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Archivio del Tag ‘populismo’

  • Zuesse: Bannon sfida Soros ma non fidatevi, vuole l’Europa

    Scritto il 24/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (48)

    Scrive Eric Zuesse, su “Strategic-culture.org”, che due schieramenti politici – uno guidato da George Soros e l’altro creato dal nuovo arrivato, Steve Bannon – sono entrati in competizione per il controllo politico dell’Europa. Soros ha guidato a lungo i grandi capitalisti liberal americani verso l’egemonia europea, mentre Bannon sta ora organizzando una squadra di miliardari (altrettanto conservatori) per strappare la vittoria ai liberal attraverso la leva del populismo sovranista. Lo scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, sintetizzando la panoramica geopolitica fornita da Zuesse, scrittore e analista statunitense. Bannon contro Soros? Attenzione: «Nessuno di loro è progressista o populista di sinistra», avverte Zuesse. «L’unico populismo che attualmente ogni capitalista promuove è quello della squadra di Bannon. Comunque – aggiunge Zuesse – entrambe le squadre si demonizzano a vicenda, sia per il controllo del governo degli Stati Uniti che, a livello internazionale, per il controllo del mondo intero, opponendo due diverse visioni del mondo: liberale e conservatrice, o meglio globalista e nazionalista». Entrambi dicono di sostenere la democrazia? Sì, ma magari con le rivoluzioni colorate di Soros (Ucraina, Medio Oriente) o le guerre “democratiche” (Iraq) e i “regime change” (Egitto, Tunisia, Libia, Siria).

  • Noi, disprezzati dall’élite ladra: ecco il ponte che è crollato

    Scritto il 22/8/18 • nella Categoria: idee • (6)

    Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.
    Il patto sociale reggeva su un residuo interesse reciproco a tenerlo in piedi, sovraccarico di critiche ma senza romperlo. Già con la Seconda Repubblica la società si era rivoltata contro la politica, ed era nato il berlusconismo; ora si rivolta e inveisce anche contro l’economia, contro tutti i potentati, contro l’intera classe dirigente. Così il ponte è saltato. Cosa frenava la rottura del patto sociale? Un residuo interesse comune, nazionale, generale, reciproco, tra governati e governanti; la sensazione di essere comunque sulla stessa barca, e persino il sottinteso che se la classe dirigente s’arricchiva, sia pure in modi illeciti, i benefici poi si estendevano a cascata un po’ su tutti i cittadini. Poi il flusso clientelare si è interrotto, il Welfare è finito, non solo a causa dell’Europa e della crisi economica. Ma insieme al venir meno di tutto questo, negli ultimi anni, è avvenuto qualcosa di traumatico di cui non si è ancora capita la portata micidiale: il sentire comune, il noi quotidiano, l’alfabeto elementare su cui reggeva la nostra società è stato sconvolto, mortificato, perfino criminalizzato.
    Nel giro di poco tempo abbiamo appreso che tutto quello in cui credevamo, le parole che usavamo, le cose a cui tenevamo erano infami, segni di arretratezza e di razzismo, di sessismo e di familismo, di xenofobia e di fascismo, perfino. Ogni volta che si poneva l’Italia davanti all’Europa si doveva essere dalla parte dell’Europa e non dell’Italia, altrimenti si era retrivi, isolazionisti e sciovinisti. Ogni volta che si opponeva l’assetto contabile della Finanza alla vita reale dei popoli si doveva dar la precedenza al primo. Ogni volta che sorgevano contrasti tra gli italiani e i migranti clandestini o i rom si doveva parteggiare per i migranti clandestini o per i rom. Ogni volta che si opponevano delinquenti che ti entrano in casa a derubati bisognava preoccuparsi di garantire i ladri, non i derubati. Ogni volta che si ponevano le famiglie naturali e tradizionali, composte da padri, madri e figli, rispetto alle unioni omosessuali, ai transgender, agli uteri in affitto, si doveva parteggiare per questi, e far sparire anche nel lessico i riferimenti “trogloditi” alla famiglia e alla nascita. Ogni volta che si esponevano i simboli religiosi che ci accompagnano da sempre – il crocifisso, il rosario, il presepe, i canti di Natale e i riti di Pasqua – bisognava provare ribrezzo o almeno imbarazzo nel nome dell’ateismo come esperanto universale o delle religioni altrui.
    Provate a stressare in questo modo e su ogni piano un popolo e insieme a fargli avvertire tutto il disprezzo verso una plebe bollata come razzista, sessista e dentro di sé fascista, fino a produrre una forma di razzismo rovesciato, di apartheid che separa la minoranza dirigente dalla “trascurabile maggioranza degli italiani” e vedete se alla fine non si spezza il ponte. Quando poi a tutto questo aggiungi i privilegi e le scorrerie del capitalismo nostrano che viaggia sotto scorta politico-mediatica della sinistra e si mangia o svende quel che faticosamente ha messo insieme lo Stato italiano, allora la rabbia schiuma e si fa scomposta. Quando senti, per esempio che il presidente dell’Iri sotto cui avvenne, col governo di centro-sinistra guidato da Prodi, la cessione delle autostrade ad Altantia (cioè al gruppo Benetton & C.), diventa poi presidente della stessa società Atlantia (sto parlando di Gros-Pietro, attualmente presidente d’Intesa-San Paolo) beh, allora capisci che il patto sociale è saltato non solo perché si è imbarbarita la società e l’antipolitica che l’esprime, ma anche e soprattutto, perché un ceto dominante, tra potentati e partiti, ha abusato del potere, della società e della gente e l’ha pure disprezzata.
    I grillini, i populisti, non sono il rimedio al crollo del patto sociale ma non sono nemmeno la causa, piuttosto sono il sintomo e l’effetto. La causa principale è in quei potentati, nelle oligarchie di sinistra, nei poteri giudiziari, nei giornali e tv di servizio. Rispetto a questo blocco, il centrodestra berlusconiano (e finiano) è stato inefficace, consenziente e da ultimo anche connivente. Con quella classe dominante, la società è cresciuta per conto suo, si è inselvatichita, si è imbastardita. Ora tutto questo non ci porta a soffiare sul fuoco della guerra civile e incivile e ad armare il risentimento, né ci porta a elogiare l’ignoranza e l’arroganza delle masse come rimedio all’abuso di potere. Ma ci porta a sognare disperatamente che passata la furia e il dolore del momento, il trauma del crollo, venga fuori un maturo senso dello Stato con un’adeguata classe dirigente e si ricomponga un decente patto sociale. Altrimenti non solo il ponte crollerà, ma anche la terra che sta sotto.
    (Marcello Veneziani, “Si è rotto il patto sociale”, dal “Tempo” del 19 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.

