ripresa il 7 marzo 2014 dal sito “Lista Tsipras”).

    La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.

  • Chi votare? Nessuno dichiara guerra all’oligarchia Ue

    Scritto il 07/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.
    L’euro, dice Moni Ovadia, dovrebbe (dovrà) essere la moneta comune del futuro Stato federale unitario europeo: a quel punto, l’attuale valuta che la Bce destina alle sole banche – non agli Stati – diverrebbe pienamente legittima, in un futuro indefinito, che la lista Tsipras spera di “avvicinare” con l’elezione di un euro-Parlamento “costituente”, per cambiare le attuali regole oligarchiche dell’Unione Europea, retta da un governo – la Commissione – non eletto dai cittadini e pilotato dalle lobby d’affari. Né il M5S, né Tsipras (né tantomeno Renzi) osano ventilare misure di interdizione per “ridurre alla ragione” gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte, disposti finora ad ascoltare solo la Bundesbank, che impone condizioni-capestro per sabotare la concorrenza dell’export tedesco e creare un mercato del lavoro a bassissimo costo, adatto cioè a consentire alla Germania di competere sui mercati mondiali globalizzati.
    Ad oggi – esclusi gli slogan della Lega Nord – l’offerta politica italiana in vista delle europee di maggio non presenta nessuna forza disposta ad affrontare in modo frontale l’impegno di un’opposizione radicale all’attuale sistema europeo, impugnando cioè l’arma regina della sovranità finanziaria statale, senza cui non è praticabile alcuna reale riconversione dell’economia. Sulla francese Marine Le Pen pesa la macchia della xenofobia, ancora agitata per non perdere l’antico elettorato ultra-nazionalista di Jean-Marie Le Pen, ma è evidente che il boom dei sondaggi che accreditano il Front National come prima forza politica di Francia non dipende certo dalla “guerra agli immigrati”, ma dalla determinazione con cui la signora Le Pen dichiara di voler risolvere la questione: se Bruxelles continuasse ad imporre moneta non sovrana, la Francia minaccerebbe direttamente di uscire dall’Unione Europea. In Italia, per ora, parole di questo tipo non le ha pronunciate nessun leader.

    Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.

  • Spinelli: per cambiare l’Europa bisogna rompere col Pd

    Scritto il 06/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.
    Sul “Manifesto”, la Spinelli prende nota degli auspici formulati da Stefano Fassina, che si augura un’inversione radicale di rotta sulla politica europea, ma poi non osa rompere col Pd, cioè il partito che ha sorretto il governo Monti, varato la riforma Fornero e votato il Fiscal Compact con l’inserimento (“consigliato”, ma non obbligatorio) del pareggio di bilancio in Costituzione – inserimento evitato dalla stessa Francia di Hollande. Il Pd – nel quale Fassina ancora milita – punta sul tedesco Martin Schulz per la presidenza della Commissione Europea? Male: Schulz si è appiattito sulle idee della Merkel e ha rifiutato gli eurobond per una politica europea più solidale. «Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo commissario». Inoltre, Fassina (e Civati) restano nel Pd di Renzi, un politico che si ispira apertamente a Tony Blair, cioè l’uomo che più di ogni altro ha «polverizzato» i valori identitari della sinistra, cioè l’uguaglianza e il bene pubblico.
    «Sostiene Stefano Fassina, e con ottime ragioni, che l’Eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd», scrive Barbara Spinelli. «A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg». Se dall’epoca Blair ha sinistra ha tradito i suoi elettori, «è all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo». Con Renzi, «l’involuzione del Pd non subisce battute d’arresto». Che senso ha, dunque, restare in quel partito? Barbara Spinelli vede una possibile alleanza trasversale, a Strasburgo, tra sinistra radicale, Verdi, socialisti «contrari al patto con la destra», eurodeputati grillini e persino liberaldemocratici come Guy Verhofstadt.
    Fino a quando i Fassina resteranno nel partito renziano, sostiene Spinelli, sarà difficile sperare che dalle parole si possa passare ai fatti, specie «nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd», ovvero «un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta)». Conclusione: «Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle “divine sorprese” di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni». Per contro, Spinelli sembra davvero credere che basterà il nuovo Parlamento Europeo ad imporre la democratizzazione dell’Unione Europea. Scelte essenziali: la conversione dell’euro in moneta sovrana, la Bce costretta a fare da prestatrice agli Stati, la fine delle politiche di austerità, l’abbandono del Fiscal Compact e dello strapotere della Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi. «No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile». Non ultimo, il no al Ttip, il Trattato Transatlantico in via di elaborazione, se in nome dell’interesse delle multinazionali Usa dovesse scavalcare «le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia».
    Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.
  • Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro

    Scritto il 04/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
    Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».
    In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.
    Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».
    Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».
    Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?

    Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».

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