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Archivio del Tag ‘politica’

  • Salvini è perfetto per far sembrare Renzi il meno peggio

    Scritto il 17/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.
    E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe.
    Eroiche associazioni di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio.
    E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.
    (Alessandro Robecchi, “Ti piace vincere facile? Basta scegliere l’avversario”, da “Micromega” del 13 giugno 2015).

    Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.

  • Giannuli: tamarri al potere, il Pd è una vergogna nazionale

    Scritto il 15/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    «A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».
    «Sino a quando una norma c’è, si rispetta e non si aggira, magari con la compiacenza di un governo e di un Parlamento di “amichetti”», scrive Giannuli nel suo blog. «Ma la concezione di De Luca è quella dell’asso pigliatutto: chi vince, per fas et nefas poco importa, governa, anzi “comanda” (come insegna il suo capo, Renzi: “un uomo solo al comando”). E’ la stessa concezione della democrazia di Berlusconi, per la quale chi vince le elezioni è “l’Unto del Signore”. Una concezione predatoria che include anche le leggi ad hoc o ad personam, lo smembramento della Costituzione, l’assalto alle alte cariche dello Stato, il diritto di saccheggio». Una concezione che «non concepisce i limiti opposti al potere dalle norme dello Stato di Diritto, dalla divisione dei poteri, dal ruolo dell’opinione pubblica. Una idea da caudillo latinoamericano». Questa, continua Giannuli, è l’ idea del potere che ha anche Renzi, mirabilmente espressa nella sua legge elettorale, per la quale una forza politica che magari rappresenta il 12,5% dell’elettorato totale (ad esempio il 25% del 50% di quanti vanno a votare) si aggiudica il 54% dei seggi dell’unica Camera e ha un’ottima base di partenza per cambiare la Costituzione a piacimento.
    E questo perché “gli italiani devono sapere dalla sera delle votazioni chi governerà”, anzi: “comanderà”, perché «il tanghero fiorentino confonde il governo con il Potere nella sua interezza: ma il governo, in uno Stato di diritto, è solo una delle articolazioni del potere, non l’unica». In Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Olanda ci sono sistemi elettorali che non garantiscono affatto di sapere chi governerà nei 5 anni successivi, eppure quei paesi non vanno in crisi. Perché in Italia dovrebbe essere diverso? «Ma De Luca e Renzi non sono uomini da sofisticatezze intellettuali, cose che lasciano agli oziosi», loro sono uomini d’azione, non di cultura «e ci tengono a rimarcarlo in ogni occasione, facendo sfoggio del loro spirito praticone e del fastidio per ogni dibattito, soprattutto quando assuma vaghe sfumature culturali». E se qualcuno riesce a fare un’obiezione, la risposta non è mai nel merito: è sempre colpa di “personaggetti”, “disfattisti”, “rosiconi”, “gufi”. «Un cocktail di arroganza, aggressività, cafoneria, invadenza, prevaricazione, spudoratezza. E’ il Renzi’s tamarro style che ormai non appartiene solo a lui ma è la cifra di una intera classe politica».
    Da Orfini, che zittisce Gomez sullo scandalo di Mafia Capitale, a Enrico Carbone che la sera della disfatta alle regionali tenta di imporsi sul concorrente vendoliano: «Al povero senatore Stefàno di Sel, che è pugliese ed obiettava che in Puglia nelle civiche c’era proprio di tutto, Carbone rispondeva “Tu pensa a Sel che in Puglia è andata male”. Appunto: perfetto Renzi’s Tamarro Style». Questo stile, conclude Giannuli, è la spia di una concezione autoritaria della democrazia. «Il fatto è che i renziani sono antropologicamente estranei alla civiltà delle buone maniere che, guarda caso, quantomeno storicamente, è la premessa di quella della democrazia. E allora, venite ancora a dirmi che ad essere impresentabile è il solo De Luca? Impresentabile è il Pd in quanto tale. E ho una domanda agli ex militanti del Pci, ancora numerosi, nonostante tutto, nelle file del Pd: ma come fate a non vergognarvi di stare in una cloaca del genere?».

    «A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».

  • Grecia: 10.000 suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio

    Scritto il 14/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».
    Giannaros ha un passato nelle truppe speciali: mostra le foto delle sue ultime missioni, in mimetica, immerso in un fiume fino alle ginocchia. È come se avesse bisogno di una pausa, vuole raccontare ancora qualcosa della sua famiglia, degli altri due figli, 24 e 28 anni. «Anche il più piccolo è un soldato». Lo dice con un sottinteso chiaro: lui si è salvato. Ma quanti sono i giovani senza speranza? Le statistiche si afflosciano come svuotate di senso al cospetto della forza, della dignità di quest’uomo. «Appena arrivato qui incontravo pazienti che mi chiedevano: ma quanto devo pagare per operarmi qui? Quanto per una lastra? Nulla, rispondevo, questo è un ospedale pubblico. Poi mi sono fatto portare il registro delle prenotazioni e ho capito. La lista d’attesa risultava sempre infinita, ma con una buona “fakelaki” si poteva comodamente saltare la fila». “Fakelaki”, la bustarella. «In cortile ho fatto mettere dei cartelli con una busta sbarrata con una grande x rossa. Significa che qui non si accettano tangenti».
    Le parole del più atipico dei manager conducono nell’antro della crisi. I ragionamenti sulla sostenibilità del debito lasciano il posto alla scarsità di siringhe, bisturi, persino guanti per la sala operatoria. «Abbiamo sviluppato un network di scambi tra le diverse cliniche. Andiamo avanti anche grazie a donazioni in arrivo dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania». Theodoros accende un’altra sigaretta. Aspira profondamente, poi scarica fumo e una lunga invettiva. Contro le vecchie classi politiche, le dieci famiglie che hanno monopolizzato l’economia del paese, le «idiote» prescrizioni della “Troika”, il Fondo Monetario, la Bce, la Commissione Europea, Angela Merkel. Spera che Alexis Tsipras possa raggiungere qualche risultato, «ma deve avere dietro tutti i partiti, tutta la Grecia. Questo è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere». Già, «sopravvivere».
    «Penso continuamente a quei 10 mila morti che abbiamo seppellito nel silenzio. Penso a mio figlio. E penso che se in Germania un cane muore in malo modo, ecco che il caso finisce sui giornali, se ne dibatte in tv. Ma avete mai sentito parlare dei nostri giovani, dei nostri anziani che si sono suicidati? La guerra civile della Jugoslavia ha fatto 20 mila morti. Quella, però, era una guerra. Che cos’è, invece, questa nostra strage? È una domanda a cui non so rispondere, posso solo dire che in questo momento mi vergogno di essere un europeo». Forse è arrivato il momento di andare. Ma Theodoros ha ancora qualcosa da dire: «In questi anni sono stato corteggiato da tutti i partiti, avrei potuto fare il ministro cento volte. Invece ho sempre voluto restare un uomo libero e mi sono fatto un mare di nemici. Continuo a stare qui, a lavorare per 1.400 euro al mese, cinque volte meno di qualche anno fa. Non posso permettermi la macchina, viaggio in scooter e giro con una pistola. Prima che mio figlio se ne andasse così, mi sentivo anche un privilegiato».
    (Giuseppe Sarcina, “Grecia: il conto della disperazione? Diecimila suicidi in 5 anni, l’ultimo quello di mio figlio”, dal sito del “Corriere della Sera” del 10 giugno 2015).

