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Archivio del Tag ‘politica’

  • 5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi

    Scritto il 15/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
    «Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).
    «Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».
    Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».
    La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?
    «Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».
    Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».
    In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?
    «Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).
    Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.
    Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».
    Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».
    Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».
    «Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».
    «Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».
    Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».
    La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».
    E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.

    Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.

  • Derby tra Mélenchon e Le Pen: un incubo, per i bankster Ue

    Scritto il 15/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».
    Tra parentesi, il “centrista” Macron proviene dalla filiale francese della banca dei Rothschild, mentre l’altro candidato “istituzionale”, l’ex premier François Fillon, propone un supplemento di austerity con altri tagli al spesa pubblica e al welfare. Ancora qualcuno si stupisce se “la Francia” ha tutto, meno che “paura”, di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, entrambi ultra-critici sull’euro, la Nato e le sanzioni alla Russia? «Davanti a questo scenario – continua il “Post” – il presidente francese, Francois Hollande, ha rotto il silenzio: secondo il quotidiano “Le Monde” moltiplicherà gli appelli contro il pericolo “populista”». Ballottaggio tra il candidato della sinistra alternativa e la candidata del Front National? Uno scenario che secondo i media mainstream intimorisce i “mercati”, con l’innalzamento dei tassi sul debito pubblico francese. Senza spingersi fino a chiedere un voto per il candidato di “En Marche”, cioè Macron, l’incolore Hollande sembra invece scaricare in modo definitivo il candidato socialista (almeno sulla carta compagno di partito) Benoit Hamon. «L’emotività sta prevalendo sulla ragione», sentenzia Hollande, rivelatosi il presidente meno stimato di tutta la storia repubblicana francese.
    Anziché per il suo disastroso bilancio politico ed economico, l’Eliseo è preoccupato per la spettacolare impennata, nei sondaggi, del candidato della “France Insoumise”, che allarmerebbe i “bankster”, gli squali della finanza, al pari della Le Pen. Hollande però si guarda bene, per ora, dallo schierarsi con Macron: sa perfettamente che la mossa «potrebbe rivelarsi controproducente», dato il vasto discredito di cui gode il presidente uscente. Nel frattempo, al finto indipendente Macron e al gollista Fillon non resta che giocare di sponda per arginare Mélenchon. A Besançon, racconta l’“Huffington Post”, Macron si è scagliato contro «il rivoluzionario comunista che era giù senatore socialista quando io ancora andavo al college». Fillon, che sinora ha sempre avuto come bersaglio Macron e – seppur in minor misura – la Le Pen, ha inserito tra i suoi nemici anche Mélenchon. Ma il candidato della sinistra radicale ha contro “Le Figaro”, che lo definisce «il Chavez francese», mentre su “France Inter” si denuncia il “pericolo comunista”, fino al ridicolo: per il giornalista Patrick Cohen, «non siamo lontani dallo spauracchio dei carri armati russi del 1981».

    «Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».

  • Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali

    Scritto il 12/4/17 • nella Categoria: idee • (6)

    La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
    Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.
    Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.
    Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.
    Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.
    Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.
    Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.
    (“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).

    La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.

  • Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere

    Scritto il 12/4/17 • nella Categoria: idee • (3)

    L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
    «Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».
    L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».
    Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».
    Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».

    L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?

