Archivio del Tag ‘Possibile’
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L’inutile 10% di Bertinotti-Grasso, il de Gaulle della Vucciria
«Bertinotti ha guidato un partito e dopo è stato presidente di uno dei due rami del Parlamento per poi finire nel niente, mentre Grasso ha prima presieduto una delle assemblee parlamentari e, dopo, un partito». Il risultato? Identico: anche Grasso «finirà nel niente». Ci scommette Aldo Giannuli, storico dell’università milanese, proveniente (per formazione) dalla sinistra radicale, attento osservatore del Movimento 5 Stelle. Anima critica della sinistra, Giannuli ha già bocciato l’ennesimo tentativo di Antonio Ingroia, stavolta in tandem con Giulietto Chiesa: va bene aggregare forze e mobilitare energie per un cambio di paradigma, ma la “Mossa del Cavallo” è affrettata, votata a sicuro insuccesso («ammesso che riesca a presentarsi, potrebbe non raggiungere l’1%») e condizionata – visti i tempi troppo stretti – da inevitabili decisioni di vertice, quindi senza democrazia interna. Idem per “Liberi e Uguali”, il cartello che mette insieme gli ex Pd antirenziani, Sinistra Italiana (già Sel) ed entità ancora minori come “Possibile” di Civati. Nessuna traccia di vera condivisione interna, dice Giannuli: solo una somma di nomenklature. Con in più un rammarico: sprecare una buona occasione, pur disponendo di una lista che, secondo il politologo, potrebbe anche superare il 7% per attestarsi a ridosso del 10% dei suffragi.Infelice, per Giannuli, la scelta del frontman: «Spero di sbagliare, e che Grasso si dimostri un grande leader politico portando il partito ai migliori risultati, ma per ora mi sembra il De Gaulle della Vucciria». Renzi ha punzecchiato il presidente del Senato dicendo che, in realtà, in “Liberi e Uguali” a comandare sarà D’Alema? Immediata la replica, stizzita, dell’ex magistrato: «Io comandato da D’Alema? E’ una vita che guido, se ne accorgeranno» (dove “guido”, annota Giannuli nel suo blog, sta al posto di “comando”, e “se ne accorgeranno” è un avvertimento rivolto a Renzi ma, sottinteso, anche a D’Alema). «Nell’intervista – scrive Giannuli – il presidente del Senato ricorda di aver diretto collegi giudicanti e importanti uffici giudiziari, e pertanto di sentirsi perfettamente in grado di guidare anche una forza politica (come dire: per tutta la vita ho prodotto vino, ora posso dirigere un albergo a cinque stelle)». Dai primi passaggi del Grasso-pensiero, Giannuli deduce che il presidente del Senato «interpreta il suo ruolo in termini monocratici e non collegiali». Con Renzi, «ha perso una magnifica occasione per nascondere il suo narcisismo». All’ex premier «poteva rispondere con ironia, o quantomeno starsene zitto».Pietro Grasso «non sospetta le differenze che passano fra il dirigere un ufficio giudiziario e guidare una forza politica», sostiene Giannuli. «In breve arriverà a litigare aspramente con D’Alema (ma, secondo me, via via con tutti gli altri)». In più, «non accenna a un filo di autocritica su come ha fatto il presidente del Senato, si prende troppo sul serio. Complimenti: una presentazione perfetta per un nuovo leader politico!». Beninteso: “Liberi e Uguali” «andrà bene, alle elezioni», e Grasso «contribuirà al successo». Motivo: «Si sta creando una illusione ottica», per la quale il raggruppamento «appare come una forza in ascesa per effetto della frantumazione del Pd». Aggiunge Giannuli: «Non sarei affatto sorpreso se superasse il 7% e si spingesse sin sotto il 10%». Ma Grasso, in questo senso, «si rivelerà un nuovo Bertinotti», ricalcando cioè le orme dell’uomo che «ha portato il partito alle sue punte massime per poi sprofondarlo sotto clausola di sbarramento». Con una differenza: «Bertinotti per compiere la sua parabola ci ha messo 14 anni, mentre a Grasso basteranno pochi mesi, per cadere».Il guaio è che la nuova formazione della sinistra («un’occasione d’oro per ricostruire una sinistra decente in questo paese», dice Giannuli) somiglia troppo al partito da cui è uscita, il Pd. «E sta facendo fesserie a getto continuo», ovvero: «Nessun tentativo di realizzare una partecipazione democratica di base, l’inseguimento a tutti i costi di un “capo” come se questo fosse l’unico problema della sinistra in Italia, nessuna attenzione a formulare proposte