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Archivio del Tag ‘politica’

  • Paragone: Trump, una dura lezione per Merkel e Juncker

    Scritto il 15/11/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
    Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta. Quel Mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.
    Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito. Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo.
    Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.
    Ma da qui a definirci trumpiani no.
    (Gianluigi Paragone, “Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 novembre 2016).

    Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.

  • Appello eversivo ai grandi elettori: negate il voto a Trump

    Scritto il 14/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    I grandi elettori non sono obbligati a convalidare per forza l’elezione popolare di Trump, il 19 dicembre: questo il “golpe parlamentare” a cui mira “Change.org”, che sull’onda delle oceaniche proteste di piazza in alcune grandi città come New York ha già ottenuto due milioni di firme per sostenere la sua petizione eversiva. Obiettivo: annullare il risultato delle elezioni e ribaltarlo, consegnando la vittoria a Hillary Clinton. «Negare a Trump l’incarico che ha ottenuto, come esorta a fare “Change.org”, rasenterebbe l’insurrezione: forse darebbe il via ad un’agitazione nazionale e allo spargimento di sangue nelle strade», scrive un osservatore indipendente come Stephen Lendman su “Global Research”, l’osservatorio canadese per i diritti politici fondato dal professor Michel Chossudovsky. La situazione è dunque pericolosissima: da un lato l’establishment sta lottando per paralizzare Trump dall’interno, imponendogli i suoi per gli incarichi-chiave, e dall’altro spinge apertamente perché sia cestinato il voto elettorale, rifiutando di riconoscere la vittoria di Trump, cioè della democrazia. A rischio la tenuta del sistema civile, negli Usa?
    «“Change.org” è un’impresa a scopo di lucro, non una Ong, e svia i suoi sostenitori usando il dominio “org” invece di quello “com”, come dovrebbe fare», scrive Lendman nella sua analisi, tradotta e ripresa da “Come Don Chisciotte”. Questa organizzazione tutt’altro che trasparente «fa affari facendo firmare petizioni alle persone, vendendo nel contempo spazi pubblicitari e dati personali per incrementare i profitti». E ora ha già raccolto quasi due milioni di firmatari, che chiedono al collegio elettorale americano «di far diventare presidentessa la dea della guerra, truffatrice e spergiura Hillary, annullando l’elezione di Trump». Continua Lendman: «La democrazia in America è pura fantasia, e “Change.org” vuole danneggiarla più di quanto non sia già danneggiata». Ecco quello che chiede: “Il 19 dicembre gli elettori del collegio elettorale esprimeranno le loro preferenze, e se voteranno tutti nel modo in cui hanno votato gli Sstati che rappresentano, Donald Trump vincerà. Tuttavia – aggiunge il testo – possono votare per Hillary, se vogliono: perfino negli Stati in cui questo non è permesso, il loro voto verrebbe comunque contato». I trasgressori “pagherebbero semplicemente una piccola sanzione, sanzione che i sostenitori della Clinton saranno sicuramente lieti di pagare!”.
    Per cui, “Change.org” chiede ai grandi elettori di “ignorare i voti dei loro Stati ed esprimere la loro preferenza per il Segretario Clinton”. La falsa Ong «dice che Trump non è adatto a fare il presidente, al contrario di Hillary, citando una vasta gamma ragioni espresse dalla propaganda anti-Trump». Lendman cita, al riguardo, la “National Archives and Records Administration”: durante la storia degli Stati Uniti, “più del 99% degli elettori ha votato come promesso”, ovvero per il vincitore del voto popolare negli Stati che rappresentano. “Non ci sono clausole costituzionali o leggi federali che chiedono agli elettori di votare in accordo col voto popolare, solo alcuni Stati hanno richieste simili”. Di fatto, però, solo il Nebraska e il Maine non seguono la regola “il vincente si prende tutto”. «Se nessun candidato riceve la maggioranza dei voti degli elettori – precisa Lendman – i membri della Camera dei Rappresentanti scelgono il presidente fra i tre candidati che hanno ricevuto più voti, e in questo caso ogni Stato ottiene un voto». E oggi, sbarrare a Trump la via della Casa Bianca significherebbe gettare l’America nel caos, sull’orlo di un’insurrezione fuori controllo.
    «Trump non sarà un presidente del popolo», secondo Lendman, anche perché «nessuno dei precedenti leader della storia americana lo è stato: non lo sono stati né Washington, né Jefferson, né Lincoln, né i due Roosevelt; solo John F. Kennedy ci è andato vicino, ma è stato assassinato dalla Cia per aver fatto la cosa giusta». Per Lendam, comunque, chi punta sulla sedizione sarà sconfitto: «Trump si insedierà il 20 gennaio come 45° presidente degli Stati Uniti». Non sarà il miglior presidente possibile, ma intanto «ha salvato il mondo dal possibile flagello di una guerra nucleare», conflitto suicida «che Hillary avrebbe scatenato nel caso lo avesse sconfitto». Lendman crede nella svolta in politica estera annunciata da Trump: «Il suo desiderio di relazioni migliori con la Russia è il segnale più promettente di relazioni geopolitiche americane possibilmente migliori di quelle che abbiamo adesso col partito della guerra al comando. E Hillary, suo membro di spicco in qualità di first lady, senatrice americana, segretario di Stato e due volte aspirante presidente, ora è politicamente morta: che rimanga tale!». Un’ultima domanda: «Chi ha pagato “Change.org” per far circolare questa petizione: la Convention nazionale democratica o gli organizzatori della campagna di Hillary Clinton?».

    I grandi elettori non sono obbligati a convalidare per forza l’elezione popolare di Trump, il 19 dicembre: questo il “golpe parlamentare” a cui mira “Change.org”, che sull’onda delle oceaniche proteste di piazza in alcune grandi città come New York ha già ottenuto due milioni di firme per sostenere la sua petizione eversiva. Obiettivo: annullare il risultato delle elezioni e ribaltarlo, consegnando la vittoria a Hillary Clinton. «Negare a Trump l’incarico che ha ottenuto, come esorta a fare “Change.org”, rasenterebbe l’insurrezione: forse darebbe il via ad un’agitazione nazionale e allo spargimento di sangue nelle strade», scrive un osservatore indipendente come Stephen Lendman su “Global Research”, l’osservatorio canadese per i diritti politici fondato dal professor Michel Chossudovsky. La situazione è dunque pericolosa: da un lato l’establishment sta lottando per paralizzare Trump dall’interno, imponendogli i suoi uomini per gli incarichi-chiave, e dall’altro spinge apertamente perché sia cestinato il voto elettorale, rifiutando di riconoscere la vittoria di Trump, cioè della democrazia. A rischio la tenuta del sistema civile, negli Usa?

