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Finiamo sott’acqua: fonde l’Antartide, come 125.000 anni fa
Abbiamo sentito ampiamente parlare nei giorni scorsi dell’incredibile temperatura registrata in Antartide il 9 febbraio scorso, con un valore superiore addirittura ai 20°C, preceduto da un altro picco di 18°C, il 7 sempre del mese in corso. Possiamo dirlo con certezza: l’Antartide ha la febbre. E non è una frase fatta, ma la semplice realtà esplicitata dai dati meteorologici raccolti dalle stazioni meteo. Un picco così alto di temperature potrebbe comportare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento delle acque. Cosa significa? Entro la fine di questo secolo, se dovesse continuare ad essere questo il trend, il livello globale del mare potrebbe aumentare fino a tre volte rispetto al secolo scorso, passando cioè da 19 a 58 centimetri. E’ quanto emerge da un confronto, senza precedenti, di numerosi modelli elaborato con computer all’avanguardia provenienti da tutto il mondo, afferma il sito del servizio “ilmeteo.it”. «Il serio rischio relativo allo scioglimento dei ghiacci in Antartide potrebbe seriamente diventare la più grande catastrofe globale». Lo afferma Anders Levermann del Potsdam Institute of Climate Impact Research, principale autore della ricerca.Quali potrebbero essere gli effetti sul pianeta a seguito di un probabile innalzamento delle acque? A dir poco fatali: «Se dovesse attuarsi la spaventosa previsione di Anders Levermann, ci troveremmo di fronte ad un cambiamento epocale», scrive sempre il servizio meteorologico. «La conseguenza più ovvia è che gli abitanti in aree collegate al mare ad un’altitudine inferiore al livello previsto dell’alta marea si troveranno sott’acqua: si tratterebbedi circa 150 milioni di persone nel 2050, in salita a 190-340 milioni entro il 2100». La situazione potrebbe quindi risultare «particolarmente drammatica» in Cina, Giappone, India, Indonesia e Filippine, mentre Bangladesh, Vietnam e Thailandia vedrebbero scomparire sotto il livello del mare territori attualmente abitati da circa il 20% della loro popolazione. Quanto all’Italia, il nostro paese non è immune agli effetti relativi all’innalzamento delle acque: «Buona parte delle pianure costiere italiane potrebbero essere soggette ad inondazioni o addirittura scomparire entro il 2100, per un’area totale pari a quella dell’intera Liguria». Le zone più a rischio «sono quelle del versante tirrenico, l’arco ionico, il Tavoliere delle Puglie e la Laguna Veneta».Analoghe conferme da altri recenti studi, citati da “meteoweb.eu”. «Le riserve di ghiaccio dell’Antartide, che si stanno sciogliendo a ritmi mai visti a causa del riscaldamento globale, rappresentano un rischio non solo per le specie animali presenti nell’area più fredda del globo, ma anche per noi». La rivista americana “Proceedings of the National Academy of Science” (Pnas) pubblica una ricerca guidata da Eric Rignot, dell’Università della California, secondo cui dal 1979 a oggi il livello degli oceani si è innalzato di 1,4 centimetri a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Ma la preoccupazione maggiore «è data dalla velocità che questo fenomeno potrebbe assumere nei prossimi anni». L’innalzamento del livello dei mari, infatti, «potrebbe avere effetti disastrosi: in uno degli scenari peggiori immaginati dagli scienziati, già entro i prossimi 80 anni potremmo assistere a un innalzamento di 1,8 metri, con la conseguente inondazione della maggior parte delle città costiere». Si tratta di una previsione quattro volte peggiore rispetto a quella di Levermann, che parla di un innalzamento massimo di mezzo metro del livello dei mari (già di per sé catastrofico).Lo studio del Pnas si basa su una vasta indagine condotta sui ghiacciai antartici, che ha coperto 18 diverse regioni e si è avvalsa delle immagini aeree della Nasa più le immagini satellitari di diverse altre agenzie spaziali. «Il dato più allarmante registrato – sintetizza “meteoweb.eu” – è quello relativo ai ghiacciai orientali