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Sos Disruption: entro 15 anni sparirà un mestiere su due
Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».Le nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence stanno cambiando davvero tutto: sarà la fine del mondo, così come l’abbiamo conosciuto. E nessuno, a quanto pare, se ne sta accorgendo. Parlano i numeri, già drammatici secondo tutte le proiezioni ufficiali: a livello globale, da 1 a 2 miliardi di lavoratori perderanno il posto entro il 2030, la maggioranza in Occidente. A farne le spese saranno impiegati contabili e amministrativi, aziende manifatturiere e manodopera produttiva, insieme a costruzioni ed estrazioni minerarie, ma anche avvocatura e giudici, lavori di installazione e manutenzione, operatori di gru e trattoristi, meccanici e riparatori. Spariranno posti di lavoro nelle arti e nel design, nell’intrattenimento, nello sport e nei media, insieme a molte mansioni nel settore turistico. In compenso, dalla rivoluzione tecnologica usciranno rafforzati business e finanza, manager, informatica e matematica, architettura e ingegneria, ma anche rappresentanti, camerieri, specialisti in istruzione e formazione, pensatori creativi e manager per la Disruption – nonché farmacisti, infermieri e operatori socio-sanitari.«Entro il 2030 si stima che fino a 375 milioni di posti di lavoro, globalmente, dovranno essere “reskilled”, cioè riqualificati», scrive Barnard nel suo blog. Ad esempio: nel settore manifatturiero, dicono gli esperti, cadranno mansioni nelle mani dell’Artificial Intelligence e della robotica, ma il lavoratore potrà essere re-impiegato in fasi diverse del lavoro, aumentando la produttività: gli servirà però un “reskilling”. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, ha calcolato che i suoi robot da magazzino risparmiano a ogni magazziniere almeno 50.000 mosse fisiche al giorno, riducendone molto lo stress fisico ma soprattutto liberandogli tempo per aumentarne la produttività ma senza prolungare l’orario di lavoro. Naturalmente, scrive Barnard, Alibaba i suoi dipendenti li ha “reskilled”. Quindi, «l’impresa del “reskilling” di milioni di italiani non è un optional, è l’aria da respirare, e ogni singolo analista al mondo oggi lo dice chiaro: i governi giocano qui il ruolo principale con un intervento generoso nei bilanci». Ma una nazione con vincoli di budget «al limite del sadismo sociale», per citare l’economista Giulio Sapelli, come diavolo farà a riqualificare sul lavoro due o tre milioni di persone?Oltretutto, il “reskilling” è ormai un ordine di scuderia a tappe forzate: «Lasciar languire nella terra di nessuno i lavoratori in transito significa perderli per strada, con danni economici enormi». Si domanda Barnard: «Come farà l’Italia, soffocata nei bilanci dall’Eurozona, quando tutti gli esperti mondiali invocano chiaramente interventi di governo?». Già ora la Disruption, nelle parole di 20.000 imprenditori europei di tutti i settori, «sta imponendo un aumento vertiginoso nella richiesta di alcune professioni, che si prestano per assorbire sia una quota di futuri licenziati (“reskilled”), che i giovani post-laurea». La rivoluzione in arrivo, dice Barnard, avrà bisogno di nuovissime figure professionali, come i rappresentanti di ultima generazione: «Occorrono disperatamente venditori che siano formati prima di tutto a spiegare quei prodotti, poi a venderli a privati e governi, ma anche per raggiungere nuove fasce di clienti». Poi gli analisti dei dati: «Non occorre un dottorato per questa mansione, ma di certo un buon “reskilling” anche in assenza di laurea». Le aziende, aggiunge Barnard, oggi sanno che Big Data è la scoperta “nucleare” del commercio di prodotti e servizi: bisogna quindi «saper analizzare e trarre conclusioni intelligenti dall’immane massa di dati che la Disruption mette a disposizione».