  • Renzi presto a casa, ma intanto il lavoro sporco l’ha fatto

    Scritto il 14/11/16 • nella Categoria: idee • (1)

    Il fenomeno Renzi può essere considerato come la risposta dell’establishment all’ascesa folgorante del M5S: banche, Confindustria, Marchionne, De Benedetti e lo stesso Berlusconi hanno puntato sul ricambio del vecchio gruppo dirigente del Pd ormai logoro e privo di qualsiasi spinta propulsiva. E così è stato creato Renzi il gran Rottamatore, una delle figure più reazionarie del periodo repubblicano. Renzi aveva il compito di fare esattamente quello che hanno fatto Monti e Letta, però doveva sembrare diverso agli occhi della gente perché il tracollo di Monti alle elezioni del 2013 scottava ancora. Renzi è stata una mossa giusta per le élite. Ha retto 3 anni, che è moltissimo per qualcuno incaricato di attuare politiche impopolari. Sparirà probabilmente nel 2018, se non prima, ma ha fatto quello di cui aveva bisogno chi l’ha messo lì: oltre ad aver ricoperto le imprese di incentivi che non sono serviti a rilanciare la nostra economia, ha finalmente spazzato via i diritti dei lavoratori.

  • Sconfitta Hillary, non l’oligarchia: chi è Trump si vedrà ora

    Scritto il 13/11/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Donald Trump rischia di essere assassinato? Se lo domanda l’economista e politologo Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan, all’indomani dell’exploit del grande outsider delle presidenziali Usa. La sua più grande paura, scrive su “Information Clearing House”, è che venga semplicemente “spolpato” dalla super-élite che, con l’appoggio dei grandi media, si era schierata con Hillary. Timori condivisi anche in Italia, con svariate sfumature, da personalità provenienti dalla cultura massonica. «Se i poteri che sostenevano Hillary erano così forti, perché hanno perso?», si domanda Gianfranco Carpeoro il 13 novembre in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Se ne conclude che non tutti i “poteri forti” stavano con la Clinton: qualcuno ha puntato anche su Trump. Persino elementi della super-massoneria progressista, afferma Gioele Magaldi, intervistato da Claudio Messora su “ByoBlu”: ai nastri di partenza delle primarie repubblicane, Trump è stato visto come il “meno peggio”, sicuramente meno pericoloso di Jeb Bush, terminale della tenebrosa “Hathor Pentalpha”, network della strategia della tensione, fino all’Isis. Eminenze grigie dell’élite progressista dietro a Trump? Niente di strano: «Quando sei in guerra – aggiunge Carpeoro – è molto utile sceglierti il nemico: quello che fa meno paura, che magari farà più errori».
    Donald Trump potrebbe persino stupirci in positivo, dice Magaldi, per esempio con l’annunciata campagna di opere pubbliche destinare a produrre occupazione su impulso statale, un po’ come fu per il New Deal di Roosevelt. E, in ogni caso, la sferzata dell’elezione di Trump «potrebbe finalmente produrre il “risveglio” del mondo progressista, che ha acceso speranze con Bernie Sanders ma ha bisogno che nasca una nuova leadership, giovane, capace di invertire il corso di questa globalizzazione senza democrazia». Grande preoccupazione, intanto, dalle prime analisi di Craig Roberts, già “editor” del “Wall Street Journal”: se la vittoria di Trump ha clamorosamente demolito il prestigio dell’élite di potere più in vista, dimostrando che «né la classe politica appartenente ai due principali partiti né i mezzi d’informazione godono più di alcuna credibilità presso il popolo americano», resta però da capire se Trump avrà davvero la volontà (e la forza) di mantenere le promesse, e cioè creare posti di lavoro e instaurare relazioni amichevoli con Russia e Cina, Siria e Iran. Come reagirà il “Deep State” clintoniano alla vittoria di Trump? Wall Street e la Federal Reserve «potrebbero provocare una crisi economica per mettere Trump sulla difensiva», mentre Cia e Pentagono «potrebbero causare un attacco sotto falsa bandiera che incrinerebbe le relazioni con la Russia».
    Evoluzione da seguire passo passo. Il primo: «Trump potrebbe commettere l’errore di includere i neoconservatori nel suo governo». Niente illusioni: «Per quanto Trump abbia sconfitto Hillary, l’oligarchia esiste ancora ed è ancora potente». In altre parole, «tutto dipende da chi sono i consiglieri di Trump e quali suggerimenti gli daranno: quando conosceremo la composizione del suo governo, sapremo se possiamo aspettarci che i cambiamenti, ad oggi solo sperati, divengano realtà». Corollario-horror: «Se l’oligarchia non sarà in grado di controllare Trump, e se Trump avrà davvero successo nel ridurre il potere e i finanziamenti degli apparati militari e della sicurezza e nell’inchiodare Wall Street alle proprie responsabilità politiche, Trump potrebbe perfino essere assassinato». Secondo Craig Roberts, è in corso un durissimo scontro nelle “segrete stanze” del massimo potere: «Le canaglie che si trovano negli apparati militari e della sicurezza potrebbero comunque farcela ad assassinare qualcuno, ma senza i neocon al governo diventerebbe più difficile insabbiare la verità».
    Quanto a Trump, il neopresidente «conosce e comprende la situazione molto più di quanto i suoi avversari si rendano conto: per un uomo come lui, rischiare di farsi così tanti nemici potenti e mettere a rischio la sua ricchezza e la sua reputazione, significa che sapeva bene che il malcontento della gente verso l’attuale classe dirigente poteva consentirgli di essere eletto presidente». Di fatto, «non sapremo cosa aspettarci» finché non conosceremo l’identità di ministri e viceministri: «Se ritroveremo la solita gente, significa che Trump è stato catturato dal sistema». Unica buona notizia, senza ombre: «Il totale screditamento dei mezzi d’informazione». Hanno perso, nonostante la “guerra” condotta contro Trump: «Il paese li ha completamente ignorati». Attenzione, però: «Hillary è caduta, ma non gli oligarchi». E il super-potere è già al lavoro per rimediare, ammesso che (come suggerisce Carpeoro) non fosse già, in parte, schierato anche col tycoon. «Se a Trump verrà consigliato di essere conciliante, di tendere la mano all’establishment e includerlo nella compagine di governo, il popolo americano rimarrà un’altra volta deluso», avverte Craig Roberts. «In una nazione le cui istituzioni sono stati corrotte così in profondità dall’oligarchia, è difficile concretizzare un reale cambiamento senza spargimenti di sangue».

