Archivio del Tag ‘part time’
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Soldi a tutti, e meno ore di lavoro: abolire i poveri conviene
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è utile e necessaria in un mondo in cui «tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti», mentre «i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche». Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia «un investimento che ripaga con gli interessi», e come distribuire denaro senza un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per condurla. Soldi gratis, dunque, «non come favore ma come diritto»: quella che Bregman definisce «la via capitalista al comunismo». Secondo l’economista Charles Kenny, dello statunitense Center for Global Development, «il principale motivo per cui la gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il problema».E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita della popolazione nei paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada, riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso di droga, e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che commettono per sopravvivere. Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene, pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come avvenuto a fine anni ‘60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon B. Johnson e in Canada negli anni ‘70 con il Mincome. «Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4.500 dollari all’anno», nota Bregman. «Alla fine, i rientri di questo investimento per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3.000 dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di introiti fiscali statali aggiuntivi».Questo perché la povertà, ponendo continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test. Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua opposizione, fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei redditi di «tutti gli uomini poveri e industriosi e loro famiglie». Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine, per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, «l’ora è arrivata» per garantire a tutti «una rendita mensile sufficiente per campare, anche se non muovi un dito», senza «nessun ispettore che ti controlla da dietro per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero meritati».Gli altri due pilastri della “utopia per realisti” riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata, nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi. Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla”, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri, che concepiscono «complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione»). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento. Idee irrealizzabili? «Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere che collidevano con lo status quo», è la risposta di Bregman. «La fine dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma alla fine accettate come cose di comune buon senso».(Chiara Brusini, “Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse”, dal “Fatto Quotidiano” dell’11 maggio 2019. Il libro: Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, Feltrinelli, 251 pagine, 18 euro).Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».
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Povera Italia: giù i salari, ai dipendenti 1000 euro in meno
L’austerity ha devastato i salari italiani, che hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. Se n’è accorta la Fondazione Di Vittorio, centro studi della Cgil che mette a confronto le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti italiani con quelle del passato, paragonandole a quelle degli altri grandi paesi europei. Risultato sconfortante: in Italia gli stipendi si sono “ristretti”, mentre all’estero – in particolare in Germania e Francia – sono saliti. Il report della Fondazione Di Vittorio rileva le retribuzioni lorde (dati Ocse) dal 2001 al 2017. Sorpresa: in Italia c’è stata una sostanziale “stazionarietà” dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5%. L’analisi, scrive “Repubblica”, è basata sui salari reali, cioè «aumentando “virtualmente” le retribuzioni di allora, come se i prezzi del 2010 fossero stati gli stessi di oggi». Se nel 2010 la