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Archivio del Tag ‘precari’

  • Tsipras, la sinistra rinnegata che sta con gli euro-padroni

    Scritto il 24/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.
    Il quadro a cui, nell’immaginario comune, sempre più si dovrebbe abbinare l’idea della sinistra (Tsipras in testa!) non è più “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, bensì “L’urlo” di Edvard Munch: dove, tuttavia, il volto trasfigurato dal dolore e immortalato nell’atto di gridare scompostamente è quello di Antonio Gramsci, ucciso una seconda volta, dopo il carcere fascista, dalle stesse forze politiche che hanno tradito il suo messaggio e disonorato la sua memoria. Il paradosso sta nel fatto che la sinistra di Tsipras oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva del’ormai defunto Partito Comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale alla sovranità irresponsabile dell’economia e della dittatura finanziaria.
    I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione conservatrice. La sinistra di Tsipras è il fronte avanzato dell’opposizione ideale a sua maestà Le Capital. Nel loro esercizio di una critica già da sempre metabolizzata dal cosmo mercatistico, i tanti fustigatori à la Tsipras della società esistente svolgono sempre e solo la stessa duplice funzione apologetica di tipo indiretto. La loro critica addomesticata e perfettamente inseribile nei circuiti della manipolazione organizzata occulta la propria natura apotropaica rispetto a una critica non assimilabile nell’ordine dominante. La loro critica già metabolizza l’ordine neoliberale (euro, finanza, spoliticizzazione, rimozione della sovranità, ecc.).
    Tsipras e la “sinistra Bilderberg” neutralizzano la pensabilità, se non altro per l’opinione pubblica, di critiche effettivamente antisistemiche. In tal maniera, all’opinione pubblica e alla cultura universitaria pervengono sempre e solo idee inoffensive e organiche al sistema, ma contrabbandate come le più “pericolose” in assoluto, creando l’illusione che esse coincidano con il massimo della critica possibile. Prova ne è che oggi le sole idee veramente “pericolose”, cioè incompatibili con lo Zeitgeist postborghese e ultracapitalista, coincidono con il recupero integrale della sovranità nazionale (economica, politica, culturale, militare) come passaggio necessario per la creazione dell’universalismo dell’emancipazione, con la deglobalizzazione pratica e con il riorientamento geopolitico contro la civiltà del dollaro. E invece, i pensatori osannati come i più pericolosi dalla dittatura della pubblicità propongono l’innocuo altermondismo in luogo della deglobalizzazione, l’inoffensivo multiculturalismo dei diritti umani in luogo della sovranità nazionale, la demonizzazione dei dittatori e degli “Stati canaglia” in luogo del suddetto riorientamento geopolitico.
    Muovendosi entro i confini del politically correct fissati dal sistema, essi criticano il presente con toni che, quanto più sembrano radicali, tanto più rinsaldano il potere nel suo autocelebrarsi come intrascendibile e democratico. Che lo sappiano o no, Tsipras e i suoi compagni di partito sono pedine del capitale, mere “maschere di carattere” (Marx), meri agenti della produzione: essi svolgono – lo ripeto – la funzione di oppositori di sua maestà il capitale. Come sappiamo (ma repetita juvant), il progetto eurocratico si rivela organico alla dinamica post-1989, di: a) destrutturazione degli Stati nazionali come centri politici autonomi, con annesso disciplinamento dell’economico da parte del politico, e b) di “spoliticizzazione” (Carl Schmitt) integrale dell’economia, trasfigurata in nuovo Assoluto. Dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), la creazione del regime eurocratico ha provveduto a esautorare l’egemonia del politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, della precarizzazione forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti sociali.
    Spinelli e Tsipras vorrebbero rimuovere gli effetti lasciando però le cause. Il che, evidentemente, non è possibile. Sicché essi, con la loro falsa opposizione, sono parte integrante della grande recita del capitale, svolgendo la funzione dei finti oppositori, vuoi anche del nemico che si finge amico, ingannando popoli lavoratori e gonzi di ogni estrazione. Che ha mai a che fare il signor Tsipras con Marx e Gramsci? Nulla, ovviamente. Tsipras ha assistito al genocidio finanziario del suo popolo causato dall’euro: egli stesso è greco. E, non di meno, vuole mantenere l’euro: non passa giorno senza che egli rassicuri le élites finanziarie circa la propria volontà di non toccare l’euro. E, in questo modo, offre una fulgida testimonianza – se ancora ve ne fosse bisogno – del fatto che Marx e Gramsci stanno all’odierna “sinistra Tsipras” venduta al capitale come Cristo e il discorso della montagna stanno al banchiere Marcinkus.
    (Diego Fusaro, “Tsipras e la sinistra al soldo della finanza”, da “Scenari Economici” del 15 gennaio 2015).