    Donald Trump rischia di essere assassinato? Se lo domanda l’economista e politologo Paul Craig Roberts, già viceministro con Reagan, all’indomani dell’exploit del grande outsider delle presidenziali Usa. La sua paura, scrive su “Information Clearing House”, è che venga semplicemente “spolpato” dalla super-élite che, con l’appoggio dei grandi media, si era schierata con Hillary. Timori condivisi anche in Italia, con svariate sfumature, da personalità provenienti dalla cultura massonica. «Se i poteri che sostenevano Hillary erano così forti, perché hanno perso?», si domanda Gianfranco Carpeoro il 13 novembre in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Se ne conclude che non tutti i “poteri forti” stavano con la Clinton: qualcuno ha puntato anche su Trump. Persino elementi della super-massoneria progressista, afferma Gioele Magaldi, intervistato da Claudio Messora su “ByoBlu”: ai nastri di partenza delle primarie repubblicane, Trump è stato visto come il “meno peggio”, sicuramente meno pericoloso di Jeb Bush, terminale della tenebrosa “Hathor Pentalpha”, network della strategia della tensione, fino all’Isis. Eminenze grigie dell’élite progressista dietro a Trump? Niente di strano: «Quando sei in guerra – aggiunge Carpeoro – è molto utile sceglierti il nemico: quello che fa meno paura, che magari farà più errori».

  • Si goda Trump, l’infame sinistra che ha tradito il popolo

    Scritto il 13/11/16 • nella Categoria: idee • (3)

    «Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».
    Filmò tutto per “Report”, Barnard. La mid-class si domandava cosa mai volessero quei “bifolchi” che «ancora pretendevano un salario quando i miliardi si potevano fare a Wall Street, nella Silicon Valley e con Google». E quindi «che crepassero, a milioni, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e di San Francisco, cioè i Democratici e parte dei Repubblicani ‘Liberal’». Il reportage per la Gabanelli, scrive Barnard nel suo blog, includeva una manifestazione a Pittsburgh dove migliaia di anziani marciavano con il trespolo della flebo attaccata al braccio e i cartelli “O la cena, o le cure”. «Ma che cazzo volevano ’sti bifolchi che ancora pretendevano la sanità pubblica quando bastava una polizza per avere tutto? Non l’avevano? Incapaci e falliti loro, pensò l’America “educated e politcally correct” di New York e San Francisco. Poco importa se la sanità ObamaCare ha strafallito dopo aver regalato 70 miliardi di dollari alle assicurazioni. Poco importa se il manifatturiero Usa cerca oggi 3,5 milioni di lavoratori che nessuno ha mai istruito. Sapete, i ragazzi dovevano studiare economics, servizi… non essere bifolchi colletti blu».
    Dall’America all’Europa: Halikidiki, un villaggio nell’est greco, appena a sud di Macedonia e Bulgaria. «Fu dopo il Trattato di Maastrich e col progressivo allargamento a est della Ue che in Grecia iniziarono a piovere orde di lavoratori dell’est europeo, gente disperata per una cena e che di regola forniva la stessa manodopera di un greco al 40% in meno», racconta Barnard. «L’imbianchino di Halkidiki che incontrai, Sakis Martini, non aveva mai avuto un problema prima. Casetta, soldi, auto, e tanto lavoro. Quando l’incontrai io, aveva subito un crollo di commesse tragico». Si era ridotto a tornare alla pesca notturna per racimolare due soldi in più. «Sono albanesi, macedoni, e chissà da dove», gli disse, «ci stanno fottendo la vita». Ma a Bruxelles «una scrollata di spalle dei colletti bianchi calciava in un angolo il bifolco greco che non capiva l’illuminante destino di una Grande Unione Europea in espansione!». Stessa amarezza per il signor Elio, un pomeriggio del 2000. «Se ne stava passeggiando, mani dietro la schiena, alla periferia di Bologna, quando un cane lupo lo aggredisce. Il cane apparteneva a un campo nomadi, i rom, specie protetta dall’Unesco». Quando il malcapitato protestò coi rom, fu preso a spintoni. Si rivolse alla polizia, ma l’agente gli disse: «Non posso farci nulla. Se li tocco, quelli denunciano me». Scrisse al “Resto del Carlino” una lettera di protesta, «e gli fu risposto dall’illuminata sinistra degli allora Democratici di Sinistra che era un razzista. Tornò a casa, nero di livore, a 76 anni e con una gamba zoppa».
    Una sera, continua Barnard, si trovava a una cena in un salotto buono «della sinistra Pds, Ds poi Pd», in compagnia di insegnanti, psicologi, politologi. Si mise a urlare: «Questa truffa delle nuove sinistre intellettual-elitarie, voi colletti bianchi sinistra snob, politcally correct e soprattutto servi della nuova finanza mondiale, porterà milioni di occidentali a buttarsi alla destra di Gianfranco Fini o di Bush, e saranno cazzi, stolti!». Dice oggi Barnard: «Donald J. Trump ha vinto esattamente per questo. L’Europa, dalla Le Pen alla Lega, da Alba Dorata in Grecia a Hofer in Austria a Farage in Inghilterra, segue e seguirà. Lo urlai 16 anni or sono».
    Il “New York Times” ha un grafico oggi che fa impressione, continua Barnard. C’è una mappa bianca con solo i confini degli Stati Usa, coperta da uno sciame di micro-freccette rosse che indicano lo spostamento dei colletti blu verso Trump. «Lo sciame diventa un’invasione di locuste precisamente sopra Pittsburgh, la Pennsylvania, ma anche a ovest e a est lungo tutto la “Rust Belt”. Questo, 16 anni dopo il mio stare in piedi su quel ponte arrugginito a guardare una devastazione sociale che denunciai».
    Nel tritacarne, osserva Barnard, sono finite anche le classi medie americane, che vedono i loro redditi in termini reali stagnanti addirittura dal 1972, epoca Nixon. «Gente che si trovò a milioni a dormire in tenda dopo la crisi dei subprime, mentre Obama sborsava 13.000 miliardi di dollari per salvare le banche. Una classe media che oggi paga dal 4 al 12% in più su polizze sanità che non coprono neppure un diabete serio. Ci sono anche loro fra i dimenticati dal Dio Sinistra finanziaria politically correct. Ci sono anche loro fra i Trump boys». E’ semplicissimo: «La trasmutazione delle sinistre, sia europee che americane, in arroganti fighetti intellettualoidi snob, politically correct “sons of a bitch”, ’ste sinistre totalmente vendute alla nuova era della finanza speculativa, nemici giurati di qualsiasi economia reale di salari, pensioni, scuole, sanità». Questa «trasmutazione infame delle sinistre», accusa Barnard, «ha tradito per 30 anni centinaia di milioni di persone. Le ha lasciate a marcire, le ha lasciate a gridare proteste a cui veniva risposto dal New Labour di Tony Blair, dai socialisti di Mitterrand in poi, dall’infame Pds-Pd-Unipol, Monte dei Paschi-Lista Tsipras, dai Democratici Usa sopra ogni altro, cioè dalle sinistre intellettual-elitarie, colletti bianchi snob politically correct, e soprattutto servi della nuova finanza mondiale».