retribuzione media in Italia era di 30.272 euro, sette anni dopo è scesa a quota 29.214. Ovvero: possiamo comprare 1.000 euro di beni e servizi in meno. Tutt’altra musica in Germania: il lavoratore dipendente tedesco, che già nel 2010 era pagato meglio del collega italiano (35.621 euro), nel 2017 riceveva 39.446 euro, cioè 3.825 euro in più. In crescita anche i salari francesi: circa 2.000 euro in più: il 5,3% (da 35.724 euro a 37.622).Evidente che il sistema-Italia è quello che più ha sofferto delle politiche di rigore indotte dall’Eurozona. La fondazione della Cgil punta il dito contro i contratti-pirata che tengono i salari sotto al minino, ma l’analisi – firmata da Lorenzo Birindelli – denuncia soprattutto il part-time e i lavori discontinui, che l’Ocse include nella rilevazione, considerandoli come prestazioni full time. Le nostre retribuzioni per i lavoratori a tempo parziale sono più basse della media dell’Eurozona: da noi valgono il 70,1% del full time, mentre nel resto d’Europa l’83,6%. Grave la carenza di “capitale umano” nel nostro paese: in calo la quota di dirigenti e di professioni tecniche. In sostanza, «in Italia si è ridotta la presenza delle alte qualifiche (7 punti percentuali in meno in questo ultimo ventennio) mentre sono aumentate di 2 punti percentuali le basse qualifiche». Come rimediare? Secondo Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, serve un intervento su qualità e quantità dell’occupazione, ma anche «una nuova fase di contrattazione a tutti i livelli», nonché «una vera e propria riforma fiscale in senso progressivo, che recuperi risorse verso le retribuzioni».La radiografia complessiva realizzata dal rapporto della Fondazione non conforta, sottolinea “Repubblica”: su 15 milioni di lavoratori dipendenti, nel solo settore privato, ben 12 milioni hanno una retribuzione lorda sotto i 30.000 euro. Di questi, circa 4,3 milioni sono sotto i 10.000 euro annui lordi. «Del resto, altri recenti dati Eurostat confermano la caduta della quota dei salari sul Pil: nel 2019 siamo al 59,9%, uno dei rapporti più bassi in Europa, in discesa dal 2012». Avverte Maurizio Landini, neo-segretario della Cgil: «La stagione dei rinnovi contrattuali del 2109 deve affrontare, prima di tutto, la questione salariale». Evidente: «In Italia si continuano a pagare salari troppo bassi ai lavoratori». In questi anni, come leader della Fiom, Landini è stato l’unico – nella Cgil – ad alzare i toni, specie contro la Fiat di Marchionne. Largamente silente, invece, il resto della Cgil, così come Cisl e Uil, di fronte alla devastazione strutturale inferta all’economia dal governo tecnico di Mario Monti, imposto all’Italia nel 2011 dai poteri forti Ue con la collaborazione di Giorgio Napolitano. Operazione costata carissima, ai lavoratori: se ne accorge – nel 2019 – persino la Cgil, che tuttavia non ha mosso un dito per difendere il governo Conte nel momento in cui chiedeva di poter almeno innalzare al 2,4% il deficit, per sostenere l’occupazione.L’austerity ha devastato i salari italiani, che hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. Se n’è accorta la Fondazione Di Vittorio, centro studi della Cgil che mette a confronto le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti italiani con quelle del passato, paragonandole a quelle degli altri grandi paesi europei. Risultato sconfortante: in Italia gli stipendi si sono “ristretti”, mentre all’estero – in particolare in Germania e Francia – sono saliti. Il report della Fondazione Di Vittorio rileva le retribuzioni lorde (dati Ocse) dal 2001 al 2017. Sorpresa: in Italia c’è stata una sostanziale “stazionarietà” dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5%. L’analisi, scrive “Repubblica”, è basata sui salari reali, cioè «aumentando “virtualmente” le retribuzioni di allora, come se i prezzi del 2010 fossero stati gli stessi di oggi». Se nel 2010 la retribuzione media in Italia era di 30.272 euro, sette anni dopo è scesa a quota 29.214. Ovvero: possiamo comprare 1.000 euro di beni e servizi in meno. Tutt’altra musica in Germania: il lavoratore dipendente tedesco, che già nel 2010 era pagato meglio del collega italiano (35.621 euro), nel 2017 riceveva 39.446 euro, cioè 3.825 euro in più. In crescita anche i salari francesi: circa 2.000 euro in più: il 5,3% (da 35.724 euro a 37.622).
