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Archivio del Tag ‘pensiero’

  • C’era una volta Enrico Mentana, ora è l’eroe del fanta-Cicap

    Scritto il 05/10/17 • nella Categoria: idee • (6)

    «C’era una volta Enrico Mentana», scrive Massimo Mazzucco, segnalando che il direttore del telegiornale de La7 è stato insignito del premio “In difesa della ragione” istituito dal Cicap, il comitato di controllo sulle “affermazioni sulle pseudoscienze” (fino a ieri, “sul paranormale”), che in realtà sembra occuparsi più che altro di “normalizzare la verità”, rendendo accettabile la versione ufficiale dei fatti, grazie anche all’alto patrocinio del suo nume tutelare, l’intoccabile Piero Angela. «Ormai passato definitivamente dalla parte dei debunkers, Mentana viene premiato proprio dai bugiardi di professione che lui stesso ha aiutato ad acquisire credibilità davanti al pubblico televisivo negli anni passati», lo accusa Mazzucco, autore di documentari “esplosivi” sulla vera storia del maxi-attentato dell’11 Settembre. «Con le sue trasmissioni fintamente “equilibrate”, dove apparentemente metteva a confronto tesi e controtesi, ma in realtà si preoccupava di lasciare sempre l’ultima parola ai debunkers, Mentana ha finito per distruggere l’unica possibilità che restava al giornalismo televisivo di proporre agli spettatori un punto di vista veramente neutrale».
    Mazzucco, il cui primo film sull’attacco alle Torri Gemelle era pure stato trasmesso in anteprima da “Matrix”, il talkshow di Mentana su Canale 5, definisce oggi il giornalista «divorato dall’ansia di piacere ai potenti». Già mezzobusto (craxiano) del Tg2, poi artefice del rivoluzionario del Tg5, secondo Mazzucco ormai Mentana «ha finito per allinearsi ufficialmente al pensiero mainstream su tutti gli argomenti più importanti degli ultimi anni». Ovvero: «Prende in giro apertamente chi denuncia le scie chimiche, ignorando (volutamente?) che lo stesso presidente Napolitano ha riconosciuto l’esistenza del problema». In più, «si è schierato apertamente a favore delle vaccinazioni obbligatorie, ignorando (volutamente?) la marea di documentazione scientifica che attesta invece alla loro pericolosità». Lo stesso Mentana «si è schierato apertamente a favore della versione ufficiale dell’11 Settembre, ignorando volutamente (e qui non c’è bisogno del punto interrogativo, lo sappiamo con certezza) tutti gli argomenti scientifici di Architects&Engineers che dimostrano la demolizione controllata delle Torri Gemelle».
    Evidentemente, aggiunge Mazzucco sul blog “Luogo Comune”, «a Mentana interessa molto di più piacere ai potenti che non fare veramene il suo lavoro di giornalista». Forse gli è rimasta adosso «la nostalgia di quando conduceva un telegionale importante in Italia, e cerca in tutti i modi di recuperare l’audience perduta compiacendo in ogni modo possibile i poteri forti». Ma il direttore-mattatore «non si rende conto che la vera opportunità di lavorare a La7 era proprio quella di presentare al pubblico italiano qualcosa di diverso, e non semplicemente una versione impoverita del pensiero mainstream». Secondo Mazzucco, «Mentana avrebbe potuto trasformare il canale La7 nel primo degli ultimi, invece ha finito tristemente per accontentarsi di essere l’ultimo dei primi. E lo ha fatto nel modo peggiore per un giornalista: allinearsi diligentemente al pensiero maistream, rinunciando alle sue capacità analitiche e alle sue qualità investigative». Sottinteso: Mazzucco ha stima di Mentana, e questo peggiora le cose. Come dire: talento sprecato, degno di miglior causa.
    Eppure, rinunciando alle sue armi per motivi tattici, «Mentana continua soltanto a perdere audience», dice Mazzucco, che cita la recente “ribellione” contro di lui verificatasi sul web per non aver nemmeno degnato di una risposta il suo video du quelle che Mazzucco definisce “le bugie” di Paolo Attivissimo, principe dei debuker nostrani, numero uno degli ammazza-complottisti. «Con uno share che arranca faticosamente intorno al 5%, ormai Mentana riesce ad influenzare l’opinione pubblica quanto un predicatore muto che parli in aramaico fra le mura di casa sua», infierisce Mazzucco, secondo cui Mentana «presto rischia di fare la fine di Enrico Deaglio, l’altro famoso giornalista “indipendente” che finì per perdere quel poco di credibilità che gli restava proprio quando sposò – in modo palesemente acritico – la versione ufficiale dell’11 Settembre». Amarezza e rimpianto: «Peccato, c’era una volta Enrico Mentana».

    «C’era una volta Enrico Mentana», scrive Massimo Mazzucco, segnalando che il direttore del telegiornale de La7 è stato insignito del premio “In difesa della ragione” istituito dal Cicap, il comitato di controllo sulle “affermazioni sulle pseudoscienze” (fino a ieri, “sul paranormale”), che in realtà sembra occuparsi più che altro di “normalizzare la verità”, rendendo accettabile la versione ufficiale dei fatti, grazie anche all’alto patrocinio del suo nume tutelare, l’intoccabile Piero Angela. «Ormai passato definitivamente dalla parte dei debunkers, Mentana viene premiato proprio dai bugiardi di professione che lui stesso ha aiutato ad acquisire credibilità davanti al pubblico televisivo negli anni passati», lo accusa Mazzucco, autore di documentari “esplosivi” sulla vera storia del maxi-attentato dell’11 Settembre. «Con le sue trasmissioni fintamente “equilibrate”, dove apparentemente metteva a confronto tesi e controtesi, ma in realtà si preoccupava di lasciare sempre l’ultima parola ai debunkers, Mentana ha finito per distruggere l’unica possibilità che restava al giornalismo televisivo di proporre agli spettatori un punto di vista veramente neutrale».

  • Maggiani: giovani e anziani mai così poveri, lo rivela l’Istat

    Scritto il 01/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Per chi fosse interessato, l’Istat ha appena pubblicato i dati annuali sulla povertà e sui poveri. A parte il Papa e la Caritas, ma quelli sono organismi stranieri, e l’Istat appunto, nessuno ha più il dubbio gusto di usare quella parola lì, poveri, una parola del ‘900. Con la fine delle ideologie di poveri in effetti non se ne dovrebbe più vedere, se ci sono i poveri vuol dire che ci sono anche i ricchi, e le due parole variamente associate non rendono la complessità del momento, e a dirla tutta sanno anche un po’ di odio di classe. I ricchi e i poveri sono storia vecchia, come il marxismo, o il vangelo, che è anche più vecchio di Marx. Attualmente in tema di criticità sociali constatiamo più correttamente l’esistenza dei “meno abbienti” e dei “più disagiati”. Il che vuol dire che è inutile raccontarci delle storie, tutti quanti ormai sono abbienti, solo che, come è naturale, c’è chi ha di più e chi ha di meno, e comunque siamo tutti nel disagio, qualcuno di più qualcuno di meno; in ogni caso siamo tutti quanti nella stessa barca, questo è il pensiero che domina, l’ideologia sorta dalle ceneri delle ideologie.
    Ma volendo tornare un momento al ‘900 e all’Istat, veniamo a sapere che pur se la crisi è da considerarsi superata, i poveri sono ancora di più, come se tornare a lavorare non togliesse dalla povertà, anzi. Infatti, scopriamo che per cercare i poveri bisogna guardare ai lavoratori in specie se operai, con famiglia, e soprattutto giovani; i giovani sono i più poveri del Paese. I giovani e i bambini, i figli dei lavoratori che ne hanno due o più. Quelli che se la passano meglio di tutti sono i vecchi, i vecchi sono sempre meno poveri; più i vecchi se la passano bene più se la passano male i giovani, e a tal proposito si viene a sapere che lo stato spende per far star meglio i vecchi quattro volte quello che spende per i giovani. Ma, sempre per restare nel ‘900, chi se la passa meglio di tutti sono i ricchi, loro sono sempre più ricchi, a tutte le età, dal che se ne ricava la suggestiva ipotesi che se a lavorare si impoverisce a far lavorare gli altri ci si arricchisce. In tal caso si può forse adombrare la sediziosa ipotesi dello sfruttamento della manodopera? Speriamo di no, ma c’è da chiedersi come si possa dar credito all’Istituto Nazionale di Statistica e non diventare marxisti papisti. Buttarsi a sinistra come suggeriva Totò, questo meglio di no, a dare uno sguardo alla sinistra ci si perde nel baratro.
    (Maurizio Maggiani, “Poveri”, da “Il Secolo XIX” del 16 luglio 2017, articolo ripreso sul sito ufficiale dello scrittore. Originario di Castelnuovo Magra, entroterra di La Spezia, Maggiani è l’unico romanziere italiano ad essersi aggiudicato tutti i maggiori riconoscimenti letterari, dal Campiello allo Strega. Dopo gli esordi, “Vi ho già tutti sognato una volta”, “Mauri Mauri” e “Felice alla guerra”, Maggiani si è fatto apprezzare dal grande pubblico nel 1995 con il bestseller “Il coraggio del pettirosso”, seguito da “La regina disadorna”. Altro strepitoso successo nel 2005 con “Il viaggiatore notturno”. Maggiani – intellettuale di ispirazione anarchica e narratore dotato di uno stile inconfondibile, sempre spiazzante – ha firmato altri capolavori come “Meccanica celeste”, del 2010, fino al recentissimo “Romanzo della nazione”, 2015, accanto a opere soprendenti come “Mi sono perso a Genova”, “Storia della meraviglia”, “Quello che ancora vive”, fino al travolgente monologo-invettiva “I figli della Repubblica” e ai racconti “La zecca e la rosa”, usciti a fine 2016).

