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Archivio del Tag ‘populismo’

  • Populisti discesi dai Monti e dalle politiche ammazza-Italia

    Scritto il 19/12/18 • nella Categoria: idee • (15)

    Egrego professor Monti, senatore a vita e presidente a morte, ed egregi esponenti del Fronte Impopolare che sbavate nell’attesa di vedere Salvini e Di Maio in ginocchio da Juncker e da Moscovici, non vi chiedo di convertirvi alle ragioni della sovranità popolare e nazionale. Ci mancherebbe. Ognuno faccia la sua parte e sostenga le sue posizioni fino in fondo. Ma il vostro problema è stato ed è ancora proprio quello, che non siete stati capaci di portare fino in fondo i vostri propositi. Quando eravate voi al governo, nessuno s’aspettava redditi di cittadinanza, elargizioni pop, pensioni a quota 100 e condoni a gogò. Ma ci aspettavamo che, forti della vostra indipendenza dall’elettorato e dalla politica, dai partiti e dai sondaggi, voi metteste mano a una drastica bonifica del nostro sistema. In che senso? Tagliando davvero i rami secchi e gli sprechi, sopprimendo le mance e le regalie politiche, dismettendo, potando le amministrazioni pubbliche, facendo davvero una ristrutturazione dello Stato, una grande riforma. Per esempio, lo spreco assoluto e primario in Italia sono le Regioni, ma i politici non le toccheranno mai perché sono posti e potere; avete mai studiato e tentato l’ipotesi di abolirle? Avete mai provato a dimezzare i costi dei Palazzi, dal Quirinale al Parlamento, il loro personale, scorte incluse?
    E semplificare davvero la nostra burocrazia, la selva di leggi e la pletora di documenti che occorrono per tutto, perché non ci avete provato voi che eravate i tecnici, i razionali, gli eroi impopolari dell’amministrazione? Conosco la vostra obiezione; ma il Parlamento non ce l’avrebbe permesso. Beh, non sarebbe stato utile e dignitoso porre l’aut-aut su queste riforme, mettere il Parlamento con le spalle al muro: o le facciamo o ce ne andiamo, ma non prima di aver detto agli italiani in una conferenza stampa a reti unificate che è stato impossibile realizzare il programma a causa degli stessi partiti che vi avevano dato il voto di fiducia? Non sarebbe finita meglio la vostra esperienza di governo, a testa alta, anziché raccattando qualche voto per sopravvivere, o qualche seggio, magari qualche scranno eterno (ottenuto come pagamento anticipato della prestazione)? L’osservazione la faccio ai tecnici ma la estendo a tutti quei rigorosi che stanno dalla parte dell’Europa o che furono coi governi seguenti. Volevate evitare l’avvento dei populisti? Bastava fare quei tagli, quelle riforme, quell’opera grandiosa e tosta di risanamento. Vi sarebbero stati grati, alla fine, sia l’Unione Europea che gli stessi italiani. E non avreste offerto alibi né spunti ai populisti e al malcontento in cui sono cresciuti.
    Insomma, cari Tecnici e grilli parlanti d’oggi, non vi rimprovero di essere incuranti del giudizio popolare e di snobbare i sondaggi, i messaggi pop, i tribuni della plebe. Ma il contrario, di non essere stati capaci di far funzionare il rigore. Ve la siete presa solo con gli italiani inermi, spremendoli e vessandoli ogni giorno con un sadismo infruttuoso: una tassa qua, un inasprimento là, l’annuncio di sacrifici, l’incattivimento del fisco. Salvo poi cambiar linea quando si trattava di sostenere le banche. E il debito cresceva… Ma ad aumentare le tasse sono buoni tutti, non c’era bisogno di avere i professoroni, i bocconiani, i tecnici o affini. Per questo leggo con fastidio le vostre interviste (come quella di Monti a Senaldi per “Libero”) e le vostre reprimende al governo in carica, i vostri giudizi e referti da dottor Balanzone. Non avete funzionato come tecnici, oltre che come politici, avete stressato la democrazia senza promuovere la meritocrazia, l’efficacia, la modernizzazione. Perciò gli ultimi che possono lamentarsi di avere ora i populisti incompetenti e antisviluppo al potere siete voi. Possiamo farlo noi, non voi che ce li avete portati.
    (Marcello Veneziani, “I populisti discesi dai Monti”, da “Il Tempo” del 12 dicembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Egrego professor Monti, senatore a vita e presidente a morte, ed egregi esponenti del Fronte Impopolare che sbavate nell’attesa di vedere Salvini e Di Maio in ginocchio da Juncker e da Moscovici, non vi chiedo di convertirvi alle ragioni della sovranità popolare e nazionale. Ci mancherebbe. Ognuno faccia la sua parte e sostenga le sue posizioni fino in fondo. Ma il vostro problema è stato ed è ancora proprio quello, che non siete stati capaci di portare fino in fondo i vostri propositi. Quando eravate voi al governo, nessuno s’aspettava redditi di cittadinanza, elargizioni pop, pensioni a quota 100 e condoni a gogò. Ma ci aspettavamo che, forti della vostra indipendenza dall’elettorato e dalla politica, dai partiti e dai sondaggi, voi metteste mano a una drastica bonifica del nostro sistema. In che senso? Tagliando davvero i rami secchi e gli sprechi, sopprimendo le mance e le regalie politiche, dismettendo, potando le amministrazioni pubbliche, facendo davvero una ristrutturazione dello Stato, una grande riforma. Per esempio, lo spreco assoluto e primario in Italia sono le Regioni, ma i politici non le toccheranno mai perché sono posti e potere; avete mai studiato e tentato l’ipotesi di abolirle? Avete mai provato a dimezzare i costi dei Palazzi, dal Quirinale al Parlamento, il loro personale, scorte incluse?

  • Sapelli: la resa all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione

    Scritto il 17/12/18 • nella Categoria: idee • (13)