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Zoffi: la Germania bara, il suo debito vero è il 287% del Pil
Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.«Berlino è finora stata molto brava a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma ormai è impossibile non vedere le gobbe. E anche in Germania gli economisti più capaci hanno iniziato a lanciare l’allarme», spiega Zoffi, citando tra i primi profeti di sventura proprio i presidenti dei due maggiori think-tanks economici del paese: Hans-Werner Sinn, temutissima voce dell’Ifo (per la verità più noto a sud della catena alpina per i giudizi tranchant che ci ha riservato) e Marcel Fratzscher, capo del Diw e autore del libro “Die Deutschland-Illusion” (l’illusione tedesca). A titolo di raffronto, scrive Massimo Restelli sul “Giornale”, il debito complessivo (implicito ed esplicito) italiano si attesterebbe invece al 160% del prodotto interno lordo. In sostanza, negli ultimi anni Palazzo Chigi e Parlamento italiano fatto “i compiti a casa”, mentre Frau Merkel e il Bundestag no. A contribuire al disastro annunciato della Germania, insiste Zoffi, è poi il suo quadro demografico squilibrato: è lo Stato con meno nascite al mondo.L’altra falla aperta è rappresentata da un mercato del lavoro ormai composto per un quarto da precari (tra part-time, stagisti e mini-job). Ne consegue una distribuzione dei redditi sempre più squilibrata: nel 2011 il 10% della popolazione deteneva il 66% della ricchezza contro il 44% del 1970. Per non parlare delle grane del sistema del credito: le banche tedesche, sebbene tutte promosse ai recenti esami patrimoniali della Bce (ma Berlino ha ottenuto di esentare le problematiche casse di risparmio e le “landesbank”) da un lato «contano debiti complessivi per 8.000 miliardi di euro» (raccolta alla clientela, prestiti di varia natura e obbligazioni), e dall’altro – e questo sembra il problema principe – ci sono «impieghi in asset di qualità sovente discutibile: Abs, derivati, prestiti alle banche greche e spagnole». In pratica, avrebbero investito male (e con una certa dose di pericolo) il denaro raccolto: «Deutsche Bank assomiglia a un grande hedge fund», dice Zoffi.L’imprenditore italiano sottolinea di essere tornato a investire sulle imprese dello Stivale all’apice della crisi, sfruttando i saldi provocati dallo sferzare dello spread. «Insomma – scrive Restelli – da uomo d’affari è convinto di aver fatto bene a credere nell’Italia: stima che le sue attività (il gruppo Ors, specializzato nel Big Data, la tenuta vitivinicola in Monferrato Noceto Michelotti e l’azienda friulana di insaccati di selvaggina Bertolini Wild, insieme alle potenzialità di sviluppo del portale Gourmitaly) abbiano oggi un valore potenziale di 50 milioni. «La Germania – chiosa Zoffi – resta però un esempio per la penisola sotto molti altri aspetti fondamentali, sia per la qualità di vita dei cittadini, sia per la buona riuscita di un’impresa: a partire da un apparato pubblico-burocratico e da un sistema della giustizia che funzionano a dovere».Lo stesso Zoffi è anche esponente del Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Dalla sua analisi, scrive il vipresesidente Marco Moiso sul blog del movimento, emerge come, dal punto di vista del debito, la Germania sia “messa peggio” del Bel Paese. «Eppure – scrive Moiso – questa non deve assolutamente essere l’occasione per puntarle il dito contro», chiedendo anche ai tedeschi di «sottomettersi alla cura venefica dell’austerità, in nome di un miope e mal riposto senso di riscatto». Al contrario: meglio se anche in Germania si aprissero gli occhi, scoprendo cosa significano le ricette del neoliberismo. «La sconfitta della democrazia tedesca – in un contesto internazionale in cui la sovranità delle democrazie stesse viene progressivamente rimpiazzata dall’econocrazia neoliberista – significherebbe la vittoria di quei poteri apolidi che supportano il neoliberismo e hanno interesse nello svuotare le istituzioni pubbliche di democrazia sostanziale, in nome del mantenimento del valore assoluto del denaro da loro accumulato». Lo choc dei conti truccati? Ottima cura, se serve a tornare alla sovranità popolare, in ogni paese Ue. Missione impossibile? Si domanda Moiso: «È pronto, il popolo tedesco, a lottare insieme agli altri popoli europei contro l’econocrazia neoliberista e a favore di democrazia e politiche monetarie ed economiche sviluppate nell’interesse del popolo europeo sovrano?».Stando ai conti pubblici, il grande malato dell’Eurozona non è l’Italia o un altro dei paesi oggi considerati periferici, addirittura ribattezzati “Pigs”, maiali, nel pieno della crisi del debito sovrano. La pietra dello scandalo è proprio la Germania di Angela Merkel, che continua a fare la voce grossa con la Bce e gli altri condòmini del Vecchio Continente. A raccontare al “Giornale” il lato oscuro di Berlino è Fabio Zoffi, veneziano, che da vent’anni vive con la famiglia a Monaco di Baviera. Zoffi conduce attività che spaziano dall’alimentare al Big Data: tra i suoi clienti Luxottica, Pirelli, Bnl, Banco Popolare e Benetton. «ll debito pubblico complessivo tedesco non è pari all’80% del Pil, come certificano i documenti ufficiali, ma al 287%», assicura il “venture capitalist” italiano, dopo essersi preso la briga di rielaborare tabelle e proiezioni statistiche. La colpa è del debito «implicito», che con approssimazione possiamo definire «nascosto», prodotto dalle costose riforme concesse dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Tutto questo, nel 2020 comporterà pesanti aggravi alla spesa per le pensioni, le assicurazioni sanitarie e l’assistenza ai malati cronici.