    Per chi fosse interessato, l’Istat ha appena pubblicato i dati annuali sulla povertà e sui poveri. A parte il Papa e la Caritas, ma quelli sono organismi stranieri, e l’Istat appunto, nessuno ha più il dubbio gusto di usare quella parola lì, poveri, una parola del ‘900. Con la fine delle ideologie di poveri in effetti non se ne dovrebbe più vedere, se ci sono i poveri vuol dire che ci sono anche i ricchi, e le due parole variamente associate non rendono la complessità del momento, e a dirla tutta sanno anche un po’ di odio di classe. I ricchi e i poveri sono storia vecchia, come il marxismo, o il vangelo, che è anche più vecchio di Marx. Attualmente in tema di criticità sociali constatiamo più correttamente l’esistenza dei “meno abbienti” e dei “più disagiati”. Il che vuol dire che è inutile raccontarci delle storie, tutti quanti ormai sono abbienti, solo che, come è naturale, c’è chi ha di più e chi ha di meno, e comunque siamo tutti nel disagio, qualcuno di più qualcuno di meno; in ogni caso siamo tutti quanti nella stessa barca, questo è il pensiero che domina, l’ideologia sorta dalle ceneri delle ideologie.

  • L’ufologo Churchill e il segreto di Stato sugli avvistamenti

    Scritto il 15/9/17 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    C’è vita, là fuori? Possibile che siamo davvero soli, nell’universo? Parola di Winston Churchill, uno dei grandi leader del Novecento. Per la vastità della sua conoscenza e la varietà dei suoi interessi, il leggendario premier inglese della Seconda Guerra Mondiale continua a sorprendere. «Ufo, galassie, pianeti: undici pagine di ragionamenti sulla vita nello spazio che anticipano l’impostazione delle ricerche contemporanee», scrive il “Corriere della Sera”, citando uno scritto inedito del 1939, da allora custodito negli archivi del National Churchill Museum di Fulton, Missouri. Il testo, mai pubblicato, era stato ceduto al museo americano negli anni Ottanta. Dopo essere stato contattato dall’istituto per esaminarlo, è stato l’astrofisico e divulgatore scientifico israeliano Mario Livio a rivelarne l’esistenza, commentandolo in un articolo sulla rivista “Nature”. Livio trova incredibilmente innovativo il pensiero di Churchill: «Pensa come un astrofisico di oggi. E in un’epoca in cui i politici rifiutano la scienza, è commovente ricordare un leader che si è impegnato così profondamente per questa disciplina».
    Una passione influenzata anche dal dibattito scientifico – e fantascientifico – dell’epoca, scrove il blog “Il Navigatore Curioso”, citando il “Corriere”. Solo un anno prima della stesura dell’articolo, nel 1938, negli Stati Uniti la “Cbs” aveva trasmesso lo sceneggiato radiofonico di Orson Welles “La guerra dei mondi”. «Tratto dall’omonimo romanzo di Herbert George Wells, raccontava uno sbarco di extraterrestri in territorio americano. A sentirlo per radio sembrò vero. E fu il panico». Churchill parte dalla domanda fondamentale: c’è vita, lassù? «Il sole è semplicemente una stella come milioni di altre nell’universo. Perché non potrebbero esistere altri sistemi planetari?». Quindi passa in rassegna le condizioni principali perché si sviluppi «la capacità di riprodursi e moltiplicarsi», arrivando a teorizzare la necessità dell’acqua allo stato liquido. Fino a individuare in Marte e Venere gli unici pianeti del sistema solare capaci di ospitare la vita.
    Zone abitabili, lontane dalla Terra dove in quel 1939 si addensavano le nubi del secondo conflitto mondiale. Troppo profonda era la sua conoscenza del genere umano e della storia, perché lo statista Churchill, massone, non sentisse il bisogno di immaginare “zone franche” dalla follia della guerra, in un altrove interstellare. Non sono poi così convinto, scriveva, «che noi rappresentiamo il culmine dello sviluppo nel vasto orizzonte del tempo e dello spazio». Ma Winston Churchill, indossari i panni prudenti del politico, avrebbe anche “insabbiato” alcuni avvistamenti Ufo avvenuti durante il secondo conflitto mondiale. Secondo la testimonianza del nipote di una sua guardia del corpo, il primo ministro britannico «vietò di diffondere la notizia dell’avvistamento di un Ufo da parte di un bombardiere della Raf (Royal Air Force), che rientrava da un’azione militare contro la Germania». La circostanza è stata rivelata poco tempo fa, in seguito alla pubblicazione online di file finora secretati dai National Archives, in cui è contenuta la documentazione su decine di incontri con “oggetti volanti non identificati”.
    Chruchill aveva timore di creare un’ondata di isteria collettiva, gettando nel panico la nazione in guerra. Ma la notizia è rimasta poi sepolta negli archivi per oltre mezzo secolo. Soltanto nel 1999, infatti, il nipote di un militare della Raf, guardia del corpo di Churchill, scrisse una serie di lettere al ministero della difesa inglese per ottenere chiarimenti su un misterioso incidente di cui il nonno era stato testimone: «Al rientro da una missione sul continente europeo occupato dalle truppe naziste, il bombardiere britannico su cui si trovava l’aviatore sarebbe stato affiancato da un Ufo sopra la Cumbria, regione a nord ovest dell’Inghilterra». Membri dell’equipaggio avrebbero pure «scattato alcune foto di un oggetto volante di natura metallica» che si era «librato in volo senza far rumore». Il nipote dell’aviatore è un fisico di Leicester, esperto di astronomia. E’ scettico: non crede che l’equipaggio della Raf sia davvero venuto a contatto con gli extraterrestri. Ipotizza invece che lo strano oggetto fosse in realtà un velivolo sperimentale, impiegato in qualche esercitazione segreta. Una potenza straniera non identificata stava testando una nuova tecnologia bellica? Ma Churchill non la pensava così: dopo aver ascoltato un esperto militare, che aveva escluso si trattasse di un missile, il premier «ordinò che il segreto sull’episodio si mantenesse almeno per 50 anni».

    C’è vita, là fuori? Possibile che siamo davvero soli, nell’universo? Parola di Winston Churchill, uno dei grandi leader del Novecento. Per la vastità della sua conoscenza e la varietà dei suoi interessi, il leggendario premier inglese della Seconda Guerra Mondiale continua a sorprendere. «Ufo, galassie, pianeti: undici pagine di ragionamenti sulla vita nello spazio che anticipano l’impostazione delle ricerche contemporanee», scrive il “Corriere della Sera”, citando uno scritto inedito del 1939, da allora custodito negli archivi del National Churchill Museum di Fulton, Missouri. Il testo, mai pubblicato, era stato ceduto al museo americano negli anni Ottanta. Dopo essere stato contattato dall’istituto per esaminarlo, è stato l’astrofisico e divulgatore scientifico israeliano Mario Livio a rivelarne l’esistenza, commentandolo in un articolo sulla rivista “Nature”. Livio trova incredibilmente innovativo il pensiero di Churchill: «Pensa come un astrofisico di oggi. E in un’epoca in cui i politici rifiutano la scienza, è commovente ricordare un leader che si è impegnato così profondamente per questa disciplina».