«Il successo si gioca qui, nel terzo millennio: la richiesta di analisti dei dati è destinata a esplodere fra pochissimi anni». Per i laureati brillanti «c’è già ora spazio per ricoprire un ruolo dirigente richiestissimo nei maggiori settori di commercio e servizi, cioè il Manager della Disruption: è colui che si specializza nel guidare l’azienda (piccola, media, grande) ma anche il settore pubblico, nella tempesta di cambiamenti che l’era digitale porta ogni minuto». In generale, proprio grazie alla Disruption, entro il 2030 sono previste globalmente 130 milioni di nuove assunzioni in sanità generale e assistenza agli anziani, nonché 50 milioni nelle tecnologie e altri 20 milioni nel settore energetico. Le professioni del tutto nuove che si prevede nascano grazie alla Disruption, spiega Barnard, sono «gli specialisti intra-umani, cioè intelligenza emotiva, capacità di persuasione, gestori delle emozioni umane nel sociale, e i creatori di motivazione; i pensatori creativi in ogni settore, sia scientifico che industriale che amministrativo, poiché essere super-specializzati ma ottuse ‘scatole di dati’ non innova nulla in azienda». E ancora: serviranno «gli ottimizzatori delle energie rinnovabili e gli operatori nella lotta al cambiamento climatico».Ogni singolo esperto in “occupazione & Disruption”, aggiunge Barnard, “grida” sempre la medesima cosa, che la Consultancy McKinsey & Co. ha espresso nel dicembre 2017 con una frase lapidaria: «La moltiplicazione dei lavori potrebbe più che compensare le perdite a causa dell’automazione. Ma nulla accadrà per magia – richiederà che i governi e il business sappiano creare le opportunità». E qui esplode il problema-Italia: chi si farà carico della formazione permanente imposta dalla Disruption, dati gli attuali limiti drammatici imposti alla spesa pubblica? La scuola, scrive Barnard, deve avere una conoscenza avanzatissima della Disruption in continuo aggiornamento, perché è molto probabile che una parte delle competenze insegnate oggi saranno obsolete per il mondo del lavoro nel giro di 5-8 anni, in media. Con un ritardo di questo genere, nelle scuole e università, cosa farà l’Italia? Ha qualche idea in proposito, il governo gialloverde? Il Miur, ministero dell’istruzione, università e ricerca, ammette di essere in emergenza: i dati Ocse dicono che ogni quindicenne italiano usa il computer in classe molto al di sotto della media europea (molto meno dei greci, e quasi un terzo del tempo di un australiano).Sempre per l’Ocse, i docenti italiani sono in assoluto i meno preparati, in Europa, all’era digitale. Ancora: nel Digital Economy Index, l’Italia languisce al 25mo posto su 28 paesi, ha lacune dappertutto. E nella velocità di connessione alla Rete è in fondo alla classifica europea con un umiliante 9.2 Mbps, davanti solo a Grecia e Cipro. Nelle aule si soffre moltissimo, di questo:«Il processo di diffusione della scuola digitale negli ultimi anni è stato piuttosto lento», confessa il Miur, che denuncia «azioni spesso non incisive e non complessive». Aggiunge Barnard: «Sapere è lavoro, ma un buon lavoro – oggi, nella Disruption – significa sapere molto. E con una situazione del genere c’è da mettersi le mani nei capelli». Nessuna area italiana è inclusa tra gli “Innovator leaders” europei. Solo il Piemonte figura tra gli “Strong innovators”, mentre il resto della penisola è in terza posizione, tra i “Moderate innovators”, mentre la Sardegna è relegata tra i “Modest innovators” come Croazia, l’Estremadura, l’Est Europa più povero e arretrato. Una mappa impetosa: «L’Italia non solo sprofonda nell’economia tradizionale (a causa soprattutto dell’Eurozona), ma colpevolmente i suoi governi degli ultimi 15 anni l’hanno tenuta fuori dalla realtà, cioè dalla Disruption, e infatti siamo “gialli”, cioè quasi ultimi nell’innovazione, e dunque fra gli ultimi nelle prospettive di lavoro dei nostri figli».Generalmente, aggiunge Barnard, un paese moderno ospita oltre 900 mestieri. E dato che «una buona parte delle nuove tecnologie della Disruption stanno sbocciando in queste ore o