    Theodoros Giannaros tiene gli occhi fissi sul computer e una sigaretta tra le dita. Guarda le immagini di alberi, di spiagge. È talmente assorto da non accorgersi che la cenere sta coprendo la tastiera. Compare l’immagine di un giovane. Bello, sorridente. «È mio figlio, si è tolto la vita pochi giorni fa. Aveva 26 anni. Quando l’ho saputo non sono riuscito a fare altro che questo video». Atene, Ospedale Elpis: un complesso di palazzine bianche nel centro della città. È un giorno festivo, ma il dottor Giannaros si fa trovare nel suo ufficetto di direttore. Siede lì dal 2010. È un biologo molecolare, specializzato in genetica. Ha studiato a Karlsruhe, in Germania, a San Francisco e a Vienna. Da anni è un punto di riferimento assoluto per tutta la Grecia. Quando interviene sui giornali o in tv nessuno si permette di contraddirlo. Fruga ancora nel pacchetto di nazionali, tira fuori l’ennesima sigaretta e un’altra sassata: «Mio figlio è solo l’ultimo di una lista interminabile. Da quando è iniziata la crisi in questo paese si sono suicidate 10 mila persone. Sì, ha capito bene: 10 mila. È come se una grande città fosse stata cancellata dalla carta geografica della nazione».

  • Euro Macht Frei, l’Europa è solo un’espressione germanica

    Scritto il 13/6/15 • nella Categoria: idee • (1)

    L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.
    Superiore efficienza, solidarietà interna, conformismo, sopraffazione degli altri popoli, soprattutto se mediterranei, assenza di scrupoli: queste sono le caratteristiche politiche e culturali del popolo tedesco oggi, esattamente come ai tempi del Terzo Reich, ai tempi del Secondo Reich e anche prima. Le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, le invasioni di paese neutrale, le stragi di civili, anche di bambini, le compivano anche nella prima, non avevano bisogno di aspettare Hitler e il nazismo. Hitler e il nazismo sono un’espressione dell’animo tedesco profondo (accanto ad altri, ben diversi), una sua costante, non un fattore esogeno e transitorio di disturbo, separabile dalla nazione. Nella consapevolezza di ciò, dopo la Prima Guerra Mondiale, i vincitori le imposero dure condizioni economiche, studiate per impedire che risorgesse come potenza militare. Visto che ciò non era bastato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la si si ridusse molto di dimensioni e la si divise in quattro zone di controllo; ma esistevano piani più radicali per renderla inoffensiva, facendone un paese puramente agricolo.
    Quasi dimenticavo: durante e dopo la guerra, sovietici e statunitensi sterminarono deliberatamente diversi milioni di civili e di prigionieri tedeschi, trucidandoli o facendoli morire di fame e di stenti. Effetto di queste misure e di queste stragi, è stato di consolidare l’atteggiamento morale condiviso da quel popolo, ossia considerare gli altri popoli come avversari da sottomettere non appena possibile. Con mezzi economici, se non con mezzi militari. Passiamo al Regno Unito. Anche i britannici di oggi continuano i caratteri storici del loro atteggiamento verso l’Europa continentale: Né dentro né fuori, ma meglio fuori che dentro, possibilmente alla distanza giusta per controllare. Nel 2017, faranno un referendum per l’uscita dall’Unione Europea. È però ben possibile che minaccino di farlo allo scopo di ottenere, come già hanno fatto in passato, più vantaggi economici e privilegi dall’Unione Europea, disposta a pagare pur di evitare l’uscita di un membro così insigne, la quale sarebbe una dimostrazione di fallimento dell’Unione Europea stessa, forse l’inizio della sua scomposizione.
    Ossia, è probabile che da Londra stiano dicendo: Voi, eurocrati predoni e parassiti di Bruxelles e Strasburgo, se volete continuare a fare i vostri comodi, se volete che non rompiamo il vostro giocattolo, la vostra macchina da soldi, pagateci. La Francia mantiene costante la sua identità e fierezza nazionale, la sua forza militare e nucleare indipendente, la sua politica razionalmente egoista anche se spesso ingenua, come dimostrato dagli esiti del suo asse con la Germania, con cui i suoi nani politici si illudevano, e illudevano la gente, che la Francia potesse condividere con questa il dominio sull’Europa, anziché restare al guinzaglio finanziario delle sue banche. Dell’Italia, paese senza peso internazionale, anzi ormai sostanzialmente governato dall’esterno, con oltre vent’anni di ininterrotta decadenza funzionale alle spalle e la mafia come mentalità e metodo della sua politica e della sua burocrazia, non serve dire molto: per un paese appena efficiente, l’unirsi ad essa sarebbe autolesionismo. Quanto puerile idealismo necessita, quanto bisogna… spinellarsi, per credere oggi che da questi presupposti di fatto possa nascere un’Europa unita, se non attraverso la violenza, la coercizione e la sopraffazione? Ma se questo è il progetto degli illuminati architetti che hanno congegnato e calato dall’alto questo ordinamento europeo e questa moneta unica con le sue regole di bilancio, allora proprio la Germania, la patria dei Lager e dei campi di lavoro forzato, è il suo vero e immancabile strumento di realizzazione. Euro macht frei.
    (Marco Della Luna, “L’Europa è solo un’espressione germanica”, dal blog di Della Luna del 30 maggio 2015).

    L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.

  • Mosler: salvi col deficit all’8%, ma Berlino vi vuole morti

    Scritto il 10/6/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%,  ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.
    Nell’area Euro i trattati rendono difficili, se non impossibili gli investimenti e l’ampliamento del welfare. Manca la volontà politica. Ed è un peccato, perché basterebbe decidere di aumentare il vincolo di rapporto col Pil dal 3 per cento all’8. Senza altre variazioni nella struttura delle istituzioni Ue, la disoccupazione diminuirebbe e la crescita potrebbe arrivare anche al 4%. Non è una strada che piace alla Germania, però. La Germania ha un problema del tutto ideologico, persino filosofico. Gli intellettuali progressisti hanno a lungo visto nell’Unione Europea una via maestra per il rifiuto delle politiche regressive di stampo nazionalista. Sfortunatamente chi governa oggi questa istituzione ha sviluppato un’agenda economica fortemente regressiva, di destra. Uscirne tuttavia significa esporsi, appunto, ad un alto rischio di crescita del nazionalismo. La sfida è capire quale fra tutte le possibili strade sia meno “di destra” rispetto alle altre.
    Restando nell’Eurozona, se vi fosse la volontà politica di fare qualunque cosa di diverso rispetto alle politiche attuali, allora bisognerebbe puntare ad incrementare il deficit. Le istituzioni europee credono che agire sui tassi di interesse migliori l’economia e che le riforme strutturali consentano di aumentare l’occupazione. Non è così. L’euro a due velocità? Ancora una volta, credo manchi la volontà. I politici sono stati trasformati in esattori delle tasse: non hanno nessuna prospettiva economica. E in Italia non hanno nessun interesse, al governo sono totalmente passivi. Qualcuno mi ha chiesto quale politica economica abbia in mente Renzi: ho risposto che non ne ha una! E come lui, però, nessuno, in Europa. Manca la logica. Ad esempio: mettiamo che voi crediate realmente che in Grecia siano tutti pigri e nessuno abbia voglia di lavorare. Anche se voleste punirli, che senso ha creare politiche in cui gli stessi greci sono messi nelle condizioni di non poter più lavorare?
    Credo che il tasso di cambio dell’euro si rafforzerà molto e la Germania vedrà le esportazioni nette deteriorarsi. Non c’è nulla che siano in grado di fare. Sono impotenti. Sarà una distruzione della società fondata sulla deflazione e l’apprezzamento della valuta. Nei sei mesi scorsi l’euro è sceso temporaneamente, perché le banche centrali mondiali hanno reagito al Quantitative Easing e hanno iniziato a vendere grandi quantità di euro; questo processo però terminerà. Ora che l’euro tornerà a crescere, cosa faranno? Non gli resta nulla.
    (Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a “Left” per l’intervista “In Germania un problema ideologico, persino filosofico”, pubblicata il 23 maggio 2015 e ripresa dal blog “Vox Populi”)