  • Praga si sgancia dall’euro, nuovo schiaffo all’Unione Europea

    Scritto il 11/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.
    Finora, scrive Tarquini, il cambio minimo era stato adottato per impedire che rimesse e investimenti dei cittadini cèchi all´estero divenissero troppo cari e che il tasso d´inflazione, attualmente attestato al 2,5% annuo (cioè ben oltre il tetto del 2% fissato come obiettivo dall’istituto d´emissione di Praga) aumentasse ancora. Adesso, la banca centrale cèca ha scelto come male minore lo sganciamento totale dall´euro. «La decisione ha un doppio sfondo», secondo “Repubblica”. «Primo, le elezioni del prossimo autunno, il cui esito si annuncia incerto, e a cui il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka vuole arrivare da posizioni della minor debolezza possibile. Secondo, negli ultimi tempi la corona cèca era nel mirino degli speculatori internazionali. I fondi hedge, in genere di carattere speculativo, hanno scommesso 65 miliardi di dollari su una rivalutazione della divisa cèca, costringendo la banca nazionale di Praga a interventi sui mercati. Turbolenze sul bilancio pubblico e sulle riserve in valuta cèche hanno spinto l’istituto alla misura estrema».
    La decisione, aggiunge Tarquini, ricorda agli operatori dei mercati la scelta fatta nel gennaio 2015 dalla Svizzera (non membro della Ue) di sganciare il franco dall´euro, «scelta che provocò un terremoto finanziario internazionale colpendo l´euro con il piú massiccio deprezzamento da quando esiste». Un ´Czexit´ limitato allo sgancio della corona dall’euro avrebbe conseguenze più limitate. «Al momento, l´euro si è deprezzato a fronte della divisa cèca, restando però stabile sul dollaro. Ma gli esperti si dividono sul grande interrogativo, se ciò potrà allontanare la piccola ma decisiva democrazia industriale centroeuropea dall’Unione in generale, a medio termine anche a livello politico». A fronte del recente apprezzamento della corona verso l´euro, e quindi della perdita di valore delle riserve cèche in valute forti, Praga non ha visto altra scelta. Uniche alternative? Massicce vendite delle riserve o un ingresso accelerato nell´euro. Ma la moneta unica europea, specie nel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) appare sempre meno attraente. E a Praga come altrove, all´Est, «la stessa Ue è vista da non pochi politici ed elettori come una lontana e inefficiente entità burocratica che può costituire una minaccia potenziale alla sovranità nazionale», che Praga ha riconquistato dopo mezzo secolo di dominazione dell’Urss.

    Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.

  • Massoni al potere? Magaldi: chiedete a Monti e Napolitano

    Scritto il 10/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?
    «Inviterei Rosy Bindi a chiedere conto al senatore a vita Mario Monti e all’ex presidente Giorgio Napolitano delle influenze nefaste che le loro rispettive superlogge di appartenenza, “Babel Tower” e “Three Eyes”, hanno avuto sulla vita istituzionale e socio-economica dell’Italia», dichiara Magaldi, che chiede alla commissione antimafia di acquisire, agli atti, il suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), nel quale rivela il ruolo di 36 Ur-Lodges internazionali (logge madri) indicate come “grandi manovratrici” delle maggiori trame di potere, in tutti i paesi, fino al pesante condizionamento dei governi, incluso quello italiano. «Senatori (Laura Bottici in particolare) e deputati M5S hanno presentato interrogazioni parlamentari sugli inquietanti legami massonici sovranazionali di ispirazione neoaristocratica che hanno ispirato l’incarico di governo dato dal “fratello” Napolitano al “fratello” Monti nel 2011, inaugurando uno degli esecutivi più rovinosi della storia della repubblica», dichiara Magaldi al giornalista del “Corriere”.
    In Italia, ricorda Magaldi, le principali comunioni massoniche sono il Goi, la Gran Loggia d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia e la Camea, «guidata dal mio fraterno amico Roberto Luongo». Poi, aggiunge, vi sono una moltitudine di comunioni (obbedienze) minori, per un totale di qualche decina di migliaia di massoni “ordinari”. «Ma, in Italia, come altrove – precisa Magaldi – a contare davvero non sono più queste comunioni (federazioni di logge su base nazionale), bensì le reti delle superlogge sovranazionali (Ur-Lodges)», a cui è dedicato l’esplosivo saggio uscito a fine 2014, in uscita in Spagna e in via di pubblicazione anche in inglese, francese, tedesco, russo, cinese e arabo. Magaldi, che nel suo libro ha “messo in piazza” i nomi dei massimi responsabili della svolta autoritaria e “neo-aristocratica” della politica internazionale, dominata da un’élite super-massonica “reazionaria”, denuncia al tempo stesso «i pregiudizi italioti verso la massoneria», e nel suo libro ricorda che «i massoni delle reti sovranazionali», in passato, hanno «costruito la contemporaneità, le società aperte, libere e democratiche, laiche, tolleranti e fondate sullo Stato di diritto». I giornali cadono dalle nuvole, quando si parla di massoneria di potere? «Li invito alla lettura del mio libro – conclude Magaldi – il cui sottotitolo “Società a responsabilità illimitata” lascia intuire qualcosa su cui i media faranno bene a riflettere con minore superficialità di quella adottata sinora».