politiche qualsivoglia». A pesare c’è anche «il solito verticismo di piccole sette dirigenti, la mancanza di iniziativa politica». Se continuano così, conclude Giannuli, già alle europee rischiano di calare. A monte, c’è un aspetto decisivo che Giannuli qui non evidenzia: i veri dominus di “Liberi e Uguali”, da Bersani a D’Alema, hanno sorretto l’operazione Monti orchestrata dai poteri forti europei sotto la regia di Napolitano: il massimo del rigore, i tagli sanguinosi, il massacro sociale, l’amputazione delle pensioni (legge Fornero), il Fiscal Compact e l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Con che faccia, “Liberi e Uguali”, si appresta a chiedere voti per un cambiamento radicale? Con quella di Grasso, appunto: pura “illusione ottica”, per dirla con Giannuli.«Bertinotti ha guidato un partito e dopo è stato presidente di uno dei due rami del Parlamento per poi finire nel niente, mentre Grasso ha prima presieduto una delle assemblee parlamentari e, dopo, un partito». Il risultato? Identico: anche Grasso «finirà nel niente». Ci scommette Aldo Giannuli, storico dell’università milanese, proveniente (per formazione) dalla sinistra radicale, attento osservatore del Movimento 5 Stelle. Anima critica della sinistra, Giannuli ha già bocciato l’ennesimo tentativo di Antonio Ingroia, stavolta in tandem con Giulietto Chiesa: va bene aggregare forze e mobilitare energie per un cambio di paradigma, ma la “Mossa del Cavallo” è affrettata, votata a sicuro insuccesso («ammesso che riesca a presentarsi, potrebbe non raggiungere l’1%») e condizionata – visti i tempi troppo stretti – da inevitabili decisioni di vertice, quindi senza democrazia interna. Idem per “Liberi e Uguali”, il cartello che mette insieme gli ex Pd antirenziani, Sinistra Italiana (già Sel) ed entità ancora minori come “Possibile” di Civati. Nessuna traccia di vera condivisione interna, dice Giannuli: solo una somma di nomenklature. Con in più un rammarico: sprecare una buona occasione, pur disponendo di una lista che, secondo il politologo, potrebbe anche superare il 7% per attestarsi a ridosso del 10% dei suffragi.
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Lividi e Uguali: Grasso superfluo. E solo per colpire Renzi
A sinistra, «l’odio unisce più dell’affinità, il fratricidio vince sempre sulla fratellanza». Marcello Veneziani ribattezza “Lividi e Uguali” i profughi del Pd, alleatisi con vendoliani e civatiani non per vincere, ma solo per far perdere il “nemico”. «La loro priorità – scrive Veneziani sul “Tempo” – non era chiamare a raccolta la sinistra, ma danneggiare Renzi». E allora «hanno pensato che nuocesse di più al fiorentino un leader sferico e mobile, privo di identità politica e capace di suonare il piffero per l’elettore qualunque, pescando così nel target renziano». In questo, D’Alema e Bersani «sono rimasti fieramente, ferocemente di sinistra», cioè settari e frazionisti fino all’autolesionismo. Veneziani definisce “Liberi e Uguali” un mix tra «sinistra movimentista, briciole di Rifondazione, lasciti del vecchio Pci e giovani sfigati di tristi speranze, più gloriose reliquie della Seconda Repubblica, accomunati dal disprezzo per il Vanesio Fiorentino». In fuga da un “corpo estraneo” come Renzi, «che subivano e odiavano», chi chiamano come leader? «Un altro corpo estraneo, un Papa straniero, un magistrato e uomo dell’establishment, il presidente del Senato Grasso. Uno che a giudicare dal curriculum e dalle oscillazioni, avrebbe potuto tranquillamente militare con Renzi, con Berlusconi e con chiunque altro».Grasso, secondo Venziani, ha accettato il ruolo «perché la vanità è l’ultima a morire, e si gonfia, s’illumina d’incenso». Ma si può capire, aggiunge: «Un anno fa temeva di essere abolito insieme al Senato, e ora gli offrono di guidare un cartello intero con una visibilità assai forte. E appartenendo alla genia degli Ego-magistrati, da Di Pietro a Ingroia, da De Magistris a Emiliano, assumere un ruolo di vetrina coi gradi di comando, “sputace sopra”».Se Grasso in fondo lo si può capire, meno comprensibili risultano loro, «i combattenti e reduci della sinistra», gli esuli dal Pd e i profughi del ciclone renziano che, «quando finalmente si fanno una casa tutta loro e possono darsi un leader di sinistra, schietto, vanno a pescare