sbocceranno appena domani», è impossibile essere precisi. Ma una cosa è più che evidente: a dettare legge sarà la tecnologia dell’intelligenza artificiale di Machine Learning, «perfetta per sostituire i lavori ripetitivi d’ufficio, per far funzionare la logistica aziendale, per far “pensare” i robot nelle industrie, ma anche per sostituirsi all’umano in compiti complessi all’interno di molti mestieri sofisticati». Giusto per dare al pubblico un’idea del grado di penetrazione del Machine Learning, cioè del fatto che davvero saranno pochissimi i lavori di domani che non avranno almeno in qualche segmento un’intelligenza artificiale a sostituire qualcosa o qualcuno, la Mit Initiative sull’economia digitale «afferma che il mestiere in assoluto più “blidato” contro la Disruption è il… massaggiatore». All’altro estremo, invece, figurano «le mansioni che sembrano davvero destinate a essere falcidiate», ovvero «gli impiegati, i contabili, gli amministrativi in generale».Se è scontato che fra i “colletti blu” (diplomati, ma senza laurea) tanto dovrà cambiare, «molti genitori e studenti ancora non comprendono purtroppo cosa accadrà alle professioni dei “colletti bianchi”, degli specializzati, che siano medici, avvocati, commercialisti, o persino ingegneri informatici (esempio estremo, ma anche fra loro cadranno teste con l’Artrificial Intelligence)». Parla da solo il caso americano: nei primi 15 anni di digitalizzazione dell’economia Usa, ricorda Barnard, le disparità di redditi fra “colletti blu” (licenza liceale) e “colletti bianchi” (lauree) schizzò in alto, perché i secondi – grazie alla formazione digitale universitaria – poterono approfittare dei nuovi lavori ben pagati, gli altri no e subirono in pieno l’impatto devastante del crash bancario del 2008. Addirittura, il fenomeno ha raggiunto un tale livello di gravità che fra i “colletti blu” in America c’è un’epidemia di suicidi per disperazione, descritti in uno studio del 2014 firmato da Anne Case insieme ad Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia. «Vero è che gli Stati Uniti sono un incubo d’abbandono sociale dei deboli, dove il welfare quasi non esiste», ammette Barnard. In compenso, l’Europa si sta auto-sabotando con i tagli sanguinosi al suo welfare.«I criminosi limiti di spesa pubblica che l’Ue impone agli Stati membri – dice Barnard – escludono in via categorica che i vari schemi di Reddito di Cittadinanza abbiano un potere di fuoco sufficiente a evitare al nostro paese un’apartheid fra inclusi ed esclusi nella Disruption». In altre parole: «Finché Eurozona sarà – insiste il giornalista, rivolto ai lettori – il realismo mi costringe a dirvi che l’unica arma che rimane ai vostri figli per difendersi dal destino denunciato da Angus Deaton e Anne Case è una formazione solidissima ai nuovi lavori della Disruption (che non sono solo tecnologia)». Dunque il messaggio per genitori e ragazzi è chiarissimo: «La seconda ondata di digitalizzazione in corso oggi con la Disruption porta soprattutto con sé il pericolo di un enorme divario nei redditi, oltre a una sostanziale dose di lavori perduti». Per mettere al riparo i nostri figli, e i giovani già oggi al lavoro, secondo Barnard c’è una sola arma concreta: per i giovanissimi una formazione scolastica e universitaria più aggiornata possibile, che li presenti al mondo del lavoro come appetibili, e per i già impiegati l’impegno di Stato e aziende nella riqualificazione “a vita”. Il rischio fatale, per l’Italia del lavoro, è di rimanere tragicamente indietro: «Significherebbe un prossimo secolo di arretratezza e bassa economia per tutti i nostri giovani e per i loro figli». Nel 2016 il World Economic Forum lo disse senza mezzi termini: «Chi non si prepara affronterà costi sociali ed economici enormi».Attenzione: qualcosa di analogo a quanto sta per accadere (e di cui nessuno parla) è già avvenuto, nella storia. Per dare un’idea della dimensione planetaria del problema, Barnard cita lo scozzese James