    Tsipras: la sinistra che sta con l’euro; la sinistra che sta col capitale e con i padroni; la sinistra che ha tradito Marx e i lavoratori. Con una sinistra così, non vi è più bisogno della destra. È la sinistra che vuole abbattere l’austerità mantenendo l’euro: cioè abbattere l’effetto lasciando la causa, ciò che è impossibile “per la contradizion che nol consente”. La domanda da porsi, allora, è una sola: stupidità o tradimento? Propendo per la seconda risposta: tradimento. Tradimento di una sinistra passata armi e bagagli dalla lotta contro il capitale alla lotta per il capitale, dal monoclassismo universalista proletario al bombardamento universalista imperialistico in nome dei diritti umani, dalla lotta per i diritti sociali alla lotta per il matrimonio gay come non plus ultra dell’emancipazione possibile. Dalla falce e il martello all’arcobaleno: non v’è null’altro da aggiungere, temo. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. È una tragedia storica di portata epocale.

  • Di Battista, aprite gli occhi sull’euro o sparirete dalla storia

    Scritto il 23/1/15 • nella Categoria: idee • (9)

    Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».
    «No, Di Battista, non ci siamo», replica Betti sul sito “MeMmt”. «Ok, la corruzione è sicuramente un problema molto importante, da cercare di combattere con tutti i mezzi in nostro possesso. Ma tutto ciò che lei ha descritto non dipende dalla corruzione». E poi, c’è corruzione e corruzione: in regime di moneta sovrana, il denaro “rubato” non crea problemi di bilancio, perché tutto è sempre ripianabile. Se invece la corruzione colpisce un paese dell’Eurozona, che non ha più strumenti democratici di bilancio, allora il “furto” diventa una tragedia sociale. Possibile che il brillante Di Battista non lo afferri? E’ come se lui, Grillo e Casaleggio non avessero ancora capito cos’è la moneta sovrana, ovvero una valuta «di proprietà dello Stato, che la emette in regime di monopolio», senza convertirla in oro o altri metalli preziosi. Una moneta il cui tasso di cambio è fluttuante, ovvero: «Viene scambiata con le altre valute in base alla legge della domanda e dell’offerta». Esempi di Stati con moneta sovrana? Praticamente tutti, tranne quelli dell’Eurozona. «Lo Stato a moneta sovrana non può, e non potrà mai, finire i soldi», ribadisce Betti.
    Lo Stato che dispone della propria moneta «la spende semplicemente creandola dal nulla, accreditando conti correnti», e così «fa crescere la ricchezza finanziaria di quei conti semplicemente pigiando dei tasti nei computer della banca centrale». Oggi, del resto, la maggior parte della moneta circolante è elettronica. Punto nodale, che forse a Di Battista sfugge: «Nel fare questa operazione, lo Stato non ha necessità di procurarsi prima quel denaro guadagnandolo con le tasse, perché lo crea da sé senza problemi». E’ esattamente il tipo di potere sovrano a cui gli archietti dell’Eurozona volevano mettere fine. E ci sono riusciti. La fine della sovranità democratica garantita dalla moneta. «Esempio, un vigile del fuoco che a fine mese ottiene il suo stipendio: per lui è logicamente un attivo, e non dovrà mai ripagare quell’esborso di denaro pubblico. In quel momento lo Stato ha aumentato la sua spesa pubblica, ma ha aumentato la ricchezza finanziaria di un suo cittadino. Una volta capito questo, la domanda che dovrebbe scattare subito dopo è: com’è possibile che in Italia allora scarseggino i beni di prima necessità nelle scuole, non si trovi lavoro, le infrastrutture siano ferme da anni? Semplice e terribile allo stesso tempo: l’Italia non ha più la possibilità di fare quell’operazione di creazione di moneta dal nulla».
    Una tragedia chiamata euro, non corruzione: «Con l’ingresso nell’unione monetaria, l’Italia si è ridotta a dover chiedere in prestito dai mercati dei capitali tutti i soldi necessari per poter comprare la carta igienica nelle scuole, pagare i posti letto negli ospedali, costruire o fare la manutenzione delle infrastrutture». Il tutto, continua Betti, è aggravato dal “patto di stabilità” che impedisce ai Comuni di garantire, come prima, i servizi basilari per la comunità. Perché lo Stato italiano, al pari di tutti gli altri dell’Eurozona, oggi – a differenza di ieri – deve restituire i capitali che gli sono stati prestati dai mercati finanziari per le sue attività fondamentali, maggiorati del tasso d’interesse sempre deciso dagli stessi attori della grande finanza privata. E dove li rastrella, quei soldi? «Dalle tasche degli italiani, ovviamente. Ecco che mentre prima, con la sovranità monetaria, il governo non aveva alcuna necessità di tassare a morte i cittadini e le aziende (anzi, poteva tranquillamente decidere di abbassare le imposte), oggi il governo deve necessariamente attuare politiche di austerity, andando ad abbassare la spesa pubblica e contemporaneamente strangolare l’economia con la tassazione, la dismissione e privatizzazione di aziende statali che forniscono beni e servizi pubblici essenziali».