il presidente del Senato». Non la Boldrini, presidente della Camera, «che almeno è un’icona della sinistra e una custode del politicamente corretto, del tardo-femminismo e dell’antifascismo sacro». Macché, scelgono Grasso, «che con la sinistra c’entra poco o nulla».Sempre secondo Veneziani, la sinistra aveva due possibilità: poteva scegliere un leader che rappresentasse la sua tradizione e la sua identità, magari «uno che indossa con dignità il Novecento, comunismo incluso», oppure uno che fosse «la traduzione italiana di Tsipras o degli Indignados spagnoli, una specie di postsinistra protestataria del terzo millennio». E invece, chi ti vanno a pescare? «Un Grasso che non incarna né l’una né l’altra, che non è carne né pesce, ma colesterolo allo stato grezzo. Grasso superfluo». Come spiegare questa scelta suicida? E’ l’ennesima conferma (in casa propria) di quel che sostengono gli avversari della sinistra stessa, ossia «l’incapacità di partorire una leadership chiara e distinta di sinistra». Il museo delle cere firmato Bersani e D’Alema, poi, sottolinea una volta di più il tramonto di antiche dicotomie: destra e sinistra hanno sottoscritto insieme il rigore europeo, imposto dall’oligarchia internazionale al potere. L’altra casella – vedi alla voce “democrazia progressista” – resta ancora vacante, lontana anni luce dal “grasso superflio” di Lividi e Uguali.A sinistra, «l’odio unisce più dell’affinità, il fratricidio vince sempre sulla fratellanza». Marcello Veneziani ribattezza “Lividi e Uguali” i profughi del Pd, alleatisi con vendoliani e civatiani non per vincere, ma solo per far perdere il “nemico”. «La loro priorità – scrive Veneziani sul “Tempo” – non era chiamare a raccolta la sinistra, ma danneggiare Renzi». E allora «hanno pensato che nuocesse di più al fiorentino un leader sferico e mobile, privo di identità politica e capace di suonare il piffero per l’elettore qualunque, pescando così nel target renziano». In questo, D’Alema e Bersani «sono rimasti fieramente, ferocemente di sinistra», cioè settari e frazionisti fino all’autolesionismo. Veneziani definisce “Liberi e Uguali” un mix tra «sinistra movimentista, briciole di Rifondazione, lasciti del vecchio Pci e giovani sfigati di tristi speranze, più gloriose reliquie della Seconda Repubblica, accomunati dal disprezzo per il Vanesio Fiorentino». In fuga da un “corpo estraneo” come Renzi, «che subivano e odiavano», chi chiamano come leader? «Un altro corpo estraneo, un Papa straniero, un magistrato e uomo dell’establishment, il presidente del Senato Grasso. Uno che a giudicare dal curriculum e dalle oscillazioni, avrebbe potuto tranquillamente militare con Renzi, con Berlusconi e con chiunque altro».
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Giannuli: serve un partito, la Mossa del Cavallo rischia l’1%
«Le prossime elezioni politiche si svolgeranno in un contesto che non ha precedenti rispetto agli ultimi 70 anni. La deriva del paese è tale da poter affermare che l’Italia è ormai allo sfascio. Ecco perché occorre una “Mossa del Cavallo”». All’appello di Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa per una “Lista del Popolo” da mettere in campo alle prossime elezioni, per fermare il collasso del paese di fronte alla “caduta libera” dei tre blocchi in apparenza contrapposti – centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle – il politologo Aldo Giannuli frena: bene l’idea di mobilitare forze democratiche, ma è meglio evitare di candidarsi nel 2018. «Non saremo mai un partito», assicurano Ingroia e Chiesa? Male, replica Giannuli: è proprio di un partito che ci sarebbe bisogno, organizzato in modo trasparente e democratico, evitando il rischio dell’ennesima Armata Brancaleone pronta a sciogliersi e frantumarsi già all’indomani del voto, magari dopo aver racimolato un bottino elettorale irrisorio. Giannuli, saggista e storico dell’ateneo milanese, apprezza l’impegno di partenza: tenere aggregati i movimenti che lavorarono per il “no” al referendum del 4 dicembre scorso sulla Costituzione. «Mi sembra condivisibile l’idea di una fondazione dal basso del movimento mobilitando la base che fu determinante per la vittoria del “no”», scrive, sul suo blog. Ma aggiunge: «Questa scelta di lista “last minute” mi sembra per più versi discutibile».