Watt: «Nel 1775 diede vita alla più dirompente Disruption della storia con l’invenzione della macchina a vapore». Fece morire di colpo i vecchi mestieri, ma al tempo stesso fece esplodere lo sviluppo sociale umano, il che significa benessere e quindi possibilità democratiche. Per 9.700 anni filati, scrive Barnard, le condizioni di vita del popolo comune «rimasero sostanzialmente identiche, a un livello abominevole, spesso peggio degli animali selvatici». Poi arrivò la Disruption di Watt – e delle scienze post-Galileo con l’elettromagnetismo di Faraday e di Maxwell – e in Occidente tutto cambiò di colpo, perché cambiò il lavoro, aumentarono i redditi e con essi la rivendicazione dei diritti. «E’ vero che la Disruption di allora si portò dietro una buona dose di lacrime e sangue prima di darci la modernità del benessere, che tuttavia furono nulla in confronto a 9.700 anni di standard di vita abietti oltre l’immaginabile. Ma l’altra faccia, gloriosa, di quell’esplosione tecnologica fu di fornire alle lotte sociali mezzi tecnologici di diffusione, e quindi di successo, impensabili prima, fino appunto alla moderna civiltà».Oggi, sottolinea Barnard, la Disruption delle nuove tecnologie digitali potenziate dall’Artificial Intelligence «sta scatenando un’altra storica impennata dell’umanità, che è però di molto superiore a quella di Watt per l’enorme potere tecnologico odierno. E di nuovo, tutto si gioca su come cambierà il lavoro: non chissà quando, ma entro il 2030». Demis Hassabis, Ceo di Google DeepMind (azienda che sta al centro della galassia “Ai”), ha detto: «Il nostro goal è di conquistare l’intelligenza, poi di usarla per risolvere tutti gli altri problemi». Macchine intelligenti, al posto di esseri umani. Ed enorme disparità tra chi resterà al passo e chi sarà tagliato fuori. Lo confermano gli studi delle maggiori “Consultancies” del mondo: Pwc Uk, Deloitte, McKinsey, Accenture. Tutti d’accordo, insieme agli accademici: almeno nella prima fase, la Disruption fondata sull’intelligenza artificiale (robotica, nuove tecnologie), falcerà milioni di posti di lavoro. Ma la stessa Disruption, spiega Barnard, offre possibilità di recupero nella riqualificazione, nell’aumento di richiesta per certe professioni e nel fatto che nasceranno lavori che oggi non esistono.Tutto dipende da due fattori decisivi: la velocità dei governi nel legiferare misure per cavalcare la Disruption, favorendo la nascita dei nuovi lavori, e l’intelligenza dei datori di lavoro «nel capire che l’epoca dell’egoismo del profitto è morta, gli porterà solo fallimenti certi». Il futuro digitale «impone intelligenza», il che significa «coordinamento fra aziende, e fra di esse e lo Stato». Di fatto, avverte Barnard, con la Disruption «oggi saltano le politiche di creazione di lavoro, in Occidente, che i nostri padri e noi abbiamo conosciuto finora». Problema: «I contemporanei di un fenomeno epocale di cambiamento faticano sempre a svegliarsi di fronte al nuovo, e questo si traduce in drammi». Per dire: «Quanti italiani oggi leggono i giornali al mattino cercando ansiosamente notizie sulle politiche del lavoro del ministro Di Maio per la Disruption? Nessuno. Eppure la leadership mondiale non ha più dubbi sul fatto che essa ribalterà, come mai prima nella storia, proprio l’occupazione di numeri impressionanti nel globo». Certo, i politici «hanno il vincolo del breve mandato e l’ossessione cieca del voto-subito entro il mandato, per cui non s’impegneranno mai in politiche e dibattiti che all’italiano medio sembrano fantascienza». Idem per i media: «Sanno che la Disruption è una news che oggi si può vendere agli italiani solo al 300esimo posto dopo la casta, la corruzione, il politici-ladri, gli immigrati, le polemiche Tv, e trattano il tema principalmente come folklore da futuristi. Risultato: non un singolo organo di stampa italiano sta davvero informando su come sarà stravolta l’economia, la politica e la fabbrica sociale di ogni paese moderno per