    «La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».
    Quella legge, del 1973 – aggiunge Sapelli – aveva dato ai deputati e ai senatori il potere di dichiarare guerra e ritirare le truppe nel caso di mancata autorizzazione, restringendo dunque l’autorità di un presidente, costretto a passare per il Parlamento. Legge poi scavlcata regolarmente da Obama, che per i finanziamenti e le armi ai sauditi aveva sempre bypassato l’aula. Tutto questo, spiega Sapelli, mette in crisi Trump, finora sostenitore del governo gialloverde contro l’oligarchia franco-tedesca che ha in pugno l’Ue. È stata la Cia a relazionare al Senato sulla tragedia umanitaria yemenita, e questa relazione «si aggiunge alla rottura esistente tra il segmento dell’establishment Usa favorevole a Trump e tutto il resto del Deep State nordamericano, che vede l’Fbi capofila nella richiesta di ritornare in fondo all’era Bush e Obama», cioè a un’epoca «di pericolosissimo unilateralismo, quando l’Occidente è stato diviso dalla guerra in Iraq con Francia e Germania che si rifiutarono di partecipare a quel disastroso intervento che segnò l’inizio del terrorismo di massa wahabita e jihadista e diede poi il fuoco alle polveri con il discorso di Obama al Cairo».
    Il bilateralismo di Trump e il suo tentativo di una “entente cordiale” internazionale per assicurare un “roll back” contro la Cina, «paese che si sta armando e che sta dilavando le fonti tecnologiche occidentali», secondo Sapelli «è stato messo in discussione da un ritorno, di fatto, alle ideologie dei seguaci di Leo Strauss, i “neocon”, che facevano dipendere le scelte di politica estera dai principi morali, secondo, del resto, una secolare tradizione Usa che risale ai padri fondatori». Trump rischia l’impeachment? «Sì, se ne farà un processo lungo e terribile». Tutto questo colossale sbandamento internazionale, aggiunge Sapelli, dipende sostanzialmente «dalle radici degli alberi della foresta Usa, ma altresì dalla savana dell’Unione Europea, che da circa trent’anni si dedica metodicamente a sradicare con la sua gramigna gli alberi europei, distruggendo con il principio della dipendenza monetaria funzionale da divieto del debito pubblico le fondamenta stesse della grandiosa foresta costruita nei secoli e nei secoli dagli europei dopo la morte di Carlo Magno e dopo il Trattato di Verdun dell’843».
    Di quella “foresta”, avverte Sapelli, non sta più rimanendo nulla: «Crolla con fragore in Francia, sotto la disgregazione sociale che fa seguito al potere verticale presidenziale che si trova incapace di adempiere ai principi auspicati con l’elezione di un presidente con il solo 26% degli aventi diritto al voto», ed evidenzia «una necessità di far saltare ogni parametro ordoliberista, alias Fiscal Compact». Di lì il disvelamento – storico, quanto la dichiarazione del Senato Usa – dei rapporti di potenza che la tecnocrazia eurocratica non riesce a nascondere. Sapelli si riferisce alle dichiarazioni del commissario Moscovici: «Un patriota francese che è occasionalmente commissario europeo e che dichiara candidamente che le regole che valgono per l’Italia rispetto al famoso debito non valgono per la Francia». Notizia che «non stupisce uno studioso serio e non prezzolato, che sa che il funzionalismo non ha fatto altro che nascondere e non eliminare gli squilibri di potenza nazionali». Questo fatto è forse «quello più rilevante dell’intero 2018, per coloro che vogliono ritornare all’analisi scientifica e non ideologica della realtà europea».
    In questo contesto, prosegue Sapelli nella sua analisi, emerge un altro evento importante: «La diffusività comprovata della capacità dell’ordoliberismo di cooptare seguaci, catturando ideologicamente per la pressione dell’ambiente gli “homines novi” dal basso per farli salire su su nella cuspide del potere». Il che avviene per effetto di motivi «non pecuniari, ma precipuamente culturali, ossia di “soft power”: è ciò che pare capiti ai primi ministri italiani con una continuità impressionante» Vengono sostanzialmente cooptati dall’egemonia neoliberista. «Il pericolo è che, nonostante le reazioni sempre più esplicite della borghesia nazionale contro la manovra (sbagliata perché troppo poco incentrata sulla creazione di capitale fisso e quindi sulla crescita), la compagine governativa italiana non ingaggi con Bruxelles la vera battaglia: quella della negoziazione dei parametri del Fiscal Compact (peraltro già scaduto, come trattato) e si abbandoni così alla tremenda ondata d’urto che verrà dalla prossima recessione per debito cinese e per debito “corporate” Usa». Recessione, assicura Sapelli, «che si unirà alla deflazione secolare e disgregherà ancor più il nostro sistema sociale».
    In questo “tramonto della ragione”, conclude Sapelli, non sorge «la stella polare che deve guidare ciò che rimane della borghesia nazionale: lavorare con le borghesie nazionali tedesche, convincere quelle classi politiche della necessità di rivedere le politiche economiche europee e riscrivere in tal modo la storia d’Europa». La Brexit, quella storia, «la sta già scrivendo da parte sua, dimostrando l’ignavia, l’ignoranza di una intera classe dominante politica e tecnocratica dell’Unione Europea, che invece di aprire un varco al primo ministro del Regno Unito lo stringe sempre più in un cul-de-sac per sgretolamento del sistema politico inglese». Domanda: «Dove sono finiti gli ammiratori sfegatati del modello Westminster?». Pervicace e violenta, la tecnocrazia europea «non è consapevole dei rischi che corre l’intero rapporto di potenza mondiale, se il Regno Unito entra in convulsione». Usa e Uk in crisi: «Una tragedia che il mondo, non l’Ue – non solo l’ Ue – non può permettersi, pena l’entropia. Ed è invece l’entropia mondiale che la cuspide del potere europeo sta producendo senza sosta in una pazzia inarrestabile».

    «La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».

  • Barnard: i buffoni che scoprono solo ora il bluff gialloverde

    Scritto il 15/12/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.
    Il primo a raccontarlo, in Italia, fu proprio Paolo Barnard, solitario giornalista a tutto tondo (uno dei pochissimi in circolazione), capace di divorziare da “Report”, che aveva fondato insieme alla Gabanelli, per trasformarsi in un attivista d’avanguardia, impegnato a spiegare ai non-addetti le perverse alchimie della finanza e di una moneta, l’euro, fabbricata a scopo di dominazione, per confiscare la democrazia in Europa. Nel saggio “Il più grande crimine, uscito nel 2010, Barnard ricostruisce in termini addirittura criminologici la genesi dell’attuale Ue, imputandola all’azione (molto subdola) delle nuove oligarchie del denaro, vere e proprie eredi delle aristocrazie che furono. Missione: rimettere in piedi una sorta di Sacro Romano Impero governato da dogmi, da imporre agli ex-cittadini trasformati in neo-sudditi, cui infliggere crisi e disoccupazione, precarietà e insicurezza sociale, erosione dei risparmi, salari ridicoli e pensioni da fame. La scusa: non ci sono più soldi, il debito pubblico ci divora. La grande omissione: la moneta. Chi la controlla? Chi la detiene? Chi la emette? E’ lei, la moneta, la sola misura del debito. Un debito pubblico denominato in moneta sovrana non è un problema, in nessun caso. Usa, Cina e Russia non potranno fallire mai. Il Giappone ha il doppio del debito italiano, eppure non ne soffre. Solo in Europa – caso unico al mondo – mezzo miliardo di persone è in balia di macellai, come nel caso della Grecia, senza che nessuno si ribelli davvero.
    Potevano farlo Di Maio e Salvini? Dovevano farlo, stando alle rispettive campagne elettorali. In tanti li avevano presi sul serio: i loro avversari, Pd in testa, dichiaramente spaventati dal possibile nuovo corso, e poi ovviamente i loro sostenitori (almeno il 60% degli italiani, stando ai sondaggi), convinti di potersi fidare di questi due nuovissimi “salvatori della patria”. A storcere il naso fin dal principio, viaggiando come sempre “in direzione ostinata e contraria”, c’era lui: Paolo Barnard. Lo ricorda impietosamente, oggi, sul suo blog. Era il 31 maggio 2018 quando scriveva: «Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno inflitto agli elettori euroscettici italiani la più desolante umiliazione che chiunque potesse immaginare. Non male, per due “paladini” delle sovranità italiane. Ma molto peggio: hanno seppellito per sempre le speranze sovraniste italiane in un colpo solo». Nel senso: prima di sfidarlo, il nemico devi conoscerlo. E se è così potente, distruggendo te, scoraggerà chiunque altro vorrà provare a combatterlo. I gialloverdi? Pericolosamente velleitari, irresponsabili e cialtroni.
    «Esauriti i primi proclami di cosmesi, hanno già intrapreso il camino delle ceneri sul capo, verso le vie di Bruxelles e del Quirinale, precisamente come ogni altro fantoccio italiano dal 1993 in poi». Questo, aggiunge Barnard, accade «a tristissime spese dell’elettorato per l’impreparazione e la sprovvedutezza di Lega e 5 Stelle nell’aver grossolanamente sottovalutato l’avversario». Maggio 2018, e Barnard già scriveva: «Siamo infatti all’ennesima umiliazione nazionale, ora certa». Sei mesi dopo, qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie, Barnard: «Chi fra i Socci, Fusaro, Becchi, e tutti ’sti delusi ragazzetti/e web che ora ragliano sui social “vi avevamo creduto! traditori!” condivise la mia previsione? Nessuno». E perché? «Perché ’sti personaggetti e i loro adoranti “ti metto 1 miliardo di like” tenevano i piedi in due staffe», scrive Barnard, che non perdona chi oggi – fuori tempo massimo – sta cambiando idea, giorno per giorno, di fronte al crollo della scommessa gialloverde. I supporter del “governo del cambiamento”? Piccoli opportunisti: «Sapete, non si sa mai: e se il carro dei vincitori vinceva? Comodo adesso saltar giù, buffoni».