  • Bordin: gli oligarchi neoliberisti temono l’Italia, e fan bene

    Scritto il 22/8/18 • nella Categoria: idee • (8)

    Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.
    Leggendo la faccenda da parte di chi (noi) euroscettico lo è davvero, e non per convenienza momentanea, la nascita del governo di Conte segnala che la rete liberale euro-atlantica ha perso il controllo politico dell’Italia. Usando una terminologia finanziaria, direi che questo è un “trend”  serio, e segue la scofitta dei liberal dell’Europa orientale e isolana: svolta in Austria, la Brexit e, prima fra tutte, la politica illuminante degli islandesi. Poco prima della grande svolta, quella italiana, abbiamo l’occupazione di un certo Donald Trump della Casa Bianca.  La “destra” tradizionale non ha nulla a che fare con questo nuovo fenomeno: un movimento in crescita che rifiuta ciò che l’Europa (e il mondo occidentale in generale) è diventato nei decenni successivi alla fine della Guerra Fredda, così come le sue basi ideologiche. Contrariamente a ciò che molti scrivono per dare alla faccenda un tono nostalgico o neopauperistico, l’ondata euroscettica e antiliberista non combatte il pluralismo, il multiculturalismo, ecc, ma l’immigrazione di massa, la globalizzazione economica incontrollata, la repressione delle identità locali e nazionali, l’individualismo estremo, lo sradicamento culturale, l’islamizzazione e la cosiddetta “ideologia di genere”.
    Quel movimento (noi), variamente chiamato “nazionalista”, “populista”, “rossobruno”, “anti-establishment”, “sovranista”,  in realtà contiene una sorprendente varietà di posizioni che spaziano dal comunismo ad Adam Smith e sta indubbiamente cavalcando un’onda storica simile a quella che portò alla fine del blocco sovietico. Se la devono mettere in saccoccia: il panorama della politica occidentale sta cambiando ed anzi ha già causato cambiamenti irreversibili. Occorre però tenere gli occhi bene aperti – spalancati! – perchè non mancano moltissimi agganci tra l’ascesa di questo movimento e liberali “sotto copertura”, nel senso che sembrano keynesiani, ma che in realtà sono liberali disposti a concedere qualche briciola mantenendo però saldamente in mano il potere. Di certo, i conservatori liberali classici, ma sedicenti progressisti, non hanno capito nulla della vicenda dei migranti; e questa incapacità di pensare alla politica è la migliore garanzia della loro scomparsa e dell’aumento dei loro avversari. Finora, questo pare essere il trend.
    L’Italia era tra i paesi con il più alto sostegno all’integrazione europea. Un decennio fa, i partiti anti-establishment ed euro-critici potevano mirare, tutti insieme, al 10% -15% dei voti. Come è diventato un posto dove possono raggiungere bene oltre il 60%? Dal mio punto di vista ciò è spiegato da una combinazione di fattori sistemici, politiche terribili e terribile comunicazione da parte dell’Ue come istituzione, dalle maggiori figure politiche europee e dai loro rappresentanti italiani. Fondamentalmente, la situazione attuale è stata generata dalla questione delle riforme economiche e dall’immigrazione. Sul primo fronte, è noto che l’Italia sia stata attaccata appositamente (spread), ma ha evitato un collasso finanziario nel 2011-2012, perché la Bce è intervenuta con una massiccia liquidità e, in seguito, acquisti di bond per stabilizzare le sue finanze. Questo tuttavia era basato su un accordo politico tra Roma da una parte e Bruxelles, Francoforte e Berlino dall’altra: l’Italia fu salvata ma dovette promettere una lunga lista di riforme economiche e sociali. L’idea dell’Ue germanica era piuttosto chiara: l’Italia è attualmente un sistema economico insostenibile (balle); mentre la Bce acquista un po’ di tempo, le riforme vengono attuate, riportando il paese su una traiettoria di sostenibilità.