  • Sappiamo cosa vorremmo? No, abbiamo smesso di pensare

    Scritto il 13/9/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Viviamo in tempi stranissimi che, oltre ad un volgare conformismo, non ci consigliano di andare. E chiamiamo questo conformismo “buon senso”, “saper vivere” e persino lealtà alla patria, o addirittura “fede”. Così siamo giunti al punto che manifestare un desiderio di conoscere e riflettere, di pensare, oppure dichiarare di avere un punto di vista diverso da quanto ogni autorità ci propone, significa candidarsi al sospetto. Come minimo, si rischia di trovarsi ai margini del proprio gruppo. L’attuale sistema ha come presupposto che qualcuno pensi e giudichi per tutti. E allora, l’ordine interiorizzato e che nessuno verbalizza, ma che scivola indisturbato nelle pieghe di ogni coscienza è: «Non pensate, gente, non pensate, ricordatevi di non pensare, pensare stanca, è inutile, pensa uno per tutti e vi protegge dal vostro stesso pensiero…». Così viviamo tempi di conformismo coatto. Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «È possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla.
    Da ciò ne discende uno stile di vita che rifugge quasi per istinto dalla complessità dei problemi. Tutto è semplice, tutto ha una soluzione, purchè non si pensi e non si dica a nessuno che la vita è rischio, scommessa, impegno, progetto di costruire insieme qualcosa di bello e sensato. Le società occidentali hanno fatto della libertà la loro bandiera. Nessun valore è stato tanto esaltato, in questi ultimi trecento anni, e nessuno appare, anche oggi (almeno in Occidente), tanto indiscutibile. E’ stato in nome della libertà che si sono sviluppate le grandi rivoluzioni della storia moderna. Ed è sempre appellandosi ad essa che ci si è battuti, nel secolo scorso, contro la potenza soffocante dei totalitarismi. Ma cosa significa, realmente, essere liberi? L’esperienza insegna che è più facile battersi per la libertà, che non individuarne l’effettivo significato. Ma è facile rendersi conto che dal concetto di libertà che si adotta dipende anche il tipo di liberazione per cui ci si deve battere.
    Se consideriamo la libertà come quella condizione nella quale non si è costretti da niente e da nessuno a fare o non fare qualcosa, poniamo l’accento esclusivamente sugli ostacoli esteriori che spesso limitano l’azione del soggetto e ne mortificano l’autonomia. A questa idea si sono ispirate e si ispirano molte battaglie per la liberazione da condizionamenti politici, economici, sociali e culturali. E certo il poter fare senza ostacoli ciò che si desidera costituisce una condizione necessaria della libertà. Ma è anche sufficiente? A farcene dubitare potrebbe essere il fatto semplicissimo che di una libertà così intesa si può parlare anche a proposito di animali non umani. Un cane è “libero” se non è attaccato al guinzaglio. In realtà, c’è da chiedersi se una persona realizzi veramente la sua libertà quando può fare ciò che desidera. E’ possibile, infatti, porre una questione più a monte, e cioè se questa persona sia libera di desiderare quello che desidera.
    In una società come la nostra, dominata dai meccanismi della pubblicità, questo dubbio si impone con particolare evidenza: è veramente libero che, subendo un bombardamento quotidiano di messaggi più o meno subliminali, si trova a desiderare un prodotto di cui non avrebbe alcun reale bisogno, anche a costo del sacrificio di altre cose, ragionevolmente assai più utili? L’esempio più eclatante di tale fenomeno è il clamore suscitato dal lancio dell’ultimo modello di iPhone, che rispetto ai suoi predecessori ha veramente poche novità. Eppure, il martellamento mediatico ha generato in numerosi giovani il desiderio di acquistarne uno, ad un prezzo è estremamente elevato e senza nessuna reale utilità rispetto ad un telefono cellulare “normale”. La domanda è: sono realmente io a desiderare, o c’è qualcun altro che mi spinge a desiderare? Il fatto è che il desiderio, come tale, è facilmente condizionabile dall’esterno. Esso dipende dagli oggetti che ci si presentano e nei cui confronti siamo liberi di sentirci attratti o meno.
    Esiste, tuttavia, un livello in cui la libertà umana si manifesta nella sua peculiarità ed è quello della volontà. Qui non si tratta più di poter fare, ma di poter scegliere ciò che si vuole fare. Per questo, però, è essenziale il pensiero. Senza pensiero la libertà si appiattisce sul livello dei riflessi condizionati. Accennavamo prima ai meccanismi della pubblicità. Si pensi anche alle mode e all’omologazione che ne risulta in tutti i settori, da quello dell’abbigliamento a quello, ben più delicato, delle opinioni etiche, politiche o religiose. Oggi è molto difficile sfuggire a questa forma di dominio invisibile. Ed esso è tanto più pericoloso in quanto censura non le risposte, ma le stesse domande. Moltissimi uomini e donne, oggi, vivono alle prese con problemi che sono stati messi in “agenda” da altri. Ebbene, ciò è caratteristico dei totalitarismi che, a differenza degli antichi regimi assolutistici, mirano non a soffocare le opposizioni, ma a conquistare il cuore e la mente delle persone, plasmandole per così dire “dall’interno”, piuttosto che costringendole dall’esterno.
    È chiaro che se si adotta il concetto dominante di libertà, le nostre società, apparentemente, sembrano essere libere, senza nessun limite esteriore, ma sono minacciate da una forma di oppressione totalitaria che può essere individuata e denunziata solo se si adotta un concetto più ampio di libertà, che naturalmente non escluda il primo, ma lo collega al problema della scelta consapevole e non soltanto al comportamento esterno. A questo punto il problema del pensiero si rivela drammaticamente attuale. Se su di esso si gioca il valore della libertà, nel suo significato più pieno, vale la pena chiedersi perchè oggi sia così debole di fronte alle sfide della vita personale e sociale, e come sia possibile restituirgli la sua forza. Forse bisognerebbe cominciare dallo spegnere la nemica numero uno dell’umanità: la televisione!
    (“Purchè non si pensi: utilizzare la libertà per instaurare il totalitarismo dei desideri indotti”, dal blog “Il Navigatore Curioso”, agosto 2017).

    Viviamo in tempi stranissimi che, oltre ad un volgare conformismo, non ci consigliano di andare. E chiamiamo questo conformismo “buon senso”, “saper vivere” e persino lealtà alla patria, o addirittura “fede”. Così siamo giunti al punto che manifestare un desiderio di conoscere e riflettere, di pensare, oppure dichiarare di avere un punto di vista diverso da quanto ogni autorità ci propone, significa candidarsi al sospetto. Come minimo, si rischia di trovarsi ai margini del proprio gruppo. L’attuale sistema ha come presupposto che qualcuno pensi e giudichi per tutti. E allora, l’ordine interiorizzato e che nessuno verbalizza, ma che scivola indisturbato nelle pieghe di ogni coscienza è: «Non pensate, gente, non pensate, ricordatevi di non pensare, pensare stanca, è inutile, pensa uno per tutti e vi protegge dal vostro stesso pensiero…». Così viviamo tempi di conformismo coatto. Se vogliamo essere tranquilli, siamo invitati a metterci tutti in divisa, ad essere senza volto. Scriveva Karl Jaspers: «È possibile spiegare tutto, senza nulla comprendere». Proprio quanto ci sta accadendo. Crediamo di sapere tutto senza comprendere nulla.

  • Psyops: come ci hanno manipolato e ingannato per 70 anni

    Scritto il 11/9/17 • nella Categoria: Recensioni • (3)