    Italiani “buffoni”. Non quelli al governo, o quelli che l’esecutivo gialloverde l’hanno sempre e solo visto come un’epidemia di colera fascio-razzista in salsa populista. No, peggio: i veri buffoni, secondo Paolo Barnard, sono i connazionali che oggi – a fine 2018 – si stracciano le vesti, gridando al tradimento dei loro ex paladini. Lega e 5 Stelle: ieri bellicosi e polemici con la “dittatura” finto-europeista dell’Ue, e adesso già belanti e pronti a trattare, di fronte al muro di minacce e di ricatti innalzato da Bruxelles alle prime avvisaglie di deficit. E’ bastato poco: le provocazioni speculative dello spread, le intimidazioni di Moscovici e Juncker, la complicità mercenaria dell’eterno establishment italico “venduto allo straniero”. Fine del sogno irredentista: l’Italia si appresta a farsi rimettere in riga dai ragionieri dell’Unione Europea, tanto disonesti da accanirsi con noi – non tollerando neppure quel timido 2,4% di disavanzo – per poi affrettarsi a perdonare la Francia del “fratello” Macron, che per difendersi dalla rivolta dei Gilet Gialli annuncia che sforerà persino il mitologico 3% sancito da Maastricht sulla base di mere asserzioni “teologiche”, senza alcun rapporto con l’economia reale. O meglio: chi impose quel limite artificioso al deficit lo fece nella più clamorosa malafede, ben sapendo che tagliare le unghie agli Stati avrebbe terremotato i consumi e fatto sparire la classe media, deformando l’economia a esclusivo vantaggio dell’élite finanziaria.

  • Blondet: Salvini Ebbasta si è smarrito tra Berlino e Israele

    Scritto il 13/12/18 • nella Categoria: idee • (11)

    «Chi vuole pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele». E fin qui tutto bene (o quasi, visto che il binomio “pace” e “Israele” suona estremamente controverso). Ma il condottiero Matteo Salvini, in missione nello Stato ebraico (che ha appena riformato le sue leggi introducendo una norma “razziale” che pone gli ebrei al di sopra di chiunque altro), aggiunge, sul suo profilo Instagram: «Sono appena stato ai confini nord con il Libano, dove i terroristi di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». I “terroristi” di Hezbollah? Replica Maurizio Blondet: non sa, Salvini, che Hezbollah «ha pagato un alto prezzo di sangue combattendo contro i terroristi veri, quelli dell’Isis, armati e addestrati e protetti da Israele e Usa? Non sa che sono alleati in Libano con i cristiani maroniti, e hanno difeso con le armi in pugno i cristiani d’Oriente, da tutti noi abbandonati? Non hanno spiegato, a Salvini, che proprio Hezbollah – insieme ai russi e agli iraniani – ha sostenuto la Siria, impedendo che cadesse nelle mani dei tagliagole jihadisti messi in campo, sottobanco, dall’intelligence occidentale con l’aiuto di Netanyahu e Erdogan, due notori campioni della democrazia e dalla pace nel mondo?
    «Non solo vicepremier, non solo ministro dell’interno». Adesso, scrive Blondet, Salvini «scavalca tutti e fa il ministro degli esteri. Insomma, fa tutto lui. E anche di più. Naturalmente raccogliendo enormi successi diplomatici». Blondet lo definisce il classico elefante nella cristalleria, che va a spasso in Israele «ignorando come gli israeliani lo abbiamo insultato sui giornali, dicendo che dovevano dichiararlo “persona non grata” perché neofascista, “populista, separatista, nazionalista”». E questo «lo dicono “loro”,  unico stato razziale, a lui». “La visita di Salvini divide Israele”, scriveva l’Agi alla vigilia: «Il vicepremier incontrerà il premier Netanyahu ma non il presidente Rivlin (per motivi di agenda, spiega il portavoce). Il quotidiano di sinistra “Haaretz” lo dichiara “persona non gradita”». Perché la visita di Matteo Salvini in Israele sta facendo tanto discutere? Voci di protesta si alzano anche dai 5 Stelle, che sulla questione israelo-palestinese hanno posizioni ben diverse da quelle del leader della Lega.
    Già nel comizio di sabato, a Roma, secondo i media, Salvini si era proposto «come ministro per l’Europa e premier» indossando abiti non suoi annunciando di parlare «a nome di 60 milioni italiani», con questo obiettivo: «Datemi mandato per trattare con la Ue». Poi però ha proclamato che intende mettere in piedi «un nuovo asse Roma-Berlino», da opporre al morente asse franco-tedesco. «Se fosse cosciente dell’enormità di quel che dice – scrive Blondet – sarebbe sì fascista», ma invece «lui non sa». Aggiunge Blondet: «Per sua bocca, semplicemente, parla l’Italia di Sfera Ebbasta arrivata al governo. Quindi il commento giusto è quello di Osho: “Stavolta al Giappone non gli diciamo un cazzo”». Ma come, fino a ieri Salvini era per l’uscita dall’Ue e adesso vuole l’alleanza con la Germania, che ha messo ko l’Italia con l’austerity? Scrive l’analista Giovanni Zibordi: se il Piano-A era il 2,4% di deficit, il Piano-B sarebbe il 2%, al minimo accenno di contrarietà da parte di Bruxelles? «C’è caos totale sulla Brexit, le banche europee crollano in Borsa, Francia nel caos che ora sfonda l’austerità, recessione in arrivo… Gente con un minimo di competenza, a Roma, avrebbe dettato le condizioni alla Ue, infischiandosene della spread che è un bluff». Non pago, Salvini fa il messia in Israele. Chiosa Blondet: «Qualcuno è in grado di fermarlo, Sfesso Ebbasta? Sedarlo?».

    «Chi vuole pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele». E fin qui tutto bene (o quasi, visto che il binomio “pace” e “Israele” suona estremamente controverso). Ma il condottiero Matteo Salvini, in missione nello Stato ebraico (che ha appena riformato le sue leggi introducendo una norma “razziale” che pone gli ebrei al di sopra di chiunque altro), aggiunge, sul suo profilo Instagram: «Sono appena stato ai confini nord con il Libano, dove i terroristi di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». I “terroristi” di Hezbollah? Replica Maurizio Blondet: non sa, Salvini, che Hezbollah «ha pagato un alto prezzo di sangue combattendo contro i terroristi veri, quelli dell’Isis, armati e addestrati e protetti da Israele e Usa? Non sa che sono alleati in Libano con i cristiani maroniti, e hanno difeso con le armi in pugno i cristiani d’Oriente, da tutti noi abbandonati? Non hanno spiegato, a Salvini, che proprio Hezbollah – insieme ai russi e agli iraniani – ha sostenuto la Siria, impedendo che cadesse nelle mani dei tagliagole jihadisti messi in campo, sottobanco, dall’intelligence occidentale con l’aiuto di Netanyahu e Erdogan, due notori campioni della democrazia e dalla pace nel mondo?