    Caro Di Battista, ancora convinto dello strapotere negativo dell’italica corruzione? Certo, si tratta di un crimine odioso che devasta la società e il territorio. Ma, in regime di moneta sovrana, la peggiore corruzione «non sottrae soldi ai settori vitali della gestione statale». Idem per l’altra piaga nazionale, l’evasione fiscale, «perché lo Stato può creare tutti i fondi che vuole per i servizi pubblici, tecnicamente senza limiti». Nell’Eurozona, invece, la musica cambia: la corruzione è molto più dannosa, «poiché sottrae fondi che lo Stato ha dovuto faticosamente ottenere, con i prestiti di euro da parte dei mercati finanziari, e non può permettersi di sprecarli, al pari del cittadino che ha un mutuo». Di Battista, scrive Betti, non ha capito che il problema è a monte: «Poniamo che da domani, per magia, la corruzione e gli sprechi spariscano (un improbabile paradiso terrestre), ma l’Italia rimanga comunque nell’Eurozona: il problema della scarsità di denaro sarebbe risolto? Sarebbe risolto il problema dell’approvvigionamento dei fondi necessari al funzionamento dei servizi pubblici? Lo Stato potrebbe forse abbassare le tasse e far ripartire l’economia con la spesa pubblica? Assolutamente no».
    Sveglia, Di Battista: «Anche in assenza di corruzione e sprechi, l’Italia dovrebbe comunque approvvigionarsi dai mercati finanziari di ogni singolo euro necessario al funzionamento dell’apparato pubblico. E come detto in precedenza, i mercati non ti regalano di certo i soldi, devi poi restituirglieli con gli interessi, come un normale cittadino in banca. E quindi tasse sempre più alte, taglio dei servizi e della spesa pubblica, povertà e distruzione economica sempre maggiore. Sarebbe un disastro comunque». Un appello accorato: «Queste cose deve capirle, Di Battista, ne va della vita di 60 milioni di italiani». Chi fa politica dovrebbe imparare a stabilire precise priorità, come durante la Resistenza: nel ‘43, scrive Betti, la priorità era liberare il paese dal nazifascismo, poi si sarebbe pensato a ricostruirlo. «Allo stesso modo, oggi la priorità è abbattere il mostro dell’Eurozona, riprenderci la sovranità monetaria, chiedere al governo di spendere in deficit fino al raggiungimento della piena occupazione, di ottimi servizi pubblici e di un’ottima qualità della vita. E’ necessario tornare ad essere una nazione nella quale vivere bene, senza ansia per il presente e il futuro, riaffermare la nostra sovranità e tornare ad essere Italia, un paese stupendo distrutto dall’Eurozona, come gli altri».
    Di Battista, aggiunge Betti, conosce benissimo il programma della Mmt, la “Modern Money Theory”, elaborato da Warren Mosler per far uscire l’Italia dall’incubo della crisi, puntando innanzitutto alla piena occupazione. Quella della Mmt «è una delle proposte più votate nel vostro portale», quello di Beppe Grillo, «ma stranamente non è mai stata presa in considerazione per l’inserimento nel vostro programma. Perchè?». Insiste Betti, nel suo appello a Di Battista: «Perchè non volete comprendere come l’euro distrugge l’Italia, ma vi trincerate dietro i discorsi da bar, “meno sprechi, no corruzione, debito pubblico brutto”? Così facendo voi indirizzate tutta l’attenzione su problematiche secondarie, non primarie, capisce?». Distrazione di massa. «Sappiamo che il vostro movimento è impegnato in una raccolta firme sul tema della permanenza dell’euro». Però nelle filippiche di Di Battista il tema-euro «non compare, non ve n’è traccia». Il campione grillino non utilizza la sua vasta platea per la giusta causa. Al contrario, «raccoglie la rabbia diffusa nel paese e la convoglia tutta verso l’obiettivo sbagliato: questo è gravissimo e non giustificabile. Sta trattando l’euro come un dettaglio, anzi meno». Pensaci, Di Battista. Tu e i tuoi colleghi. Decitedevi a dire finalmente la verità e ad afferrare il toro per le corna, «altrimenti non potrete fare nulla per risollevare le sorti dell’Italia, nemmeno se andrete al governo, e verrete inesorabilmente spazzati via dalla storia».

    Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».

  • Cremaschi: reclutano terroristi, poi fingono di piangere

    Scritto il 17/1/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Tutti i principali media hanno diffuso l’immagine dei capi di Stato a braccetto in testa al corteo, in una Parigi diventata capitale del mondo come ha detto, rispolverando antica grandeur, Hollande. Ebbene, questa immagine è un falso costruito e alimentato ad arte. Come mostrano le foto indipendenti che si trovano solo su Internet, i capi di Stato e governo sfilavano da soli in una via deserta isolata dal mondo dalle forze di sicurezza. Altrove sfilava il popolo, che con le origini e motivazioni le più diverse mostrava il suo sdegno per la strage infame commessa dai fondamentalisti islamici. Ma il corteo dei 200 potenti non era alla testa dei milioni scesi in piazza, forse con molti di loro non sarebbe stato neppure in connessione. Sono i mass media ad aver costruito questo legame, questa rappresentanza degli uni rispetto agli altri, e questa è semplicemente moderna e sapiente propaganda bellica. Siamo in guerra, dicono mass media e finta testa del corteo, ma chi è in guerra, contro chi e per quale scopo deve restare indeterminato per lasciare spazio ad ogni manovra.
    Con il massimo della malafede intellettuale si usa la denuncia di Papa Francesco contro una guerra mondiale a pezzi che andrebbe fermata, per sostenere all’opposto che essa vada condotta fino alla vittoria. Alla fine l’unico concetto che rimane è quello della guerra di civiltà tra i valori democratici occidentali e il fanatismo terrorista. Sulle dimensioni della guerra e degli avversari ci si divide sia nella finta testa del corteo di Parigi, sia tra di essa e le forze populiste e xenofobe escluse. Ci si divide su modalità ed estensione della guerra, ma non sul fatto di farla. Eppure fin dal 1991 siamo in conflitto armato contro i nuovi Hitler e forse il massacro di Parigi dovrebbe imporre una riflessione su 24 anni di guerre per la democrazia e sui loro risultati. Invece si reagisce sempre allo stesso modo. Ho visto in televisione l’ex presidente francese Sarkozy esaltare l’unità della nazione di fronte al terrorismo. E ho pensato alla sua decisione di bombardare la Libia per sostenere i ribelli contro Gheddafi. Ricordo anche le vibranti parole di Giorgio Napolitano a sostegno di quella azione militare. Che ha avuto pieno successo, Gheddafi è stato trucidato e ora in Libia dilagano tutte le organizzazioni del terrorismo fondamentalista islamico.
    Gli spietati assassini di Parigi sono cittadini francesi che hanno fatto il loro apprendistato militare contro Assad in Siria. E Hollande tuttora insiste per un maggior impegno militare della Nato a sostegno dei ribelli siriani. Obama ha lanciato per primo l’appello contro quell’Isis i cui gruppi dirigenti sono stati addestrati dagli Usa sia in funzione anti Siria che anti Iran. Gli occidentali si stanno ritirando dall’Afghanistan dove hanno sostanzialmente perso la guerra, condotta ora contro quei talebani armati e istruiti a suo tempo dagli Usa contro l’occupazione sovietica del paese. In Somalia negli anni ‘90 ci fu un colossale intervento militare guidato dagli Usa. Ora quel paese non è più uno Stato e scopriamo di mantenere ancora lì delle truppe quando son minacciate da questa o quella banda di signori della guerra. In Kosovo D’Alema mandò i suoi bombardieri per difendere la libertà dei popoli. Ora quello è uno Stato canaglia in mano alle multinazionali del crimine e anche una evidente via di transito e rifornimento per i terrorismi, forse anche per gli assassini francesi.