dell’Antartide, finora ritenuti stabili e immuni ai cambiamenti climatici, che sembrano aver iniziato a sciogliersi». Uno scioglimento di quest’area si era già verificato circa 125.000 anni fa, ma oggi basterebbe un innalzamento della temperatura globale di due gradi centigradi per registrare effetti disastrosi. Per comprendere la portata dell’evento, basti pensare che «se tutto il ghiaccio dell’Antartide si sciogliesse, gli oceani si innalzerebbero di 57 metri». Ma la grande maggioranza del ghiaccio è concentrata proprio nella parte orientale del continente: ce n’è abbastanza per far salire gli oceani di 52 metri, contro i 5 metri che si raggiungerebbero in caso di fusione completa del ghiaccio occidentale. «Lo scenario catastrofico, pur non essendo all’ordine del giorno, rende bene l’idea di un’eventualità tutt’altro che remota». Infatti, se tra il 1979 e il 1990 in Antartide si sono persi “solo” 40 miliardi di tonnellate di ghiacci in media all’anno, tra il 2009 e il 2017 questo dato è salito fino a 252 miliardi di tonnellate.Il fatto è che nella calotta polare antartica si trova il 70% dell’acqua dolce della Terra, ricorda Tosca Ballerini sul “Fatto Quotidiano”. E’ una coltre di ghiaccio formatasi 34 milioni di anni fa, che si estende per 14 milioni di chilometri quadrati e ricopre circa il 98% dell’Antartide. Nella calotta antartica sono contenuti tra i 25 e i 30 milioni di chilometri quadrati di ghiaccio: se si sciogliesse tutta, il livello medio del mare salirebbe di 57 metri. Normalmente, l’accumulo di nevicate all’interno del continente antartico dovrebbe bilanciare le perdite di ghiaccio dovute ad erosione, fusione e distacco di iceberg. «Il problema è che la calotta antartica non è più in uno stato di equilibrio e le perdite di ghiaccio sono superiori alla formazione di nuovo ghiaccio». Anche il “Fatto” cita la ricerca del Pnas, condotta dai glaciologi californiani. Studi precedenti avevano già dimostrato come, a causa del surriscaldamento terrestre, ci sia stato «un cambiamento nella direzione dei venti attorno all’Antartide, i quali soffiano adesso verso il continente spingendo l’acqua profonda circumpolare verso la piattaforma continentale». Qui, questa massa d’acqua calda «entra in contatto con i ghiacciai della calotta che arrivano in mare e ne determina lo scioglimento alla base».Secondo Eric Rignot, autore principale dello studio, la perdita di massa della calotta e il contributo all’aumento del livello medio del mare misurati durante lo studio non sono altro che la punta dell’iceberg del problema. «Infatti, a causa del riscaldamento terrestre, sempre maggiori quantità di calore saranno inviate verso l’Antartide, contribuendo allo scioglimento della calotta antartica». E quindi, conclude il ricercatore, «dobbiamo aspettarci un aumento di molti metri del livello del mare nei prossimi secoli». Queste previsioni – aggiunge il “Fatto” – sono confermate da un rapporto redatto da un team di ricerca internazionale e pubblicato il 16 gennaio sulla rivista “Advances in Atmospheric Research”, che mostra come il 2018 sia stato l’anno più caldo mai registrato per l’oceano globale. «L’aumento di calore nel 2018 rispetto al 2017 è stato di circa 388 volte superiore alla produzione totale di elettricità della Cina nel 2017 e circa 100 milioni di volte in più rispetto alla bomba di Hiroshima». I ricercatori pronosticano che la quantità di calore oceanico continuerà a salire, «determinando un aumento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacciai e l’espansione termica dell’acqua».Questo, a sua volta, causerà una serie di conseguenze a cascata, «come ad esempio la contaminazione di pozzi d’acqua dolce con acqua salata e impatti negativi sulle infrastrutture costiere, tempeste e più intense e la morte dei coralli». Il riscaldamento terrestre ha già causato conseguenze irreversibili, come la perdita di massa della calotta glaciale antartica, destinata ad accentuarsi nel futuro. Per Lijing Cheng, autore principale del rapporto e ricercatore presso l’International