    Peccato che la serie di riforme draconiane richieste dall’Ue era fondamentalmente impossibile da attuare nel contesto italiano. Ci sono formidabili limiti legali e persino costituzionali a ciò che il governo può fare per affrontare diritti, pensioni, sussidi, contratti stabiliti e così via. L’Italia, piaccia o non piaccia, ha una Costituzione keynesiana. Il tradimento di questa impostazione democratica ha provocato una dolorosa compressione della domanda interna. Tutto il resto, sono balle talmente giganti da non stare nelle mutande. Sul fronte dell’immigrazione, sia il governo di Letta che quello di Renzi hanno creato una situazione di assoluto caos: qualcosa che è stato riconosciuto persino, a suo merito, dal ministro degli interni Marco Minniti (sotto Gentiloni), che ha ammesso gli effetti disastrosi di tali politiche. Il comportamento dell’Ue su questa questione è stato completamente contraddittorio. Da un lato Bruxelles ha insistito su un piano per la redistribuzione dei migranti che nessuno vuole. Il piano appare al meglio assurdo, con possibilità minime di essere mai adottato; dall’altra, tutti i paesi confinanti con l’Italia hanno rafforzato i loro controlli sugli stranieri.
    Vale la pena ricordare che la crisi migratoria nel Mediterraneo deve essere ricondotta direttamente all’assurda campagna militare del 2012, avviata da Francia e Gran Bretagna, che non solo ha distrutto alcuni degli interessi di sicurezza più vitali dell’Italia (un alleato dell’Ue e della Nato), ma dell’Europa in generale, compresi in definitiva quelli di Francia e Gran Bretagna, accelerando la destabilizzazione della politica europea. Ancora una volta, la posizione della leadership dell’Ue e della sua filiale italiana sembra essere che questa situazione caotica nel Mediterraneo durerà potenzialmente per molti anni e persino decenni, e che gli italiani (come il resto degli europei) dovrebbero semplicemente sopportare… Nessuno sembrava rendersi conto che questo non era possibile – tranne noi. Quello che però gli elettori e i sostenitori dell’attuale governo non hanno ancora capito, e che li rende in parte diversi da noi, è che molti di “noi” non confidano in un grande successo di questo governo. In caso di fallimento, infatti, l’elettorato non si sposterà affatto nella direzione pregressa dei liberal euro-moderati, ma si radicalizzerà sempre di più su posizioni euroscettiche.
    (Massimo Bordin, “Perché i neoliberisti odiano l’Italia – e fanno benissimo”, dal blog “Micidial” del 13 agosto 2018).

    Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.

  • Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista

    Scritto il 18/8/18 • nella Categoria: idee • (4)

    I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
    Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.
    Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.
    Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.
    Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.
    A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.
    In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…
    (Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.

  • #MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali

    Scritto il 13/8/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.
    Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.
    Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?
    Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.
    “Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.
    E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?
    (Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).

    Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.

  • Duri con Salvini, ma zitti sul martirio (razzista) della Grecia

    Scritto il 04/8/18 • nella Categoria: idee • (13)

    Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.
    Un autorevole quanto accorato studio della più prestigiosa rivista medica del mondo, il “The Lancet”, del 2014 forniva le cifre di quel bagno di sangue: 2.200 morti negli over 55 in un solo anno, un aumento dei contagi da Hiv del 3.126% (tremilacentoventisei), casi diffusi di malaria, e un aumento della mortalità infantile fra le loro donne di un orribile 43%. Questo può fare il populismo razzista, questo ha fatto, in Grecia. Dietro al megafono dell’istigazione a nessuna pietà per quei “parassiti” c’erano Angela Merkel, Jean-Claude Trichet, Christine Lagarde, Mario Monti fra i più vociferanti. L’istigazione all’odio contro l’etnia greca arrivò al punto da impedire all’altrimenti umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner di organizzare milizie in maglietta rossa dirette alla Corte di Giustizia dell’Aja per denunciare quei crimini contro l’umanità a sfondo interamente razzista (ricordo solo quel Barnard in prima serata Tv gridare “Mario Monti, lei li ha tutti sulla coscienza quei morti, criminale”, non ricordo altri colleghi).
    Che fosse razzismo – cioè un rigurgito di dissennato astio da parte di milioni di europei contro un’etnia considerata parassita – interamente ad opera del populismo razzista di Merkel, Trichet, Lagarde e Monti – lo dimostrò un autorevole studio pubblicato già nel 2010 dal prestigioso Levy Economics Institute of Bard College di New York a firma di Dimitri B. Papadimitriou, L. Randall Wray e Yeva Nersisyan, dove ogni singola accusa all’etnia parassita e infame veniva fatta a pezzi: 1) Il debito greco, detto “minaccia alla stabilità di tutto il continente e causato da diffuso malcostume e parassitismo” era in realtà dovuto in maggioranza alla recessione economica mondiale, cioè calo Pil, calo tasse, e aumento conseguente di aiuti statali ai lavoratori in difficoltà di cui la Grecia non aveva nessuna colpa. 2) Non era affatto vero che il reddito pro capite greco era troppo alto per le casse di governo. Era invece uno dei più bassi d’Europa. 3) Lo Stato Sociale greco spendeva pro capite in media 3.530 euro contro i 6.251 della media europea. Nessuna elemosina a “parassiti”. 4) I costi amministrativi greci erano inferiori a quelli tedeschi o francesi, la spesa dello Stato era sotto la media Oecd, e la spesa pensionistica era in linea con quella di Germania e Francia.
    E’ col gelo nel sangue per questo precedente di pura follia razzista, e in ricordo dei distratti fischiettii (quando non assensi) dell’umanitaria sinistra italiana delle Ong, de “La Repubblica”, del Pd, e degli apostoli dell’anti-razzismo come i vari Saviano, Padellaro, Benigni e Lerner, che trovo assolutamente giusto il richiamo del professor Becchi a Matteo Salvini. E lo scrivo senza una traccia di sarcasmo. Meglio una parola in più del leader leghista contro derive razziste populiste anti “parassiti” che l’accusa domani di essere stato in qualsiasi modo complice di un’onda d’odio che causò poi stragi. O peggio: di essere stato un omologo di Angela Merkel (e la strage in Grecia continua).
    (Paolo Barnard, “Il prof. Becchi avvisa Salvini sul razzismo, e fa bene. Io aggiungo l’altra parte”, dal blog di Barnard del 3 agosto 2018).

    Condivido quasi nulla di Matteo Salvini, anzi, dico chiaro che da molto quest’uomo sta offrendo il fianco al ben noto sottosuolo dei più beceri italiani, quindi benissimo ha fatto il professor Paolo Becchi a sollecitare il ministro dell’interno verso prese di posizione sia politiche che personali inequivocabili contro qualsiasi rigurgito razzista (“Libero”, 02/08). Perché l’Europa è una terra fresca di oltre duemila morti per razzismo contati nel solo anno 2012, a cui, sempre per razzismo e sempre nello stesso periodo, si aggiunsero un milione di discriminati nel diritto alle cure fondamentali, abbandonati a contagi incontrollati di malaria e Hiv, e una strage d’innocenti per mortalità infantile. Si tratta di un olocausto di umani le cui origini, e il cui agghiacciante svolgimento, furono dovuti a una martellante campagna politica presso le opinioni pubbliche dove le vittime erano additate specificamente come gruppo etnico nemico dell’interesse comune degli onesti lavoratori, come sanguisughe delle tasse di chi veramente lavora, e come corrotti, ovvero una popolazione parassita inferiore contro cui si giustificavano, nella difesa degli onesti, misure di una durezza senza pietà fino alle estreme conseguenze di cui sopra. Una campagna quindi populista, becera e razzista.