    Un percorso da brividi. Proprio così: questo il testo predisposto da Solange Manfredi con la redazione di “Psyops”. Un percorso ben documentato, che suscita ripetutamente il brivido di una conferma lungamente attesa: «Ma allora era proprio così, non ero uscito di senno…». In tanti avevamo sospettato, in parte anche saputo per esperienza diretta, di essere oggetto di trame per condizionarci in certe direzioni di scelta politica. E avevamo compreso che potenze straniere, spesso legate ad oscuri poteri manipolatori, avevano “talvolta” operato per influenzarci. E come sempre tutti i grandi media, gli accademici “riconosciuti” e le persone “sensate”, ribattevano con grande sicurezza che non era così. Che tutto era trasparente, e che questo era il solito “complottismo” privo di fondamento. Un coretto così diffuso e “autorevole” da insinuarci talvolta qualche dubbio… Ma era solo l’antico coretto plaudente degli inconsapevoli condizionati o dei servi del potere. Da questo rigoroso studio di Solange Manfredi emerge invece con forza qualcosa di ben più solido del momentaneo sospetto: la certezza che il disegno di manipolazione delle masse, delle classi politiche e delle dirigenze italiane è un vero e proprio, costante modus operandi.
    Sempre in funzione di condizionamento e stravolgimento delle regole e dei principi di democrazia. E per nulla sporadico. E che a questo gioco perverso si sono prestate schiere di traditori del loro paese e della propria coscienza, spesso dentro le strutture dello Stato. Talmente “dentro” da risultare normalmente del tutto, ancora, impuniti. Se i cittadini o i politici si orientano liberamente in certi modi, c’è sempre qualcuno che fa di tutto per porli nelle condizioni di scegliere diversamente, in direzioni che corrispondono non agli interessi o alle autonome opzioni dei cittadini, ma ai disegni schiavizzanti dei grandi poteri di manipolazione che si muovono dietro le quinte. E questo avviene di norma nella pressoché totale impunità e senza badare ai mezzi che freddamente e cinicamente si adoperano: corruzione, stragi, bombe, omicidi, terrorismo… persino guerre. Si creano tensioni e inimicizie che non esistevano, si imbrogliano generazioni di ragazzi, di cittadini e di politici con falsi problemi, false ideologie, falsi leader, falsi profeti, falsi schemi mentali. E ad organizzare queste trame, personaggi spesso oscuri ma insolitamente potenti, una strana commistione tra esoterismo deteriore, capacità di corruzione, affarismo e profili morali bassissimi.
    E sono loro a cucire insieme ordini oscuri, servizi segreti, ideologie depravate, ragazzi immaturi, servitori deviati dello Stato, carrieristi politici senza scrupoli, industriali e finanzieri impauriti o affamati, giornalisti venduti, pezzi di logge massoniche e di ordini religiosi. Per eseguire precise strategie di manipolazione che come primo obiettivo hanno quello di ridurre gli spazi di crescita e di libertà delle nostre coscienze. Perché rimangano schiave di quegli stessi antichi poteri che, pur cambiando di epoca in epoca volti e modalità, proprio grazie alle catene psichiche che ci opprimono continuano a dominare il mondo della politica, della scienza, della cultura e dell’economia. Ecco, sono proprio queste “catene psichiche” – che noi normalmente già nutriamo nella nostra vita individuale – che gli stessi poteri amplificano e sfruttano in modo raffinato, freddo e calcolato.
    Aggiungendo al momento opportuno paure, ansie, seduzioni, con quegli antichi meccanismi che ora gli anglosassoni – amanti delle sigle e delle abbreviazioni – chiamano Psyops, Psychological Operations. Questo libro documenta con chiarezza come questo sia avvenuto con costanza e pervicacia per settanta anni della nostra storia recente, e getti ancora un’ombra sinistra sul presente e sul futuro, facendo sorgere un’ovvia domanda: lo stanno facendo anche adesso? Nulla è cambiato nelle strutture di potere, che stanno anche ora continuando a manipolare le nostre coscienze con gli stessi intenti, e certamente continueranno a farlo. Basta guardarsi intorno con occhi lucidi e pensiero libero per rendersene conto. Volti e temi nuovi sono solo le maschere aggiornate di vecchissimi poteri. Sia negli schieramenti di maggioranza che nelle opposizioni, che vengono accuratamente selezionate, condizionate o create per alimentare il gioco della manipolazione, come risulta ottimamente documentato dal testo di Solange Manfredi.
    E le efficaci manovre occulte dell’ineffabile spia crowleyana Cambareri traggono alimento da una ideologia “mondialista” che si ritrova decenni dopo nelle motivazioni occulte dell’assassinio di Aldo Moro, e tuttora nei pesanti condizionamenti eurocentrici alla sovranità delle democrazie europee. La firma dietro le manovre di Cambareri appare la stessa che è dietro al caso Moro e alle pesanti spinte accentratrici odierne. Esiste una qualche possibilità di difendersi da queste manovre? Certamente, e risiede nelle stesse coscienze che vengono da sempre aggredite per essere schiavizzate e vampirizzate. Quelle stesse coscienze possono informarsi, scoprire le manipolazioni, destarsi, resistere, decidere liberamente del proprio destino… E proprio in questi anni stanno cominciando a farlo in numeri ancora minoritari ma crescenti, sempre più difficili da manipolare. Solo questo renderà “un giorno” le Psyops inutili, e noi più liberi.
    (Fausto Carotenuto, “Psyops, un importante libro rivelatore di Solange Manfredi – da leggere”, dal blog “Coscienze in Rete” del 20 giugno 2014. Il libro: Solange Manfredi, “Psyops”, ovvero “70 anni di guerra psicologica in Italia: come ci hanno manipolato, messi l’uno contro l’altro e mandato in guerra, per controllarci meglio”, edito da “Narcissus.me”, disponibile in ebook a euro 9,99 e in versione cartacea a euro 17,30. Propaganda, provocazioni, falsi incidenti e false flag terroristiche: il libro affronta un vasto arco storico, dalla Prima Guerra Mondiale al Trattato di Lisbona, attraverso Rivoluzione Russa e Trattato di Versailles, Seconda Guerra Mondiale, mafia e massoneria, Portella della Ginestra, l’attentato a Togliatti, il Piano Solo e la strategia della tensione, il golpe Borghese e gli opposti estremismi, il golpe Sogno, le Br e il sequestro Moro, Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, fino all’instaurazione dell’Eurozona).

    Un percorso da brividi. Proprio così: questo il testo predisposto da Solange Manfredi con la redazione di “Psyops”. Un percorso ben documentato, che suscita ripetutamente il brivido di una conferma lungamente attesa: «Ma allora era proprio così, non ero uscito di senno…». In tanti avevamo sospettato, in parte anche saputo per esperienza diretta, di essere oggetto di trame per condizionarci in certe direzioni di scelta politica. E avevamo compreso che potenze straniere, spesso legate ad oscuri poteri manipolatori, avevano “talvolta” operato per influenzarci. E come sempre tutti i grandi media, gli accademici “riconosciuti” e le persone “sensate”, ribattevano con grande sicurezza che non era così. Che tutto era trasparente, e che questo era il solito “complottismo” privo di fondamento. Un coretto così diffuso e “autorevole” da insinuarci talvolta qualche dubbio… Ma era solo l’antico coretto plaudente degli inconsapevoli condizionati o dei servi del potere. Da questo rigoroso studio di Solange Manfredi emerge invece con forza qualcosa di ben più solido del momentaneo sospetto: la certezza che il disegno di manipolazione delle masse, delle classi politiche e delle dirigenze italiane è un vero e proprio, costante modus operandi.

  • Il filosofo: diventare vegani è un obbligo, per noi occidentali

    Scritto il 02/9/17 • nella Categoria: idee • (11)

    Amo gli animali e credo che abbiano il nostro stesso diritto di stare al mondo. Spesso si dice che essere “vegan” è una moda degli ultimi anni? La questione animale non coincide col veganismo ma è nata con la stessa filosofia. Già Aristotele, Platone, Pitagora, Plutarco parlano della relazione tra uomo e animali. Ma anche Cartesio o Heiddeger la affrontano. Possiamo dire che la questione animale è intrinsecamente legata alla cultura umana. In una delle prime opere d’arte di cui abbiamo testimonianza, le pitture nella Grotta di Chauvet, in Francia, troviamo raffigurati bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi. E così via. Il veganismo, invece, è un progetto culturale nato recentemente e strettamente legato al problema che lo ha generato: lo specismo, nato con l’industrializzazione della produzione del cibo. Sintetizzando, possiamo dire che nel dibattito sulla “questione animale” è diventato più stringente il tema del “mangiare o meno gli animali”. Per questo il veganismo è un prodotto tipicamente occidentale, che ha senso solo in una società dove esistono delle alternative al non mangiare carne.
    Cioè: non ha senso parlare di veganismo in Africa, ad esempio. Il veganismo è un prodotto tipico della società borghese occidentale. E ritengo, se vogliamo portare questo concetto alle estreme conseguenze, che dovremmo considerare molto più “vegano” un pescatore di un villaggetto thailandese che si nutre di quello che pesca rispetto a un turista occidentale che vola in aereo a Bangkok e si mette a cercare un supermercato dove acquistare un hamburger di soia preconfezionato. Nella nostra società, la scelta “vegan” è la migliore. Noi occidentali, se vogliamo vivere una vita giusta, abbiamo l’obbligo di diventare vegani. Non abbiamo altra scelta. L’uomo è un consumatore di suolo e la scelta “vegan” a livello alimentare – ad esempio – è la soluzione più veloce per ridurre il nostro impatto ambientale. Ma l’etica è contestuale, e la filosofia ha senso solo se tiene insieme l’utopia radicale e il mondo concreto. Bisogna anche prendere atto della realtà: un mondo umano senza violenza, sia contro gli altri uomini che contro gli altri animali, non è possibile. Anche se io lotterò sempre, fino alla fine, contro questa violenza.
    Come mi spiego un clima abbastanza diffuso di “diffidenza” verso chi ha scelto uno stile di vita non violento verso gli altri animali? L’animalismo è fatto anche di prese di posizioni radicali perché è nato in ambienti radicali negli anni ’70. Per questo spesso fa fatica ad accettare cambiamenti positivi, ad esempio nella situazione degli animali negli allevamenti o nelle tendenze di consumo. È abolizionista e non riduzionista. Inoltre dobbiamo tenere conto che gran parte del nostro sistema economico si regge sullo sfruttamento animale, e una critica a questo sistema è problematica. Bisogna poi sottolineare che quando il sistema in cui vivi giustifica un tipo di violenza (in questo caso contro gli animali) è difficile cambiare prospettiva. Per questo ritengo che oggi essere animalisti sia una scelta di infelicità. Perché è impossibile “integrarsi”, mescolarsi con altre culture (per esempio quando non puoi assaggiare e condividere certi cibi) e perché ogni giorno è fonte di sofferenza nel sapere e vedere cosa accade agli animali. Per questo non riesco a biasimare la miriade di persone che, coscienti della violenza delle nostra società, scelgono di non vedere. Lottare per cambiare questa situazione? Sì, certo. La mia vita perderebbe di senso se io stesso non lo facessi. L’animalismo è un esercizio di realtà, oltre che di amore. Recentemente è morto il mio cane, e non posso smettere di pensare a quante cose mi ha trasmesso. Gli animali sono una fonte meravigliosa di scoperta del mondo, e nutrirsi di loro è semplicemente una follia.
    (Leonardo Caffo, dichiarazioni rilasciate a Beatrice Montini per l’intervista “Noi occidentali abbiamo l’obbligo di diventare vegani”, pubblicata dal “Corriere della Sera” il 2 agosto 2017. Caffo, ricorda il “Corriere”, è uno dei pochissimi filosofi che in Italia si occupino di “antispecismo”. E’ autore di libri come “Il maiale non fa la rivoluzione”, edito da Sonda nel 2013).