Center for Climate and Environment Sciences dell’Accademia cinese delle scienze a Pechino, i nuovi dati pubblicati nel rapporto, insieme al ricco corpus di pubblicazioni scientifiche già esistenti, servono come ulteriore avvertimento, sia ai governi che al pubblico in generale: stiamo vivendo un inevitabile riscaldamento globale. È necessario, dice il ricercatore, mettere in atto subito delle azioni di mitigazione per ridurre al minimo le future tendenze al riscaldamento. Per contro, è stato osservato al tempo stesso anche il fenomeno inverso: la strana espansione dei ghiacci antartici, provocata (paradossalmente) proprio dalla loro fusione.Se ne accorsero già nel 2014 i ricercatori della Oregon State University e quelli dell’Università di Brema, in Germania. Lo studio, che spiega anche perché il ghiaccio marino che circonda quel continente è in aumento nonostante il riscaldamento del resto del pianeta, è descritto in un articolo pubblicato su “Nature”. I ricercatori hanno analizzato i sedimenti marini circostanti l’Antartide relativi agli ultimi 8.000 anni, identificando i grani di sabbia depositati dallo scioglimento degli iceberg, per poi risalire con l’uso di sofisticati modelli al computer, ai ritmi di rilascio degli iceberg dalla calotta glaciale. Hanno così scoperto che «nella parte più profonda del mare adiacente alla calotta antartica si manifesta una variabilità naturale simile a quella di El Niño/La Niña, ma su una scala temporale più lunga, di secoli, che provoca piccoli ma significativi cambiamenti nelle temperature», spiega Andreas Schmittner, coautore dello studio. Quando le temperature oceaniche sono più calde – sintetizza “Le Scienze” – provocano uno scioglimento più intenso della calotta di ghiaccio sotto la superficie, e aumentano il numero di iceberg che se ne distaccano, aumentando l’apporto di acqua dolce fredda nell’Oceano meridionale.Tutto questo riduce la salinità e le temperature superficiali, che provocano una stratificazione delle acque. «L’acqua più dolce e fredda di superficie gela però più facilmente, creando ulteriore ghiaccio marino, anche se alcune centinaia di metri più in profondità le temperature sono più alte». Lo stesso fenomeno non si verifica, invece, nell’emisfero settentrionale, con il ghiaccio che circonda la Groenlandia, «perché l’oceano artico è più chiuso e non risente di correnti oceaniche analoghe a quelle che interessano l’Antartide». Almeno sul breve periodo, aggiungeva “Le Scienze” qualche anno fa, questo meccanismo «sembra avere un effetto di relativa stabilizzazione del rilascio di acqua dal continente». I risultati di quello studio si stimava che avrebbero permesso di perfezionare i modelli climatici globali, nei quali la calotta antartica era sempre stata considerata un’entità statica e costante, non sottoposta ai numerosi impulsi di variabilità ora scoperti. Il suo sciogliento accelerato e improvviso – ora verificato – lascerebbe dunque temere il peggio, con scenari apocalittici: oceani che si innalzano e litorali che scompaiono, come altre volte avvenuto nella lunghissima storia della Terra.Abbiamo sentito ampiamente parlare nei giorni scorsi dell’incredibile temperatura registrata in Antartide il 9 febbraio scorso, con un valore superiore addirittura ai 20°C, preceduto da un altro picco di 18°C, il 7 sempre del mese in corso. Possiamo dirlo con certezza: l’Antartide ha la febbre. E non è una frase fatta, ma la semplice realtà esplicitata dai dati meteorologici raccolti dalle stazioni meteo. Un picco così alto di temperature potrebbe comportare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento delle acque. Cosa significa? Entro la fine di questo secolo, se dovesse continuare ad essere questo il trend, il livello globale del mare potrebbe aumentare fino a tre volte rispetto al secolo scorso, passando cioè da 19 a 58 centimetri. E’ quanto emerge da un confronto, senza precedenti, di numerosi modelli elaborato con computer all’avanguardia provenienti da tutto il mondo, afferma il sito del servizio “ilmeteo.it“. «Il serio rischio relativo allo scioglimento dei ghiacci in Antartide potrebbe seriamente diventare la più grande catastrofe globale». Lo afferma Anders Levermann del Potsdam Institute of Climate Impact Research, principale autore della ricerca.