  • Gilet Gialli di tutto l’Occidente, impoveriti dal neoliberismo

    Scritto il 08/12/18 • nella Categoria: idee • (15)

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.
    Il cambiamento non è dovuto a una cospirazione, a una scelta deliberata di far fuori i poveri, ma a un modello in cui l’occupazione è sempre più polarizzata. Questo si verifica insieme a una nuova geografia: l’occupazione e la ricchezza sono sempre più concentrate nelle grandi città. Le regioni deindustrializzate, le aree rurali, le città di medie e piccole dimensioni sono sempre meno dinamiche. Ma è in questi luoghi – nella Francia periferica (come pure in un’America periferica e in un’Inghilterra periferica) – che vive la maggior parte della classe lavoratrice. Così, per la prima volta, i “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. I “lavoratori” non vivono più nelle aree dove si crea l’occupazione, generando uno shock sia sociale che culturale. E’ in questa Francia periferica che è nato il movimento dei Gilets Jaunes. Come è in queste regioni periferiche che è nato il movimento populista occidentale. L’America periferica ha portato Trump alla Casa Bianca. L’Italia periferica – il Mezzogiorno, le aree rurali e le piccole città industriali del nord – hanno generato l’ondata populista. Questa protesta è condotta dalle classi che nei tempi passati erano il punto di riferimento fondamentale del mondo politico e intellettuale che le ha dimenticate.
    Così se l’aumento del costo del carburante è stata l’occasione per la nascita del movimento dei giubbotti gialli, non ne è stata la causa determinante. La rabbia ha radici più profonde, è il risultato di una recessione economica e culturale che ha avuto inizio negli anni ’80. Nello stesso tempo logiche economiche e territoriali hanno fatto sì che il mondo delle élites si chiudesse in se stesso. Questo isolamento non è solo geografico ma anche intellettuale. Le metropoli globalizzate sono le nuove cittadelle del 21° secolo – ricche e disuguali, dove anche per la vecchia classe media non c’è più posto. Invece, le grandi città globali funzionano su una doppia dinamica: invecchiamento e immigrazione. E’ questo il paradosso: la società aperta si risolve in un mondo sempre più chiuso alla maggioranza dei lavoratori. Il divario economico tra la Francia periferica e le metropoli corrisponde alla separazione fra una élite e il suo entroterra popolare. Le élites occidentali hanno gradualmente dimenticato un popolo che non vedono più. L’impatto dei Gilets Jaunes, e il supporto che trovano nell’opinione pubblica (otto su dieci francesi approvano le loro iniziative), hanno sorpreso i politici, i sindacati e gli intellettuali, come se avessero scoperto una nuova tribù amazzonica.
    La funzione del giubbotto giallo, si rammenti, è quella di rendere visibile sulla strada chi lo indossa. E qualunque sia l’esito del conflitto, i Gilets Jaunes lo hanno vinto sul piano di quello che veramente conta: la guerra della rappresentanza culturale. Gli individui appartenenti alla classe lavoratrice e alla classe medio-bassa sono di nuovo visibili e, accanto a loro, i luoghi in cui vivono. Il loro bisogno è in primo luogo quello di essere rispettati, di non essere più considerati “deplorable”. Michel Sandel è nel giusto quando sottolinea l’incapacità delle élites di prendere in seria considerazione le aspirazioni dei più poveri. Queste aspirazioni in fondo sono semplici: salvaguardia del loro capitale culturale e sociale e salvaguardia del loro lavoro. Perché questo abbia successo bisogna porre fine alla “secessione” delle élites e adattare l’offerta politica della destra e della sinistra alle loro richieste. Questa rivoluzione culturale è un imperativo democratico e sociale – nessun sistema può sopravvivere se non integra la maggioranza dei suoi cittadini più poveri.
    (Christophe Guilluy, “La Francia è profondamente spaccata. I Gilet Gialli sono solo un sintomo”, dal “Guardian” del 2 dicembre 2018; articolo tradotto da Maria Grazia Cappugi per “Come Don Chisciotte”. Guilluy è l’autore di “Twilight of the Elites: Prosperity, Periphery and the Future of France”).

    Dagli anni ’80 in poi è risultato chiaro che c’era un prezzo che le società occidentali avrebbero dovuto pagare per adattarsi a un nuovo modello economico e che tale prezzo consisteva nel sacrificio della classe lavoratrice. Nessuno ha pensato che la ricaduta avrebbe colpito anche il grosso della classe medio-bassa. Ora è ovvio, comunque, che il nuovo modello non ha indebolito solo le fasce proletarie ma la società nel suo insieme. Il paradosso è che questo non è il risultato del fallimento del modello economico globalizzato ma del suo successo. Nelle ultime decadi l’economia francese, come quella dell’Europa e degli Stati Uniti, ha continuato a creare ricchezza. Così siamo mediamente più ricchi. Il problema è che contemporaneamente sono aumentate anche la disoccupazione, l’insicurezza e la povertà. La questione centrale, dunque, non è se un’economia globalizzata sia efficiente ma cosa fare quando questo modello non riesce a creare e sviluppare una società coerente. In Francia, come in tutti i paesi occidentali, si è passati nel giro di poche decadi da un sistema che economicamente, politicamente e culturalmente integrava la maggioranza a una società disomogenea che, pur creando sempre più ricchezza, avvantaggia solo quelli che sono già ricchi.

  • La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta

    Scritto il 02/12/18 • nella Categoria: Recensioni • (4)

    La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
    Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.
    Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.
    Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?
    Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.
    (Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).

    La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.

  • Bifarini: squadristi dello spread, se li smentisci ti oscurano

    Scritto il 29/11/18 • nella Categoria: idee • (16)