    «Sinistre infami», che per “progresso politically correct” intendono «la demolizione di ogni sovranità per accumulare fortune immani sull’economia speculativa». E l’economia reale? «Marcisca assieme a milioni di sfigati che non leggono il “New Yorker”, la “London Review of Books”, o “Micromega” e “Repubblica”». E adesso “godetevi” Donald Trump, dice Paolo Barnard, che avverte: «Non abbiamo ancora visto niente». Trump in realtà «iniziò a vincere» già 16 anni fa, nel 2000. Il giornalista, all’epoca impegnato a “Report”, lo disse: «Stiamo portando masse immense dritte nelle mani delle destre estreme». Era a West Miffling, «uno dei miserabili ruderi dell’ex potenza dell’acciaio Usa, parte della tragica “Rust Belt”, la cintura della ruggine che prende dentro tutta la Pennsylvania e parte dell’Ohio ma praticamente tutto il centro d’America, così chiamata perché proprio a partire da Bush Senior, e terribilmente con Bill Clinton, il cuore industriale americano fu lasciato a marcire con milioni di licenziati, esodati, tutti i cosiddetti colletti blu. Gli impieghi andavano in Cina. Vidi letteralmente intere cittadine abbandonate ai rovi con le porte delle case o negozi deserti chiusi con assi di legno inchiodate».

  • Craig Roberts: primarie truccate, le aveva vinte Sanders

    Scritto il 11/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «Hillary Clinton? Mai s’era visto un candidato peggiore, nell’intera storia delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti». E il peggio è che non avrebbe neppure dovuto contendere la Casa Bianca a Donald Trump: «Ci sono le prove che in realtà lei avesse perso le primarie, che erano state vinte da Bernie Sanders. Ma poi l’establishment democratico si è rifiutato di accettare la sua vittoria, perché Sanders è contro l’establishment». Parola di Paul Craig Roberts, economista e analista politico, già viceministro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”. Dichiarazioni nettissime, le sue, rilasciate – a scrutinio non ancora concluso – a Glauco Benigni, che l’ha intervistato nel corso della lunghissima diretta streaming organizzata da “Pandora Tv” durante l’election-night. Inutile che oggi tutti si strappino i capelli, da Obama al “New York Times” che ammette di aver «perso il contatto con la realtà», dando vincente “obbligatoria” la signora Clinton. Hillary non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, insiste Craig Roberts: al suo posto, contro Trump, ci doveva essere il socialista Sanders, che tanto entusiasmo aveva infatti suscitato durante le primarie.
    Hillary? Era «espressione degli oligarchi al potere e del complesso militare-industriale legato a Wall Street», ma anche «della lobby israeliana, del business militare e del comparto energetico estrattivo», ricorda Craig Roberts. Enorme la differenza rispetto a Donald Trump, che «non è stato selezionato dall’establishment, ma dalla popolazione stessa». Come si è arrivati ad avere un candidato come la Clinton? «Era il candidato della classe dominante, che l’ha messa lì», anche a costo di “truccare” le primarie democratiche. Quanto alle fantomatiche “interferenze russe”, a parlarne «è stata solo la propaganda filo-Clinton». Disinformazione costruita ad arte, continua Craig Roberts, «per coprire lo scandalo delle email di Hillary, da cui emerge sostanzialmente che la Clinton è una criminale», a partire dai fondi incassati sottobanco dalla Fondazione Clinton da parte di soggetti di mezzo mondo interessati a ottenere il favore degli Usa, quando Hillary era segretario di Stato.
    Lo staff Clinton, aggiunge Craig Roberts, «ha quindi voluto spostare l’attenzione sui russi, e negli ultimi due anni la classe dirigente americana ha voluto ricreare un clima da guerra fredda, con la sequela di accuse e minacce contro la Russia e il suo presidente. Tutto ciò è molto pericoloso». Ora, Trump potrà dialogare con le altre potenze nucleari mondiali: «E’ il politico americano – anzi, lo è diventato – che ha detto che non vuole problemi con la Russia. E ha detto che non vuole problemi nemmeno con la Nato». Chiuderà le orrende “guerre americane” nel mondo, in cui gli Usa sono coinvolti? Craig Roberts è convinto di sì, perché Trump «è un uomo d’affari ma non è coinvolto nell’industria delle armi e in quella della sicurezza. E crede che non ci sia ragione di buttare un trilione di dollari in questioni militari e di sicurezza. Tanto più che gli Usa non hanno nemici, a parte quelli che si sono creati da soli, con i bombardamenti sulle popolazioni civili e le accuse folli contro la Russia e la Cina». Trump ritiene che tutto ciò sia stupido, conclude Craig Roberts, e che sia il caso di fermare questa pericolosa deriva bellicista.

    «Hillary Clinton? Mai s’era visto un candidato peggiore, nell’intera storia delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti». E il bello è che non avrebbe neppure dovuto contendere la Casa Bianca a Donald Trump: «Ci sono le prove che in realtà lei avesse perso le primarie, che erano state vinte da Bernie Sanders. Ma poi l’establishment democratico si è rifiutato di accettare la sua vittoria, perché Sanders è contro l’establishment». Parola di Paul Craig Roberts, economista e analista politico, già viceministro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”. Dichiarazioni nettissime, le sue, rilasciate – a scrutinio non ancora concluso – a Glauco Benigni, che l’ha intervistato nel corso della lunghissima diretta streaming organizzata da “Pandora Tv” durante l’election-night. Inutile che oggi tutti si strappino i capelli, da Obama al “New York Times” che ammette di aver «perso il contatto con la realtà», dando vincente “obbligatoria” la signora Clinton. Hillary non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, insiste Craig Roberts: al suo posto, contro Trump, ci doveva essere il socialista Sanders, che tanto entusiasmo aveva infatti suscitato durante le primarie.