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Russia derubata: l’imbroglio americano del Muro di Berlino
Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pace vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: e il mondo è precipitato nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trennennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.E’ la tesi che Giulietto Chiesa espone del provocatorio saggio “Chi ha costruito il muro di Berlino?”, che esplora i decisivi albori del dopoguerra – da Hiroshima alla guerra fredda – frugando, carte alla mano, tra i segreti della nostra storia più recente. Al punto in cui erano, chiusi nell’angolo – sostiene Chiesa – nel 1961 i sovietici non potevano far altro che innalzare quell’odioso, maledetto muro: non avevano i soldi per rispondere ad armi pari alla micidiale offensiva statunitense in Germania Est, realizzata violando tutti gli accordi tra le superpotenze. Per esempio, la decisione (condivisa da Roosevelt e Stalin) di progettare insieme il futuro della Germania, in modo bilaterale. Via Roosevelt, il voltafaccia americano si fece palese. E Berlino, insieme alla Germania Ovest, divenne il perno su cui investire per puntare all’unico crollo che interessasse davvero a Washington: quello di Mosca. Se a Yalta i vincitori si erano accordati lealmente per co-gestire l’imminente dopoguerra, a Potsdam nell’estate del ‘45 gli americani decisero di cambiare passo: le atomiche sul Giappone sarebbero state una minaccia diretta all’Unione Sovietica. Un anno prima, del resto, a Bretton Woods il sistema capitalista (”miracolato” dal New Deal ma pronto a emarginare lo stratega progressista Keynes) aveva stabilito il gold standard, la supremazia del dollaro come valuta internazionale e il ruolo “imperiale” del Fmi rispetto alle banche centrali, tranne quella americana.Non c’è bisogno di dichiararsi anticomunisti per ammettere che, ovunque abbia conquistato il potere, quell’ideologia abbia sistematicamente deluso, tradito e represso il popolo, imponendo un’oligarchia dittatoriale capace di macchiarsi dei peggiori crimini. Preoccupa, semmai, che il Parlamento Europeo abbia appena votato una mozione che equipara il comunismo al nazismo: in 150 anni, ricorda lo storico Alessandro Barbero, la parola “comunismo” ha unito milioni di persone che speravano in un modo migliore, più giusto e solidale, mentre – com’è noto – il nazismo aveva come primo obiettivo il primato “razziale” germanico e lo sterminio degli ebrei. L’aspetto più inquietante, nel caotico dopoguerra (secondo Giulietto Chiesa, e non solo) riguarda lo strano feeling tra l’élite statunitense e la Germania nazista sconfitta: subito dopo lo spettacolare Processo di Norimberga, scrive Chiesa, furono almeno 20.000 i criminali nazisti reclutati da Washington per dar vita ai propri apparati di sicurezza come la Cia, ma anche la Nato e lo stesso esercito della Germania Occidentale, paese scelto – almeno dal 1947, a quanto pare – come leva strategica per scardinare la presa sovietica sull’Est Europa, fino poi a far crollare il regime di Mosca.Eterogenesi dei fini: paradossalmente, osserva Chiesa, è proprio “grazie a Hitler” (aiutato sottobanco dalla finanza facente capo a Rockefeller e Allen Dulles, poi capo della Cia) che l’America ha potuto diventare la superpotenza “imperiale”, unica padrona dei destini europei. «L’Europa che abbiamo ereditato – sostiene Giulietto Chiesa, già militante comunista e a lungo corrispondente da Mosca per “L’Unità” – è il risultato della sottrazione della vittoria alla Russia, dell’impossessarsi della vittoria da parte degli Usa e della fine dell’impero britannico, sostituito dall’impero americano». La sua ricostruzione della crisi di Berlino – culminata con la costruzione del Muro – è