  • Contro Marcello Foa in Rai, il complotto dei morti viventi

    Scritto il 01/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.
    Per contro, il “complotto dei sorci” rende ancora più palese la disperazione degli ex partiti caduti in rovina, specchio perfetto – e piuttosto vomitevole – dei grandi poteri che li hanno utilizzati per decenni, allo scopo di ridurre in cenere la sovranità italiana e svendere il patrimonio nazionale, fino a precipitare il paese in una crisi presentata come fisiologica e incurabile. Sono ancora a piede libero, e armati fino ai denti, i killer politici dell’Italia che fu: possono infatti contare sul plumbeo mainstream cartaceo e radiotelevisivo, lesto nel trasformare in una specie di pazzo visionario un reporter come Foa, allievo di Montanelli, distintosi – nella sua lunga carriera – per equilibrio, indipendenza politica e capacità di fornire opinioni illuminanti e giudizi altamente critici sullo stato delle cose, a cominciare dal giornalismo declassato a far west dove ormai gli “stregoni della notizia” fabbricano quotidianamente le “fake news” suggerite dai governi. Era decisamente troppo, Marcello Foa – troppo abile, troppo trasparente – per essere tollerato dagli omuncoli del Pd e dai loro compari, i residuati bellici ancora al servizio del nonno di Arcore. C’è anche un che di lugubre, nella congiura dei ratti livorosi, pieni di furore per i successi di Salvini: hanno bocciato Foa, ma non hanno niente di meglio da proporre agli italiani. Sanno di non essere nient’altro che cadaveri politici.
    Tutti i sondaggi attribuiscono ai gialloverdi un consenso che supera il 60%, senza contare gli elettori di Fratelli d’Italia e quel 27% di italiani che il 4 marzo ha scelto di non votare, nauseato dalle performance dei renziani e dei loro colleghi berlusconiani. In modo sbilenco e “gridato”, tra proclami e slogan che sarà difficile trasformare in provvedimenti legislativi, il nuovo governo è comunque assistito dalla sostanziale indulgenza di un paese che non riesce più a digerire gli zombie che ancora infestano, ventiquattr’ore al giorno, i salotti televisivi. E’ in atto un scontro epocale, socio-culturale prima ancora che politico: il sentimento di rivolta generalizzata, per comodità chiamato populismo, segnala che la narrazione dei leghisti e dei pentastellati ha comunque colto nel segno, visto che risponde a un preciso stato d’animo largamente condiviso. Non sarà più possibile truccare completamente la politica, al punto da spacciare per “riforme” endogene la traduzione sistematica dei diktat dell’oligarchia finanziaria euro-pilotata. I morti viventi ancora in circolazione possono, appunto, sabotare l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma la storia è contro di loro. Si è innescata una sorta di rivoluzione culturale: e più la crisi continua a mordere, meno comprensione ci sarà chi ha osato cestinare un gentleman come Marcello Foa, vero e proprio alieno in questa Italia di roditori in via di estinzione.

    Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.

  • Foa su Wikipedia: come distruggere un giornalista scomodo

    Scritto il 01/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    È così che si distrugge la reputazione di un giornalista scomodo: il 28 luglio alle 16:37 (cioè soltanto sabato, “casualmente” nel pieno della discussione per la sua nomina alla presidenza Rai!) è stata modificata la pagina Wikipedia di Marcello Foa, aggiungendo la sezione “Controversie” (prima inesistente, basta controllare la cronologia che riporto qui sotto) in cui viene denigrato come un “complottista” per aver sostenuto l’esistenza di “false flag” e per aver parlato della teoria gender (che viene liquidata come una “teoria del complotto nata nell’ambito ecclesiastico negli anni ’90”). Ho la fortuna di conoscere personalmente Foa da qualche anno. Ci siamo incontrati a una riunione per il Wac (Web Activists Community) a Roma nello studio di Giulietto Chiesa quando scesi in rappresentanza della Uno Editori per discutere del progetto. Ovviamente lo conoscevo già di fama, lo avevo spesso citato nelle mie opere, a partire dal mio libro-inchiesta su Renzi. Lo avevo sentito telefonicamente ma non lo avevo mai incontrato di persona. Mi sono trovata davanti un uomo gentilissimo, tanto umile quando disponibile, dotato di carisma e di ironia (dote rara), mentalmente elastico e al contempo metodico. Da quel momento ho potuto soltanto rafforzare la stima che ho di lui.

  • Meno Europa e più Italia dietro al feeling tra Conte e Trump

    Scritto il 30/7/18 • nella Categoria: idee • (29)