  • Biometria facciale, già foto-schedato un americano su due

    Scritto il 11/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Oggi, Facebook vanta oltre un miliardo e mezzo di utenti. Le loro facce sono pubbliche. Una colossale auto-schedatura planetaria. Non è uno scherzo: c’è chi sta lavorando per “classificare” ogni inviduo, magari utilizzando telecamere di sorveglianza nelle strade. Oggi, un americano adulto su due – cioè 117 milioni di persone – ha già avuto le sue foto sottoposte a questo genere di ricerche. In pratica, scrive la “Stampa”, si impiegano «algoritmi utilizzati dalle polizie di una trentina di Stati come fossero un semplice motore di ricerca». All’occorrenza, «si immette l’immagine del presunto criminale e si cerca un possibile collegamento con una foto tratta dalle banche dati delle patenti di guida o delle carte d’identità». O magari da Facebook, che è così comodo – ora, scrive Gianfranco Carpeoro proprio nella sua pagina Fb, meglio si capisce il nome, “faccia-libro”, del mega-network creato da Mark Zuckerberg all’indomani dell’11 Settembre, quando la Cia scoprì la necessità di dover controllare l’identità, l’orientamento e i movimenti di milioni di individui.
    A svelare che il 50% della popolazione statunitense è già stata sottoposta a schedatura digitale, con l’impiego di sofisticate tecnologie per il riconoscimento facciale, è un autorevole istituto, il “Center on Privacy & Technology” della Georgetown University. La tesi della ricerca, scrive Carola Frediani sul quotidiano torinese, è che l’adozione del riconoscimento facciale sia inevitabile, anche ai fini di sicurezza, e non possa o debba essere fermato, benché attualmente non sia ancora regolamentato. «Tra le criticità, dice lo studio, c’è il modo in cui sono usati questi sistemi: un conto è fare una ricerca per identificare qualcuno che è stato fermato o arrestato, un altro paio di maniche è avere l’immagine di un sospetto presa da una videocamera e cercarla in un database composto dalle patenti di comuni cittadini o da immagini riprese da videocamere mentre sono per strada». Nel primo caso si tratta di una ricerca mirata e al contempo pubblica, palese; nel secondo è invece tanto generica quanto invisibile. «Oggi, ogni dipartimento o agenzia locale americana fa quello che vuole».
    Andando a pescare dagli archivi delle patenti, però, l’Fbi sta costruendo una risorsa di dati biometrici che include cittadini rispettosi della legge, continua la “Stampa”. Storicamente, invece, le impronte digitali e il Dna erano sempre stati raccolti solo in relazione ad arresti o indagini criminali. Tutto ciò, dice lo studio, non ha precedenti ed è problematico. Così come lo è l’impiego di video in tempo reale, registrati dalle telecamere di sorveglianza: sono almeno cinque i dipartimenti di polizia che utilizzano funzioni di riconoscimento facciale di questo tipo su videocamere in strada. Inoltre, continua la Frediani, su 52 agenzie che adottano questa tecnologia, solo una proibisce espressamente il suo utilizzo per monitorare individui coinvolti in attività politiche o religiose. «Il rischio di utilizzi impropri, discriminatori ad esempio verso afroamericani o minoranze, è alto». Senza contare l’affidabilità (relativa) del sistema: solo due agenzie hanno subordinato l’acquisto a test di efficacia. E una delle maggiori aziende del settore, FaceFirst, che sostiene di avere un tasso di accuratezza del 95%, declina ogni responsabilità nel caso in cui non raggiunga la soglia prevista. «A ciò, va aggiunta l’assenza di controlli e meccanismi per rilevare eventuali abusi: solo nove agenzie su 52 registrano le ricerche effettuate nei database dai loro agenti».
    E l’Italia? Per ora lancia un bando: “Strumento utile per l’antiterrorismo”. L’industria del riconoscimento facciale, aggiunge Carola Frediani, è spinta anche dalle richieste di sicurezza degli Stati. Tra gli utilizzi più diffusi finora – ad esempio in Turchia – c’è la ricerca del volto di qualcuno fermato a una frontiera, dopo averlo fotografato con lo smartphone, e avendone poi collocata l’immagine su un database di sospettati o criminali. «Più complessa, ma molto ambita dalle forze di sicurezza, la ricerca fatta su immagini registrate da telecamere a circuito chiuso o riprese in tempo reale da videocamere di sorveglianza». Ambizione espressa anche del governo italiano, che con il ministro dell’interno Angelino Alfano aveva annunciato un potenziamento del sistema di sicurezza del nostro paese, che includeva anche questo genere di tecnologia. «Lo scorso novembre è stata indetta una gara pubblica da 56 milioni di euro per la fornitura di sistemi di videosorveglianza (per edifici pubblici e per il territorio) con funzioni di analisi video in tempo reale e riconoscimento facciale».
    In mano a uno stalker, però, questo dispositivo può diventare un’arma pericolosa, avverte la “Stampa”: «Una delle applicazioni commerciali più inquietanti del riconoscimento facciale è quella già adottata da alcune piattaforme di appuntamenti, come la russa FindFace», che utilizza una tecnologia avanzata «per abbinare foto scattate a sconosciuti per strada, per esempio attraverso lo smartphone, con i volti dei profili di iscritti a Vkontakte, una sorta di Facebook russo». Secondo i suoi creatori avrebbe un tasso di successo del 70%. Alcuni utenti che lo hanno testato sono riusciti a identificare donne fotografate in altri contesti. «È chiaro che il potenziale per stalking e abusi di ogni tipo è altissimo», ammette Frediani. Tutt’altro utilizzo è invece quello pensato dalla app di dating Heystax, che lavora sullo studio delle espressioni facciali dei suoi utenti mentre sono impegnati in una videochiamata con un potenziale partner. La pretesa qui è solo di «valutare la compatibilità emozionale della coppia».
    Infine, il sistema può permettere l’ingresso in alcuni edifici solo a determinate persone. «L’efficacia maggiore delle tecnologie di riconoscimento facciale avviene nei cosiddetti contesti cooperativi, laddove cioè le persone si fermano e si fanno volutamente inquadrare da videocamere», spiega la giornalista. «Un utilizzo che funziona per dare l’accesso a luoghi riservati: per esempio edifici o cantieri con esigenze particolari di sicurezza». L’azienda israeliana Fst Biometrics pubblicizza da qualche anno un sistema che dovrebbe funzionare da pass di ingresso negli edifici, al posto di chiavi, badge e password. Basta dare inizialmente una propria foto al sistema e poi, al momento dell’accesso, farsi inquadrare dalla videocamera. Tra le aziende in Italia c’è Eurotech a lavorare proprio su questo genere di applicazioni, promettendo un tasso medio di identificazione del 95%. Può monitorare il transito di un visitatore in un edificio o abbinare il suo volto a un documento precedentemente registrato per identificarlo.