    Da quel 1991 quando Bush padre trascinò il mondo nella prima guerra contro l’Iraq di Saddam, gli interventi militari dell’Occidente son stati molteplici e tutti dichiaratamente a favore della democrazia. Abbiamo esportato la democrazia con le armi e abbiamo importato il terrorismo fondamentalista. Ma nonostante tutto lo scambio continua. In Ucraina i nazisti di tutta Europa si son dati convegno a sostegno del governo appoggiato da Ue e Nato. Lì stanno facendo la loro scuola militare, il loro apprendistato, poi li vedremo all’opera in tutta Europa. Farsi sbranare dai mostri che si sono allevati è la coazione a ripetere che l’Occidente non riesce a interrompere. Anzi, di nuovo risuonano gli stessi appelli e le stesse strumentalità che abbiamo sentito negli ultimi decenni. Per combattere davvero questo terrorismo, l’Occidente e l’Europa dovrebbero cambiare politica economica e militare, anzi dovrebbero mettere in discussione la stessa coalizione che le definisce. Da un quarto di secolo l’Occidente pratica politiche liberiste di austerità e le accompagna con guerre umanitarie in difesa della democrazia. L’Unione Sovietica non c’è più, ma la Nato esiste e chiede ancora più tributi. L’arsenale nucleare cresce e continua a minacciare la stessa esistenza umana anche se, per ora, non è in mano ai terroristi.
    Non sono un pacifista gandhiano, voglio sconfiggere iI fondamentalismo islamico e con esso ogni oscurantismo religioso e politico, compreso il ritorno del fascismo e del razzismo europei. Ma le politiche economiche e di guerra della coalizione occidentale hanno prodotto sinora un solo risultato, hanno diffuso e rafforzato il nemico che han dichiarato di voler combattere. Per questo la destra integralista occidentale rivendica una guerra totale vera e non le si può ipocritamente rispondere che basta una guerra in modica quantità. Da noi dopo decenni di precarizzazione del lavoro senza risultati occupazionali, Renzi ha convinto il Pd ad abolire quell’articolo 18 contro cui si era sempre scagliata la destra economica. Se sulla guerra si seguisse la stessa logica dopo 24 anni di fallimenti, non resterebbe che una vera completa guerra mondiale. Se si vuole abbattere il mostro che le stesse guerre democratiche dell’Occidente hanno creato e alimentato ci sono precise scelte di rottura da compiere. La prima è sciogliere la Nato e costruire una vera coalizione mondiale, con Russia, Cina, Iran, India, America Latina, Sudafrica. Il primo atto di questa nuova coalizione dovrebbe essere la fine della corsa agli armamenti e lo smantellamento del nucleare, che non dovrebbe servire contro il terrorismo.
    Questa coalizione dovrebbe operare dentro l’Onu e non con la guerra ma con una azione comune a sostegno delle forze che si oppongono al fondamentalismo, come timidamente e contraddittoriamente si fa con i Curdi a Kobane. Questa coalizione dovrebbe avere come primo alleato sul posto il popolo palestinese e dovrebbe costringere Israele a tornare sui confini del ‘67 e a riconoscere lo Stato di questo popolo oppresso. Questa coalizione dovrebbe abbandonare le alleanze con i finti moderati, corresponsabili della crescita del terrorismo islamico. Parlo dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del petrolio, vera base culturale e finanziaria del fondamentalismo. Infine bisogna cambiare le politiche interne, perché non bisogna essere marxisti ortodossi per affermare ciò di cui erano consapevoli i democratici che sconfissero il nazifascismo. E cioè che la disoccupazione e l’ingiustizia sociale sono da sempre il brodo di coltura di dittature e guerra.
    Bisogna cancellare le politiche di austerità e riprendere quelle di eguaglianza sociale, bisogna finirla con l’assecondare quella guerra economica permanente che è stata chiamata globalizzazione. Solo così sarà più facile riconquistare quelle periferie emarginate, ove si scontrano il rancore fondamentalista con quello xenofobo. Onestamente credo poco che la finta testa del corteo di Parigi, che di questo disastro venticinquennale è responsabile, sia in grado di cambiare. Per questo bisogna respingere l’appello all’unità nazionale dietro di essa e costruire ad essa un’alternativa. Altrimenti tra poco potremmo sentirci dire in qualche talkshow che il solo modo per sconfiggere un miliardo e mezzo di minacciosi musulmani è far ricorso al nucleare. In fondo non è già stata usato per concludere una guerra?
    (Giorgio Cremaschi, “La guerra mondiale che vogliono fare”, da “Micromega” del 13 gennaio 2015).