    «Dal punto di vista giuridico, ha detto bene il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi: non si capisce perché la commissione antimafia pretenda gli elenchi degli iscritti al Goi e non anche quelli dei partiti o dei sindacati. Sono tutte associazioni legali. E lo Stato di diritto, che si vuole garantire con la lotta alla mafia, si tutela anche con il rispetto della privacy di chi – i massoni ordinari e per lo più inoffensivi – troppo spesso in Italia sono stati oggetto di demonizzazione e caccia alle streghe». Così Gioele Magaldi, leader del Grande Oriente Democratico, interpellato da Fabrizio Caccia del “Corriere della Sera” sulla polemica tra la massoneria italiana e Rosy Bindi, che Magaldi – presidente del Movimento Roosevelt – accusa di guidare una «caccia alle streghe antimassonica» col pretesto della lotta alla mafia. «I mafiosi, peraltro, si possono annidare anche in organizzazioni religiose, cui però non si chiedono liste». Magaldi contrattacca: se proprio vuole saperne di più, riguardo ad affiliazioni massoniche, perché la Bindi non si rivolge a Monti e Napolitano?

  • Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano

    Scritto il 10/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    «Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che  – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
    Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?
    La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?
    «In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.
    “Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?
    «Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?
    Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?
    In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.
    «I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.

    «Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che  – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.