    Oggi, Facebook vanta oltre un miliardo e mezzo di utenti. Le loro facce sono pubbliche. Una colossale auto-schedatura planetaria. Non è uno scherzo: c’è chi sta lavorando per “classificare” ogni inviduo, magari utilizzando telecamere di sorveglianza nelle strade. Oggi, un americano adulto su due – cioè 117 milioni di persone – ha già avuto le sue foto sottoposte a questo genere di ricerche. In pratica, scrive la “Stampa”, si impiegano «algoritmi utilizzati dalle polizie di una trentina di Stati come fossero un semplice motore di ricerca». All’occorrenza, «si immette l’immagine del presunto criminale e si cerca un possibile collegamento con una foto tratta dalle banche dati delle patenti di guida o delle carte d’identità». O magari da Facebook, che è così comodo – ora, scrive Gianfranco Carpeoro proprio nella sua pagina Fb, meglio si capisce il nome, “faccia-libro”, del mega-network creato da Mark Zuckerberg all’indomani dell’11 Settembre, quando la Cia scoprì la necessità di dover controllare l’identità, l’orientamento e i movimenti di milioni di individui.

  • Tsunami Trump, nel panico l’élite del globalismo armato

    Scritto il 09/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».
    E lo stesso, continua il blog, era avvenuto per molti “farmers”, agricoltori e allevatori, «buzzurri quanto si vuole, ma rovinati progressivamente e irreversibilmente dalla concorrenza globale, fondata su salari da fame incomparabili con quelli Usa». Un’analisi squisitamente socio-economica: «Il lavorio della crisi, che suscita paure, insofferenza, paura del futuro, ha alla fine generato un gigantesco “vaffa” che ora minaccia di attraversare il pianeta come uno tsunami che non conosce ostacoli». Per il newsmagazine, che si definisce “giornale comunista online”, Trump è «il sintomo, il collettore, il terminale inconsapevole e inadeguato di una miriade di contraddizioni persino difficili da elencare». Così, «chi aveva spinto per la “riduzione del danno” – l’establishment di tutti i paesi – ha perso tutto». L’explot di Trump, «se non verrà in qualche modo imbrigliato e depotenziato dagli apparati del potere (statale e finanziario, nazionale e multinazionale), mette in discussione i pilastri della governance globale degli ultimi 70 anni».
    In altre parole, insiste “Contropiano”, lo storico pronunciamento popolare dei cittadini statnitensi «mette in discussione “l’ordine mondiale” centrato sulla capacità degli Stati Uniti di esercitare egemonia (culturale, politica, economica e soprattutto militare) sul resto del mondo». Un’avvisaglia dello sconvolgimento globale che questo risultato annuncia la si ricava dalle piazze finanziarie asiatiche, le prime ad aprire: yen e euro si rafforzano sul dollaro, il peso messicano precipita (Trump ha condotto una campagna fortemente anti-immigrati dal paese confinante) mentre vola l’oro, bene-rifiugio per eccellenza. L’indice giapponese Nikkei perde il 4,8%, Hong Kong il 2,8 (dopo essere arrivata al -3,4%), Taiwan il 2,7%. Catastrofe annunciata per Wall Street, cioè il vero “fortino” di Hillary Clinton. La cittadella finanziaria di Manhattan, per “Contropiano”, è «la vera sconfitta in queste elezioni».

    «L’impossibile è avvenuto. Il Mule, l’incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l’esausta icona dell’establishment, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della “democraticità ed equilibrio” che dovevano sbarrare la strada al “populismo”». Così il blog “Contropiano”, a scrutinio americano non ancora concluso ma di fatto, nei numeri, più che consolidato. «E’ stata una vittoria netta. Non solo in termini di superdelegati, ma anche in termini di voti popolari», quasi un milione e mezzo di elettori a favore di Donald Trump, che «ha conquistato tutti i principali Stati-chiave, a partie da quell’Ohio che era un tempo il cuore dell’industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia». “Contropiano” ricorda che «la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell’esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto “ceto medio”».

  • Talese: Usa in declino, il presidente non conta più nulla

    Scritto il 08/11/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Queste elezioni non contano niente, perché ormai il presidente degli Stati Uniti non ha più potere. La politica ha perso peso nella società. Mi sembra un fatto evidente. Le nostre vite vanno avanti indipendentemente dalle decisioni dei politici, perché ormai sono altri i fattori che determinano le scelte, il futuro e la qualità della nostra vita, dalla tecnologia globale alle questioni più locali. Ma lo avete visto Barack Obama? Sembrava l’uomo nuovo, incarnava le virtù che avrei voluto nel politico capace di guidarci verso il futuro, e invece non è riuscito neppure a chiudere la prigione di Guantanamo. Se il capo della Casa Bianca non ha la forza di produrre anche un minimo cambiamento tipo questo, come possiamo pensare che abbia la capacità di influenzare le grandi tendenze della storia? Il potere della politica, e in particolare quello del presidente degli Stati Uniti, che un tempo chiamavamo leader del mondo libero, sono decisamente diminuiti. E questa campagna, nel frattempo, ha parlato del nulla. Quale doveva essere il tema principale? Il declino del peso degli Stati Uniti nel mondo.
    Negli Anni Cinquanta, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, io ero soldato nelle forze armate. Mi schierarono prima in Germania e poi in Italia, il paese da cui era emigrato mio padre, calabrese, all’epoca del fascismo. Tutti ci volevano bene, tutti amavano gli Usa. Eravamo una forza positiva nel mondo, e andare in giro con la divisa era un orgoglio. Ora invece nessuno ci rispetta: persino le Filippine si permettono di sfotterci. Allora eravamo una forza positiva, che cercava di stabilizzare il mondo e orientarlo verso valori democratici condivisi. Poi però abbiamo deciso di intervenire ovunque, per imporre i nostri interessi, stabilendo chi è buono e chi è cattivo. Questo ha provocato una reazione negativa globale contro gli Stati Uniti, ma nessuno ne ha parlato durante la campagna presidenziale. Il risentimento interno ha spinto tanto la candidatura di Trump tra i repubblicani, quanto quella di Sanders tra i democratici durante le primarie. Non avete notato l’insoddisfazione della gente nelle strade? Gli americani della classe media faticano ad arrivare alla fine del mese.
    La riforma sanitaria di Obama è stata un disastro, e molta gente è ancora costretta a decidere se mangiare o andare dal medico. A causa di questa crisi economica, poi, anche le tensioni razziali sono riesplose, con i neri sempre emarginati, e i bianchi terrorizzati dalle minoranze che conquistano il paese. Chi descrive la sfida tra Clinton e Trump come la più importante dei tempi moderni, perché considera il candidato repubblicano pericoloso per la libertà e il modello di vita americano, putroppo ha torto. Dico purtroppo, nel senso che neppure Trump riuscirebbe a fare quello che ha promesso, o minacciato. Chiunque verrà eletto verrà paralizzato, dal Congresso, e dai veti incrociati dei vari poteri in concorrenza. Il risultato è che nulla si muoverà e il paese resterà impantanato. No, la mia non è una visione troppo pessimistica. Sono vecchio. Morirò senza veder tornare l’America amata da tutto il mondo, in cui ero cresciuto da bambino.
    (Gay Talese, dichiarazioni che lo scrittore ha rilasciato a Paolo Mastrolilli per l’intervista “Gli Usa senza peso, queste elezioni con contano nulla”, pubblicata da “La Stampa” alla vigilia delle elezioni Usa e ripresa da “Dagospia” l’8 novembre 2016).