    Le nostre idee sono arrivate a Obama, quando sono stato candidato al Senato in Connecticut, nel 2010, proponendo una riduzione o un’eliminazione del cuneo fiscale. Del resto, la tassazione sulla busta paga è l’imposta più regressiva che abbiamo negli Usa e l’argomento è quindi efficace. Scrissi alcuni articoli e feci alcune apparizioni televisive, e Jamie Galbraith, consigliere di Obama, cominciò a riprendere i nostri contenuti pubblicamente. L’idea suscitò anche l’interesse dell’amministratore delegato della General Electric, Jeffrey Immelt, e poi quello di Troy Nash, un altro degli assistenti di Obama. E così il taglio del cuneo fiscale è diventato legge. Si tratta di un taglio minimo, del 2%,  ma importante, anche perché è uno dei pochi provvedimenti bipartisan. Questa misura ha contribuito ad alimentare la crescita negli Stati Uniti, che ha subìto poi un sostanziale rallentamento nel momento in cui il governo ha voluto iniziare a ridurre il deficit pubblico.

  • Renzi ha dimezzato i suoi voti: va rottamato, in tre mosse

    Scritto il 08/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.
    La razionalità di questo “che fare” non è difficile da riscontrare. Renzi si accinge a completare la distruzione del Pd mutandolo in comitato elettorale personale, intenzione che del resto non aveva mai occultato. La sua politica, per profonda convinzione, è quella di realizzare la contro-rivoluzione di liberismo autocratico vagheggiata da Berlusconi ma restata in panne per i conflitti d’interesse e i crimini nell’armadio (sfociati finalmente in una condanna definitiva, dopo le tante sventate da leggi ad hoc e inciuci) e soprattutto per l’ondata di lotte civili, sociali, d’opinione, con cui la parte migliore della società civile ha saputo fare argine. In realtà il progetto politico di Renzi è la marchionizzazione del paese e delle istituzioni, e la contro-riforma della scuola ne costituisce la più luttuosa evidenza.
    Renzi è in questo momento debolissimo, malgrado il fumo negli occhi della quasi totalità dei mass media (mai come oggi a “bacio della pantofola” verso l’establishment: ma il “marchionnismo” non è anche questo?). In un anno ha perso la metà dei consensi. La metà, il 50%, un voto su due rispetto al bottino elettorale delle europee, ci rendiamo conto?! Si è letto che sono due milioni di voti, ma nelle sette regioni in cui si è votato. In proiezione nazionale sono cinque milioni e mezzo. Non un’emorragia, un dissanguamento da mattatoio. In un solo anno: quello che passa tra la fiducia dei cittadini al renziano dire, mirabolante, e il giudizio sul renziano fare, miserabile. Perdere in un anno un voto su due non è una “non sconfitta” o una “non vittoria”, è un tracollo, una disfatta, una gogna e rottamazione civica impietosa.
    Che quanto resti di “opposizione” nel Pd non colga l’attimo dimostrerebbe definitivamente che è ormai ridotta al livello del saracino Alibante di Toledo che “del colpo non accorto / Andava combattendo ed era morto” (Francesco Berni, “L’Orlando innamorato”, LII, 60). Se a questa “opposizione” resta invece ancora un barlume di “spiriti animali”, lucidità vuole che senza coltivare patetici propositi di riprendersi la ditta, decida di uscire di scena con un ultimo gesto di vitalità anziché nel vociare strozzato di un melmoso affondare. Alla vecchia nomenklatura non è data la rivincita, la vendetta sì. A Landini, l’unica vendetta a disposizione di questi burocrati che nessuno rimpiange, può riuscire, da posizioni opposte, di società civile “giustizia e libertà”, l’Opa sul Pd che è riuscita a Renzi or non è guari. La nemesi è nelle possibilità della situazione attuale, ma implica lucidità in tutti i soggetti qui evocati, e razionalità e coraggio sono i pregi che da più tempo latitano presso quanti si dichiarano di sinistra.
    (Paolo Flores d’Arcais, “Come rottamare Renzi, in tre mosse”, da “Micromega” del 2 giugno 2015).

    Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.