decisamente inconsueta. Nel 1946, subito dopo Norimberga, gli Usa decidono di rivalutare il marco della Germania Occidentale di quasi 5 volte il suo valore, nonostante gli accordi iniziali sulla co-gestione, con i russi, del futuro del paese. Tra parentesi: la battaglia di Berlino, culminata il 2 maggio del ‘45, aveva messo l’Armata Rossa nelle condizioni di dilagare in gran parte del territorio tedesco. «Stalin invece si fermò a Berlino, fedele al patto siglato a Yalta con Roosevelt». Salito Truman alla Casa Bianca, «di colpo l’Occidente vuole mezza Germania per sé, inclusa la parte occidentale di Berlino». E cosa fa? Rivaluta la moneta. «Risultato: a Berlino Ovest, da un giorno all’altro, si guadagna 4 volte tanto».Chiesa parla di «banconote preparate segretamente già dal 1947». A Berlino, alla vigilia della costruzione del Muro, 50-60.000 lavoratori dell’Est fanno i pendolari: lavorano nella zona Ovest, passando liberamente da un settore all’altro. All’improvviso, con l’impennata valutaria del marco occidentale, succede questo: all’Est, pane e benzina costano 4 volte meno, quindi i berlinesi dell’Ovest corrono a svuotare i negozi dell’Est. In parallelo, comincia l’esodo: 200.000 tedeschi lasciano Berlino Est per trasferirsi a Berlino Ovest. «In due anni e mezzo, traslocarono quasi 2 milioni di persone». L’Urss, ancora devastata dall’invasione nazista, non aveva i soldi per reagire sul piano economico-finanziario: «Nella Germania Orientale, Mosca aveva promosso infrastrutture avanzate: ospedali, università, centri di ricerca. Ma il livello di vita era quello socialista, come in Urss». Conclusione: «Il Muro di Berlino fu un atto elementare difensivo, al quale non ci si poteva sottrarre (se non arrendendosi)». Si dirà: ha stravinto, in ultima analisi, il modello economico più convincente. L’unico (dei due) capace di motivare gli individui, lasciandoli liberi di parlare, pensare ed esprimersi democraticamente, e soprattutto di conquistare in tempi brevi una condizione di notevole benessere.Giulietto Chiesa non si nasconde, ovviamente, le aberrazioni dello stalinismo: «C’erano stati milioni di arresti, le deportazioni in Siberia, l’industrializzazione mediante lavoro forzato». Eppure, aggiunge, «in quel momento la dirigenza sovietica aveva un enorme consenso popolare: finita la guerra, i russi pensavano che sarebbe cessata anche la repressione, e che si sarebbe cominciato finalmente a vivere, anche in Russia, in condizioni diverse». Attenzione: «La Russia aveva vinto la guerra, sul suo territorio. Aveva avuto 20 milioni di morti: non voleva, né poteva, considerarsi battuta». Orgoglio, e non solo: l’Unione Sovietica aveva sconfitto il nazismo, ereditando solo macerie. Città distrutte, industrie rase al suolo: un sacrificio immenso. L’America? Intatta. Nello Sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, gli alleati ebbero 4.400 morti e quasi 8.000 feriti. Cifre che impallidiscono di fronte a Stalingrado, battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra Mondiale, protrattasi dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio dell’anno seguente. Bilancio: mezzo milione di soldati sovietici uccisi e 650.000 feriti, oltre un milione di perdite inflitte ai tedeschi e ai loro alleati. L’attuale demonizzazione del comunismo pretesa (per legge) dall’Unione Europea finisce per mettere in ombra la storia, scippando un’altra volta la Russia: che, secondo Chiesa, quel dannato Muro fu costretta a erigerlo, dopo esser stata ingannata dall’ex alleato americano.(Il libro: Giulietto Chiesa, “Chi ha costruito il muro di Berlino? Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente”, Uno Editori, 160 pagine, euro 13,90).Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pacificazione vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: siamo precipitati nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo e contro le stesse democrazie. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trentennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.