    Queste elezioni non contano niente, perché ormai il presidente degli Stati Uniti non ha più potere. La politica ha perso peso nella società. Mi sembra un fatto evidente. Le nostre vite vanno avanti indipendentemente dalle decisioni dei politici, perché ormai sono altri i fattori che determinano le scelte, il futuro e la qualità della nostra vita, dalla tecnologia globale alle questioni più locali. Ma lo avete visto Barack Obama? Sembrava l’uomo nuovo, incarnava le virtù che avrei voluto nel politico capace di guidarci verso il futuro, e invece non è riuscito neppure a chiudere la prigione di Guantanamo. Se il capo della Casa Bianca non ha la forza di produrre anche un minimo cambiamento tipo questo, come possiamo pensare che abbia la capacità di influenzare le grandi tendenze della storia? Il potere della politica, e in particolare quello del presidente degli Stati Uniti, che un tempo chiamavamo leader del mondo libero, sono decisamente diminuiti. E questa campagna, nel frattempo, ha parlato del nulla. Quale doveva essere il tema principale? Il declino del peso degli Stati Uniti nel mondo.

  • La Cina ricostruirà la Libia: colossali investimenti a Tobruk

    Scritto il 08/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    “Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.
    Il primo ministro del governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, in un’intervista all’emittente televisiva “Al-Hadath” riportata dal “Libya Herald”, ha dichiarato che l’ingente investimento, frutto di una cordata di investitori cinesi, dovrebbe portare al compimento delle opere in un periodo di soli tre anni, con un effettivo impatto sull’economia locale già nel breve periodo. Il progetto «potrebbe avere una significativa rilevanza anche per le relazioni commerciali libiche», scrive Francesca La Bella su “Nena News”, ricordando che dopo la caduta di Muhammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, sia le imprese sia i lavoratori cinesi impegnati in Libia lasciarono il paese e, negli anni successivi, il capitale cinese non riuscì a trovare canali d’accesso per il paese nordafricano. «Oggi, invece, in linea con un programma di penetrazione imponente in tutto il territorio africano, Pechino potrebbe dare nuova linfa alle relazioni commerciali sino-libiche». Di riflesso, questo rinnovato slancio economico della Cirenaica, unito al programma di esportazione del greggio dai porti della mezzaluna petrolifera, «renderebbe Tobruk sempre più centro nevralgico dell’economia del paese, con inevitabili ricadute dal punto di vista politico».
    La debolezza del governo Sarraj, aggiunge Francesca La Bella, si contrappone alla solidità e al radicamento delle forze di Tobruk. E i numerosi attori coinvolti nella contesa libica sembrano schierarsi sempre più a favore di una riconciliazione tra Tripoli e Tobruk per garantire la stabilità politica ed economica della Libia. Riflessi geopolitici: «A fronte di una produzione del petrolio in continua ascesa e di uno Stato Islamico in lento arretramento, la possibilità di una ripresa libica sembra essere ora plausibile». E se la Cina entra in campo gocando pesante, l’Occidente – che la Libia l’ha rasa al suolo – vede ora complicarsi le sue mire di rapina su quello che, con Gheddafi, per l’Onu era il primo paese, in Africa, per indice di sviluppo umano. «La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio», scrive Alberto Negri sul “Sole 24 Ore”. Il sottosuolo libico contiene il 38% del petrolio africano, pari all’11% dei consumi europei. «È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra».
    In questo momento, scrive Negri, a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione «conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare». L’Italia ha già perso in Libia 5 miliardi di commesse, aggiunge il “Sole”. «La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi». Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della banca centrale e del Fondo sovrano libico, che sta a Londra, «dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City». Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica – dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi – gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari. «Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica».
    E dire che i libici «hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela». Gli interessi occidentali, «mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio», quando cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy «attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata», scrive ancora Neri. «Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total». Finti amici, gli occidentali, in realtà concorrenti-rivali. Su cui ora irrompe la Cina, con il suo piano – gigantesco, storico – per lo sviluppo del paese, a comiciare da Tobruk.

    “Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.