  • Calcio, la religione perfetta di questo capitalismo spietato

    Scritto il 07/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo.  La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.
    Una religione mediatizzata. Attualmente questo fenomeno genera potenti comunità vertebrate da sentimenti identitari collettivi che gestano intorno a diversi clubs del mondo, riaffermandosi in ogni partita attraverso una serie di azioni di massa che possono essere ben classificati come riti sociali. Diversi autori fanno notare il parallelismo dei luoghi comuni che condividono il calcio e i riti religiosi. Partendo dagli studi realizzati da Émile Durkheim sulle religioni primitive agli inizi del XX secolo, si intende che la ragion d’essere delle diverse religioni, presenti in tutte le civiltà conosciute, è quella di giustificare la forma sociale della quale a sua volta ne è il risultato. Tutti i riti religiosi compiono in questo modo una funzione unificante della comunità che li praticano. Questi riti solitamente consistono in atti di comunione congiunta dei suoi membri con entità sovra-terrene., che costituiscono in fine una specie di omaggio e riaffermazione della propria comunità e della propria struttura sociale.
    In coincidenza con le rivoluzioni liberali, dove si elimina la grazia di Dio come giustificazione principale del potere, cominciò in occidente una progressiva, anche se limitata, perdita di autorità politica del cristianesimo, sostituita da diverse forme di culto “laico” della società. Uno di questi è il fenomeno sociale del calcio. Durante il rito calcistico, le tifoserie realizzano un atto di comunione quasi religioso, esprimendo devozione nei confronti del proprio club durante la stagione di calcio ordinaria e alla propria nazione quando gioca la formazione dei rispettivi paesi. Sia in un caso che nell’altro, gli individui approcciano con l’ideale che li unisce affidandosi in questo modo alla comunità alla quale appartengono. Sono diversi gli elementi condivisi dai riti religiosi e calcistici, dove la comunità rafforza e riafferma il sentimento che si ha della stessa. In ogni culto religioso è necessario, in primo luogo, separare gli atti sacri dai profani, configurando un calendario liturgico per la quotidianità dei fedeli. I fine settimana sono i giorni eletti sia per andare a messa che generalmente per andare allo stadio.
    In secondo luogo, la rottura con la vita profana deve estendersi anche nella sua dimensione spaziale. Una cerimonia religiosa può essere svolta solo in spazi sacri e appositamente preparati per questa. Attualmente, i tempi del calcio emergono solenni nelle città simbolizzandone l’importanza politica ed economica, così come la grandezza dello stesso club.  Al loro interno, il terreno di gioco, così come il presbiterio cattolico, si investe come spazio sacro che può essere calpestato unicamente dagli ufficianti del rito, in questo caso i giocatori e l’arbitro. Questo spazio viene sottomesso a particolari attenzioni che lo rendono degno dell’importanza dell’atto: prato curato, pulito e adeguatamente annaffiato.
    In terzo luogo, in tutti gli atti religiosi hanno luogo una serie di di azioni più o meno collettive e ripetitive, dove i fedeli esprimono la propria devozione verso l’istanza adorata.  Alzare le braccia, agitare le sciarpe, alzarsi dalle sedie o intonare canti sono espressioni collettive di venerazione verso il club e che rispecchiano una significativa somiglianza da quelle realizzate dai e dalle fedeli verso le rispettive divinità nei loro rispettivi templi.
    Tutte le comunità religiose devono avere dei riferimenti storici che servano da esempio ai suoi integranti. La leggenda e il mito attorno a determinati giocatori per un club assomigliano alla tradizionale santificazione cristiana di personaggi storici. I santi costituiscono in questo modo autentici esempi di attuazione e di servizio verso la comunità religiosa, essendo stati canonizzati dalla realizzazione di determinati atti o gesta che contribuirono all’espansione del cristianesimo nel mondo. Nel caso del calcio, i tifosi delle squadre ricordano giocatori emblematici le cui gesta sul terreno di gioco sono state determinanti nel conseguimento di titoli e glorie che ingrandirono il club. Il caso di Diego Armando Maradona è un chiaro esempio del vincolo esistente tra idolatria religiosa e calcistica: intorno a lui si formò la Chiesa maradoniana in Argentina, un culto di stampo parodico ma che comprende sentimenti reali verso la figura del calciatore. A Napoli fu santificato extra-ufficialmente dai tifosi del club.
    Competitività, consumo e successo sociale. Come si può vedere, i legami tra rito religioso e rito sportivo sono noti. Durante la stagione di calcio prende inizio un culto dedicato alla competizione per il successo professionale (legato al successo sociale) che governa la società contemporanea basata sull’economia di mercato. Ma il calcio nella società attuale non è l’unico spazio di aggregazione collettiva che risponde a queste funzioni di coesione. Il modo in cui le persone consumano quasi tutti gli altri tipi di spettacoli, come il cinema, la musica e la televisione, si avvicinano in gran misura al culto religioso. Un esempio sono le diverse comunità di appassionati (fanatici) creati attorno a prodotti culturali generati dalle industrie dello spettacolo, dove gli integranti mostrano simboli identificativi incorporate in oggetti di merchandising di uso quotidiano o  realizzano autentiche mostre di devozione accudendo a cerimonie collettive come concerti , film, o il consumo simultaneo di capitoli di serie televisive.
    In ognuno di questi campi è un luogo comune l’opera di santificazione delle figure più importanti, condotta dai mass media. Anche se gli antichi santi erano usati come esempi di comportamento ascetico, le celebrità moderne sono santificati esattamente per l’opposto, essendo esempi di opulenza e di comportamenti sociali legati al consumo, che costituiscono il carburante di un sistema sociale basato sulla sovrapproduzione. In questo aspetto, sono disposte intorno al calcio autentici modelli di uomo per la classe operaia, soprattutto perché la maggior parte dei calciatori provengono dai settori più umili della società e hanno raggiunto la fama e il successo solitamente per competenze sul campo e per la dedizione. E ‘ particolarmente significativo che l’ industria mediatica dedichi tale privilegio all’unico posto che il sistema economico capitalista offre in cui la classe sociale non determina il successo nella carriera. I mass media portano a termine questo lavoro di glorificazione di campioni, che investiti come modelli autentici della vita nella società dei consumi, come esempi di virilità, di auto-superamento e lavoro.
    Dal settore della pubblicità ai telegiornali, ci vengono continuamente mostrate le gesta di questi superuomini in campo e, ogni volta di più, le telecamere si introducono nella loro vita quotidiana per mostrare l’opulenza in cui vivono, le donne bellissime che hanno o la nuova auto che hanno acquisito. Il telespettatore medio della classe operaia vedrà così che un suo simile è arrivato alla cima del successo sociale con i propri mezzi, essendo egli stesso l’unico responsabile delle loro condizioni socioeconomiche. Il mito attualmente generato da giornalisti sportivi e aziende pubblicitarie intorno al calciatore Cristiano Ronaldo è il miglior esempio di questa strategia mediatica. Il marchio sportivo Nike sfrutta da anni la sua immagine come modello di mascolinità e professionalità. “Le mie aspettative sono meglio delle tue” è stato lo slogan lanciato dal brand nel 2009. Una gigantesca immagine del giocatore esultando per un gol con il torso nudo appariva praticamente in ogni fermata metropolitana di Madrid, ricordando ai milioni di lavoratori che usano  i mezzi pubblici come siano ancora lontani dal successo sociale e professionale. Il consumo diventa quindi l’unico modo possibile per emulare il superuomo che non sono stati in grado di essere.
    Il prato politicizzato. Ma quello di cui abbiamo parlato è solo uno degli aspetti attraverso i quali il calcio diviene uno spazio per la disputa politica per il potere e il controllo sociale. È necessario ricordare che il calcio costituisce un’allegoria del combattimento in cui due comunità perfettamente identificate si affrontano attraverso il gioco, che permette di svolgersi senza rischiare l’integrità fisica dei partecipanti. Nella dimensione di fenomeno di massa, questo sport canalizza impulsi aggressivi della società attraverso l’elemento mimetico che costituisce il gioco competitivo su prato, essendo un luogo ideale per soddisfare le pretese di accrescere il potere così come riaffermazioni dell’autorità stabilita. Il fascista Benito Mussolini è stato tra i primi leader politici a vedere nel calcio un importante strumento di propaganda. Dedicò grandi sforzi per costruire stadi monumentali e organizzare grandi eventi sportivi, al fine di dimostrare la potenza della nuova Italia.
    Attualmente, questa strategia è un modello di base della politica globale, che si reggono su simili pretese imperialiste. Basta notare il modo in cui gli stati nazionali scaricano sul prato il loro orgoglio nazionale, o il modo in cui competono in precedenza per ospitare i mondiali, mostrando il loro livello organizzativo e il loro potenziale di sviluppo per gli investimenti stranieri. Si producono violenti sgomberi di gente povera nei centri delle città, o ingenti investimenti di capitale pubblico nella costruzione di infrastrutture che daranno enormi profitti alle élite economiche locali e straniere. In questi campionati, il calcio funziona come un elemento di coesione. Nel caso della Spagna, dopo l’esito della Coppa del Mondo in Sud Africa 2010 non passò molto tempo prima di sentire dai mass media allegorie riguardo il gran potere che potrebbe avere una Spagna unita nel campo della politica globale, essendo l’unione un requisito vincolante per uscire il prima possibile dalla crisi economica.
    Il complesso da impero smarrito che costituisce il nazionalismo spagnolo viene riflesso dai media col trionfo della selezione, rafforzando il senso di identità nazionale calmando a sua volta il clima socio-politico”. Si nota un gran contrasto dalla saturazione mediatica dei mondiali del 2010 con il relativo silenzio dei media dopo che gli spagnoli vennero eliminati nel 2014 in Brasile. Attraverso l’armamentario multimediale creato intorno ai trionfi della squadra nazionale, viene generato nella classe operaia una sorta di illusione collettiva di partecipazione allo stato-nazione, come sostituto. In ogni canale televisivo si creano talk show e programmi sportivi condotti da “esperti” che esaltano gli eroi del paese, plasmando uno spirito nazionale che integra i lavoratori, i datori di lavoro, e le istituzioni politiche. Grazie alla facilità che offre nel generare identità collettive, il calcio è un richiamo di massa senza eguali riproducendo le strutture di potere sociali e le diverse tensioni insite in loro.
    Il calcio e la sessualità. Il calcio rappresenta uno dei grandi bastioni intoccabili di dominio maschile nella sua dimensione più tradizionale. Le glorie calcistiche sono sistematicamente negate alle donne anche se hanno sempre maggiore presenza negli stadi. Esse sono una minoranza, come gli omosessuali, condannate al silenzio più completo. L’associazione tra la virilità e la competizione attraverso il contatto fisico, che è la spina dorsale del culto di calcio, è logica conseguenza del contesto  filosofico morale-borghese in cui è stato sviluppato questo sport. Come in ogni altro sport, viene eseguita la discriminazione delle donne a praticare insieme agli uomini, alludendo a ragioni di stampo biologistico. Senza entrare nel merito di una discussione di questo tipo, è sufficiente ricordare che il calcio è uno sport in cui le capacità fisiche si compensano con le capacità tecniche, l’intelligenza del giocatore o la giocatrice, la strategia e la coesione della squadra.
    Altrimenti sarebbe stato impensabile, per esempio, che una squadra come la squadra spagnola, composta per lo più di giocatori più bassi e relativamente sottili, conquistasse il titolo mondiale nel 2010, rispetto a squadre in gara come il Camerun o la Costa d’Avorio che non hanno nanche raggiunto la seconda fase del torneo. Argomenti di stampo evoluzionista prevalgono rispetto le teorie sociali nello spiegare perché le donne giocano a calcio peggio degli uomini e non sono degne di competere con loro. Sicuramente pensare al fatto che le donne fin dalla nascita partano da una posizione chiaramente svantaggiosa per questo sport (e praticamente qualsiasi altro) rispetto agli uomini a causa della costruzione sociale rigida che coinvolge ruoli di genere nei quali socializzano è più assurdo che pensare che le donne giocano a calcio perché Madre Natura (paradossalmente) così volle. D’altra parte, il culto all’ideale maschile su cui regge lo spettacolo calcistico comporta una sorta di divieto tacito sulla pratica a quegli individui la cui identità sessuale è percepita come una minaccia per i fondamenti della mascolinità tradizionale venerati in questo sport.
    Non è un caso che ci siano attualmente solo due giocatori professionisti attivi apertamente gay, Anton Hysén svedese e l’americano Robbie Rogers, entrambi giocano attualmente in Usa. I casi più noti sono diventati pubblici dopo il loro ritiro, evidenziando l’incompatibilità della loro identità sessuale con la loro carriera. Interpretando così, ogni partita di calcio professionale come una cerimonia quasi religiosa in cui la società realizza un culto abitudinario dei valori di competitività e mascolinità che governano il sistema socio-politico dominante, si capisce la difficoltà di un calciatore gay di affermarsi come elemento dissonante in un ambiente così mediatico, in cui sarà sottoposto ad un inevitabile giudizio dalla massa. Eppure, a poco a poco cresce il divario della Fifa grazie al coraggio dei giocatori stessi, che silenziosamente lottano per la loro libertà sessuale auspicando lo sviluppo di ulteriori iniziative che promuovono la normalizzazione dell’omosessualità nello sport. Tuttavia, questo è solo l’inizio di un percorso faticoso che comporta la necessità di ripensare i pilastri culturali su cui questo fenomeno di massa si basa.
    (Manuel González Ayestarán, “Calcio, media e controllo sociale”, da “Rebelion” del 16 dicembre 2014, tradotto da Torito per “Come Don Chisciotte”).