  • Stalin risorto a Bruxelles per ‘raddrizzare’ paesi come l’Italia

    Scritto il 10/4/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.
    Per contro, un approccio non velleitario ma realistico si dovrebbe basare sull’individuazione oggettiva di quali sono le caratteristiche storiche, costanti e di fatto non modificabili di ciascun sistema paese concreto, e dovrebbe disegnare un sistema finanziario e monetario adatto a queste sue caratteristiche. Se L’Italia ha la gobba, allora è meglio farle una giacca con la forma della gobba, in modo che si possa abbottonare, e non una col di dietro diritto, bella ma che non si chiude e ostacola i movimenti, perché la gobba di un adulto non si può raddrizzare. Le caratteristiche costanti dell’Italia, dalla sua unificazione in poi, non modificate, anzi consolidate dall’imposizione dall’alto del modello finanziario e monetario europeo, le conosciamo bene, e sono: le due velocità, cioè l’arretratezza permanente e rigida del Meridione e la conseguente necessità di un’altra spesa pubblica di sostegno al Meridione per mantenere la coesione del paese – e questo è il costo dell’utopia dell’unità politica italiana; da qui l’esigenza di poter fare spesa pubblica a deficit finanziandola a bassi tassi di interesse ed escludendo la possibilità che i titoli del debito pubblico non siano accettati dalla banca centrale per erogare credito allo Stato, così da garantire i loro detentori che non ci sarà default, e tenere quindi bassi i rendimenti.
    Una fortissima propensione, specie al nord, a fare piccola impresa, quindi l’esigenza di assicurarne la disponibilità di credito a tassi moderati e che non erodano il margine operativo aziendale. Una fortissima propensione al risparmio e in particolare all’investimento immobiliare, con uso degli immobili, sia da parte delle imprese che da parte dei cittadini, per ottenere credito, quindi l’esigenza di tutelare il valore degli immobili e il mercato immobiliare. Un alto livello di corruzione e illegalità nel settore pubblico, peggiorato dopo le campagne giudiziarie contro la corruzione, congiunto a una scarsa efficienza della spesa pubblica, che viene in grande parte intercettata da una classe politica e burocratica scarsamente competente, e usata per produrre consenso clientelare; ciò richiede vieppiù che la spesa pubblica sia finanziabile a basso tasso di interesse. Una bassa produttività conseguente da quanto sopra, che richiede periodici ribassi del cambio valutario onde mantenere la competitività e l’occupazione.
    L’euro e le regole finanziarie europee sono pertanto direttamente opposte e incompatibili con le suddette esigenze, e lo dimostrano i fatti. Non sono un prezzo da pagare per diventare migliori, perché non fanno diventare migliori. E’ avvenuto il contrario. E’ ovvio che alcune di queste caratteristiche dell’Italia sono deteriori e sarebbe meglio poterle correggere, ma ciò non è avvenuto in molti decenni e nonostante molti interventi energici e costosissimi, di tutti i tipi. Anzi, il divario è aumentato. Insistendo negli sforzi di cambiare la fisiologia dell’organismo Italia, sia per integrare il Sud col Nord, sia per integrare l’intero paese con l’Europa efficiente, si è solo peggiorato il suo funzionamento e le condizioni di vita dei suoi abitanti e le prospettive per il suo futuro. L’unità politica italiana è un’utopia molto onerosa da sostenere, e se le aggiungiamo i costi del mantenimento dell’utopia dell’unità politica europea, le due utopie si uniscono in una distopia.
    I detentori del potere hanno l’opzione di usare la forza per raddrizzare la “gobba”, cioè spezzare l’organismo sociale esistente e costringere la gente a seguire il nuovo modello. Questa è la via che è stata percorsa, nel secolo scorso, da personaggi storici come Stalin e Ceausescu (in forma estrema e mostruosa, da Pol Pot), che, per riuscire a imporre i loro modelli di società ideale eliminando le caratteristiche consolidate e la mentalità delle popolazioni che governavano, sono ricorsi ai trasferimenti forzati di intere popolazioni, alla distruzione dell’economia di altre popolazioni, alla censura e alla propaganda sistematiche, alla proibizione della religione, e ad altre forme di violenza. Sostanzialmente, nonostante queste potenti misure, non sono riusciti nel loro intento, hanno solo danneggiato e degradato la società, anziché realizzare il loro modello ideale.
    Oggi, per imporre i modelli ideali di Europa e di euro, seguire la suddetta via può tradursi nell’imporre ai popoli “con la gobba”, per fargli perdere le loro abitudini e mentalità indesiderate, una permanente povertà e precarizzazione assieme alla dissoluzione dell’identità storica e nazionale attraverso l’uso mirato dell’informazione e soprattutto mediante l’immigrazione di massa di genti portatrici di culture molto diverse, così da sfibrare il tessuto sociale storico, la volontà di azione politica e la capacità di resistenza dal basso. Ma credo che l’esito sarà solo la degradazione,non rieducazione, esattamente come nei precedenti esperimenti di questo tipo.
    (Marco Della Luna, “La fiera delle velleità”, dal blog di Della Luna del 3 aprile 2017).

    Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.