    Amo gli animali e credo che abbiano il nostro stesso diritto di stare al mondo. Spesso si dice che essere “vegan” è una moda degli ultimi anni? La questione animale non coincide col veganismo ma è nata con la stessa filosofia. Già Aristotele, Platone, Pitagora, Plutarco parlano della relazione tra uomo e animali. Ma anche Cartesio o Heiddeger la affrontano. Possiamo dire che la questione animale è intrinsecamente legata alla cultura umana. In una delle prime opere d’arte di cui abbiamo testimonianza, le pitture nella Grotta di Chauvet, in Francia, troviamo raffigurati bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi. E così via. Il veganismo, invece, è un progetto culturale nato recentemente e strettamente legato al problema che lo ha generato: lo specismo, nato con l’industrializzazione della produzione del cibo. Sintetizzando, possiamo dire che nel dibattito sulla “questione animale” è diventato più stringente il tema del “mangiare o meno gli animali”. Per questo il veganismo è un prodotto tipicamente occidentale, che ha senso solo in una società dove esistono delle alternative al non mangiare carne.

  • Summa Symbolica: noi e la memoria ancestrale dell’universo

    Scritto il 20/8/17 • nella Categoria: Recensioni • (3)

    C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.
    Proprio l’approccio razionale al mondo sfuggente dei simboli è l’ambizioso l’obiettivo di “Summa Symbolica”, primo volume – introduttivo, metodologico – del vasto lavoro di Carpeoro, simbologo di formazione massonica e rosicruciana, con alle spalle trent’anni di studi sul mondo dei segni tradotti in simboli – segni visivi ma anche sonori, musicali, e persino olfattivi, tattili e gustativi. E’ una dimensione, quella simbolica, nella quale siamo costantemente immersi: meno ce ne rendiamo conto, e più rischiamo di subirla. Esempio: «Verso mezzogiorno, nei supermercati, viene spesso diffuso il profumo del pane caldo, appena sfornato: è un odore che diventa simbolo, innesca la memoria di ciascuno e serve a incrementare la motivazione d’acquisto, da parte degli ignari consumatori». Un simbolo può essere acustico: è il caso del segnale di pericolo emesso dalla gazzella quando, nella savana, avvista la leonessa in caccia. E’ un richiamo straziante, drammatico: l’imitazione perfetta dell’ultimo rantolo esalato, chissà quando, da una gazzella catturata e sbranata. Lo hanno scoperto gli etologi: le gazzelle superstiti assistettero alla predazione e udirono quel grido. Che da allora, una volta riprodotto, avverte le consimili, in modo inequivocabile, dell’imminente pericolo di morte.
    Ricostruendo l’origine del simbolo, a partire dal “simbolo Universo” e dal “simbolo prima del segno”, Carpeoro si sofferma a lungo sull’analisi del mondo originario da cui il simbolo discende, cioè la dimensione degli archetipi che affollano la “memoria ancestrale”. L’autore esamina le diverse interpretazioni del mondo archetipico sviluppate dal pensiero contemporaneo a partire da Jung, per poi passare attraverso studiosi come Mircea Eliade, Elémire Zolla, il simbologo René Guénon, pensatori meno noti come Réné Alleau e autori controversi come Julius Evola. «A nostro avviso – scrive Carpeoro – i nostri primi grandi archetipi, che noi denominiamo “protoarchetipi” o “specula” sono quelli fondati appunto sulla specularità: buio-luce, silenzio-suono, dolore-piacere, vita-morte». Che cosa sono? «Sono le nostre prime cognizioni o percezioni», cioè «gli eventi primari, fisici o metafisici», tutti derivanti dall’evento base, primigenio, espresso da Amleto: “Essere o non essere”». La cronologia esatta va invertita, e cioè: “non-essere, essere”. Prima il nulla, poi la creazione. Quel motto di Amleto caratterizza anche «il dubbio esistenziale, psicoanalitico e letterario, relativo ai sogni e alla distinzione dei medesimi rispetto alla vita reale, sintetizzato dalla massima “La vita è un sogno e la morte è il risveglio”, del grande scrittore spagnolo Pedro Calderón de la Barca”».
    «L’evento base “non essere, essere”, o anche “tutto e il contrario di tutto”, realizza il Primo Archetipo», che Carpeoro chiama “Speculum”, specchio. Da quello, e dagli altri “protoarchetipi”, «derivano tutti gli schemi simbolici che ci circondano e ci spiegano la storia e il cosmo, se e quando ci troviamo nella condizione di interpretarli». Fiabe, leggende e allegorie ripropogono sistemi simbolici anche complessi, poi tradotti nella stessa interpretazione dei sogni, a cui tanta importanza ha attribuito la psicanalisi. Sono tutte porte aperte sul misterioso mondo del “prima”, dove la nostra cognizione della vita comincia a nascere, in modo inafferrabile, a partire dallo “speculum” iniziale, l’opposizione tra “non essere” e “essere”, in realtà destinata poi a ricomporsi in modo complementare, nella comprensione del tutto. In altre parole, il linguaggio dei simboli – in cui si specchiano gli archetipi – può dirci qualcosa di importante sul vero luogo in cui nasce, da sempre, la nostra possibilità di pensiero. Il simbolo, poi, fa a meno dell’ordinario codice alfabetico: può viaggiare per secoli e millenni, conservando intatto il suo messaggio primigenio, a prescindere dale epoche e dalle civiltà attraversate. E’ un messaggero del “grande prima”: ci parla del nostro passato più in ombra, quello che non finisce sui libri di storia: è la meta-storia, quella del pensiero (anche invisibile) da cui poi sgorga la storia vera e propria.
    Nell’agile narrazione del primo volume di “Summa Symbolica”, arricchita da rapide escursioni nel mondo dell’arte, fino al cinema contemporaneo, si coglie lo sforzo di collocare la “scienza simbolica” in un preciso contesto di ricerca, a metà strada tra filosofia e neuroscienze, nell’intento di restituire piena dignità a una materia sempre e solo affrontata in modo tangenziale, periferico e accessorio. Fondamentale, nel lavoro di Carpeoro, la precisione con cui l’autore descrive la meccanica del simbolo, il suo funzionamento, che risponde a regole precise (l’autore le chiama “leggi”). La prima è quella che definisce il simbolo come rappresentazione di un archetipo. Fondamentale la Prima Legge di Guénon: nel simbolo, il piccolo può rappresentare il grande, l’inferiore il superiore, la parte il tutto – mai viceversa. Esistono leggi statiche, che espandono il simbolo in orizzontale, e leggi di corripondenza, secondo cui il simbolo deve contenere le esatte corripondenze della realtà rappresentata (nella frase “come in cielo, così in terra” rivive il motto esoterico “quod superius, sicut inferius” degli antichi alchimisti: al microcosmo corrisponde sempre il macrocosmo).
    Il simbolo, riassume Carpeoro, obbedisce anche a leggi dinamiche: può essere trasmesso in modo consapevole, mediante iniziazione, o in maniera inconsapevole, per semplice ripetizione (tradizione). Il simbolo ha inoltre precise funzioni: sintetica ed evocativa. «Se per la funzione sintetica è sufficiente un unico simbolo, per la funzione evocativa è necessaria una pluralità di simboli organizzata in linguaggio». A cascata, i sistemi simbolici che costituiscono il cuore delle fiabe vivono in un habitat narrativo fatto di emotività (pathos), mentre è l’epos a “ingigantire” la narrazione delle leggende, e una terza chiave – l’ethos – governa l’allegoria, imponendovi un preciso ordine. Nel sogno, infine, si articola il lògos (parola, racconto), che deriva la greco léghein (legare, collegare) da cui derivano vocaboli come “intelligenza”. Proprio nel sogno, scrive Carpeoro, il cerchio si chiude: in quella esclusiva dimensione, gli archetipi rivivono in purezza. Durante il sonno, la “memoria ancestrale” ci parla direttamente, senza mediazioni. Non disponendo di un linguaggio per tradurla, siamo costretti a ricorrere a espedienti ingegnosi: i simboli, appunto. Per questo è importante imparare il loro linguaggio: potremmo scoprire qualcosa di fondamentale della nostra storia, del nostro pensiero, della nostra vita. Fino a “riconoscere” che molte cose che sappiamo, o crediamo di sapere, hanno un’origine remotissima: “abitano”, da sempre, nella “memoria ancestrale” dell’universo.
    (Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali”, parte prima, “Origine e dinamica dei simboli”, edizioni L’Età dell’Acquario, 221 pagine, 24 euro).