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Magaldi: dite a Civati che i big progressisti erano massoni
Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?Pietra dello scandalo, la polemica accesa da Magaldi contro la “caccia alle streghe” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con accanto il suo vice Claudio Fava, «che nei mesi scorsi ha chiesto le liste dei massoni per valutare presunte infiltrazioni mafiose». Ha protestato il gran maestro del Goi, Stefano Bisi: ma perché non si chiedono anche le liste degli iscritti a partiti, sindacati e associazioni varie? «Una volta tanto ne ha detta una giusta anche Bisi», dice Magaldi, mai tenero col Grande Oriente d’Italia. «Evidentemente c’è una cultura massonofobica, di grande ignoranza e grande pregiudizio», sostiene Magaldi, «tant’è che Claudio Fava è stato anche uno degli estensori di una proposta di legge liberticida, che sarà cassata come incostituzionale fintanto che l’Italia resterà un paese democratico: si vorrebbe vietare ai massoni di ricoprire incarichi pubblici». Per Magaldi, una discriminazione inaccettabile e pericolosa: «Il massone “buono” è sempre quello segreto e occulto, se invece sei un massone a viso aperto devi essere discriminato». Magaldi, peraltro, non è indulgente nemmeno con i “fratelli” in grembiulino: ne ha messi alla berlina a decine, nel bestseller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, un libro che denuncia i maneggi delle Ur-Lodges, le superlogge al vertice del potere mondiale.L’incidente diplomatico di Londra? Non privo di retroscena movimentati: «Ho rifiutato subito la location, una sala intitolata a Karl Marx», dice Magaldi: «Rispetto Marx come analista economico e grande filosofo, ma aborro l’ideologia marxista perché autoritaria, non democratica, foriera di esiti totalitari e liberticidi». Tra i promotori dell’incontro, oltre a Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, i “terminali” britannici delle svariate “famiglie” italiane della neo-sinistra antirenziana: dai citaviani di “Possibile” fino al soggetto politico di Anna Falcone e Tomaso Montanari (teatro Brancaccio), fino ad “Articolo 1 Mdp” (D’Alema, Bersani e Speranza). Tra i volti nuovi, una giovane di talento come Rosa Fioravante, legata alla fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. «Lavorando con Moiso – dice Magaldi – hanno gustato il cibo sapido della proposta ideologica “rooseveltiana”: il loro manifesto era insipido, noioso e verboso, tipico di chi pensa di recuperare categorie ottocentesche nella contrapposizione tra capitale e lavoro». In più, la Fioravante ha appena pubblicato un post “rooseveltiano” contro l’ideologia neoliberista della “fine dello Stato”. E s’è messa pure a parlare di Olof Palme, il leader svedese assassinato nel 1986, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, a febbraio.«A proposito: Rita Fioravante e i suoi sapevano che Olof Palme era un illustre massone, oltre che un politico progressista?». Massone, proprio come Magaldi e gli altri, che Civati vorrebbe mettere alla porta. «Noi parliamo da mesi, di Olof Palme, il convegno di Milano servirà a risvegliare i valori socialisti», annuncia Magaldi. «E adesso arriva costei, la Fioravante, e scrive un pezzo proprio su Olof Palme». Strana contaminazione culturale, a tempo di record? E la “fatwa” di Civati sull’ingombrate Magaldi, messo alla porta come massone? «Ci sarà rimasto male: una volta, richiesto di un parere su di lui, ho detto che non mi sembrava un fulmine di guerra», ammette il fondatore del Movimento Roosevelt. «Del resto, il suo consigliere economico all’epoca della battaglia per la segreteria Pd passò armi e bagagli con Renzi: quanto poteva divergere la politica economica di Civati da quella di Renzi? Poi Civati ha contrasato il Jobs Act renziano, è vero. Ma non è che prima del Jobs Act avessimo la piena occupazione, in Italia: la crisi dura da 25 anni, questo è un paese in declino». E poi: qual è la visione democratica e liberale della cittadinanza, per il “massonofobico” Civati?