    La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo.  La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.

  • Internazionale democratica, contro il tecno-nazismo dell’Ue

    Scritto il 06/6/15 • nella Categoria: idee • (2)

    «I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».
    La democrazia, aggiunge Toscano sul blog “Il Moralista”, «rigetta l’impianto oligarchico che caratterizza questo mostro di Ue, divenuto oramai dovunque utile bersaglio per coagulare consenso». La slavina non si ferma più, «con buona pace del gotha massonico/nazista assiepato sulle posizioni del Maestro Venerabile della Ur-Lodge “Der Ring”, Wolfang Schaeuble». Non è bastato affidare il comando di un partito di sedicente sinistra come il Psoe spagnolo ad un giovanotto caruccio come Pedro Sanchez per evitare una sonora sconfitta. «Lo stesso destino toccherà a breve anche ai socialisti francesi, pronti ad estinguersi a causa dell’insipienza dei vari Hollande e Valls». Per non parlare del Pd renziano, tramortito dalle regionali dopo un anno di marcia trionfale sull’onda delle europee. «Provare ad occultare i disastri macroeconomici provocati dalle politiche del rigore ricorrendo al giovanilismo di maniera o alla demagogia antisprechi e anticasta è oramai inutile», insiste Toscano, collaboratore di Gioele Magaldi, con cui ha fondato il “Movimento Roosevelt” per contrastare il piano austeritario dell’oligarchia neo-feudale europea.
    «I cittadini non ci cascano più», aggiunge Toscano. «Tutti hanno capito che, per ripartire, l’Europa deve cambiare radicalmente: la dittatura finanziaria instaurata dalla Bce di Mario Draghi non è più sopportabile e va abbattuta». Certo, «il nazismo tecnocratico non si ritirerà però senza combattere». Così, per realizzare «un nuovo e più compiuto equilibrio in Europa e nel mondo», in grado di garantire una pace sociale duratura, «è indispensabile costruire fin da subito un movimento di Resistenza internazionale cementato dagli ideali illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza». Nel 1792, ricorda Toscano, il Parlamento francese approvò una legge che imponeva il riconoscimento di un sostegno a tutti i popoli della Terra che avessero desiderato liberarsi dall’oppressione esercitata dalle vecchie aristocrazie parassitarie per raggiungere la sospirata libertà. «Mentre i nazisti tecnocratici, coordinati dal Sacro Romano Imperatore Mario Draghi, possono effettivamente contare sul sostegno di una filiera di potere diffusa e cosmopolita, lo stesso non può dirsi per le diverse forze impegnate nell’attuale Resistenza».
    Per il segretario del “Movimento Roosevelt”, è dunque arrivato il tempo di riannodare i fili di una solidarietà internazionale «che impedisca ai padroni del vapore di derubricare a “vicenda domestica” casi importanti e paradigmatici come quello greco». Il movimento fondato con Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che svela il peso dei circoli massonici occulti internazionali, intende ora porsi sullo scenario globale «come una autentica avanguardia, mastice per la definitiva realizzazione di una struttura di contrasto, pacifica e democratica, pronta ad intervenire come un sol uomo a sostegno delle diverse popolazioni di volta in volta umiliate e colpite dai referenti del nazismo tecnocratico che porta oggi il volto della Troika». Una “Internazionale” nuova di zecca, «depurata da tentazioni totalitarie di marca comunista», coerente nel prospettare un nuovo modello di società «in grado di far coesistere democrazia e benessere diffuso, giustizia sociale e libertà d’impresa, mobilità e piena occupazione». Senza questa nuova “Internazionale” democratica, a parte “Syriza” e “Podemos”, «trionferanno in prospettiva i movimenti di stampo nazionalista, ringalluzziti dalla vittoria di Duda in Polonia». Nuova alleanza, dunque, perché «la dittatura finanziaria di Draghi e Schaeuble è già morta», ma resta ancora da capire «quanto lunga sarà la già iniziata agonia».