  • Vince Trump? Parla all’America rovinata dal mondialismo

    Scritto il 08/11/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.
    Dal 2002 l’America ha perso oltre 70.000 fabbriche e 5 milioni di posti di lavoro nel settore manufatturiero. Gli agricoltori non se la passano meglio. Il deficit in beni è salito a 766 miliardi di dollari e sono stati persi oltre 300 miliardi all’anno in furti di proprietà intellettuali. Le attività produttive americane emigrate all’estero (off-shoring) hanno esacerbato questo scenario. Dal Nafta del 1993 all’entrata nel Wto della Cina fino ai recenti accordi con il Sud Corea del 2012 firmato Hillary Clinton. Stati manufatturieri come Michigan, Ohio e North Carolina sono stati particolarmente colpiti. Sotto il mandato di Obama-Clinton molti progetti infrastrutturali sono stati ritardati e o ostacolati. Oltre 60.000 ponti americani sono considerati “strutturalmente deficienti”. Il traffico costa all’economia americana oltre 100 miliardi di dollari all’anno. Sei milioni di americani sono esposti ad acqua contaminata.
    L’agenda dei primi cento giorni che Trump ha illustrato durante il discorso ha conquistato l’America (punti già menzionati più volte durante la sua campagna). Facciamo alcuni esempi. La Middle Class Tax Relief and Simplification Act. La più grande riduzione delle tasse per la classe media (gli sconfitti di 20 anni di globalizzazione Usa). Una famiglia con due figli avrà un taglio della tassazione del 35%. Stando alla Tax Foundation il piano di tasse di Trump potrebbe da solo aumentare l’economia del 7%, accrescere gli stipendi del 5-6%. Le Pmi, la spina dorsale dell’economia, vedranno le loro tasse tagliate quasi della metà, dal 35% al 15%. I risparmi saranno usati per assumere e espandersi nella comunità (questo ovviamente è tutto da vedere, ma le Pmi tendono ad avere un maggior legame con il territorio in fatto di assunzioni). I miliardi di dollari americani nascosti all’estero saranno rimpatriati con una tassa una tantum del 10%. La Tax Foundation stima che il piano di Trump aumenterà il Pil di un punto percentuale all’anno. Per contro hanno stimato che il progetto di tasse della Clinton decrescerà il Pil di un quarto di punto su base annua.
    La posizione di Trump, per certi aspetti isolazionista, mira a far uscire gli Usa da ogni accordo internazionale che li danneggi (danneggi la produzione e l’industria nativa) sulla base dell’articolo 2205. Una politica simile mira ad attivare il “End The Offshoring Act”. Una soluzione che stabilisca tariffe che scoraggino le aziende a licenziare personale per trasferirsi all’estero. Questa combinazione di soluzioni ha sicuramente colpito la popolazione bianca stremata e fortemente impoverita, specialmente i colletti blu (la classe media e operaia). Rispetto al settore energetico, Trump ha spinto per una produzione domestica di energia da ogni fonte fossile (poco ecologica ma una forte spinta all’occupazione). In accordo con l’analisi del “Wall Street Journal”, «oltre una dozzina di progetti infrastrutturali energetici, del valore di 33 miliardi di dollari, sono stati rifiutati dal regolatore dal 2012». Stando alla analisi dell’Heritage Foundation, entro il 2030, le restrizioni energetiche del duo Obama-Clinton elimineranno circa mezzo milione di posti di lavoro nel manufatturiero. Queste idee, insieme alle molte altre spiegate a Gettysburg, hanno infiammato gli animi degli americani.
    (Enrico Verga, “Elezioni Usa 2016, 10 novembre: Trump ha vinto”, dal “Fatto Quotidiano” del 2 novembre 2016).

    Sono passati solo pochi giorni dallo spoglio e la vittoria di Trump è confermata. I media americani non san ancora che pesci pigliare, i media europei, che salvo poche eccezioni, avevano sposato la più “estabilished” Clinton si stanno arrabattando per uscire con analisi “pro Trump”. Ma perché Donald ha vinto? Descritto fino a pochi giorni fa come un ninfomane, folle, guerrafondaio ed evasore di tasse (toccate tutto agli americani tranne sesso e tasse) ora è president. A mio modesto avviso quello che ha convinto gli americani è stata la decisione di Trump, al netto delle sue passioni (di 35 anni fa?) per il sesso femminile, in merito all’economia e la politica estera. Il discorso che ha fatto a Gettysburg il 22 ottobre ha conquistato il popolo americano. Vale la pena considerare alcuni elementi sinteticamente catturati da questo speech. Un americano su 4 nella fascia lavorativa dai 25 ai 54 anni è disoccupato; 1 uomo ogni 6 nella fascia d’età 18-34 è in prigione o è disoccupato; 45 milioni di americani sono poveri; l’entrata media annuale (real median household) è di $1,274 più bassa rispetto al 2000.

  • Putin: chi terremota il mondo vi sta portando via il futuro

    Scritto il 07/11/16 • nella Categoria: idee • (1)

    «Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».
    Putin si scaglia contro l’Occidente, contro le sue guerre umanitarie e i suoi tentativi di esportare la democrazia fuori da una cornice multipolare: le guerre in Serbia, in Iraq, in Afghanistan e in Libia «spesso condotte senza le relative decisioni del Consiglio di Sicurezza Onu»; e poi ancora hanno deciso «di spostare l’equilibrio strategico a proprio favore distaccandosi dal quadro giuridico internazionale che proibisce l’implementazione di nuovi sistemi di difesa missilistica»; hanno «creato gruppi terroristici le cui azioni hanno generato milioni di profughi, e gettato intere regioni nel caos». Putin definisce la “minaccia militare russa” con cui l’Occidente sta costruendo la nuova Guerra Fredda, un «business redditizio da utilizzare per pompare denaro fresco nei bilanci della difesa, espandere la Nato fino ai nostri confini». Il leader russo è categorico: Mosca «non ha intenzione di attaccare nessuno»; pensarlo è «sciocco e irrealistico. I paesi membri della Nato insieme con gli Stati Uniti hanno una popolazione totale di 600 milioni circa; la Russia solo 146. E’ semplicemente assurdo concepire anche tali pensieri».
    Poi Putin ironizza sulla «isteria degli Stati Uniti circa una presunta ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane»; e rivolgendosi alla platea, «lo chiedo a voi: qualcuno seriamente pensa che la Russia possa in qualche modo influenzare la scelta del popolo americano? Cos’è l’America? Una Repubblica delle Banane o un grande potenza?». Ma la denuncia più violenta di Putin è contro l’élite tecnocratica che sta scippando il valore della sovranità. Nelle democrazie più avanzate «la maggioranza dei cittadini non ha alcuna reale influenza sul processo politico e sul potere». Le persone avvertono «un divario sempre crescente tra i loro interessi e quelli dell’élite che governa i processi». E quando, attraverso le elezioni o i referendum, i cittadini scelgono in maniera diversa rispetto a quello che l’élite vorrebbe, ecco che essa trasforma la volontà popolare in “anomalia” o immaturità o incapacità di scegliere. E ciò che in maniera sprezzante viene definito populismo, per Putin è «gente comune, cittadini che stanno perdendo fiducia nella classe dirigente».
    Sembra che le élite non vedano il dissesto profondo nella società e «l‘erosione della classe media, mentre allo stesso tempo, esse impiantano ideologie distruttive per l’identità culturale e nazionale». Putin avverte: «E’ la sovranità la nozione centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il rispetto per essa e il suo consolidamento contribuirà a sottoscrivere la pace e la stabilità sia a livello nazionale e internazionale». Quello di Putin è un monito a chi si diverte a disegnare un nuovi ordini mondiali sulla pelle di nazioni e popoli; un avvertimento agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici. Quella di Putin è l’analisi realista della deriva dell’Occidente ed una prospettiva anche per l’Europa: disegnare un sistema multipolare che metta «fine alla divisione del mondo in vincitori e vinti permanenti». L’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno.
    (Giampaolo Rossi, “Putin il realista”, dal blog “L’Anarca” su “Il Giornale” del 2 novembre 2016).

    «Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».

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