mano della Disruption».E così si compie un circolo vizioso devastante per l’Italia, destinata ad arrancare come fanalino di coda «mentre Francia, Germania, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Cina, Sud-Est Asiatico e ovviamente gli Usa si saranno già spartiti l’immensa torta del lavoro e del Pil da Disruption». Risultato: «I giovani italiani nel precariato, in preda alla disoccupazione e ancora disperatamente dipendenti da quel rivolo che gli rimane del risparmio di nonni e genitori degli anni 70’-90’», prigionieri di un paese sempre più confinato tra i “Pigs” con Portogallo, Grecia e Spagna – non più Piigs, annota Barnard, «perché invece l’Irlanda sta capendo e cavalcando la Disruption, è ha già preso il volo da quell’acronimo infame». Ma non è destino degli dèi che debba davvero andare così, aggiunge il giornalista: a sta a noi capire la Disruption per sapere come inciderà sul Pil e sull’occupazione. Ma non c’è tempo da perdere: «La velocità di sviluppo delle nuove tecnologie per il lavoro è talmente forsennata che è già stato calcolato che diversi “skills” – così si chiamano le competenze centrali per la Disruption – che vengono insegnati agli studenti oggi, tempo che gli studenti si presenteranno ai colloqui di lavoro in aziende saranno già obsoleti».In parole semplici: «Mentre tu studi intensamente un’applicazione di Machine Learning per l’edilizia, Machine Learning ne ha scovata una migliore, tu ti presenti al colloquio di lavoro e il datore se ne fa poco, di te». Scrive il Mit di Boston: le tecnologie cambiano i modelli di business e molto spesso questi si traducono in uno sconvolgimento simultaneo del set di “skills” che le aziende richiedono, e questo già oggi crea difficoltà nell’assumere personale. Velocità: «Sarà un problema enorme proprio sul mercato del lavoro dei giovani, e altrettanto enorme per eventuali programmi di apprendistato, che rischiano di diventare degli autogoal con sprechi di finanziamenti enormi», osserva Barnard. Attenzione, però: le stesse tecnologie di Big Data possono dare al governo «un inimmaginabile potere di efficiente governanace». La stessa “cloud” potrà essere usata da tutto il sistema produttivo italiano di beni e servizi in un dialogo diretto, in tempo reale, col ministero dell’istruzione. Pubblico e privato potrebbero scambiarsi informazioni istantanee su «come sta cambiando la natura degli “skills” dentro le aziende, gli ospedali e le varie istituzioni». Lo stesso Miur, come sollecitano gli esperti internazionali, «dovrà avere l’elasticità e la prontezza di riflessi di trasmettere immediatamente a scuola e università il messaggio dei datori di lavoro», per armonizzare domanda e offerta in base ai nuovi parametri in costante evoluzione.Fantascienza? Non ci sono alternative, par di capire. «Questo è il tipo di ambizioso progetto che un paese oggi deve essere in grado d’intraprendere se davvero è serio sulla difesa del lavoro», sostiene Barnard, auspucando «un salto innovativo, in linea con gli attori vincenti nella Disruption». Scrive McKinsey Global: «I governi devono totalmente riconsiderare i modelli scolastici odierni. La questione è urgente, e devono mostrare una leadership di grande coraggio nel riscrivere i curricula. E’ un’elasticità che da decenni il mondo del lavoro attende». Oggi, infatti, il “reskilling” è sulla bocca di tutti gli operatori economici. Per Barnard, a salvare il sistema-Italia sarà un “reskilling” (o “upskilling”) dei lavoratori, da condurre a vita, per ogni settore del Pil italiano. «Dovrà essere intelligente, il che significa innanzi tutto che va fatto in partnership con il settore privato dell’Italia, il quale deve saper dimostrare una “vision” ben oltre la sua tradizionale e provinciale parcellizzazione». Soprattutto, le tecnologie di Big Data «dovranno essere usate da governo e datori di lavoro per “better forecasting data and planning metrics”, cioè saper prevedere le svolte e pianificare con largo anticipo la