«Non è possibile una persona che rappresenta le istituzioni (Civati è tuttora deputato), dopo aver elaborato con i suoi un programma comune per un evento comune a Londra, dica, ipocritamente: non vado a un incontro con Magaldi perché è massone». Un giudizio netto, da Magaldi: «C’è ipocrisia, perché Civati sapeva benissimo che io fossi massone. E c’è ignoranza, perché mi dicono che Civati sia laureato in filosofia rinascimentale. Spero che non abbia studiato sui Bignami e che abbia qualche cognizione dell’esoterismo rinascimentale che poi si istituzionalizza tra ‘600 e ‘700 e diventa massoneria». Infierisce Magaldi: «Dato che mi pare sia tra quanti vogliono difendere la Costituzione e attuarla a dovere, spero che Civati sappia, per esempio, che il presidente della “commissione dei 75” che ha redatto il testo costituzionale, Meuccio Ruini, era un noto e conclamato massone». Senza contare, aggiunge, che i padri della patria italiana, «quelli che hanno fatto sì che Civati non sia nato nel regno lombardo-veneto ma in Italia», erano tutti massoni.Era massone Giuseppe Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, e così Cavour, Mazzini e i tanti patrioti, anche lombardi, che si distinsero sin dalle “giornate di Milano” per il loro patriottismo e per la loro militanza massonica e carbonara. Insiste Magaldi, sempre a “Colors Radio”: «Civati non avrebbe dibattuto con il padre della patria Meuccio Ruini? Non avrebbe dibattuto con colui che ha liberato l’Europa dal nazifascismo, Franklin Delano Roosevelt, massone conclamato al pari di Eleanor Roosevelt, madrina dei diritti umani? E non avrebbe collaborato, Civati, con Martin Luther King, Gandhi o Arthur Meier Schlesinger, l’ideologo della New Frontier kennediana? E ancora: non avrebbe interoquito con John Maynard Keynes, le cui teorie economiche sono alla base della socialdemocrazia europea?». A Civati, Magaldi addebita «ignoranza e insipienza storico-critica». Spiacevole, per «un parlamentare laureato in filosofia, che ignora il ruolo dell’esoterismo rinascimentale e poi massonico nell’elaborazione dei valori di democrazia e libertà, e si permette il lusso di porre una discriminante verso qualcuno per ragioni di appartenza spirituale, filosofica, meta-religiosa».Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?
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Armi a dittature in guerra: boom della morte made in Italy
Quasi 30 miliardi di dollari, pari a 70 milioni di euro al giorno. E’ la nuova spesa militare dell’Italia (media giornaliera) calcolata dal Sipri di Stoccolma, l’istituto internazionale di ricerche sulla pace: la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. «Un flusso irrefrenabile ma diventato normale, quasi ovvio», scrive Gianni Ballarini su “Nigrizia”, in un reportage ripreso da “Il Cambiamento”. Che osserva: cresce a dismisura il commercio internazionale delle armi italiane, grazie anche al pieno coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, «che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti». Per “Nigrizia”, ormai, «l’industria militare è il pilastro del sistema paese», almeno secondo «ciò che pensa il governo». E i dati lo confermano: «Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa». Le banche? «Sostengono il business, seppellendo ogni tentennamento etico».Solo poche fonti, tra cui il “Tirreno”, il “Manifesto” e “Italia Oggi”, hanno registrato – lo scorso 19 aprile – l’imbarco di armi e blindati, nel porto di Piombino, sulla nave Excellent, noleggiata dal ministero della difesa e battente bandiera maltese. «Dopo aver imbarcato un gran quantitativo di armamenti e aver effettuato uno scalo tecnico ad Augusta, s’è diretta a Gedda, in Arabia Saudita, attraversando il canale di Suez. Secondo l’autorità portuale di Piombino, quelle armi e quei blindati erano destinati a un corso di addestramento bellico di militari italiani nella penisola arabica. L’unico a protestare è stato Giulio Marcon, parlamentare civatiano di “Sinistra Italiana”: «L’Arabia Saudita