    In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.
    Ed è a questo punto, scrive Da Rold, che Giuseppe Conte, «il premier mediatore e probabilmente anche il garante delle scelte di fondo», va a presentare il nuovo “populismo italiano” davanti al vero capo del neo-sovranismo in salsa populista, il presidente degli Stati Uniti, cioè la potenza economica e militare più forte del mondo. «Non c’è dubbio che la contingenza politica nazionale e internazionale possono favorire il premier italiano in un dialogo con il presidente Usa – aggiunge l’analista del “Sussidiario” – fino a stabilire una sorta di corsia preferenziale per quanto riguarda gli affari europei e quelli mediterranei in particolare». Proprio Conte rivendica con orgoglio di essere il premier di un governo populista, ma si affretta a precisare che la permanenza dell’Italia nella Nato e nell’euro non si discutono. Il ministro Tria sarà “un Cerbero dei conti”, ma non abbandonerà il governo e quindi possono stare tutti tranquilli, anche gli alfieri della vecchia austerity e i nuovi confindustriali scalpitanti. Altro problema, il contesto internazionale: «Il croupier Jean-Claude Juncker, magari dopo una bevuta di bourbon, ha abbracciato Trump davanti alle macchine fotografiche trovando un compromesso sui dazi, per adesso. Ma di fatto Donald Trump, anche se poco lineare, non ha mai risparmiato critiche all’Europa, alla Germania in particolare. Si può mettere qualche cerotto, ma la ferita resta».
    In più, continua Da Rold, l’Unione Europea appare sempre più come un giocattolo rotto, «che deve essere aggiustato al più presto in qualche modo e con qualche riforma, prima che arrivi un’ondata anti-europeista degli stessi europei alle elezioni del prossimo anno». E’ un fatto: «Né Angela Merkel, né l’ammaccato Emmanuel Macron sembrano in grado di assicurare un rilancio e di tamponare le falle europee: occorre imboccare altre strade e battere altre piste». E qui, secondo Da Rold, può arrivare il paradosso: «L’attuale posizione del governo italiano, illustrata da un moderato come Giuseppe Conte, potrebbe giovare alla mediazione tra Stati Uniti e Unione Europea e potrebbe tracciare una sorta di pista privilegiata nei rapporti tra Usa e Italia, soprattutto per i problemi della stabilizzazione necessaria del Mediterraneo e del Nord Africa». In definitiva, Trump «potrebbe porsi come un mediatore tra i paesi del’Unione Europea che sono spesso in contrasto con la linea di Bruxelles e soprattutto quella di Berlino, e favorire quindi le esigenze anche dell’Italia». Potrebbe essere prezioso, l’aiuto Usa, quando l’Italia dovrà varare in autunno la legge di bilancio destinata, sulla carta, ad attuale le più impegnative promesse elettorali, Flat Tax e reddito di cittadinanza. «Gli italiani restano in attesa. Tocca ai politici del cosiddetto cambiamento giocare le carte utili e necessarie».

    In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.

  • Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?

    Scritto il 23/7/18 • nella Categoria: idee • (6)

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
    Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.
    Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.
    Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.
    (Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.

  • Dignità o velleità: moneta di Stato per le riforme gialloverdi

    Scritto il 22/7/18 • nella Categoria: idee • (43)

    Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).
    E’ a tali principi che devono essere rivolte, pertanto, la pubblica attenzione, la critica scientifica, la denuncia sociale ed etica, e l’azione politica riformatrice. Primo principio: la funzione, che è politica e sovrana, quindi pubblica, di creare la moneta, cioè il capitale finanziario, è esercitata da soggetti privati, come pure quella di collocarla e di stabilire rating, tassi etc., e ciò viene fatto secondo la loro privata convenienza di profitto, senza responsabilità verso l’interesse generale. Secondo principio: i capitali, le merci e le imprese si spostano più o meno liberamente intorno al mondo, perlopiù senza barriere daziarie o di contingentamento; questo pone i lavoratori dei paesi occidentali in concorrenza con quelli di paesi che applicano condizioni di sfruttamento radicale dei lavoratori anche in fatto di previdenza e di antiinfortunistica; contemporaneamente, l’immigrazione di massa li pone altresì in concorrenza con una mano d’opera pronta a svendersi nel loro stesso paese.
    Terza caratteristica: i paesi dell’area del dollaro e in ogni caso l’Italia sono sottoposti a un modello economico finanziarizzato, basato a) sulla  rincorsa dell’attivo primario del bilancio pubblico, che si scarica sui contribuenti, sui servizi pubblici, sugli investimenti; b) sulla rincorsa dell’attivo della bilancia commerciale (sulla competizione nelle esportazioni), e insieme sulla difesa di un alto rapporto di cambio; e le due cose si scaricano sui salari, imponendone la riduzione per mantenere la competitività in ambito internazionale, con conseguente depressione della domanda interna; inoltre, realizzare avanzi primari significa che lo Stato toglie dall’economia più denaro di quanto ne immette, ossia che abbassa il livello di liquidità, quindi di solvibilità. Con queste premesse, è ovvio che non si possano fare i provvedimenti fiscali e gli investimenti necessari e utili, nel medio termine, per la crescita, perché i vincoli di bilancio e il rating (condizioni di finanziabilità dei governi, fissate sul brevissimo termine) non lo permettono.
    Ovvio è altresì che il capitale finanziario e gli imprenditori validi si dirigano verso imprese e paesi in cui la loro rimunerazione è maggiore perché sono i più efficienti nella produzione, oppure perché consentono uno sfruttamento più radicale dei lavoratori e la libera esternalizzazione sulla società e sull’ambiente delle componenti nocive del processo produttivo (infortuni, inquinamento…); sicché, se per legge lo Stato, in nome della dignità e della stabilità del lavoro, introduce vincoli o tutele che rendano meno interessante per il capitale investire in quelle industrie e in quel paese, il capitale defluirà da quelle Industrie da quel paese lasciando disoccupazione. Perciò se si vuole tutelare effettivamente sia la dignità del lavoro che i livelli occupazionali, che l’ambiente, è indispensabile cambiare i tre suddetti principi, incominciando con il recupero da parte degli Stati della sovranità monetaria per assicurare loro il rifornimento di moneta (la capacità di pagare sempre il proprio debito e di finanziare il proprio bilancio facendo gli investimenti necessari alla crescita e di pagare il debito pubblico), sottraendoli al ricatto monetario dei banchieri speculatori privati internazionali e ai golpe mediante spread.
    Bisognerà inoltre creare barriere protezionistiche contro la concorrenza sleale in modo che i lavoratori del proprio paese non si trovano esposti alla concorrenza di lavoratori sottoposti a condizioni schiavistiche in paesi in cui il capitale riesce a scaricare completamente sulla popolazione generale e sull’ambiente le proprie esternalità. In terzo luogo, bisognerà cambiare il modello generale dell’economia sopra descritto, mirato sui surplus commerciali, anche perché la rincorsa di tale surplus è in se stessa illogica dato che la somma dei saldi delle bilance commerciali è ovviamente zero. Come primo passo per recuperare la sovranità monetaria, e ridare liquidità al sistema. Qualora non si arrivi direttamente alla fine dell’Eurosistema o a una sua radicale e benefica riforma, suggerisco al governo l’introduzione di un mezzo monetario nazionale interno, una sorta di seconda moneta – ma non denominata come moneta – emesso magari da una rete di banche appositamente costituite, che lo creano prestandolo (come avviene con le normali banche di credito) ma lo accreditano non su un conto proprio, bensì su un conto dello Stato, e poi lo prendono a prestito dallo Stato a modico interesse per prestarlo ai clienti applicando un interesse maggiore.
    Quella sopra da me delineata è una campagna innanzitutto culturale, di informazione e comunicazione generale – e nella capacità di comunicazione abbiamo due eccellenze: una in Salvini e un’altra, in generale, nelle Stelle. In secondo luogo, deve diventare una campagna europea e possibilmente non solo europea, e a questo fine ben si presta l’iniziativa salviniana della Lega delle Leghe. Se non si riesce a informare-comunicare all’opinione pubblica e a internazionalizzare questa campagna, i suddetti progetti economici verranno soffocati e resi velleitari dalle stesse dimensioni della dottrina economica mainstream – e Mattarella, con Tria, traghetterà l’Italia attraverso una brevissima stagione “populista” per consegnarci nelle mani di Macron-Rothschild, di Soros e della Merkel o di chi per lei.
    (Marco Della Luna, “Dignità e velleità, come salvare le riforme politico-fiscali del governo”, dal blog di Della Luna del 6 luglio 2018).

    Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).

  • Malvezzi: Juncker ubriaco, emblema di un’Europa che crolla

    Scritto il 13/7/18 • nella Categoria: idee • (8)

    Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.
    Ti ricordo, presidente, che il bilancio dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea è a credito per decine di miliardi, a differenza di quanto la tua vergognosa narrazione (e quella dei tuoi tanti servili cortigiani) tende a far credere. Da creditore, pertanto, sono a dirti esattamente l’opposto di quanto affermi. L’Italia lavora in ore medie lavorate pro capite più di tanti altri paesi del nord, Germania compresa. La nostra inefficienza, te lo scrivo da economista, è dovuta a una moneta senza Stato, che in un sistema a cambi fissi e in un modello predatorio ha avvantaggiato gli uni e penalizzato altri. Ti dirò di più; è stato fatto per quello. Solo che questo popolo ora si è stancato di vedere imprenditori suicidarsi in onore delle vostre presunte “riforme”. Questo popolo si è stancato di tagliare le pensioni per far quadrare bilanci che non possono quadrare, perché sono gli interessi sul debito verso banche private e non più pubbliche a mangiarli. Questo popolo si è stancato di perdere posti di lavoro in onore della vostra “produttività”, che si dovrebbe chiamare come è: deflazione salariale.
    Questo popolo si è stancato di tagliare la spesa pubblica per gli anziani non autosufficienti, per i malati di cancro negli ospedali, per i posti di lavoro dei giovani disperati costretti ad emigrare, mentre voi organizzate spostamenti di massa tra continenti per abbassare la competitività salariale, con una lotta tra poveri. Questo popolo si è stancato di credere alla favola dello spread e dei “mercati”, perché ha capito che una banca centrale, se vuole, può metterli a tacere per il bene del popolo, comprando i titoli dello Stato oggetto di speculazione privata. E a chi mi dice che questa sia demagogia, caro signore, da economista rispondo con un garbato “vaffanculo”. Lo faccio in memoria degli imprenditori suicidi di Stato, dei risparmiatori truffati dal bail-in, dei poveri senza lavoro e speranza. Quella scena di te che oscilli tra i grandi delle Terra rimarrà indelebile nella memoria di milioni di persone. Quella resterà nei libri di storia, te lo dico oggi, come una pagina memorabile.
    Il tuo oscillare, dopo tanti anni di sicumera ed arroganza, dopo aver offeso un intero popolo, rimarrà ad imperitura memoria della caduta del vostro potere. Tu sei il simbolo cadente, Juncker, di un potere decadente. Ti possono sostenere membri della corte compiacenti, come nei penosi filmati che circolano in rete tutto il mondo ha potuto vedere. Non ti potranno sostenere in eterno, perché la rabbia del popolo oppresso è inarrestabile, e colma ne è la misura. La tua traballante camminata, su quel tappeto rosso, produce ilarità. Bene lo spiegava Pirandello – un grande italiano, sai? – nel fatto che l’imprevisto provoca il riso. Ma dopo quel riso, la riflessione è amara è ineluttabile. Tu sei il simbolo, insostenibile e indifendibile, della barcollante tenuta di un sistema oligarchico di potere che, irrispettoso del bene e del volere del popolo, lo ha oppresso per vent’anni. Potrete offenderci con le parole; potrete chiamarci demagoghi o populisti, retrogradi o qualunquisti, razzisti o nazionalisti. Non potrete fermare l’ineluttabilità degli eventi, come non si può sorreggere un corpo senza più energia dalla forza di gravità.
    L’Unione Europea dei burocrati, dei prevaricatori, dei legislatori che pretendono di sfuggire al giudizio popolare non potrà reggersi a lungo, perché priva delle gambe della moralità. Un’Europa che ha anteposto alla legge del cuore quella del portafoglio non può andare lontano. Un’Europa che si preoccupa più dei mercati che dei suoi cittadini non potrà coesistere con le loro speranze. Un’Europa che antepone la finanza alla morale non ha più futuro. Io ti dico oggi che la tua incerta e indecorosa camminata, in un traballante contesto ufficiale, non è altro che la simbolica anticipazione di un’ineluttabile caduta di un intero centro di potere illiberale, non democratico e oligarchico. Quel tipo di Europa cadrà, prima o poi. E io sarò lì a vederlo e a segnarlo sui libri di storia, come tanti miei concittadini italiani, donne e uomini dalle gambe salde e dal cuore puro. Ti manderemo un biglietto in tanti, quando quella Europa, la vostra e non certo la nostra, cadrà. Lo faremo ricordando un verso in endecasillabi di un altro grande Italiano, un poeta che ricordava che esiste l’inferno, ma poi c’è il paradiso. “E cadde come corpo morto cade”. Sul mittente di quella missiva leggerai: un italiano come tanti.
    (Valerio Malvezzi, “Quando l’Europa barcolla, spettacolo Juncker”, da “Scenari Economici” del 13 luglio 2018).

    Vedere quelle immagini produce tristezza. Un vecchio che oscilla, incapace di reggersi sulle proprie gambe, ridanciano e scomposto nei gesti, articolando parole che, immagino, siano sconnesse come i suoi pensieri. Ad alcuni, compresi primi ministri, provoca involontaria risata, soffocata dall’imbarazzo. Perché questo indecoroso spettacolo pubblico non è elargito da un barbone in una qualunque stazione dei treni italiana. Questa scena imbarazzante è proposta in mondo visione da un signore che, degli italiani, ha spesso formulato giudizi critici, sprezzanti, al limite dell’offesa e del buon gusto. Questo signore è il presidente della Commissione Europea, Juncker, cioè il vertice del governo che decide sulla vita di noi tutti, cittadini europei, italiani baffi neri e mandolino, mafia e spaghetti compresi. Quando tu, Juncker, dicevi ancora recentemente che gli italiani dovrebbero recuperare competitività, lavorare di più, essere meno corrotti e non accusare l’Europa dei propri mali, parlavi come presidente di tutti noi, sudditi spreconi della nostra vita. Ma noi non siamo tutti mafiosi e non balliamo come cicale aspettando che le operose formiche del nord Europa lavorino per noi. Se non altro, noi camminiamo eretti sulle nostre gambe, e non abbiamo bisogno di nessuno che ci sostenga.

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