    «I nazisti tecnocratici Mario Draghi e Wolfang Schaeuble, con relativo codazzo di servi, politicanti e giornalisti, hanno i giorni contati: l’Europa intera è scossa da un fremito di ribellione che, dalla Spagna alla Polonia, dalla Finlandia alla Grecia, appare oramai inarrestabile». A poco servono le menzogne reiterate, veicolate da un circuito informativo grottesco e screditato, scrive Francesco Maria Toscano: i cittadini hanno deciso di dire basta. «Ricordate i tanti articoli dei soliti giornalai italiani che spiegavano al popolino come l’Italia dovesse imitare il modello spagnolo, terra felice che aveva trovato la via della salvezza a furia di privazioni e sacrifici? Tutte balle. Il sistema politico spagnolo, come ampiamente dimostrato dai risultati elettorali, è letteralmente deflagrato». Il vecchio bipartitismo “popolari contro socialisti” non esiste più, consentendo ad un movimento autenticamente progressista come “Podemos” di divenire in pochissimo tempo il vero dominus della politica iberica. «Alla faccia dei tanti venduti con la penna che continuano a raccontare a pagamento una realtà fantasiosa».

  • L’Isis finanza scuole in Kosovo, sotto il controllo degli Usa

    Scritto il 05/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.
    Con la qualifica di Ong, continua il “Giornale”, queste organizzazioni mantengono la facciata pulita davanti ad operazioni illegali: prima portano cibo e sostegno sanitario, poi l’incitamento alla violenza. «La cooperazione, infatti, parte solo dopo la costruzione di una moschea. Poi l’indottrinamento è immediato: corsi sul Corano e prediche sui dogmi dell’Islam», ovviamente interpretati dall’imam radicale di turno. Come scrive in un reportage da Pristina Alessandro Albino su “Lettera 43”, «allo studio della religione – secondo l’intelligence – vengono affiancati addestramento militare, insegnamento di tattiche di guerriglia urbana, uso di armi ed esplosivi». Dopo le scuole superiori, chi non va a studiare nei paesi arabi finanziatori delle Ong, imbraccia il fucile e viene inviato al fronte per combattere al fianco dei guerriglieri dell’Isis. «La paga è alta, molto più di un normale stipendio in Kosovo: 300 euro per chi rimane a Pristina, 30.000 per chi sceglie la Siria e l’Iraq».
    Secondo le autorità, al momento, circa 300 cittadini del paese balcanico “liberato” dalla Nato hanno partecipato ai combattimenti in diversi luoghi controllati dall’Isis e 40 di questi sono morti in battaglia. Altri 32 sono stati da poco arrestati e sospettati di aver avuto contatti con lo Stato Islamico. A settembre, 15 reclutatori di integralisti islamici disposti a combattere a fianco dell’Isis e di “Al-Nusra” in Siria e Iraq sono finiti in manette, tra cui il leader del partito islamico Fuad Ramiqi e 12 imam di varie regioni. «L’allarme terrorismo si fa sempre più vicino all’Europa e all’Italia», conclude il “Giornale”. «Il Kosovo è a maggioranza mussulmana, e sarebbero 50.000 i combattenti pronti ad impugnare le armi per lottare contro l’infedele. Cioè noi».
    L’articolo del quotidiano milanese, osserva Pino Cabras in una nota su “Megachip”, spiega molto bene «un meccanismo che in questi anni ha accompagnato l’interventismo finanziario dei grandi elemosinieri delle petromonarchie del Golfo: ovunque ci sia l’Islam si cerca di dare – a suon di dollari – un ruolo centrale alle correnti minoritarie e oscurantiste per emarginare le altre opzioni politiche e religiose». L’articolo, però, «non si addentra negli intrecci di questa azione con le strategie di “fomentazione del caos” che partono da fortissimi settori di Washington». Nel caso in questione, continua Cabras, non si dimentichi che il Kosovo «è una delle creazioni statuali più artificiose e controverse degli ultimi cento anni», ovvero «un paese che – più che una nazione indipendente – è un protettorato militare Usa nel cuore del mondo balcanico, un perno delle strategie geopolitiche che intendono spezzare i legami tra Russia e resto dell’Europa».
    Anche i recentissimi disordini nella confinante Macedonia, che sono appena agli inizi, hanno un preciso retroterra militare e di intelligence collocato «nelle strutture di destabilizzazione basate in Kosovo, dove la regia è saldamente washingtoniana e brussellese, prima ancora che di Ryad». Il problema, conclude Cabras, non è dunque che in Kosovo c’è una maggioranza mussulmana pronta ad aggredire noi, come potrebbe far pensare la conclusione dell’articolo del “Giornale”. «Il problema è semmai che c’è una minoranza che potrà avere un peso micidiale dopo che si spezzeranno i vecchi ordini», esattamente come è avvenuto in Ucraina (con i neonazisti) o nel Levante (con l’Isis). Il pericolo è dunque massimo, insiste “Megachip”, data la presenza di «registi cinici e alleati provenienti da molte appartenenze religiose, ma uniti dalla fede nel dollaro».

    Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.

  • Podemos e la resa di Draghi, sta iniziando la fine dell’Ue?

    Scritto il 04/6/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!
    Ovviamente la notizia non è quel che dice Draghi, che a questo punto è una banalità, ma che a dirlo sia lui, il gran sacerdote dell’euro. Significa che anche ai piani alti del Palazzo si iniziano a sentire gli scricchiolii della costruzione e si inizia ad ammettere che tutto possa crollare. In effetti le due notizie di Spagna e Polonia dicono proprio questo: che, se il fine dell’euro era la convergenza delle economie europee, l’operazione è fallita ed iniziano ad esserci i contraccolpi politici. Si badi che i due risultati contemporanei di Madrid e di Varsavia non delineano affatto una tendenza omogenea: hanno in comune il malessere nei confronti di questa costruzione tecnocratica e antipopolare che è la Ue, ma poi prendono strade a loro volta divaricanti, in base alla diversa posizione economico finanziaria del paese. L’ordine neoliberista, di cui la velleitaria costruzione europea è espressione nel nostro continente, si è imposto come unico assetto legittimo dei poteri, si è espresso nella dittatura del pensiero unico, ma questo ha finito per precludere la strada ad ogni ricambio interno: è la dittatura dell’esistente, che non immagina altro ordine possibile diverso da sé.
    Ma questo provoca a sua volta una regressione del pensiero politico che impedisce ogni ricambio di élite. Resta la protesta, ma questo non vuol dire che sia pronta una ipotesi di ricambio. Vedremo se “Podemos” saprà esprimere una progettualità più matura e capace di porsi come alternativa di sistema (ce lo auguriamo, ma abbiamo diversi dubbi). Sin qui, M5S e movimenti similari minori non sono andati molto al di là della protesta e non hanno fatto molti passi avanti sul piano del progetto. Anche Syriza, alla prova del governo, non sta fornendo una prestazione smagliante e sta, man mano, mostrando tutti i limiti della sua impostazione moderata. Questo ci porta al nodo del debito greco. Dopo molti giorni di annuncio della impossibilità di pagare la rata del debito con il Fmi, che aveva iniziato a far ballare le borse europee, di colpo sembra che, anche questa volta, Atene abbia trovato i soldi per magia e pagherà. Il che, di nuovo, fa sorgere molti dubbi sull’origine di questo denaro: hanno rotto un nuovo salvadanaio? O c’è la mano discreta di qualcuno che opera con criteri politici ed è in attesa di qualcosa? (mi piacerebbe sapere che ne pensa Lamberto Aliberti…).
    Quello che è difficile da credere è che ce la possano fare tassando i prelievi bancomat, a meno di non trattenere percentuali altissime di essi: se fosse stato così semplice, perché mai non farlo subito? Ma, lasciando da parte l’origine di questi capitali freschi, notiamo che questo è il modo scientifico di diventare “a Dio spiacenti ed ai nemici sui”. La finanza internazionale avrebbe ragione di non prendere più sul serio i “penultimatum” ateniesi che dicono sempre che è l’ultima volta che si paga e poi pagano regolarmente. Però facendo ogni volta una manfrina che manda in tensione le borse. Insomma: “Se i soldi per pagare li hai, paga e non fare storie”. Dal loro punto di vista, i signori della finanza non hanno tutti i torti.  E, quindi, la prossima volta nessuno prenderà sul serio l’annuncio di mancato pagamento. Tsipras somiglia molto a Renzi: soffre di annuncite. Però il governo di Syriza diventa spiacente anche al suo popolo, perché a parole promette di metter fine all’austerità, poi fa un po’ di storie, ma alla fine paga, varando nuove misure di auterity. Cosa è il prelievo sui bancomat se non una nuova tassa indiretta? Magari non basterà neppure a pagare la rata in scadenza e dietro c’è altro, ma i cittadini percepiscono un nuovo taglio del loro reddito, per cui iniziano a pensare che, un po’ alla volta, Tsipras farà come chi lo ha proceduto ed accentuerà la linea dei “sacrifici”. Ma soprattutto: per quanto si può andare avanti con questi espedienti?
    Di rate in scadenza, pesanti quanto o più di questa, ce ne sono ancora e non poche. E la soluzione non può che essere o accettare in toto la linea di Berlino o dichiarare default una volta per tutte, apprestandosi ad uscire dall’euro. E la linea berlinese non prevede alcuna “happy end”: spremerà la Grecia sino all’ultima goccia di sangue, comprerà a prezzi di svendita ogni asset pubblico e poi butterà via la Grecia come un limone spremuto. Notiamo che della timida apertura tedesca di pagare, pur se sotto altro nome, i danni di guerra, già non si parla più. Per cui, rimandare il momento finale produce solo una emorragia di ricchezze della Grecia per poi ritrovarsi in condizioni ancora peggiori alla fine del gioco. L’altra strada è quella di dichiarare default (certamente non una misura indolore, ma meno dolorosa dell’altra e con qualche prospettiva di ripresa) e porre il problema di una uscita concordata dall’euro. E su questa strada arriveranno anche altri. La Ue e l’euro non hanno un futuro. Forse lo ha Berlino (e non è neppure sicuro che riesca) ma da sola o con pochi e scelti amici.
    (Aldo Giannuli, “Sta iniziando la fine della Ue?”, dal blog di Giannuli del 25 maggio 2015).