è coinvolta in Yemen in una guerra sanguinosa, è sotto il banco d’accusa dall’Onu per la violazione dei diritti umani e ha sostenuto alcune fazioni terroristiche in Medioriente». Marcon ha chiesto, inutilmente, «l’immediato blocco del trasferimento delle armi nella penisola arabica», nonché «lo stop alle esercitazioni e a ogni vendita di armi all’Arabia Saudita». Ma nessuno ci ha fatto caso, sui media: ormai «la vendita di armi anche a paesi in conflitto è oramai sdoganata e non più avvolta da alcun tabù», annota “Nigrizia”.L’ultima relazione governativa sugli armamenti, aggiunge il “Cambiamento” citando “Nigrizia”, rivela come il Belpaese stia conoscendo una crescita esponenziale, soprattutto nell’export armato. Il valore è aumentato dell’85% rispetto al 2015, raggiungendo la cifra di 14,6 miliardi di euro. «Pesa la mega-vendita (oltre 7 miliardi di euro) di caccia Eurofighter Typhoon (28) al Kuwait: si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica/Leonardo». Ma nei primi 11 posti della classifica delle nazioni destinatarie, aggiunge la rivista, troviamo Arabia Saudita (427,5 milioni), Qatar (341 milioni), Turchia (133,4 milioni) e Pakistan (97,2), «che fanno parte di coalizioni di guerra o che sono conosciuti come paesi fortemente repressivi». Nel “libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa”, cioè «la nuova Bibbia governativa», si legge come sia «essenziale che l’industria militare sia pilastro del sistema-paese, perché contribuisce al riequilibrio della bilancia commerciale». Per cui merita ogni sostegno possibile.In questo contesto, si distingue l’Africa: i 136 milioni di euro, valore delle licenze italiane di esportazione nel 2016, rappresentano il secondo dato più basso dal 2008. Peggio dell’anno scorso è stato solo il 2014. Il calo è stato del 43,4% (oltre 240 milioni di euro nel 2015), con un dato particolarmente negativo per il Nordafrica (-56%). Negli ultimi 5 anni il calo di export verso la sponda Sud del Mediterraneo è stato importante: si è passati dai 308,4 milioni del 2012 ai 38,5 dell’anno scorso (-87,5%). A colpire, in particolare, è la chiusura dei rubinetti con l’Algeria, uno dei paesi con cui lavoravano maggiormente le aziende belliche italiane. L’anno scorso hanno commerciato armi per 25,2 milioni di euro. Nel 2012 il dato sfiorava i 263 milioni di euro. Nell’Africa subsahariana spicca invece il dato dell’Angola, «non propriamente la culla della democrazia e della difesa dei diritti civili». Qui si è passati dai pochi spiccioli del 2015 (72.000 euro) agli 88,7 milioni di euro nel 2016, posizionando il paese al 13° posto della classifica dei paesi acquirenti.“Conti armati”, li chiama “Nigrizia”: «Accanto a un’industria bellica italiana in piena espansione, il 2016 ha segnato pure l’esplosione dei conti correnti armati. Gli istituti di credito, infatti, hanno definitivamente seppellito ogni tentennamento morale per rituffarsi a corpo morto sul business delle armi. In un solo anno il valore delle transazioni bancarie legate all’export definitivo di armamenti è passato dai 4 miliardi del 2015 ai 7,2 miliardi del 2016 (+80%), frutto di 14.134 segnalazioni, rispetto alle 12.456 dell’anno precedente. Un boom inarrestabile se si osserva la crescita rispetto a soli due anni fa: +179% (2,5 miliardi di euro, nel 2014)». A occupare il primo posto è il gruppo Unicredit, con oltre 2,1 miliardi di euro, pari a circa il 30% dell’ammontare complessivo movimentato per le sole esportazioni definitive, e con una crescita del 356% rispetto al 2015 (474 milioni di euro). Dopo Unicredit, compare il gruppo Deutsche Bank, con oltre un miliardo di euro. E al terzo posto c’è la britannica Barclays, con oltre 771 milioni di euro e con una crescita del 113,8% rispetto ai dati del 2015 (360,9 milioni).Sorprendente la performance della bresciana Banca Valsabbina: «In un anno le sue transazioni “armate” sono cresciute del 763,8% passando dai 42,7 milioni di euro del 2015, ai 369 milioni circa dell’anno scorso». Questo istituto – che ha sede a Vestone, piccola