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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L’Inps: l’Italia sprofonda, altri 400.000 nuovi poveri
In controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005. L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale. Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte.Gli effetti lunghi della crisi sembrano aver colpito molto di più gli stranieri, che faticano a trovare o ritrovare un lavoro che sia anche decente. Potremmo pensare che questi dati non rispecchiano il miglioramento avvenuto sul piano dell’occupazione a seguito del dispiegarsi degli effetti del Jobs Act, stante che questo è avvenuto soprattutto nell’ultimo trimestre del 2015. Può essere, ma solo in parte. Siamo, infatti, ancora ben lontani dall’aver recuperato tutti i posti di lavoro perduti. Inoltre va considerato con grande preoccupazione che l’aumento della povertà assoluta (dal 5,2 al 6,1 per cento) ha riguardato anche famiglie con persona di riferimento occupata, soprattutto se operaio o assimilato. Tra le famiglie di questi ultimi l’incidenza della povertà assoluta è passata in un anno dal 9,7 all’11 per cento. Molti di questi lavoratori hanno avuto un reddito troppo basso per poter fruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno dovuti restituire perché “indebitamente” percepiti, in base alla logica paradossale degli 80 euro che esclude i più poveri.Il fenomeno dei lavoratori e delle famiglie di lavoratori povere ha conosciuto un fortissimo aumento negli anni della crisi, a motivo sia della riduzione del numero di occupati in famiglia, soprattutto a causa della disoccupazione giovanile, sia della crescita del part-time involontario. Quest’ultimo è sempre meno una caratteristica solo dei contratti di lavoro a tempo determinato e in generale dei contratti atipici quando non irregolari. Come documenta il rapporto Inps presentato la scorsa settimana, quattro contratti a tutele crescenti su dieci sono a tempo parziale. Avere un lavoro non sempre è sufficiente a proteggere dalla povertà, se è a tempo ridotto, o troppo poco pagato, o se il reddito che fornisce deve bastare per diverse persone. Da questo punto di vista, un altro dato preoccupante riguarda l’aumento della povertà assoluta tra le famiglie con due figli, specie se minori. Finora era il terzo figlio a far scattare un rischio di povertà sopra la media. Ora basta il secondo.Non stupisce, allora, che i minori siano sovrarappresentati tra chi si trova in povertà assoluta, con un peggioramento sensibile nell’arco di dieci anni. Era in povertà assoluta il 3,9 per cento di tutti i minori nel 2005, il 10,9 per cento nel 2015. In termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1 milione e 131 mila rispetto a 538 mila. Ma anche i loro fratelli più grandi non stanno meglio, con quasi il 10 per cento, pari a un milione e 13 mila individui, in povertà assoluta. A ben vedere, poco meno della metà dei poveri assoluti appartiene alle giovani e giovanissime generazioni, che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne vengono escluse, come mostrano i dati del citato rapporto Inps sull’invecchiamento della forza lavoro occupata negli anni della crisi, a seguito del combinarsi di riduzione della domanda di lavoro e innalzamento dell’età alla pensione. Investire sull’aumento dell’occupazione, come ha dichiarato il ministro Padoan, è certo necessario per combattere la povertà. Ma il fenomeno dei lavoratori poveri e delle loro famiglie, della sovrarappresentazione dei minori e dei giovani tra i poveri, insieme alla drammaticità dell’incidenza della povertà tra gli immigrati, segnalano che non è sufficiente se non si tiene conto di quale lavoro si tratta e di chi può accedervi. Impongono anche di rivedere criticamente alcune scelte redistributive, dagli 80 euro al bonus bebè.(Chiara Saraceno, “Perché cresce il paese dei poveri”, da “Repubblica” del 15 luglio 2016, ripreso da “Micromega”).In controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005. L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale. Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte.