    Nella settimana scorsa ci sono state quattro notizie che hanno rivelato quanto sia profonda la crisi della Ue: la dichiarazione di Draghi “l’Euro non è più scontato”; la vittoria di “Podemos” in Spagna; la vittoria dei nazionalisti in Polonia; l’altalena del default greco. Iniziamo dalla prima: Draghi dice che se la tendenza a divaricare dei paesi dell’Eurozona dovesse proseguire, l’euro non sarebbe più sostenibile, non solo economicamente, ma anche politicamente e socialmente. Ma no!? Ma non mi dire! Chi lo avrebbe mai detto?! Insomma, l’euro è una architettura che non può resistere ancora a lungo alle tendenze divaricanti dell’Europa, e si approssima il momento dei conti. Ovviamente la ricetta di Draghi è la più scontata: armonizzare con le riforme la struttura sociale dei paesi dell’Unione, dove per riforme si intende essenzialmente il taglio delle pensioni, il peggioramento delle prestazioni sociali (sanità, istruzione) e la fine tendenziale della loro gratuità o del loro prezzo politico. Però… mai che si parli di armonizzare le norme fiscali …chissà perché?!

  • Craxi: via noi, il regime violento della finanza vi farà a pezzi

    Scritto il 29/5/15 • nella Categoria: idee • (11)

    Il regime avanza inesorabilmente. Lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato. La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza. Il regime avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante. Non contenti dei risultati disastrosi provocati dal maggioritario, si vorrebbe da qualche parte dare un ulteriore giro di vite, sopprimendo la quota proporzionale per giungere finalmente alla agognata meta di due blocchi disomogenei, multicolorati, forzati ed imposti. Partiti che sono ben lontani dalla maggioranza assoluta pensano in questo modo di potersi imporre con una sorta di violenta normalizzazione. Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici.
    A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione. La privatizzazione è presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca. Una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale. La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza.
    I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico, sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla.
    D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico. Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le Commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”. Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra, e adottato da tutti anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio.
    La montagna ha partorito il topolino. Anzi il topaccio. Se la Prima Repubblica era una fogna, è in questa fogna che, come amministratore pubblico, il signor Prodi si è fatto le ossa. I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti. I criteri con i quali si è oggi alle prese furono adottati in una situazione data, con calcoli e previsioni date. L’andamento di questi anni non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori. La situazione odierna è diversa da quella sperata. Più complessa, più spinosa, più difficile da inquadrare se si vogliono evitare fratture e inaccettabili scompensi sociali. Poiché si tratta di un Trattato, la cui applicazione e portata è di grande importanza per il futuro dell’Europa Comunitaria, come tutti i Trattati può essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali ed alle nuove esigenze di un gran numero ormai di paesi aderenti.
    Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà. Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione. Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro. La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata. Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali. Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire. Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare.
    (Bettino Craxi, estratti dal libro “Io parlo, e continuerò a parlare”, ripresi da “Il Blog di Lameduck” il 19 maggio 2015. Il libro, edito da Mondadori nel 2014, cioè 14 anni dopo la morte di Craxi, raccoglie scritti del leader socialista risalenti alla seconda metà degli anni ‘90. Scritti che oggi appaiono assolutamente profetici).

    Il regime avanza inesorabilmente. Lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato. La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza. Il regime avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante. Non contenti dei risultati disastrosi provocati dal maggioritario, si vorrebbe da qualche parte dare un ulteriore giro di vite, sopprimendo la quota proporzionale per giungere finalmente alla agognata meta di due blocchi disomogenei, multicolorati, forzati ed imposti. Partiti che sono ben lontani dalla maggioranza assoluta pensano in questo modo di potersi imporre con una sorta di violenta normalizzazione. Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici.