    C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.

  • La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo

    Scritto il 17/8/17 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
    A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».
    Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.
    Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977:  «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».
    L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.
    Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».
    L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era  politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».
    L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.
    Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.
    «Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che  a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.
    Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele,  che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».
    Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi,  i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.

    La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.

  • Foa: non toccate i blog, le fake news vengono dalla stampa

    Scritto il 16/8/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.
    A distanza di anni il Fmi ha ammesso i propri errori e oggi veniamo a scoprire che gli unici ad arricchirsi sono stati i tedeschi, che non solo hanno evitato di sopportare i costi di un default greco ma hanno poi lucrato 1,34 miliardi sui bond della salvezza. Idem sull’euro: era un tabù persino parlarne in maniera dubitativa. La grande stampa ha negato spazio alle voci critiche, come invece avrebbe dovuto, salvo ricredersi… a distanza di 16 anni. Ora, timidamente, anche sui giornali color salmone si odono voci critiche. In Siria, i grandi media hanno evidenziato denunce clamorose come quelle su “esecuzioni di massa e corpi bruciati nei forni crematori di Saydnaya“, subito messe in dubbio da diversi blogger, esperti di politica estera e di comunicazione. Era chiaramente un’operazione di “spin”, ma chi dubitava veniva ignorato o tacciato di complottismo. Dopo qualche settimana il Dipartimento di Stato Usa ha rettificato la notizia, che però è stata comunicata in sordina dalla stampa mainstream.
    Il flop mediatico sulla vittoria di Trump e sul sì Brexit è ormai noto a tutti. Immigrati e Ong: c’è voluto un giovane di 23 anni, Luca Donadel, per documentare un fenomeno sconcertante per la sua vastità, quello delle navi delle Ong che vanno a prendere gli immigrati al largo della Libia. Nessun giornalista se n’era accorto e, per settimane, i grandi media hanno ignorato lo scoop del bravo Donadel (a proposito: dargli un premio di giornalismo, no?) rompendo il silenzio solo quando il rumore mediatico sul web è diventato così alto da non poter essere più ignorato. Potrei continuare con tanti altri esempi, ma mi fermo qui. Mi limito a due considerazioni. La prima: la grande stampa internazionale si segnala soprattutto per conformismo e per eccessiva compiacenza con l’establishment. Quando diventa coraggiosa lo fa sempre in coro e sempre in modo strumentale, sapendo di avere le “spalle coperte”.
    Quel che accade negli Stati Uniti è emblematico: “Washington Post” e “New York Times” sono diventate delle “caselle postali”, in cui mani compiacenti depositano anche documenti coperti dal segreto di Stato, con una disinvoltura senza precedenti, che sarebbe stata denunciata come scandalosa e perseguita legalmente con qualunque altro presidente, ma che diventa bene accetta se è frutto di un’evidente saldatura tra il cosiddetto Deep State e il 90% della stampa. Una saldatura che, peraltro, non riguarda solo gli Usa, ma quasi tutte le grandi democrazie occidentali, che è nefasta per la democrazia ed è una delle ragioni della crescente sfiducia di ampie fasce di lettori. La stampa non rinascerà se non recupererà il senso della propria missione e tornerà a servire innanzitutto i lettori, anziché l’establishment.
    La seconda: l’ho già scritto e lo ribadisco. La polemica sulle “fake news” mira non a garantire un’informazione più corretta ma, innanzitutto, a mettere a tacere le voci davvero libere, quelle che rompono la narrativa ufficiale. Ogni proposta di regolamentazione in realtà punta a imporre una censura, a intimidire chi esercita davvero la propria funzione critica, ignorando, e questo è davvero gravissimo, che a generare fake news e disinformazione sono, troppo spesso, gli spin doctor al servizio delle istituzioni. Quelle proposte vanno respinte. E il giornalismo davvero libero, davvero coraggioso va difeso con forza.
    (Marcello Foa, “I blogger avevano ragione, la grande stampa torto”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 agosto 2017).

    Ebbene sì, i blogger, i “liberi pensatori”, i giornalisti davvero liberi continuano ad aver ragione e la grande stampa mainstream torto, nel senso che quest’ultima tradisce da troppo tempo quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria e irrinunciabile, di voce critica e coraggiosa della società democratica. Mettiamoci nei panni di un analista – politico o finanziario o strategico – che vuole capire come va il mondo. Se si fosse limitato ai principali media internazionali o di grandi paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania o Italia, i suoi report sarebbero stati lacunosi e, soprattutto, per nulla preveggenti. Le analisi più accurate e le denunce più coraggiose non le avrebbe infatti trovate su quelle colonne, bensì sui blog e sui siti della cosiddetta stampa alternativa, di qualunque orientamento politico, che negli ultimi anni ha saputo leggere molto meglio la realtà. Ecco qualche esempio: per anni, economisti alla Bagnai o alla Sapir, quelli che partecipano ai convegni di “A/Simmetrie”, hanno denunciato l’assurdità, per evidente inefficacia e crudeltà sociale, delle cosiddette misure di salvataggio della Grecia. In perfetta solitudine, perché la stampa “ortodossa” ripeteva la solita litania.

  • Carpeoro: sarà la stella di Novalis a dirci chi siamo davvero

    Scritto il 16/8/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Abbiamo, dentro di noi, un qualcosa di cosmico? Ognuno di noi ha, dentro di sé, qualcosa di cosmico. Un famoso poeta rusicruciano, che si chiama Novalis, un poeta meraviglioso, diceva che ognuno sa ascoltare la voce di una stella, e sa risponderle, perché per ognuno di noi c’è una stella, che parla solo con lui. E cosa si intende, per stella? Si intende l’energia, la vita; che è qualcosa che ci precede e che ci succede, dunque ci accompagna. Noi siamo accompagnati da una scintilla cosmica – quella sì, solo nostra – che, nel momento in cui le nostre energie si ricomporranno in una forma esattamente uguale alla nostra, tornerà a parlarci. E’ una cosa un po’ diversa dalla reincarnazione. La stella è la voce della rinascita, è quella che i cristiani chiamano resurrezione. In questo senso: se pensate a una resurrezione come a una morte non accaduta, quella è una stella.
    Un famoso poeta spagnolo, Calderón de la Barca, scrisse una bellissima opera, che poi fu rappresentata anche in teatro; si chiamava “La vita è un sogno e la morte è il risveglio”. Bellissimo: un pezzo di letteratura straordinario. Racconta la storia di un giovane non saprà mai se è nato ricco o povero, perché da ricco sogna di essere povero, si sveglia, si ritrova ricco, ma ha l’impressione che in quel momento stia dormendo. L’opera si chiude, e lui non sa se è ricco o povero, perché non sa se era ricco mentre dormiva o mentre era sveglio, o viceversa. Shakespeare scrisse qualcosa di analogo – ma non di ugualmente geniale, nonostante fosse Shakespeare; si chiamava “Come piace a voi”. E anche Pirandello scrisse qualcosa di simile (“Così è, se vi pare”) ma non con la forza di Calderón de la Barca, che è tuttora rappresentato praticamente in tutto il mondo, con quest’opera.
    La stella è la dimensione “rinunziare a credere definitivo, reale, ma soprattutto unico il nostro stato attuale”. Noi siamo vincolati all’antropocentrismo, a un legame profondo con la nostra identità – ma non con la nostra identità vera: perché, se noi avessimo scoperto la nostra identità vera, non saremmo antropocentrici, perché sapremmo di essere una stella tra tante stelle. E invece siamo legati a una visione diversa, una visione erronea, e quindi finiamo per essere necessariamente antropocentrici: perché ci sentiamo stelle per come siamo qui, non per come siamo altrove. E’ l’altrove, il problema. E’ la non consapevolezza, la non visione dell’altrove.
    (Gianfranco Carpeoro, frammento della conferenza “I tarocchi e le energie della vita”, tenutasi il 19 settembre 2015 a Rho, Milano, e ripresa su YouTube).