    Le élites europee e italiane vogliono mantenere lo status quo. Lo fanno per propagandare con il controllo dei media questo modello economico che risulta perdente, sminuendo e ridicolizzando ogni piano alternativo e anche chi la pensa in modo differente. Lo fanno fin nel dettaglio con un macchina del fango sistematica. Il piano del nuovo governo italiano non sembra così radicale? Infatti non lo è, ma occorre comunque ridicolizzarlo. E’ un primo passo e una manovra che va in un’altra direzione rispetto alle precedenti. Ma la ridicolizzazione è architettata fin nei minimi particolari, cosa che fanno anche nei confronti delle persone (è stato fatto anche a me), anche se chi la esercita è minoritario nel paese. La maggioranza degli italiani non crede in queste ricette. Dopo una recente serata a “Otto e mezzo”, su La7, sono stata bersagliata, intimidita, derisa da importanti giornalisti e potenti economisti. Una sorta di bullismo mediatico, così volgare da lasciarmi senza parole. Faccio un esempio su un comportamento che ritengo significativo. Il vicepresidente del Parlamento Europeo, David Sassoli (ex conduttore del Tg1 ed esponente del Pd) si è scomodato per me, bloccandomi su Twitter e taggando il contenuto di un suo tweet al Parlamento Europeo, dove dice che se mi invitano in tv gli italiani potrebbero precipitarsi a ritirare i loro soldi dalla banca. Non pensavo di essere così potente. Si vede che la verità non si può dire in Tv.
    In televisione avevo detto che mettere in discussione l’Europa è necessario. Che l’austerity è una ricetta che non ha funzionato e non funziona. E’ un modello adottato su scala universale in modo acritico, e l’Europa ne è in questo momento la portatrice più avanzata. Tutti addossano alle politiche del governo l’aumento dello spread, ma accade principalmente perchè il quantitative easing di Draghi e della Bce è agli sgoccioli. Però questo nessuno lo spiega. Perché questi attacchi? Viviamo in una delle società più inique di sempre. Un ristrettissimo numero di persone detiene la maggioranza del potere nel mondo e in questo paese. La loro ricetta di gestione è questo fondamentalismo economico che è il neoliberismo, e anche se non funziona non lo si può mettere in discussione con delle critiche. Chi ha in mano il potere detiene il controllo dei media che sembrano fare di tutto per mantenere lo status quo. Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia nel 2002, spiega che le ricette di Banca Mondiale, Fondo Monetario Interneazionale, Wto e vari altri organismi sovranazionali producono spesso effetti devastanti nei paesi in cui vengono applicate. Ho moltissimi punti in comune con le teorie di Stiglitz, ma nel contesto maistream la comprensione di questi temi non è passata.
    Con un martellamento a tappeto hanno convinto gli italiani che l’economia è sapere ogni giorno quali siano le oscillazioni dello spread e le dinamiche del debito. Ma questa non è economia. L’economia ha il compito di far star meglio le persone. I veri problemi dell’economia sono la mancanza di crescita e la disoccupazione. In Italia si dovrebbe anche iniziare a rivedere il meccanismo d’asta usato per il collocamento dei Btp. Il sistema di gestione del debito pubblico italiano va rivisto. La modalità del ‘prezzo marginale d’asta’ comporta che i titoli vengano assegnati al prezzo più basso offerto e quindi al tasso più alto. Ciò comporta un costo del debito pubblico elevatissimo. Basterebbe fare come in Germania, dove esiste un importante sistema di banche pubbliche che intervengono nelle aste dei titoli pubblici. Come si esce da questa fase critica per i mercati? E’ questo continuo stato di tensione che ha effetti deleteri sui mercati. Dovrebbe cambiare l’approccio europeo. I mercati speculano sulle aspettative. La Bce dovrebbe preservare la stabilità dei mercati con politiche monetarie ad hoc.
    Da noi la classe politica ha tradito gli italiani con privatizzazioni che non vi dovevano essere, o entrando nell’unione monetaria Ue senza che vi fossero le condizioni. In Francia si scende in strada per rivendicare istanze popolari che qui ogni giorno si disprezzano come populismo. Ma è normale, parliamo dei sistemi di privilegi che una casta vuole continuare a mantenere. Il vero problema è questa ideologia delle élites che costringe ampie masse europee all’austerity e alla povertà. Ora, con arroganza aristrocratica, chi detiene le redini di questo tipo di società vuole ancora preservare i propri privilegi. Come si crea la crescita? Con investimenti pubblici produttivi: grandi investimenti e opere che creino lavoro. Con questi interventi ci occuperemmo dello stato di salute del nostro territorio – che abbiamo visto in che condizione è, vedasi il ponte di Genova e tutti i disastri che sono capitati anche ultimamente – e metteremmo in moto un circolo viruoso che procura crescita e benessere. Resta questo lo scopo dell’economia, non l’informazione giornaliera sullo spread. Lo Stato non può continuare a chiedere al cittadino più di quanto dà.
    (Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate ad Antonio Amorosi per l’intervista apparsa su “Affari Italiani” il 21 novembre 2018, ripresa dal blog della Bifarini).

    Le élites europee e italiane vogliono mantenere lo status quo. Lo fanno per propagandare con il controllo dei media questo modello economico che risulta perdente, sminuendo e ridicolizzando ogni piano alternativo e anche chi la pensa in modo differente. Lo fanno fin nel dettaglio con un macchina del fango sistematica. Il piano del nuovo governo italiano non sembra così radicale? Infatti non lo è, ma occorre comunque ridicolizzarlo. E’ un primo passo e una manovra che va in un’altra direzione rispetto alle precedenti. Ma la ridicolizzazione è architettata fin nei minimi particolari, cosa che fanno anche nei confronti delle persone (è stato fatto anche a me), anche se chi la esercita è minoritario nel paese. La maggioranza degli italiani non crede in queste ricette. Dopo una recente serata a “Otto e mezzo”, su La7, sono stata bersagliata, intimidita, derisa da importanti giornalisti e potenti economisti. Una sorta di bullismo mediatico, così volgare da lasciarmi senza parole. Faccio un esempio su un comportamento che ritengo significativo. Il vicepresidente del Parlamento Europeo, David Sassoli (ex conduttore del Tg1 ed esponente del Pd) si è scomodato per me, bloccandomi su Twitter e taggando il contenuto di un suo tweet al Parlamento Europeo, dove dice che se mi invitano in tv gli italiani potrebbero precipitarsi a ritirare i loro soldi dalla banca. Non pensavo di essere così potente. Si vede che la verità non si può dire in Tv.

  • Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta

    Scritto il 27/11/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente  – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
    Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle  persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.
    Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».
    Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche  evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.
    Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.
    Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.
    Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.
    Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…
    E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione  sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.
    Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.
    (Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).

    Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente  – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.