  • Renzi completa il Rigor Montis: diktat Ue, ma con l’inganno

    Scritto il 28/5/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Nel 1953 quella che fu allora chiamata legge elettorale truffa non scattò perché la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati non raggiunsero il quorum richiesto del 50%+1 dei voti validi. Quella che doveva essere un’alleanza al centro in grado di acchiappare consenso in tutte le direzioni perse invece voti ad ampio raggio, alla sua sinistra prima di tutto, ma anche alla sua destra. Il progetto autoritario allora aveva respinto, invece che attrarre. Oggi l’Italicum è molto più pericoloso della legge truffa del ‘53, che comunque assegnava un premio parlamentare consistente a chi già avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Oggi, grazie al trucco del ballottaggio che aggira la sentenza della Corte Costituzionale, un partito come il Pd che, aldilà dell’exploit delle europee, si attesta normalmente attorno al 30% dei voti validi, potrà conseguire una maggioranza assoluta priva di contrappesi e controlli. Ho detto il Pd ma in realtà avrei più correttamente dovuto dire il suo segretario presidente Renzi, che si è costruito un sistema di governo che gli darà un potere praticamente assoluto.
    Come ha notato eufemisticamente Eugenio Scalfari siamo a una democrazia che affida il potere all’esecutivo. Che è ciò che normalmente avviene in ogni dittatura. Renzi sarà eletto direttamente dal ballottaggio come un sindaco e godrà di un parlamento esautorato, composto da una netta maggioranza di nominati o fedelissimi. Ci sarà una sola Camera che decide su tutto sulla base degli ordini del capo del governo. Camera che nominerà gli organismi di controllo senza, scusate il bisticcio, controlli. E se pensiamo che la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni sembra sia stata decisa sei contro sei, con il voto determinante del presidente, possiamo tranquillamente concludere che al nuovo Parlamento renziano basterà nominare un solo nuovo giudice costituzionale per cambiare gli orientamenti di tutta la corte.
    Un potere pressoché assoluto, dunque, per fare che? Quello che sta costruendo Renzi in realtà è un sistema autoritario che non è in proprio, ma è fondato su una sorta di fideiussione bancaria. Il programma fondamentale del governo è sempre quello della lettera del 5 agosto 2011 firmata da Trichet e da Draghi. Che come presidente della Bce continua a vigilare meticolosamente che quel programma stilato assieme al suo predecessore sia scrupolosamente attuato. Il 28 maggio 2013 la Banca Morgan ha presentato un documento politico che metteva sotto accusa la Costituzione italiana assieme a quelle di tutti i paesi europei “periferici” e in crisi. Queste Costituzioni, secondo quel documento, nate dopo la vittoria sul fascismo, sono segnate dal peso eccessivo della sinistra e del pensiero socialista, e per questo ostacolano le riforme liberali che servono a salvare l’euro.
    Con toni più brutali un editoriale de “Il Sole 24 Ore”, pochi giorni fa, polemizzava con la sentenza della Corte Costituzionale, affermando che con il pareggio di bilancio come vincolo costituzionale, gli obblighi del Fiscal Compact e il primato dei mercati globali, non ha più senso parlare di diritti indisponibili. Non crediate di avere dei diritti, si diceva una volta. I poteri forti, le grandi multinazionali, la finanza e le banche hanno da tempo deciso che il sistema di diritti sociali europeo è, per i loro concreti interessi, insostenibile. La crisi è stata un grande occasione per realizzare compiutamente un obiettivo cui si lavora da oltre trenta anni, e le riforme politiche autoritarie ne sono lo strumento. Renzi si è quindi trovato al posto giusto nel momento giusto. Guai a fare nei suoi confronti lo stesso errore di sottovalutazione compiuto dalla sinistra democratica verso Berlusconi; e non solo per il compatto sostegno che riceve dai poteri forti italiani ed europei e da tutto il sistema dei mass media. Anche Monti aveva questo stesso sostegno, per fare sostanzialmente la stessa politica, ma non ce l’ha fatta.
    La forza di Renzi sta proprio nella posizione e nella rappresentanza politica assunta. È un errore credere che egli sia un democristiano. No, la sua formazione politica non è tanto rilevante quanto il ruolo che ha deciso di interpretare. È questo ruolo è tutto all’interno della sconfitta e della rassegnazione della sinistra tradizionale. Matteo Renzi ha scalato il Pd, che è bene ricordare inizialmente lo aveva respinto, dopo che il vecchio e inconcludente riformismo era stato sconfitto. Egli ha usato spregiudicatezza e populismo con una classe politica disposta a tutto pur di non perdere il potere. Per capire quello che è successo dobbiamo pensare ad altri fenomeni di trasformismo di massa nella storia della sinistra del nostro paese. Crispi alla fine dell’800, Mussolini, Craxi e naturalmente Berlusconi sono tutti predecessori non casuali di Matteo Renzi.
    Il nostro è diventato il secondo paese cavia dell’esperimento liberista dopo la Grecia. In quel paese la Troika ha esagerato e ne è consapevole, per questo in Italia il progetto è diverso. Non negli obiettivi, che sono gli stessi, dal lavoro, alla scuola, alla sanità, alle pensioni, a tutti i diritti sociali. Si vuole arrivare alla stessa società di mercato brutalmente imposta alla Grecia, ma evitando la stessa reazione politica. Quindi più furbizia e anche tempo nelle misure da adottare e soprattutto lavoro per costruire un blocco di consenso politico attorno ad esse. A questo serve la mutazione genetica del Pd in partito della nazione. Che in realtà è un partito collaborazionista con la Troika e con tutti i poteri economici finanziari internazionali.
    Il partito della nazione che collabora costruisce così le sue cordate di consenso, da Marchionne ai sindacati complici, da Farinetti alla nuova Milano da bere, dai presidi a tutto quel mondo politico e sociale proveniente dalla sinistra il cui sentire di fondo può essere così riassunto: abbiamo speso tanto senza risultati, ora si guadagna. Non è vero che Renzi voglia liquidare i corpi intermedi, non è così sciocco sa che sarebbe impossibile. Quello che vuole il segretario del Pd è un corpo di organizzazioni addomesticate e funzionali e a questo sta concretamente lavorando, come dopo il Jobs Act e la “Buona scuola”, mostra il progetto di legge Civil Act sul terzo settore.
    Renzi è l’espressione di un progetto politico reazionario di adattamento dell’Italia ai più duri vincoli della peggiore globalizzazione, per questo battere lui ed il suo partito della nazione non sarà opera breve, né facile, ma è la condizione perché il paese possa riprendere davvero a progredire. Oggi contro Renzi sta un destra disfatta, nella quale lo stesso sistema mediatico renziano fa emergere il nazista dell’Illinois Matteo Salvini come avversario di comodo. Poi c’è il Movimento 5 Stelle che conduce lotte importanti, ma in evidente difficoltà di fronte al populismo anticasta fatto proprio dal renzismo. E infine c’è l’arcipelago delle forze della sinistra politica e sociale. La forza di Renzi è la debolezza di questo fronte, il che permette alla sua politica di destra di contare su un vasto consenso elettorale nel popolo della sinistra.
    Gli insegnanti che sfilavano in corteo il 5 maggio gridavano di non votare più Pd. È un segnale importante, ma insufficiente. Occorre un rottura più profonda. Occorre che tutto il corpo sociale e politico della sinistra consideri il renzismo non come un gruppo di compagni che sbagliano, ma come il primo e principale avversario. Le ambiguità ed i compromessi di chi si dichiara contro Renzi ma poi si allea con il Pd nelle elezioni locali, o dei dirigenti sindacali che lo criticano ma poi lo votano, o degli ambientalisti che sostengono Expo, tutto questo opportunismo porta solo fieno nella cascina del partito della nazione. Ci vogliono scelte nette per costruire l’alternativa a Renzi e al suo progetto, la prima e in fondo più semplice è non votare in ogni caso ed in ogni situazione per il Pd ed i suoi alleati.
    (Giorgio Cremaschi, “Non votare Pd, unico antidoto al potere assoluto renziano”, da “Micromega” del 21 maggio 2015).

    Nel 1953 quella che fu allora chiamata legge elettorale truffa non scattò perché la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati non raggiunsero il quorum richiesto del 50%+1 dei voti validi. Quella che doveva essere un’alleanza al centro in grado di acchiappare consenso in tutte le direzioni perse invece voti ad ampio raggio, alla sua sinistra prima di tutto, ma anche alla sua destra. Il progetto autoritario allora aveva respinto, invece che attrarre. Oggi l’Italicum è molto più pericoloso della legge truffa del ‘53, che comunque assegnava un premio parlamentare consistente a chi già avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Oggi, grazie al trucco del ballottaggio che aggira la sentenza della Corte Costituzionale, un partito come il Pd che, aldilà dell’exploit delle europee, si attesta normalmente attorno al 30% dei voti validi, potrà conseguire una maggioranza assoluta priva di contrappesi e controlli. Ho detto il Pd ma in realtà avrei più correttamente dovuto dire il suo segretario presidente Renzi, che si è costruito un sistema di governo che gli darà un potere praticamente assoluto.

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