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
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Delocalizzazioni e bugie: e gli americani han perso il lavoro
In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.Economisti − ammesso che siano degni di essere chiamati così − come Michael Porter e Matthew Slaughter hanno promesso agli americani che l’immaginaria “new economy” avrebbe prodotto posti di lavoro migliori, con stipendi più alti e più puliti dei lavori dalle “unghie sporche” che fortunatamente le nostre aziende stavano delocalizzando. Come ho definitivamente dimostrato, dopo anni non vi è alcuna traccia di questi posti di lavoro “new economy”. Ciò che abbiamo è invece un forte calo del tasso di partecipazione della forza lavoro, come i disoccupati che non riescono a ricollocarsi. Gli impieghi sostitutivi dei posti in fabbrica sono principalmente lavori part-time per servizi domestici, e la gente deve mantenere due o tre di questi lavori per sbarcare il lunario. Ora che questo fatto − che i polemici ci credano o no − si è dimostrato del tutto vero, gli stessi prezzolati portavoce di chi ha rubato il lavoro e di chi ha distrutto i sindacati sostengono, senza uno straccio di prova, che i posti di lavoro delocalizzati stanno tornando a casa.Secondo questi propagandisti, ora abbiamo quello che viene chiamato “reshoring”, rimpatrio della produzione. Un propagandista del rimpatrio della produzione dichiara che la crescita di “reshoring” nel corso degli ultimi quattro anni è del 1.775%, un aumento pari a 18 volte. Non vi è alcuna traccia di questi presunti posti di lavoro rimpatriati nelle statistiche mensili Bls (“Bank Lending Survey”, indagine sul credito bancario) sugli impieghi regolarmente retribuiti. Il “reshoring” è solo propaganda per compensare la constatazione tardiva che gli accordi di “libero scambio” e delocalizzazione del lavoro non erano vantaggiosi per l’economia americana né per la sua forza lavoro, ma lo erano solo per i super-ricchi. Come è capitato alle persone nel corso della storia, gli americani sono diventati servi e schiavi perché gli sciocchi credono alle bugie che gli si dà in pasto. Si siedono davanti a “Fox News”, “Cnn” e roba del genere, leggono il “New York Times”. Se volete imparare come gli americani sono serviti male dai cosiddetti mezzi d’informazione, leggete “Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi” (1980, 2003) dello storico Howard Zinn e guardate la serie di documentari “The Untold History of the United States” (2012) di Oliver Stone e Peter Kuznick.I media aiutano il governo, e gli interessi privati che traggono profitto controllando il governo controllano il lavaggio pubblico del cervello. Dobbiamo invadere l’Afghanistan perché una fazione che lotta per il controllo politico del paese protegge Osama bin Laden, che gli Stati Uniti accusano senza alcuna prova di infastidire i potenti Stati Uniti con l’attacco dell’11 Settembre. Dobbiamo invadere l’Iraq perché Saddam ha “armi di distruzione di massa”, che ha sicuramente nonostante le relazioni contrarie da parte degli ispettori dell’Onu. Dobbiamo rovesciare Gheddafi a causa di una lista di menzogne che è meglio dimenticare. Dobbiamo rovesciare Assad perché ha usato armi chimiche, anche se tutte le prove dicono il contrario. È la Russia la responsabile dei problemi in Ucraina: non perché gli Stati Uniti hanno rovesciato il governo democraticamente eletto ma perché la Russia ha accettato il 97,6% dei voti del referendum per il ricongiungimento della Crimea alla Russia, della quale era stata provincia per centinaia d’anni prima che un leader sovietico ucraino Krusciov unisse la Crimea all’Ucraina, allora