  • Un Gilet Giallo per Macron, fragile yesman dei Rothschild

    Scritto il 24/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La Francia, intesa come popolo, non s’è lasciata spaventare dalle leggi speciali introdotte grazie all’opaca stagione del terrorismo domestico targato Isis. Complice la legge elettorale a doppio turno, una minoranza del paese è caduta nell’equivoco Macron, l’uomo-Rothschild sponsorizzato dal supermassone neo-conservatore Jacques Attali, ma il Palazzo – lo stesso che minaccia l’Italia, anche sbarcando migranti oltre frontiera – ora è costretto a fare i conti con la marea di una protesta di massa tipicamente transalpina, quella dei Gilet Gialli, con numeri da capogiro: 300.000 manifestanti sguinzagliati in duemila città fino a bloccare strade e autostrade, per protesta contro i ricari della benzina. La polizia, riassume il “Post” ammette che è molto difficile rispondere alle mobilitazioni: sono diffuse a macchia di leopardo, spesso sono improvvise e non autorizzate, e in più «sono composte da persone che non sono abituate a protestare». Popolo in piazza, inscenando qualcosa che ricorda le prove generali di una possibile insurrezione. Chi sono e cosa chiedono, i cittadini francesi che indossano come una bandiera i giubbottini retro-riflettenti della sicurezza stradale?
    Il movimento dei Gilet Gialli non ha un’organizzazione formale o un leader riconosciuto, scrive sempre il “Post”: i comunicati parlano genericamente di una protesta «del popolo francese». Le principali informazioni sono state diffuse attraverso Facebook. È un movimento che non fa riferimento ad alcun partito o sindacato. Sulla pagina Facebook si dice che i Gilet Gialli sono «persone come me e te», ovvero «un pensionato, un artigiano, uno studente, un disoccupato, un uomo d’affari», Soprattutto, «una persona che è preoccupata di non arrivare alla fine del mese». Il movimento protesta contro la diminuzione del potere d’acquisto. Nel mirino, le auto: oltre all’aumento della benzina e del gasolio, il governo si è infatti mosso per abbassare i limiti di velocità, aumentare gli autovelox e introdurre incentivi per le auto elettriche o ibride. Dopo un anno in cui il prezzo del gasolio è salito del 23% e quello della benzina del 15, il governo ha deciso di imporre dal gennaio 2019 ulteriori tasse che faranno aumentare il prezzo dei carburanti.
    Cambiare aiuto? I manifestanti protestano: i rincari andrebbero a pesare su chi già ha una situazione economica difficile. Comprare una vettura nuova, elettrica o ibrida, costa troppo. A fianco dei manifestanti il presidente del partito conservatore Les Répubblicains, Laurent Wauquiez, che ha invitato Macron a «correggere i suoi errori». Come annota “Scenari Economici”, il gilet giallo è comparso addirittura in Parlamento: a indossarlo, il 21 novembre, è stato un moderato, Jean Lassale, che proviene dal movimento MoDem di François Bayrou, ma all’ultima elezione è passato nella Udf, Union Pour la Democratie Française (altro partito centrista). «Quindi non un populista estremista, anzi un moderato che ha già ricoperto anche cariche esecutive nel proprio dipartimento dei Pirenei». Per “Scenari Economici” si tratta di «un’espressione della Francia rurale che si sente tradita dal governo dei ricchi di Macron». Inutile aggiungere che, dopo aver indossato il gilet, Lassale è stato espulso per aver violato il “dress code” dell’aula parlamentare.
    Dai moderati alla sinistra: Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise, ha partecipato alla manifestazione di Parigi e ha parlato di «un grande momento di autorganizzazione popolare», riferisce il “Post”. Dal canto suo, il segretario del Partito Socialista, Olivier Faure, ha avvertito il governo che «senza dialogo» c’è il rischio di non andare avanti. «Negli ultimi giorni il governo ha mantenuto una posizione ambivalente, dicendo di comprendere le ragioni della mobilitazione, ma restando fermo sulle misure da adottare», aggiunge sempre il “Post”. Emmanuel Macron, il cui indice di popolarità è oggi molto basso, non ha parlato delle proteste, mentre il primo ministro Edouard Philippe ha riconosciuto la nascita di un movimento «senza precedenti» perché organizzato in modo indipendente dai sindacati. Ha detto di «sentire» la rabbia dei francesi, «la sofferenza, la mancanza di prospettive, l’idea che le autorità per molto tempo non hanno risposto alle preoccupazioni», ma ha confermato gli impegni presi da Macron: «Siamo all’ascolto dei francesi, abbiamo sentito la loro esasperazione. Ma la rotta non cambia se si alza il vento».
    I Gilet Gialli hanno ricevuto anche il sostegno del sovranista Rassemblement National (l’ex Front National): «La mobilitazione è stata un grande successo», ha detto Marine Le Pen, spiegando che il governo deve prendere delle decisioni politiche velocemente per far tornare la pace: «Per ora, però, non ho sentito niente». Il segretario della Cfdt, Lawrence Berger, uno dei più importanti sindacati del paese, ha invitato Emmanuel Macron a «riunire molto rapidamente» le varie organizzazioni  «per costruire un patto sociale», ma il primo ministro ha per ora respinto questa ipotesi. Quello che gli analisti avevano annunciato negli ultimi anni sta semplicemente accadendo: sia pure con dosi eccezionali di flessibilità rispetto al rigore Ue (e mantenendo l’inaudito parassitismo coloniale su 14 paesi africani, a cui Parigi sottrae ogni anno 500 miliardi di euro, accentuando in tal modo l’esodo dei migranti) la politica oligarchica di cui Macron è il rappresentante sta mettendo la Francia di fronte all’impossibilità di mantenere inalterato il proprio welfare, restando prigioniera della camicia di forza dell’Ue e dell’Eurozona. Diktat emanati da poteri non democratici, a cui la Francia dei Gilet Gialli si sta ribellando.

    La Francia, intesa come popolo, non s’è lasciata spaventare dalle leggi speciali introdotte grazie all’opaca stagione del terrorismo domestico targato Isis. Complice la legge elettorale a doppio turno, una minoranza del paese è caduta nell’equivoco Macron, l’uomo-Rothschild sponsorizzato dal supermassone neo-conservatore Jacques Attali, ma il Palazzo – lo stesso che minaccia l’Italia, anche sbarcando migranti oltre frontiera – ora è costretto a fare i conti con la marea di una protesta di massa tipicamente transalpina, quella dei Gilet Gialli, con numeri da capogiro: 300.000 manifestanti sguinzagliati in duemila città fino a bloccare strade e autostrade, per protesta contro i ricari della benzina. La polizia, riassume il “Post” ammette che è molto difficile rispondere alle mobilitazioni: sono diffuse a macchia di leopardo, spesso sono improvvise e non autorizzate, e in più «sono composte da persone che non sono abituate a protestare». Popolo in piazza, inscenando qualcosa che ricorda le prove generali di una possibile insurrezione. Chi sono e cosa chiedono, i cittadini francesi che indossano come una bandiera i giubbottini retro-riflettenti della sicurezza stradale?

  • Questa Ue a pezzi attacca l’Italia? Farà volare Salvini e soci

    Scritto il 23/11/18 • nella Categoria: idee • (5)