richiesta dei talenti, su cui poi appunto lanciare in tutto il paese programmi di “reskilling” (o di “upskilling”) con chirurgica precisione».Dunque, secondo Barnard, l’Italia è alla storica sfida dell’occupazione nell’era della Disruption. «Il potere globale di quest’ultima è senza limiti, ma gli Stati possono governarla per tutelare l’impiego nella colossale tempesta dei cambiamenti». In questo sforzo, aggiunge, il governo deve comprendere un aspetto cruciale che distingue le tecnologie della Disruption: si dividono infatti in due rami, quelle di tipo Enabling e quelle di tipo Replacing. «La Disruption porterà sia una richiesta di lavori già esistenti riformulati in nuove versioni, che nuove professioni che oggi non esistono». In questo caso, nella versione Enabling, aprirà vasti bacini di posti di lavoro ma, al tempo stesso, spazzerà via schiere di mestieri perché le macchine “pensanti” li rimpiazzeranno (Replacing, appunto). Ne consegue una scelta politica di orizzonte: «E’ totalmente futile ed economicamente distruttivo continuare a spendere sia fondi pubblici che fondi privati (delle famiglie) per formare giovani, o per incoraggiare lavori, destinati alla categoria dove le tecnologie saranno di tipo Replacing, poiché significa destinare esseri umani a un suicidio lavorativo certo».Per Barnard, l’Italia dovrà quindi «investire massicciamente nell’adozione del maggior numero di tecnologie Enabling per ovvi motivi di creazione di lavoro», ma dovrà anche «essere scaltra nell’incoraggiare quelle che si adattano meglio alla struttura sociale, alla conformazione territoriale e produttiva del nostro paese». Un esempio concreto? «Siamo uno dei popoli più longevi del mondo, perciò la cura extra-ospedaliera dei nostri anziani arricchita dalle nuove tecnologie Enabling del settore è garanzia di creazione d’innumerevoli mansioni a ogni livello di complessità (settore del Personal Care). Sono mansioni che saranno utili a nuovi impieghi sia per i cittadini meno “skilled” che per gli specialisti. La medesima strategia va applicata alla nostra struttura architettonica, geografica, energetica, sempre per generare ampio impiego». Al problema della Disruption, in questi mesi, Barnard ha dedicato il massimo impegno, lavorando in solitudine, convinto che l’umanità sia ormai di fronte «al più dirompente cambiamento occupazionale dal 1775 a oggi», dai tempi della macchina a vapore. «Continuo a ripeterlo: le soluzioni a problemi sistemici devono essere sistemiche, il resto sono truffe vendute da politici cinici a un pubblico stupido, i cui figli poi piangeranno per generazioni».Il lavoro di oggi? Sparirà. E quello di domani sarà diverso, gestito in tandem con le macchine. Sta cambiando tutto alla velocità della luce, ma nessuno ce lo sta dicendo: né la politica, né i media, né tantomeno la scuola. Lo afferma Paolo Barnard, il reporter che – per primo, nel saggio “Il più grande crimine” – ricostruì la genesi dell’Ue e dell’Eurozona in termini di criminalità politica da parte dell’élite finanziaria neo-feudale, orientata al “genocidio economico” nel quale si dibatte l’Europa, Italia in primis. Riletto oggi, alla luce della rivoluzione copernicana già in atto nel mondo del lavoro, persino un abominio “golpista” come l’imposizione dell’euro fa quasi sorridere. Motivo: il futuro ci sta venendo addosso con una rapidità inimmaginabile. Più della metà dei mestieri attualmente svolti in Occidente diverranno obsoleti perché antieconomici: al posto di operai, funzionari e ingegneri ci saranno robot evolutissimi, macchine auto-apprendenti forgiate dal Machine Learning garantito da computer “quantistici”. Si chiama Tecnological Disruption, e secondo Barnard è un cambiamento «così potente da trasformare in breve tempo la vita umana sul pianeta Terra». Precedenti nella storia: «La scoperta del fuoco e quella dell’agricoltura, la matematica, la stampa, le macchine a vapore, l’elettricità».
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.