  • Mentana, Nuzzi, Cairo e Paragone con Davide Casaleggio

    Scritto il 09/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Davide Casaleggio, erede di Gianroberto alla guida dell’azienda omonima e soprattutto del M5S, esce dal silenzio ed appare in tv per la prima volta, a “Ottoemezzo” (“La7”). Una novità, e un cambio di strategia politica con la guida di Casaleggio jr. Che però, alla vigilia della kermesse dell’associazione intitolata al padre, nega investiture da numero uno del M5S: «Il capo politico è Grillo. Io ho supportato l’attività del Movimento, dai meetup fino a Rousseau. E continuo a farlo, gratuitamente, perché mi sembra un buon progetto. Non voglio sostituire mio padre, aiuto Beppe Grillo. Mi definisco un disciplinato amante del rischio, la politica la sto lasciando ad altri». Dice che il M5S sta lavorando a «nuovi modelli di selezione della classe dirigente», una necessità per il M5S visto che «è la prima forza politica in Italia» come aveva previsto quel «sognatore» del padre. Oltre al reddito di cittadinanza («Va finanziato con le pensioni d’oro»), alla Casaleggio Associati («Non si occupa del M5S, lo fa l’associazione Rousseau») e alla reticenza sulle preferenze politiche pre-M5S («Ho votato per diverse formazioni politiche, ma non dico quali»), Davide Casaleggio preferisce guardare al futuro. E, come il padre, lo fa con accenti visionari, se non apocalittici: «Chi non ha idee è destinato ad avere un salario cinese», spiega. «Dobbiamo cominciare a investire in innovazione». Renzi? «Non è credibile». I diktat di Grillo? «È un bene che ci sia la figura del garante».
    Il cambio di strategia si conferma anche nella scelta di affidare l’organizzazione della prima “Leopolda grillina” ad un’agenzia esterna, la Visverbi di Milano, ben introdotta nel sistema dei media, un tempo evitati come la peste dai grillini. Non più dunque la comunicazione fatta in casa, con i consigli dell’ex gieffino Rocco Casalino (che comunque ha fatto da preparatore atletico per la prima uscita tv di Casaleggio jr), ma un’agenzia di comunicazione vera e propria, che come mission aziendale ha «la gestione delle professionalità del giornalismo». La Visverbi appunto, guidata da Valentina Fontana (moglie di Gianluigi Nuzzi) e Barbara Castorina, che ha nel suo portafoglio diversi giornalisti-opinionisti influenti, tra cui Nuzzi, uno degli ospiti della kermesse della “Associazione Gianroberto Casaleggio” e co-intervistatore di Davide Casaleggio a “La7” insieme al sociologo Domenico De Masi, anche lui sul palco ad Ivrea (e anche lui secondo “L’Unità” cliente della Visverbi). Tanto che il Pd, col deptato della Vigilanza Sergio Boccadutri, annuncia un esposto all’Agcom sul «conflitto di interessi» per l’intervista a “La7” fatta «da un giornalista «che fa parte dell’agenzia Visverbi, la stessa che organizza l’evento M5S a Ivrea».
    Proprio con “La7” il M5S sembra aver creato un rapporto privilegiato. Non è un caso che il direttore del TgLa7, Enrico Mentana, sia uno dei moderatori del convegno di Casaleggio, e che “La7” sia spesso scelta dai pesi massimi del M5S per le uscite strategiche. Il patron di “La7”, Urbano Cairo (in prima fila a Milano per l’ultimo spettacolo di Grillo), è un editore abituato ad intercettare la pancia del paese, “La Gabbia” di Gianluigi Paragone (altro giornalista ospite domani del Casaleggio day) affronta temi che piacciono alla pancia M5S. Cairo, poi, è anche l’editore del “Corriere della Sera”, e proprio su quelle pagine è uscita la lettera di Casaleggio jr sul futuro del M5S. Il co-leader vuole l’elettorato moderato, e per questo obiettivo serve sia la carta stampata della buona borghesia, sia la tv. Come spiega la direttrice di Euromedia Research, Alessandra Ghisleri: «Nonostante l’enfasi sulla Rete, i grillini sanno bene che l’80% degli italiani si informa ancora tramite i media tradizionali. Una larga fetta di elettori sopra i 55 anni, particolarmente spaventata da quello che avvertono come un movimento eversivo, in televisione può essere intercettata, nella speranza di rassicurarla». Basta guerre all’«informazione di regime», meglio farseli amici.
    (Paolo Bracalini, “Non hai idee? Salario cinese”, da “Il Giornale” dell’8 aprile 2017).