    Tutti i principali media hanno diffuso l’immagine dei capi di Stato a braccetto in testa al corteo, in una Parigi diventata capitale del mondo come ha detto, rispolverando antica grandeur, Hollande. Ebbene, questa immagine è un falso costruito e alimentato ad arte. Come mostrano le foto indipendenti che si trovano solo su Internet, i capi di Stato e governo sfilavano da soli in una via deserta isolata dal mondo dalle forze di sicurezza. Altrove sfilava il popolo, che con le origini e motivazioni le più diverse mostrava il suo sdegno per la strage infame commessa dai fondamentalisti islamici. Ma il corteo dei 200 potenti non era alla testa dei milioni scesi in piazza, forse con molti di loro non sarebbe stato neppure in connessione. Sono i mass media ad aver costruito questo legame, questa rappresentanza degli uni rispetto agli altri, e questa è semplicemente moderna e sapiente propaganda bellica. Siamo in guerra, dicono mass media e finta testa del corteo, ma chi è in guerra, contro chi e per quale scopo deve restare indeterminato per lasciare spazio ad ogni manovra.

  • Grazie a Napolitano, oggi l’Italia è una valle di lacrime

    Scritto il 16/1/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Da oggi gli italiani possono guardare al futuro con un pizzico di speranza e di fiducia in più. Giorgio Napolitano, arcigno avamposto italiano di poteri schiavistici, antidemocratici e occulti, si è finalmente dimesso, liberando inconsapevolmente nell’aria un fresco profumo di libertà che riscalda il cuore ed ossigena il cervello. Credo sia opportuno che il Parlamento, espressione di una volontà popolare ripetutamente tradita dal vecchio presidente, sottolinei l’importanza storica di siffatta circostanza, magari affiancando simbolicamente il 14 gennaio al 25 Aprile. Napolitano, con metodi e modi alquanto diversi da quelli utilizzati da Benito Mussolini, ha commissariato l’Italia per quasi un decennio, violentando una dialettica democratica da sacrificare sull’altare di interessi speculativi privati. Napolitano rappresenta uno spartiacque per il nostro paese. Gli storici, così come avvenne per l’esperienza fascista, saranno costretti a raccontare quanto l’Italia sia cambiata (in peggio) in conseguenza dell’ascesa al potere dell’ex comunista migliorista preferito da Henry Kissinger.
    Nel 2006 l’Italia era un paese relativamente prospero e felice, con un tasso di disoccupazione accettabile e un tessuto industriale ancora solido e competitivo. L’Italia di oggi è invece una valle di lacrime, impoverita e umiliata da tecnocrati sprovvisti di mandato popolare che banchettano sulla pelle dei più deboli. In Italia, grazie alle politiche volute da una serie di governi-fantoccio creati dallo stesso Napolitano, la disoccupazione è salita alle stelle. Generazioni intere sono state falcidiate agitando