    Abbiamo, dentro di noi, un qualcosa di cosmico? Ognuno di noi ha, dentro di sé, qualcosa di cosmico. Un famoso poeta rusicruciano, che si chiama Novalis, un poeta meraviglioso, diceva che ognuno sa ascoltare la voce di una stella, e sa risponderle, perché per ognuno di noi c’è una stella, che parla solo con lui. E cosa si intende, per stella? Si intende l’energia, la vita; che è qualcosa che ci precede e che ci succede, dunque ci accompagna. Noi siamo accompagnati da una scintilla cosmica – quella sì, solo nostra – che, nel momento in cui le nostre energie si ricomporranno in una forma esattamente uguale alla nostra, tornerà a parlarci. E’ una cosa un po’ diversa dalla reincarnazione. La stella è la voce della rinascita, è quella che i cristiani chiamano resurrezione. In questo senso: se pensate a una resurrezione come a una morte non accaduta, quella è una stella.

  • Onida e Scorza: Ddl Gambaro, il bavaglio al web è illegale

    Scritto il 12/8/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Lotta alle fake news, o meglio alla libertà d’opinione: il decreto legge firmato da Adele Gambaro arriva in Senato (commissioni giustizia e affari costituzionali) e riapre la polemica sulla legge-bavaglio, tra profili di incostituzionalità, correttivi legislativi parziali e grossolani, pericoli per la libertà di pensiero. Costituzionalisti, giornalisti e attivisti, scrive “Terra Nuova”, sono in rivolta contro il Ddl, che vorrebbe regolamentare la circolazione delle informazioni “non veritiere” online. «Proposito teoricamente nobile, ma occorre definire molto bene i confini per non sconfinare nella censura travestita». A proporre una interessante analisi del testo di legge è Valerio Onida, ex giudice della Corte Costituzionale e già presidente della stessa corte, nonché docente universitario, ex presidente della Scuola superiore della magistratura nonché membro del team di “saggi” reclutato da Napolitano per ridisegnare l’assetto costituzionale. «Si tratta di un testo superficiale e non idoneo a normare ciò su cui si propone di intervenire, cioè la “rete”, perché va addirittura a modificare i criteri di punibilità dei reati solo perché il mezzo usato è differente», spiega Onida.
    «L’articolo 21 della Costituzione è chiaro, parla di mezzi di diffusione del pensiero, quindi la rete, come la carta stampata, la televisione o la radio, deve avere gli stessi limiti e le stesse garanzie. Peraltro – ricorda Onida – le norme esistono già, si tratta solo di individuare tecnicamente le modalità più idonee di applicazione». L’articolo 1 del Ddl Gambaro crea un nuovo tipo di reato, quello riconducibile alla circolazione di informazioni attraverso piattaforme informatiche o mezzi telematici, che viene differenziato nel trattamento rispetto all’analogo reato dell’articolo 656 del codice penale che colpisce “chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico”. Poi nel testo si introduce la novità della pena anche per informazioni che riguardino dati o fatti manifestamente infondati o falsi. «Ma chi verifica?», si domanda Onida. «Qui si introduce il “controllo pubblico” sulla verità o falsità dei dati ed è inaccettabile. Sulla base di quali criteri assoluti mai si potrà effettuare la verifica?  Peraltro, sempre l’articolo 1 introduce una disciplina speciale per la diffamazione, che però è già normata da codici e leggi. Anche qui ci si chiede il perché».
    L’articolo 2, poi, per Onida «introduce aspetti pericolosi di controllo pubblico sulle opinioni e sulle idee. Si legge infatti che la pena (reclusione non inferiore a 12 mesi e ammenda fino a 5.000 euro) è prevista anche per chi “svolge comunque un’attività tale da recare nocumento agli interessi pubblici o da fuorviare settori dell’opinione pubblica, anche attraverso campagne con l’utilizzo di piattaforme informatiche destinate alla diffusione online”. Di qui la preoccupazione di numerosi attivisti, associazioni e movimenti nazionali, aggiunge “Terra Nuova”. «Temo che ci sia il tentativo da parte di un soggetto istituito di silenziare la società civile e le sue iniziative di controinformazione», dice Monica Di Sisto, vicepresidente dell’osservatorio sul commercio e il clima Fairwatch, che sta guidando la campagna StopTtip in Italia. «Per punire il procurato allarme o per combattere le notizie false le leggi esistono già». Attenzione: i trattati-capestro come il Ttip, o il suo clone euro-canadese Ceta appena ratificato, hanno testi inaccessibili, riservati, nonostante i trattati coinvolgano pesantemente la vita di titti, stravolgendo le regole su alimentazione, salute, sicurezza, ecologia.
    «Nemmeno i Parlamenti e i governi degli Stati membri sono obbligatoriamente coinvolti nell’andamento delle trattative», aggiunge Di Sisto. «Anche la senatrice Gambaro, per il suo ruolo istituzionale, è chiamata a garantire i diritti costituzionali nella sua forma più ampia e piena». Ritornando al disegno di legge, il professor Onida si sofferma anche sull’articolo 6, che fa riferimento al potenziamento della formazione professionale per i giornalisti per “prevenire il rischio di distorsione delle informazioni o di manipolazione dell’opinione pubblica”. «Anche in questo caso si rischia di definire informazione solo ciò che sta bene al potere pubblico, che decide pure come presentarla», aggiunge Onida. E pure l’articolo 7 «ripropone un inaccettabile controllo dall’alto di verità», visto che «si mette in carico ai gestori delle piattaforme informatiche l’obbligo di verificare l’attendibilità e la veridicità dei contenuti diffusi: ma com’è pensabile?». Per il costituzionalista, «è uno strumento di controllo autoritario e illegittimo». Idem l’articolo 8, l’ultimo, che prevede che la commissione parlamentare per la vigilanza sui servizi radiotelevisivi monitori “gli standard editoriali delle piattaforme informatiche destinate alla pubblicazione e diffusione di informazione con mezzi telematici delle emittenti radiotelevisive pubbliche”.
    «Le ricette proposte dai firmatari del disegno di legge sono anacronistiche, inattuabili, inefficaci e soprattutto ad alto rischio di deriva liberticida», ha scritto dal suo blog sul “Fatto quotidiano” Guido Scorza, docente di diritto delle nuove tecnologie. «Difficile astenersi dal ricordare ai firmatari del disegno di legge – aggiunge Scorza – che era il 2000 quando l’Unione Europea stabilì un principio che è caposaldo di civiltà, libertà e democrazia online diametralmente opposto a quello che loro vorrebbero veder introdotto nel nostro ordinamento: il divieto, per tutti i paesi membri dell’Unione Europea di imporre ai cosiddetti “intermediari della comunicazione” qualsivoglia obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati dai propri utenti». Un divieto, scrive Scorza, che ha una spiegazione semplice e di straordinaria importanza: «Se lo Stato chiede a un soggetto privato di verificare ciò che i propri utenti pubblicano attraverso i propri servizi, questo soggetto, a tutela del proprio portafoglio, inizierà a limitare e restringere la libertà dei propri utenti di dire ciò che pensano online, sacrificando così l’idea che Internet possa rappresentare quella grande agorà democratica – che non significa né Far West, né zona franca senza regole – della quale tutti avvertiamo un gran bisogno».
    Giovanni Ziccardi, docente di informatica giuridica all’università di Milano, ritiene il disegno di legge «inopportuno, pericoloso e censorio» perché «nasconde le sue reali intenzioni di controllo del dissenso». Ziccardi lo trova soprattutto impreciso, sia dal punto di vista tecnico che giuridico: «Punta a soffocare il dibattito in rete caricando di responsabilità, burocrazia e sanzioni utenti e provider. Dall’altra parte “salva”, per molti versi, i due principali vettori di odio, notizie false e disinformazione di oggi, cioè molti grandi media e politici. Ed equipara fenomeni eterogenei tra loro che richiedono, invece, regolamentazioni specifiche. Infatti nella relazione introduttiva si fa riferimento a “fake news”, a espressioni che istigano all’odio e alla pedopornografia. Tre universi molto diversi tra loro». Vede una «chiara deriva autoritaria» anche Federico Pistono, informatico con master alla Nasa, scrittore e co-fondatore di “Axelera”, che si occupa di divulgazione nell’ambito delle nuove tecnologie. Dice: «O sanno come funziona Internet e vogliono censurarlo o non sanno come funziona e sono incompetenti; in entrambi i casi non va bene: di fatto, si prevedono pene per chi esercita il senso critico». Per esempio, «chi mette un dato vero e una propria opinione che magari molti altri condividono ma che non è mainstream, può venire processato e condannato per quello. Tutto ciò non ha nulla a che fare con l’educazione e la sensibilizzazione della popolazione a verificare le fonti di ciò che legge e a pensare con la propria testa».