realtà della Comunità montana della Valle Sabbia, e la direzione generale a Brescia – evidentemente rappresenta un punto di riferimento per tutto il settore armiero della zona. «Sono i paesi mediorientali, in genere, a essere ottimi clienti delle banche, avendo fatto transitare sui conti bancari del Belpaese una massa enorme di denaro: quasi 4,3 miliardi di euro, pari al 59% del totale». Ma anche i paesi africani fanno un balzo in avanti, passando dai 300 milioni del 2015 ai quasi 320 milioni del 2016: è l’area subsahariana a incidere maggiormente, con una crescita del 153% (dai 42 milioni del 2015 ai 106,4 dell’anno scorso). Conclude “Nigrizia”: «Le banche armate, evidentemente, generano fiducia anche al di là del Mediterraneo».Quasi 30 miliardi di dollari, pari a 70 milioni di euro al giorno. E’ la nuova spesa militare dell’Italia (media giornaliera) calcolata dal Sipri di Stoccolma, l’istituto internazionale di ricerche sulla pace: la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. «Un flusso irrefrenabile ma diventato normale, quasi ovvio», scrive Gianni Ballarini su “Nigrizia”, in un reportage ripreso da “Il Cambiamento”. Che osserva: cresce a dismisura il commercio internazionale delle armi italiane, grazie anche al pieno coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, «che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti». Per “Nigrizia”, ormai, «l’industria militare è il pilastro del sistema paese», almeno secondo «ciò che pensa il governo». E i dati lo confermano: «Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa». Le banche? «Sostengono il business, seppellendo ogni tentennamento etico».
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Partiti morti, 500 parlamentari (1 su 3) han cambiato casa
Oramai i “nostri” sono diventati specialisti inimitabili. Unici al mondo. Già da qualche anno i parlamentari italiani stavano scalando le classifiche internazionali del trasformismo, ma l’ultimo dato – reso noto da “Openpolis” – fissa un dato strabiliante. Inarrivabile. Dall’inizio della legislatura – era la primavera del 2013 – sino ad oggi i cambi di gruppo sono stati 502, circa 10 al mese: un valzer che ha coinvolto sino ad oggi 324 parlamentari, il 34% del totale. Un “turismo parlamentare” senza eguali nel mondo occidentale e che non trova riscontri nella storia italiana, sia nella stagione che diede il via al trasformismo nell’Ottocento, ma neppure durante la vituperata Prima Repubblica: in quell’epoca la transumanza da un gruppo parlamentare all’altro era un fenomeno pressoché sconosciuto. Fino a quando, nel 1994, curiosamente col sistema maggioritario, i numeri via via si sono ingrossati e nel corso di questa legislatura il “turismo parlamentare” è diventato fenomeno di massa: a memoria d’uomo mai era capitato in una democrazia matura che un parlamentare su tre cambiasse casacca.Un fenomeno che sembra fatto apposta per essere oggetto di una generica indignazione contro i parlamentari “sporchi e cattivi” di questa ultima generazione. Ma il boom della transumanza parlamentare ha molte cause. Tanto per cominciare i partiti non sono più quelli di una volta. Oramai ci mettono poco a sfarinarsi. Le forze politiche entrate in Parlamento ad inizio legislatura hanno subito diverse scomposizioni nell’arco di 4 anni. Il Pdl si è diviso tra la berlusconiana Forza Italia e l’alfaniana Alternativa Popolare, i parlamentari di Scelta Civica di Monti si sono sparpagliati, dando vita ad una frammentata diaspora e un processo simile ha coinvolto Sel di Vendola, Sinistra Italiana, “Possibile” di Pippo Civati. Continue secessioni hanno investito anche il Pd (con la nascita di Mdp) e Cinque Stelle, e soltanto Lega Nord e Fratelli d’Italia hanno mantenuto la loro conformazione originale. Come documenta “Openpolis”, escludendo il gruppo misto, alla Camera solamente 4 gruppi su 11 sono diretta emanazione di quanto uscito dalle elezioni politiche del 2013: Pd, M5s, Lega e Fratelli d’ Italia. Risultato finale: nella legislatura dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, i “trasmigranti” sono quasi raddoppiati rispetto alla precedente.Ma l’autentico moltiplicatore del “turismo parlamentare” è un altro. Spiega il professor Gianfranco Pasquino, uno dei maestri della scienza politica italiana: «Per effetto di una legge elettorale che ha portato in Parlamento i “nominati”, i parlamentari non rappresentano più nessuno. Né gli elettori del collegio, né quelli che li sceglievano con le preferenze. Nessuno sa chi siano, ma non sappiamo neppure chi siano i loro elettori. Parlamentari svincolati da qualsiasi mandato, e dunque il loro movimento è in gran parte determinato dal calcolo: chi mi rinominerà? Un “movimento” che incide anche sul processo legislativo: quando i parlamentari si spostano, votano come vuole il loro nuovo “padrone” e anche per questo preferiscono il voto palese. In questo trasformismo non c’ è nulla di folcloristico. Solo calcoli, previsioni, aspettative. Per i “nominati” la parola giusta, ahimé, è schiavi».Un’altra ragione del boom del trasformismo parlamentare la spiega un osservatore privilegiato come Pino Pisicchio, presidente del gruppo misto della Camera, eletto deputato per la prima volta nel 1987: «Il fenomeno è scoppiato con i partiti personali e con l’annullamento totale delle garanzie della democrazia interna: se il leader, che ha in mano la selezione delle nomine parlamentari, fa strame delle regole democratiche, che strumenti ha l’opposizione interna per contrastarlo e far valere le sue ragioni? Nessuno. E infatti l’unica via resta quella della scissione, della secessione, dell’uscita laterale». Il boom delle trasmigrazioni ha determinato fenomeni originalissimi. Come il continuo cambio dei nomi dei gruppi parlamentari. Gli “alfaniani” sono usciti dal Popolo delle Libertà il 18 novembre 2013 e decisero di chiamarsi “Nuovo Centrodestra”. Una definizione presto invecchiata per un partito che ha continuato a far parte di governi a guida Pd, e infatti nel dicembre del 2014 l’Ncd è diventato “Area Popolare” (Ncd-Udc).Ma a dicembre del 2016 si slitta su “Area Popolare-Ncd-Centristi per l’Italia”, mentre a febbraio del 2017 si passa a “Area Popolare-Ncd-Centristi per l’Europa” e nel marzo dello stesso anno si approda ad “Alternativa Popolare-Centristi per l’Europa-Ncd”. Infinite scomposizioni hanno preso corpo al Senato. Esemplare il caso del gruppo “Grandi Autonomie e Libertà”, che per dare spazio alle sue tante componenti ha cambiato denominazione 14 volte. Ma una volta superato ogni record, fra qualche mese potrebbe maturare la novità: su iniziativa di Pisicchio, la presidente della Camera ha convocato la Giunta del Regolamento e in autunno potrebbe essere approvata una riforma dei regolamenti parlamentari, con tanto di disincentivi per le transumanze “facili”.(Fabio Martini, “Volete la dimostrazione che i partiti sono morti”, articolo pubblicato da “La Stampa” e ripreso da “Dagospia” il 3 luglio 2017).Oramai i “nostri” sono diventati specialisti inimitabili. Unici al mondo. Già da qualche anno i parlamentari italiani stavano scalando le classifiche internazionali del trasformismo, ma l’ultimo dato – reso noto da “Openpolis” – fissa un dato strabiliante. Inarrivabile. Dall’inizio della legislatura – era la primavera del 2013 – sino ad oggi i cambi di gruppo sono stati 502, circa 10 al mese: un valzer che ha coinvolto sino ad oggi 324 parlamentari, il 34% del totale. Un “turismo parlamentare” senza eguali nel mondo occidentale e che non trova riscontri nella storia italiana, sia nella stagione che diede il via al trasformismo nell’Ottocento, ma neppure durante la vituperata Prima Repubblica: in quell’epoca la transumanza da un gruppo parlamentare all’altro era un fenomeno pressoché sconosciuto. Fino a quando, nel 1994, curiosamente col sistema maggioritario, i numeri via via si sono ingrossati e nel corso di questa legislatura il “turismo parlamentare” è diventato fenomeno di massa: a memoria d’uomo mai era capitato in una democrazia matura che un parlamentare su tre cambiasse casacca.