strumentalmente il mito del debito pubblico, tra l’altro paradossalmente aumentato proprio in conseguenza delle dissennate politiche di austerità difese a spada tratta e contro ogni logica proprio dal nostro ex presidente. Ma Napolitano non si è limitato a farsi garante per conto terzi del declino economico e industriale del Belpaese: ha fatto di più e di peggio; ha imposto cioè una visione del potere elitaria e oligarchica, lentamente sfociata in un vero e proprio culto della personalità indegno persino di un paese in via di sviluppo.
    In questi anni la grande stampa, all’unisono, non ha mai osato mettere in discussione le scelte del presidente-monarca, bollando come impuri ed infedeli tutti quelli che trovavano il coraggio di resistere alla dittatura del pensiero unico. Un crinale allo stesso tempo risibile e pericoloso, palesatosi al mondo in tutta la sua ridicola drammaticità il giorno in cui i presidenti delle Camere, Grasso e Boldrini, invitarono i parlamentari a non pronunciare invano in aula il nome del presidente Napolitano. Scene fantozziane che farebbero arrossire di vergogna perfino tipi alla Erdogan. Ancora oggi giornali come “Repubblica”, la “Stampa” e il “Corriere della Sera” trovano il tempo di raccontare al popolo quanto Napolitano sia felice di tornarsene a casa (figuratevi quanto lo siamo noi). Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato ieri su “Repubblica”, è riuscito a scrivere che Napolitano aderì in gioventù al Guf (gruppi universitari fascisti) in funzione antifascista. Ma vi rendete conto? E’ come dire che Tizio volle farsi prete perché chiaramente anticlericale. Non sanno più cosa inventarsi per tenere il sacco ad un uomo anziano che ha sempre e soltanto creduto nel potere per il potere.
    Quando però i piccoli interessi contingenti saranno sopiti, le menzogne interessate e pavide evaporeranno, lasciando sul campo una verità fattuale che, per quanto comprensiva e abbellita, condannerà in eterno il ricordo di Napolitano, pessimo presidente bravo a fare della banalità un’arte e dell’ipocrisia un punto di forza. Stendiamo infine un velo pietoso sulle vere ed eversive dinamiche che hanno preparato la nascita del governo Monti, denunciate sia nel libro di Alan Friedman (“Ammazziamo il Gattopardo)”, che in quello pubblicato dall’ex segretario del Tesoro americano Tim Geithner (“Stress Test”). Retroscena inquietanti, non a caso silenziati da un sistema informativo che, pur ricordando nei fatti l’Istituto Luce, marcia in difesa del ricordo dei giornalisti di “Charlie Hebdo”, massacrati nel nome di una libertà che non accetta limiti né compromessi. Addio Giorgio. L’Italia è finalmente libera di ricominciare a vivere.
    (Francesco Maria Toscano, “L’Italia è finalmente libera, il 14 gennaio 2015 come il 25 aprile 1945”, dal blog “Il Moralista” del 16 gennaio 2015).