    Davide Casaleggio, erede di Gianroberto alla guida dell’azienda omonima e soprattutto del M5S, esce dal silenzio ed appare in tv per la prima volta, a “Ottoemezzo” (“La7”). Una novità, e un cambio di strategia politica con la guida di Casaleggio jr. Che però, alla vigilia della kermesse dell’associazione intitolata al padre, nega investiture da numero uno del M5S: «Il capo politico è Grillo. Io ho supportato l’attività del Movimento, dai meetup fino a Rousseau. E continuo a farlo, gratuitamente, perché mi sembra un buon progetto. Non voglio sostituire mio padre, aiuto Beppe Grillo. Mi definisco un disciplinato amante del rischio, la politica la sto lasciando ad altri». Dice che il M5S sta lavorando a «nuovi modelli di selezione della classe dirigente», una necessità per il M5S visto che «è la prima forza politica in Italia» come aveva previsto quel «sognatore» del padre. Oltre al reddito di cittadinanza («Va finanziato con le pensioni d’oro»), alla Casaleggio Associati («Non si occupa del M5S, lo fa l’associazione Rousseau») e alla reticenza sulle preferenze politiche pre-M5S («Ho votato per diverse formazioni politiche, ma non dico quali»), Davide Casaleggio preferisce guardare al futuro. E, come il padre, lo fa con accenti visionari, se non apocalittici: «Chi non ha idee è destinato ad avere un salario cinese», spiega. «Dobbiamo cominciare a investire in innovazione». Renzi? «Non è credibile». I diktat di Grillo? «È un bene che ci sia la figura del garante».

  • Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro

    Scritto il 08/4/17 • nella Categoria: idee • (5)

    L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
    Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.
    L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.
    Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.
    Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.
    (Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).

    L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.

  • Trump disperato bombarda Assad, ma le vittime siamo noi

    Scritto il 07/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.
    La mossa americana sembra originata dalla lucida disperazione di Trump, completamente isolato sul piano della politica interna: demonizzato dalla potentissima lobby Obama-Clinton, incalzato dalle false notizie sui presunti rapporti privilegiati con Mosca e costretto persino a rimangiarsi la solenne promessa di smontare la riforma sanitaria Obamacare. Trump ha l’aria di essere in un vicolo cieco: per cercare di tenere a bada il vero potere, non esita a ricorrere ai missili: non più solo una minaccia, ma ormai un fatto, destinato a intimidire anche la Corea del Nord e l’Iran, paese impegnato – insieme ai russi e ai libanesi di Hezbollah – a sostenere anche militarmente il regime di Assad, contro il quale cospirano incessantemente la Turchia, Israele, gli Emirati come il Qatar e l’Arabia Saudita, con azioni clandestine e illegali – armamento ai miliziani, protezione tattica e logistica – sotto la supervisione della Nato, che ha garantito la supremazia dell’Isis fino all’intervento dell’aviazione russa disposto da Vladimir Putin. L’attacco coi gas, destinato a rovinare Assad preparando il blitz missilistico – secondo lo stesso Venturi aveva due obbiettivi: rimuovere dall’opinione pubblica internazionale l’impatto del devastante attentato terroristico inferto alla Russia a San Pietroburgo e seppellire l’immagine del governo Assad, che – con l’aiuto di Mosca – in Siria sta ormai vincendo la guerra contro i terroristi armati dall’Occidente.
    Un conferma indiretta dell’entità reale del pericolo viene dai media mainstream, che continuano – in coro – a raccontare il contrario della verità. Nessuno dei grandi giornali e dei maggiori network televisivi ricostruisce l’origine della crisi siriana, emblematizzata da una foto eloquente: quella del senatore John McCain, inviato speciale di Obama, ripreso in Siria in compagnia del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis, stranamente scarcerato dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq, nel 2009. Da allora, il progetto Isis – perfettamente funzionale al “partito della guerra” – ha infettato l’intero Medio Oriente, fino alla Libia, da cui partirono armi chimiche destinate alla “resistenza” siriana per ordine di Hillary Clinton. Contro questo establishment “nero”, Donald Trump giocò una parte importante della sua campagna elettorale: più che Assad mi preoccupa l’Isis, disse. Ma oggi i missili li ha scagliati contro Assad, non contro l’Isis, ben sapendo che non sono gli amici di Assad, ma quelli dell’Isis, a minacciare il suo futuro alla Casa Bianca.
    A questi “amici”, Trump ha gettato un osso decisivo, il generale Michael Flynn, considerato una “colomba”, fautore della distensione con la Russia, sacrificato per tentare di placare il “partito della guerra”. Errore fatale, secondo Craig Roberts: è un po’ come illudersi di potersi sbarazzare della mafia pagando il pizzo; se cedi anche una sola volta, vieni percepito come “debole” e verrai assediato fino alla capitolazione. In alternativa, sempre secondo questo ragionamento, Trump potrebbe “salvarsi” nel modo più semplice: allineandosi completamente ai neocon e preparandosi ad eseguire i loro diktat. Per esempio, con una grandinata di missili Tomahawk sulla testa dei siriani, sapendo benissimo che non c’è nessuna prova che siano stati loro a colpire la popolazione di Idlib con i gas. Gli osservatori indipendenti più scettici su Trump l’avevano detto quasi subito: il neopresidente non ha la stoffa per difendersi dal nemico interno, in un sistema che appare irrimediabilmente inquinato. Lo dimostra l’esito delle primarie dei democratici: aveva vinto Sanders, ma a è stato tolto di mezzo ricorrendo a brogli. Il “partito della guerra” puntava su Hillary Clinton. Ha perso, ma non sa perdere. E così “costringe” alla guerra Trump. Oggi contro Assad, domani contro Putin, cioè l’uomo che ha demolito l’Isis in Siria, infliggendo una sconfitta bruciante al “partito della guerra”. Siamo tutti in pericolo? A quanto pare, sì: dai media è letteralmente scomparsa la verità, che – come è noto – è la prima vittima di qualsiasi guerra. La cattiva notizia è che quella in corso, fondata sulla menzogna sistematica, è una guerra innanzitutto contro di noi.

    Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.

  • Scie chimiche: schermare il Sole per “proteggere” la Terra?

    Scritto il 06/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.
    Non abbiamo prove, soltanto indizi: le scie nel cielo sono protette dal silenzio assoluto di qualsiasi istituzione, nonostante il proliferare di voci isolate, denunce, sospetti, qualche ammissione parziale, svariati indizi: Putin che vieta sorvoli di aerei Lufthansa, lo scienziato aerospaziale Douglas Rowland (Nasa) che dichiara che il carburante dei velivoli sarebbe addizionato con il litio, sostanza usata da decenni in ambito psichiatrico. Commentando lo studio dell’Us Air Force, “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già capo della missione Nato in Kosovo, spiega che “possedere il clima” significa utilizzarlo “as a force multiplier”, come moltiplicatore di forza, in ambito militare. Il sottilissimo “fim” creato nella ionosfera sarebbe uno “schermo artificiale” perfetto per ricevere le emissioni radio del sistema Haarp (stazioni in Alaska, Australia e Sicilia, la base Muos di Niscemi) destinate a coordinare in tempo reale le forze armate sparse in tutto il mondo – ma anche, si sospetta, a condizionare il clima di intere regioni del pianeta provocando siccità, inondazioni, forse anche terremoti e tsunami. Complottismo?
    Se ancora mancano le prove, Giulietto Chiesa si interroga sul possibile movente. Semplicissimo, terribilmente banale: il global warming è una realtà ormai anche scientifica, la Terra si sta velocemente surriscaldando a causa dell’emissione di gas serra provocati dal consumo di carbone e metano, e nessuno – nessun paese, nessun governo – è in grado di fermare le macchine, riducendo l’anidride carbonica e il metano. Per questo, forse, si ricorre alle teorie di Teller: attenuare l’azione del sole, senza però avere la minima idea dell’impatto che questo possa avere sul delicato equilibrio degli ecosistemi. Per questo, se l’operazione è davvero in corso, è impossibile averne conferma: nessuno potrebbe assumersene le responsabilità, ufficialmente. Se il “movente” è innanzitutto ecologico – prima che strategico, militare, geopolitico – allora la situazione è più grave del previsto: significherebbe che si sta tentando, alla cieca, si trovare soluzioni d’emergenza, disperate, a una situazione ormai fuori controllo, che preoccupa l’élite in modo inconfessabile. Ma questi, ribadisce Chiesa, sono soltanto interrogativi: oggi è impossibile pretendere risposte certe dai servizi segreti, perché non esistono forze politiche democratiche capaci di reclamare verità da offrire ai cittadini. Regna il silenzio, mentre il cielo si va riempiendo di scie bianche: domande mute, a cui nessuno vuole rispondere.

    Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.

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