    L’Unione Europea di recente si è trovata a dover gestire non pochi problemi in quanto, alcuni suoi membri, tra i quali Polonia e Ungheria, hanno sfidato apertamente l’ordine stabilito. Questa volta siamo di fronte ad una situazione molto seria: Bruxelles deve affrontare le sfide da parte dell’Italia, la terza potenza economica nazionale nell’Eurozona e l’ottava economia globale in termini di Pil nominali. Con una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti, l’Italia è una nazione europeista e membro fondatore dell’Ue. Il governo italiano ha respinto le richieste da parte dell’Ue di rivedere la bozza di bilancio per l’anno 2019, proposta che prevede un deficit Pil al 2,4% e che potrebbe minacciare il debito pubblico nazionale. La coalizione di governo di Roma, costituita dalla Lega e dal Movimento populista 5 Stelle, ha deciso di incrementare il prestito allo scopo di poter finanziare le promesse elettorali, come la riduzione dell’età pensionabile e l’aumento dei pagamenti delle prestazioni previdenziali. Lo scorso mese la Commissione Europea ha lamentato che questi obiettivi di spesa vanno contro le norme dell’Ue. Su Roma pesa un enorme debito pubblico che la posiziona al secondo posto nell’Eurozona.
    La differenza tra prestiti e produzione economica è al 131,8% ma il governo è comunque convito che riuscirà a raggiungere una crescita economica sostanziale, sebbene le previsioni europee siano piuttosto cupe. Il 13 novembre scorso era il termine per presentare una revisione della bozza di bilancio; Roma non si è attenuta a tale termine. Ora la leadership europea sta minacciando l’Italia con sanzioni, fino a quando questa non risulterà adempiente: uno schiaffo per l’Italia che potrebbe dover versare una multa pari a 3,4 miliardi di euro. Il governo italiano sta intraprendendo una linea indipendente in merito a diverse tematiche. Viene visto come filo-russo nelle sue richieste di abolizione, o almeno di diminuzioni, delle sanzioni contro la Federazione russa. Il primo ministro italiano Giuseppe Conte sostiene che Mosca debba essere riammessa al G7. Il primo ministro lo scorso ottobre ha visitato Mosca, poi ha definito la Russia quale soggetto globale essenziale e ha invitato Putin a visitare l’Italia. Nonostante le misure punitive che l’Ue ha imposto, Conte ha sottoscritto diversi accordi commerciali e d’investimento.
    Lo scorso anno, il partito di maggioranza parlamentare russo, Russia Unita, insieme alla Lega Nord italiana, membro della coalizione di maggioranza, hanno firmato un accordo di collaborazione. Il Consiglio regionale del Veneto, dove il vice primo ministro Matteo Salvini detiene una posizione di forza, nel 2016 ha riconosciuto Crimea come parte della Russia. L’Austria è un altro membro dell’Ue amico della Russia. Persino il recente “scandalo dello spionaggio”, chiaramente messo in scena da forze esterne per rovinare quella relazione bilaterale, non è riuscito a danneggiare quel rapporto. «Siamo un paese con dei buoni contatti con la Russia, siamo aperti al dialogo: non cambierà, in futuro», ha dichiarato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, di fronte ai giornalisti il 14 novembre. Il partito popolare conservatore e l’estrema destra il Partito della Libertà – entrambi membri della coalizione di governo – sono ben disposti nei confronti di Mosca e non sono sostenitori delle politiche di sanzione promesse dall’Ue.
    L’Ungheria è un altro membro dell’Ue a sostenere la Russia. Lo scorso mese, il Parlamento Europeo ha votato a favore dell’avvio delle procedure di sanzione secondo l’articolo 7 contro l’Ungheria. Il governo guidato dal primo ministro Viktor Orban è stato accusato di aver messo a tacere i media, di aver bersagliato le Ong e di aver rimosso dal loro incarico giudici indipendenti. L’avvio delle procedure previste da tale articolo apre le porte alle sanzioni; l’Ungheria potrebbe, prima o poi, essere privata del suo diritto di voto all’interno dell’Ue. In realtà il paese viene punito per essersi rifiutato di accogliere immigrati. Questa è la seconda volta che le procedure secondo l’articolo 7 vengono avviate. La prima volta è stato lo scorso anno, quando la Commissione Europea ha dato il via libera all’articolo 7 contro la Polonia per le sue riforme giudiziarie. Per sospendere il diritto di voto dell’Ungheria e introdurre le sanzioni è necessaria una votazione unanime, e questa mossa rischia di venire bloccata dalla Polonia. A sua volta, l’Ungheria ha detto che starebbe a fianco di Varsavia nel caso in cui l’Ue avviasse le procedure per punirla. Le due nazioni  sono unite  nei loro sforzi per sostenersi a vicenda e respingere gli sconfinamenti di Bruxelles in un momento in cui l’Ue sta attraversando uno dei periodi più duri della storia.
    Ungheria, Polonia e Russia stanno cercando di attirare l’attenzione dell’Europa sulla minaccia alla pace e alla democrazia proveniente dall’Ucraina, problema che è stato per lo più messo a tacere dalla leadership europea. La Slovacchia è un altro membro dell’Ue che nutre quello che alcuni definiscono un “legame speciale” nei confronti della Russia. Non si è mai dimostrata a favore delle sanzioni contro la Russia e l’ha dichiarato apertamente. Lo scorso mese, Peter Pellegrini, il suo nuovo primo ministro, ha invitato l’Ue a rivedere la politica in materia di sanzioni. Anche in Grecia è scoppiato un conflitto diplomatico ma, come nel caso dell’Austria, potrebbe avere offuscato quei legami storici che comunque non è riuscita a recidere. Cipro è sempre stato un paese amico della Russia, ma sia Nicosia che Atene non sono in condizioni di poter proteggere la loro indipendenza, in quanto entrambi sono fortemente indebitate e dipendono dai prestiti esteri.
    La battaglia tra Bruxelles e Roma giunge nel momento in cui l’Europa si sta preparando per le elezioni del Parlamento Europeo che si terranno a maggio 2019. Le misure punitive intraprese dall’Ue contro l’Italia non potranno che condurre ad un crescente sostegno pubblico di quel governo che presta voce contro le pressioni e difende la propria gente. Questo porterà ad un aumento degli euroscettici italiani che vinceranno seggi in Parlamento. Considerando l’elevato malcontento di molte nazioni nei confronti dell’Ue, risulta difficile prevedere i risultati delle elezioni. Presto al comando ci saranno nuove persone con opinioni diverse sui problemi che incombono sull’Ue, così come sul futuro degli Stati membri. Tutto potrebbe cambiare, compreso il rapporto con la Russia e le sanzioni che sono diventate così impopolari e hanno portato molti leader nazionali a sfidare apertamente la “saggezza” di tale politica imposta da una élite di potere.
    (Arkady Savitsky, “L’Italia getta il guanto di sfida all’establishment di Bruxelles”, da “Strategic Culture” del 12 novembre 2018, ripreso da “Come Don Chisciotte” il 22 novembre grazie alla traduzione di Elena Scapin).

    L’Unione Europea di recente si è trovata a dover gestire non pochi problemi in quanto, alcuni suoi membri, tra i quali Polonia e Ungheria, hanno sfidato apertamente l’ordine stabilito. Questa volta siamo di fronte ad una situazione molto seria: Bruxelles deve affrontare le sfide da parte dell’Italia, la terza potenza economica nazionale nell’Eurozona e l’ottava economia globale in termini di Pil nominali. Con una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti, l’Italia è una nazione europeista e membro fondatore dell’Ue. Il governo italiano ha respinto le richieste da parte dell’Ue di rivedere la bozza di bilancio per l’anno 2019, proposta che prevede un deficit Pil al 2,4% e che potrebbe minacciare il debito pubblico nazionale. La coalizione di governo di Roma, costituita dalla Lega e dal Movimento populista 5 Stelle, ha deciso di incrementare il prestito allo scopo di poter finanziare le promesse elettorali, come la riduzione dell’età pensionabile e l’aumento dei pagamenti delle prestazioni previdenziali. Lo scorso mese la Commissione Europea ha lamentato che questi obiettivi di spesa vanno contro le norme dell’Ue. Su Roma pesa un enorme debito pubblico che la posiziona al secondo posto nell’Eurozona.

  • Fracchia contro Dracula: gli eroi gialloverdi e i vampiri Ue

    Scritto il 16/11/18 • nella Categoria: idee • (8)

    «Non si può votare per abolire la legge di mercato, come non si può votare per abolire la legge di gravità» (Carlo Alberto Carnevale Maffè, Università Bocconi). Dopo aver giurato e spergiurato che non avrebbero mai ceduto, i Grilloverdi naturalmente hanno ceduto, stralciando sia quel che resta del miserrimo Reddito di cittadinanza, che la fantomatica Quota 100 pensionistica dalla manovra finanziaria, per renderla più digeribile ai vampiri dell’Ue. Come Fracchia, minacciano sfracelli davanti ai colleghi, per poi cagarsi sotto all’arrivo del capoufficio. In particolare non c’è promessa solenne o valore fondante che la maggioranza dei grillini non sia disposta a rimangiarsi fino all’ultima briciola, pur di restare aggrappata alla posizione di potere che ha raggiunto, e che si restringe e diventa sempre più scivolosa, come una lastra di ghiaccio in un mare in tempesta, circondata dai pescecani, soprattutto leghisti. Tutta la fantascientifica rivoluzione del M5S s’è ridotta al bisogno disperato di riuscire a distribuire qualche buono spesa ai suoi elettori, prima che Salvini glieli porti via tutti. Mentre l’Unione Europea continua a spedire lettere minatorie a raffica come uno spam bot.
    Questo match truccato fra cazzari e sanguisughe è avvilente. La nostra unica speranza è il loro annientamento reciproco. Purtroppo però hanno più volte dimostrato d’avere la resilienza degli scarafaggi, specialmente la Lega, che si trova bene in entrambe le categorie, e quando si sarà sgonfiata la bolla populista, conta di tornare fra i “moderati”, i borghesi (post) berlusconiani i cui interessi in realtà non ha mai smesso di tutelare in via prioritaria, alla faccia del popolo. La democrazia occidentale s’è rivelata la peggiore truffa a schema piramidale del millennio. Votare è inutile, nella migliore delle ipotesi. Perché non c’è nessun vero cambiamento politico e sociale possibile senza cambiamento del modello economico. Questa pantomima è l’unica “democrazia” consentita dal capitalismo. Intanto il cadavere del Pd aspetta d’essere rianimato dal morso di Minniti. Le conduttrici “progressiste” lo adorano, Gruber, Panella, Merlino, Berlinguer, lo intervistano con occhi sognanti, lo supplicano di salvare la nazione dai fascisti impresentabili. E riconsegnarla a quelli beneducati.
    (Alessandra Daniele, “Fracchia contro Dracula”, da “Carmilla” del 4 novembre 2018. Blogger disillusa sul menù politico italiano e curatrice della rurbica “Schegge taglienti” proprio su “Carmilla”, Alessandra Daniele ha collaborato a tre antologie cartacee, due progetti collettivi Creative Commons che ha contribuito a ideare, “Sorci Verdi” (Alegre, 2011), “Scorrete lacrime, disse lo sceriffo” (Crash, 2008) e l’antologia urban horror “Sinistre Presenze” (Bietti, 2013). Ha pubblicato due diverse raccolte dei suoi testi “carmilliani”: “Schegge Taglienti” (Agenzia X, 2014) e l’ebook gratuito “L’Era del Cazzaro” (Carmilla, 2016). C’è un suo racconto anche nella raccolta fotografica “Banditi dell’alta felicità”, edita dal movimento NoTav. Il suo spazio su “Carmilla” lo chiama “bloggino”, definendolo «uno spinoff per testi (ancora) più brevi». Precisa: «Non sono né su Facebook né su Twitter. Sono su “Carmilla”. E qualche volta al mare»).