parte dell’Urss insieme alla Russia.Guerra, guerra, guerra: questo è tutto ciò che Washington vuole. Arricchisce il connubio esercito/sicurezza, la voce più importante del Pil americano e il maggior contribuente, insieme con Wall Street e la lobby israeliana, delle campagne politiche Usa. Chiunque o qualsiasi organizzazione che opponga la verità alle menzogne è demonizzato. La settimana scorsa il nuovo capo della “Broadcasting Board of Governors” (Bbg, l’agenzia governativa indipendente responsabile per tutti i mezzi di comunicazione non militari), Andrew Lack, ha indicato il servizio Internet-Tv russo “Russia Today” come l’equivalente di Boko Haram e dei gruppi terroristici dell’Isis. Quest’accusa assurda è un preludio alla chiusura di “Rt” negli Stati Uniti proprio mentre il governo britannico, fantoccio di Washington, ha chiuso la rete televisiva iraniana “Press Tv”. In altre parole, gli anglo-americani non consentono notizie diverse da quelle che sono state loro servite dai “loro” governi. Questo è lo stato della “libertà” oggi in Occidente.(Paul Craig Roberts, estratto da “Libertà dove sei? Non in America né in Europa”, pubblicato da “Global Research” e ripreso da “Megachip” il 30 gennaio 2015).In America il saccheggio non si basa sull’indebitamento perché il dollaro è la valuta di riserva e gli Stati Uniti possono stampare tutto il denaro necessario per pagare i conti e riscattare il debito: in America il depredamento è stato fatto attraverso l’offshoring, cioè la delocalizzazione del lavoro. Grandi aziende americane hanno scoperto − e se non l’avessero fatto sarebbero state invitate da Wall Street a trasferire fuori i conti o a essere rilevate − che avrebbero potuto aumentare i profitti spostando all’estero le loro attività di produzione. Il minor costo del lavoro ha determinato maggiori profitti, valori delle azioni più elevati, enormi bonus manageriali basati su “prestazioni”, guadagni in conto capitale per gli azionisti. Negli Stati Uniti l’offshoring ha notevolmente aumentato la disparità nel reddito e nella ricchezza: il capitale è riuscito a depredare il lavoro. Laddove fossero in grado di trovare lavori sostitutivi, i ben pagati operai manifatturieri che hanno perso il posto lavorerebbero part-time a salario minimo da Walmart e Home Depot.
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.
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Ragazzi, eravamo ricchissimi. E vi hanno rubato tutto
Questo è per voi, il giovane, la giovane, italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… VOLTATO INDIETRO voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.Poi cosa si vede? Si vede che i vostri nonni, padri e madri HANNO FATTO I COMPITI A CASA hanno fatto i compiti a casa. Dopo 35 anni dai cumuli di macerie, e dai mandarini solo due volte all’anno in tavola, l’Italia diventa la quinta potenza mondiale, il primo paese al mondo per risparmio privato e per ricchezza privata pro-capite. Scese Cristo e moltiplicò i pesci? No, no. Tuo nonno e tuo padre fecero i compiti a casa. E arriviamo al 1994, quando le agenzie di rating ci definivano “Economia leader d’Europa”, quando stracciavamo la Germania sia in produzione che export. Ricchi, ricchissimi. E arrivate voi. I giovani italiani si presentano dal Notaio dopo il 1994 per reclamare LA GIUSTA EREDITA’ la giusta eredità del quinto paese più ricco del mondo, quindi lavoro garantito, stipendi per casa, matrimonio e bei risparmi. No? Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.Nulla? Eh???? DOVE SONO FINITI I SOLDI, IL 5° PIL DEL MONDO, GLI ENORMI RISPARMI, LA 1a RICCHEZZA PRIVATA DEL MONDO, IL LAVORO, CIOE’ TUTTA L’EREDITA’ DEI 70 ANNI DI LAVORO DI TUO NONNO E DI TUO PADRE? Dove sono finiti i soldi, il 5° Pil del mondo, gli enormi risparmi, la 1a ricchezza privata del mondo, il lavoro, cioè tutta l’eredità dei 70 anni di lavoro di tuo nonno e di tuo padre? Ancora giratevi indietro, ragazzi. Cosa si vede? Si vede che i padri fondatori dell’Italia si erano seduti sulle macerie della guerra e avevano scritto la PIU’ AVANZATA COSTITUZIONE la più avanzata Costituzione nell’interesse pubblico del mondo. Anno 1948. Diritti garantiti, Stato sovrano, Parlamento sovrano, Costituzione sovrana. Una legislazione del lavoro che era invidiata da tutto il pianeta. I giovani italiani si presentano oggi dal Notaio per reclamare LA SECONDA GIUSTA EREDITA’ la seconda giusta eredità: si chiama DIRITTI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA GA-RAN-TI-TI diritti della Costituzione italiana ga-ran-ti-ti. Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.Nulla? Eh???? Sì, nulla. Non vi avevano detto che nel 1993 dei tecnocrati europei che nessun italiano ha mai eletto avevano creato il Trattato di Maastricht, poi nel 2007 quello di Lisbona, che hanno esautorato il Parlamento del tutto, hanno tolto all’Italia la sovranità monetaria, e hanno persino soppresso la nostra Costituzione. Risultato: NON AVETE NESSUN DIRITTO CHE L’ITALIA POSSA OGGI DIFENDERE PER VOI Non avete nessun diritto che l’Italia possa oggi difendere per voi. Shock. Ricapitoliamo: Esistevano per voi giovani, DUE EREDITA’ CAPITALI due eredità capitali, costruite per voi dai vostri nonni, padri, madri, e Padri Fondatori, che vi avrebbero garantito il futuro di dignità e prosperità e democrazia. Erano lì fino al 1999! Oggi non ci sono più. MA COME E’ POSSIBILE Ma come è possibile? Come accade che 70 anni di lavoro per voi svaniscano nel nulla negli ultimi 5 minuti?Chi vi ha… RUBATO IL FUTURO E LA VITA STESSA QUANDO VI SPETTAVA DI DIRITTO IN EREDITA’ DOPO 70 DI LAVORO, VITA, LOTTA E MORTE DEI VOSTRI NONNI, GENITORI E PADRI FONDATORI rubato il futuro e la vita stessa quando vi spettava di diritto in eredità dopo 70 anni di lavoro, vita, lotta e morte dei vostri nonni, genitori e padri fondatori? Risposta: Unione Europea dei Tecnocrati non eletti che lavorano per un pugno di speculatori Neofeudali, primi fra tutti i tedeschi, che vogliono divorare l’Italia. Chi vi scrive pubblica da 5 anni le prove su prove su prove di questo crimine contro di voi, perpetrato attraverso la creazione dell’Eurozona coi suoi Trattati di cui sopra.Soluzione: LE DUE EREDITA’ SONO VOSTRE! RIPRENDETELE, IN DUE MODI: le due eredità sono vostre! Riprendetele, in due modi: a) Assediare il Parlamento, che s’inginocchi a chiedere scusa agli italiani, stracci i Trattati Ue della rapina storica contro l’Italia, riporti la sovranità monetaria e costituzionale in Italia; b) Gridare alle forze armate della Repubblica di arrestare Giorgio Napolitano, principale complice della rapina storica in Italia, dissolvere il governo di Renzi servo dei tedeschi distruttori dell’Italia, e che riportino la sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale in Italia. Fuori dall’Eurozona. Le forze armate hanno giurato fedeltà alla Costituzione, devono farlo. Poi tornate dal Notaio e reclamate le vostre EREDITA’ eredità, questa volta nel nome dei vostri nonni, padri e madri, che ve l’avevano lasciata. Alzate la testa, ragazzi, la piazza è vostra, ma non per fare casino. Per reclamare CIO’ CHE VI SPETTA IN EREDITA’ ciò che vi spetta in eredità.(Paolo Barnard, “Giovani, se capite questo farete le barricate”, dal blog di Barnard del 3 maggio 2014).Questo è per voi, giovani italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.