    Lotta alle fake news, o meglio alla libertà d’opinione: il decreto legge firmato da Adele Gambaro arriva in Senato (commissioni giustizia e affari costituzionali) e riapre la polemica sulla legge-bavaglio, tra profili di incostituzionalità, correttivi legislativi parziali e grossolani, pericoli per la libertà di pensiero. Costituzionalisti, giornalisti e attivisti, scrive “Terra Nuova”, sono in rivolta contro il Ddl, che vorrebbe regolamentare la circolazione delle informazioni “non veritiere” online. «Proposito teoricamente nobile, ma occorre definire molto bene i confini per non sconfinare nella censura travestita». A proporre una interessante analisi del testo di legge è Valerio Onida, ex giudice della Corte Costituzionale e già presidente della stessa corte, nonché docente universitario, ex presidente della Scuola superiore della magistratura nonché membro del team di “saggi” reclutato da Napolitano per ridisegnare l’assetto costituzionale. «Si tratta di un testo superficiale e non idoneo a normare ciò su cui si propone di intervenire, cioè la “rete”, perché va addirittura a modificare i criteri di punibilità dei reati solo perché il mezzo usato è differente», spiega Onida.

  • Vaccini: la scienza non è conoscenza, non ha verità stabili

    Scritto il 09/8/17 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    “La scienza non è democratica”. Quante volte abbiamo sentito dire questa frase in tv riguardo ai vaccini, oppure da qualcuno che lo ripeteva come un mantra? Ma cosa significa esattamente? Vorrebbe per caso dire che un fatto provato rimane tale anche se non è accettato dal popolo? Detta così potrebbe sembrare ragionevole. Ovviamente tutto ruota intorno al concetto di scienza e cosa esattamente voglia dire. Citando un celebre filosofo diciamo cosa non è la scienza: «La scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza: non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità come la probabilità» (Karl Popper, “Logica della scoperta scientifica”). Dovrebbe essere scontato ma bisogna qui ricordare che “la scienza” è un concetto astratto, non esiste se non nella mente degli uomini. Purtroppo sempre più spesso si commette l’errore di indentificare “la scienza” con “la comunità scientifica”, o più maliziosamente qualcuno vorrebbe farlo credere. Ma “la comunità scientifica” a sua volta è un altro concetto astratto, perché anch’essa non esiste; esiste un numero imprecisato di scienziati con le più diverse opinioni, basate tutte su concetti scientifici, chi più chi meno.
    Chiarito il fatto che “la scienza” non scrive le sue leggi sulla pietra, cerchiamo di capire in particolare nella “scienza medica” cosa significa una “verità scientifica”. Il metodo scientifico, su cui gli scienziati si basano, prevede l’osservazione del fenomeno e la sua ripetibilità con un esperimento. Il medico (scienziato?) tuttavia osserva un essere umano che per definizione è un essere unico e irripetibile in un laboratorio, quindi già qui dovremmo cominciare a domandarci quanto un medico possa mai essere uno scienziato. In ogni caso la comunità medica (scientifica?) si è data delle regole proprie per misurare l’“autorevolezza” (concetto che poco si sposa con l’idea di oggettività che siamo abituati a confondere con “scienza”) di una determinata ricerca rispetto ad un’altra. Nel mondo delle pubblicazioni scientifiche, per misurare la prolificità e l’impatto scientifico di un autore, si utilizzano tre numeri: il primo è il numero di citazioni dirette ricevute negli studi altrui, cioè quante volte gli studi di quello scienziato/autore vengono citati e referenziati nelle pubblicazioni, anch’esse accreditate, di altri autori.
    Il secondo numero è l’“i10-index” e rappresenta il numero di pubblicazioni accreditate che hanno al loro interno almeno 10 citazioni degli studi dello scienziato/autore. Il terzo numero è il più indicativo, e il più difficile da calcolare: l’“Indice H” o “Indice di Hirsch” si basa contemporaneamente sul numero di citazioni e sul numero di pubblicazioni: indica quant’è il massimo numero H per autore, con H pubblicazioni che abbiano ciascuna al proprio interno almeno H citazioni degli studi dello scienziato/autore. Per andare sul pratico, prendiamo 3 soggetti coinvolti nel dibattito sui vaccini: il professor Yehuda Shoenfeld, il padre della ricerca sulle malattie autoimmunitarie, spesso citato come fonte autorevole dai free-vax; il professor Roberto Burioni, l’esperto che vediamo sempre in tv e che sponsorizza senza se e senza ma il recente decreto Lorenzin sui vaccini; il dottor Salvo Di Grazia, ginecologo, noto per il suo sito “Medbunker”, su cui si impegna ad attaccare qualsiasi tipo di dubbio riguardo alle pratiche mediche “ufficiali”, o qualsiasi terapia alternativa a quelle ufficiali.
    Ecco i loro punteggi. Professor Yehuda Shoenfeld: citazioni 78.584, i10-index 1.146, indice H: 121 (fonte). Professor Roberto Burioni: citazioni: 2.567, i10-index 61, indice H 27 (fonte). Dottor Salvo Di Grazia: citazioni 0, i10-index 0, indice H: 0. Fonte: nessun link, non risulta proprio su “Google Scholar”. Secondo le stesse regole che si è data la comunità scientifica, quindi, a chi dovremmo dare retta? La cosa più paradossale, di cui chi è arrivato fin qui ormai dovrebbe essersi accorto, è che in realtà “la scienza”, definita come è stata dalla comunità scientifica, somiglia pericolosamente a una moda. Paradossalmente, rispetto al titolo dell’articolo, “la scienza” sembra avere dei tratti “democratici” nel senso che citando gli autori gli si conferisce “autorità” scadendo in un preoccupante “benpensantismo”, “rigorosamente” scientifico. In altre parole, un’idea scientifica in realtà è una moda (o convinzione) fatta dal consenso degli addetti ai lavori e non dal popolo (forse è quello il vero senso della frase “la scienza non è democratica”?). E a questo punto sarebbe lecito anche domandarsi cosa significhi radiare un medico che la pensa diversamente (o almeno questo ci hanno fatto credere) dal pensiero dominante, dalla moda del momento. La storia, tragicamente, si ripete, sempre. Nota: questo articolo chiarisce il pensiero del professor Yehuda Shoenfeld in merito ai vaccini.
    (Federico Giovannini, “La scienza non è democratica”, dal blog “Luogo Comune” del 25 luglio 2017).

    “La scienza non è democratica”. Quante volte abbiamo sentito dire questa frase in tv riguardo ai vaccini, oppure da qualcuno che lo ripeteva come un mantra? Ma cosa significa esattamente? Vorrebbe per caso dire che un fatto provato rimane tale anche se non è accettato dal popolo? Detta così potrebbe sembrare ragionevole. Ovviamente tutto ruota intorno al concetto di scienza e cosa esattamente voglia dire. Citando un celebre filosofo diciamo cosa non è la scienza: «La scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza: non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità come la probabilità» (Karl Popper, “Logica della scoperta scientifica”). Dovrebbe essere scontato ma bisogna qui ricordare che “la scienza” è un concetto astratto, non esiste se non nella mente degli uomini. Purtroppo sempre più spesso si commette l’errore di indentificare “la scienza” con “la comunità scientifica”, o più maliziosamente qualcuno vorrebbe farlo credere. Ma “la comunità scientifica” a sua volta è un altro concetto astratto, perché anch’essa non esiste; esiste un numero imprecisato di scienziati con le più diverse opinioni, basate tutte su concetti scientifici, chi più chi meno.

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