    «Non si può votare per abolire la legge di mercato, come non si può votare per abolire la legge di gravità» (Carlo Alberto Carnevale Maffè, Università Bocconi). Dopo aver giurato e spergiurato che non avrebbero mai ceduto, i Grilloverdi naturalmente hanno ceduto, stralciando sia quel che resta del miserrimo Reddito di cittadinanza, che la fantomatica Quota 100 pensionistica dalla manovra finanziaria, per renderla più digeribile ai vampiri dell’Ue. Come Fracchia, minacciano sfracelli davanti ai colleghi, per poi cagarsi sotto all’arrivo del capoufficio. In particolare non c’è promessa solenne o valore fondante che la maggioranza dei grillini non sia disposta a rimangiarsi fino all’ultima briciola, pur di restare aggrappata alla posizione di potere che ha raggiunto, e che si restringe e diventa sempre più scivolosa, come una lastra di ghiaccio in un mare in tempesta, circondata dai pescecani, soprattutto leghisti. Tutta la fantascientifica rivoluzione del M5S s’è ridotta al bisogno disperato di riuscire a distribuire qualche buono spesa ai suoi elettori, prima che Salvini glieli porti via tutti. Mentre l’Unione Europea continua a spedire lettere minatorie a raffica come uno spam bot.

  • La faccia tosta di Prodi, il pifferaio della svendita dell’Italia

    Scritto il 15/11/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.
    Questo è l’uomo che ha oggi la faccia tosta di lanciare un appello (sulle pagine del “Corriere della Sera” di venerdì 5 ottobre) per salvare l’Italia che, parole sue, «rischia di diventare una democrazia illiberale». Democrazia illiberale è un termine interessante, quasi un lapsus. Il binomio democrazia-liberalismo si è infatti dissolto da un pezzo, come hanno spiegato, fra gli altri, Colin Crouch e Wolfgang Streeck: i nostri sono regimi post-democratici, nei quali la democrazia si riduce all’esercizio formale di alcune procedure, mentre le vere decisioni sono delegate ai “mercati” (mitiche entità impersonali dietro cui si celano gli interessi di ben precise caste economiche), in nome dei quali governano esecutivi che giustificano le proprie decisioni antipopolari con i vincoli (che loro stessi hanno scelto di autoimporsi!) dettati da istituzioni sovranazionali prive di legittimazione democratica. Regimi liberali, nel senso che vengono ancora rispettati i diritti civili e individuali (ma non quelli sociali!), ma certamente non democratici, come ha sperimentato sulla propria pelle il popolo greco.
    Parlando del pericolo dell’avvento di una “democrazia illiberale”, Prodi e soci manifestano la propria paura che possa ritornare una democrazia capace di far valere gli interessi delle classi subalterne. Un ritorno che, causa la latitanza delle forze politiche che avrebbero dovuto difenderla (quelle sinistre che oggi ballano come topolini al suono dei pifferi liberali), ha assunto il volto “barbaro” della rivolta populista: dall’elezione di Trump, alla Brexit, alla bocciatura del referendum renziano, passando per la valanga di voti raccolti da formazioni di diversa coloritura ideologica (Lega e M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia, Podemos e Ciudadanos in Spagna, ecc.) ma accomunate dal rifiuto del pensiero unico liberal/liberista. Per certa gente la democrazia diventa illiberale quando capisce che il popolo non la segue più, che non riconosce più la loro autorevolezza di “esperti” e pretende di avere voce in capitolo su temi che è troppo rozza per capire. È allora che viene agitato lo spettro di una democrazia che può trasformarsi in “dittatura della maggioranza”, o addirittura suicidarsi, aprendo la strada all’avvento di regimi totalitari. È allora che si lanciano appelli come quello di Prodi (rilanciato da Gentiloni il giorno seguente) che invita a costruire un fronte “antipopulista” che dovrebbe andare da Macron a Tsipras.
    Quale sublime sfrontatezza: si chiama a raccolta Tsipras, l’uomo che ha tradito il voto del suo popolo, piegandosi alla volontà della Troika e accettando che la Grecia venisse ridotta allo stato di colonia, un uomo che non ha più alcun titolo per dirsi di sinistra (giustamente Mélenchon ne ha chiesto l’espulsione dal gruppo parlamentare della sinistra europea), accostandolo a Macron, l’uomo che dopo essere stato eletto in nome di una sacra unione antipopulista, è riuscito, a causa alle sue scellerate scelte antipopolari, a perdere in tempi brevissimi il consenso raccolto con quell’espediente. Senza operare alcuna riflessione autocritica, si rilancia un progetto che si è già dimostrato fallimentare, nella speranza di poter cancellare – con la complicità del terrorismo mediatico – l’evidenza dei fatti e di far dimenticare ai cittadini il recente passato. Non funzionerà. O meglio: non funzionerà per la maggioranza dei cittadini, funzionerà invece nei confronti dei resti d’una sinistra che continua a correre verso il baratro come un branco di lemming.
    (Carlo Formenti, “Prodi ovvero il pifferaio stonato”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2018).

    Romano Prodi è uno dei massimi artefici della mutazione genetica della sinistra italiana, avendo validamente contribuito a traghettarla dal campo socialista al campo liberale; fa parte (con Andreatta, Ciampi e Carli) del clan dei grandi burocrati che, prima, hanno sottratto al paese la sovranità monetaria, favorendo il divorzio fra il Tesoro e la banca centrale, poi hanno operato per sottrargli anche la sovranità nazionale (e quindi la sovranità popolare); è il grande liquidatore di quell’industria di Stato che aveva promosso il nostro sviluppo industriale, e che lui ha fatto sì che venisse trasferita in mani private; è fra coloro che hanno spianato la strada alla deregulation finanziaria, alla colonizzazione del nostro sistema produttivo da parte delle imprese transnazionali, alla distruzione del potere contrattuale dei sindacati; è – con Bill Clinton, Tony Blair, Schröder e altri – fra i massimi ispiratori della “sinistra” neoliberale e antikeynesiana; si è battuto perché l’Italia entrasse a qualsiasi costo nell’Unione Europea contribuendo a realizzare l’utopia di von Hayek, cioè la nascita di un’entità sovranazionale che ha neutralizzato i principi “criptosocialisti” della Costituzione del ‘48 e imbrigliato la nostra politica economica con vincoli esterni che le vietano di ridistribuire risorse a favore delle classi subalterne.

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