    Da oggi gli italiani possono guardare al futuro con un pizzico di speranza e di fiducia in più. Giorgio Napolitano, arcigno avamposto italiano di poteri schiavistici, antidemocratici e occulti, si è finalmente dimesso, liberando inconsapevolmente nell’aria un fresco profumo di libertà che riscalda il cuore ed ossigena il cervello. Credo sia opportuno che il Parlamento, espressione di una volontà popolare ripetutamente tradita dal vecchio presidente, sottolinei l’importanza storica di siffatta circostanza, magari affiancando simbolicamente il 14 gennaio al 25 Aprile. Napolitano, con metodi e modi alquanto diversi da quelli utilizzati da Benito Mussolini, ha commissariato l’Italia per quasi un decennio, violentando una dialettica democratica da sacrificare sull’altare di interessi speculativi privati. Napolitano rappresenta uno spartiacque per il nostro paese. Gli storici, così come avvenne per l’esperienza fascista, saranno costretti a raccontare quanto l’Italia sia cambiata (in peggio) in conseguenza dell’ascesa al potere dell’ex comunista migliorista preferito da Henry Kissinger.

  • Jobs Act, fine del lavoro e di cent’anni di progresso in Italia

    Scritto il 13/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.
    In Italia non siamo così rigidi, ma il senso della regola è lo stesso. La 223 stabilisce che solo con un accordo sindacale controfirmato da una pubblica autorità si possa derogare ai criteri dell’anzianità e dei carichi familiari. Così son state definite con le aziende, da ultimo con Meridiana, le uscite dei più anziani, in grado di raggiungere la pensione con la indennità di mobilità. Se un’azienda prima del decreto Renzi avesse voluto fare licenziamenti indiscriminati di massa, avrebbe subìto un doppio danno. Avrebbe dovuto pagare consistenti penali e avrebbe rischiato la reintegra da parte di un giudice di tutti i dipendenti licenziati senza il rispetto di regole e procedure. Questo vincolo ha frenato i licenziamenti di massa, anche in una crisi senza precedenti come quella attuale. Ora viene tolto e le aziende potranno liberamente sbarazzarsi, per crisi e ragioni economiche, di lavoratrici e lavoratori che hanno l’articolo 18 e sostituirli con dipendenti precari a vita, pagati molto meno e per la cui assunzione riceveranno anche un consistente finanziamento pubblico.
    La portata reazionaria di questo decreto mostra tutta la malafede di un governo che sa perfettamente che la liberalizzazione dei licenziamenti non ha mai prodotto né mai produrrà un solo posto di lavoro aggiuntivo a quelli esistenti. Nessuno assume in più se non ha lavoro in più da far fare. Ma se viene offerta la possibilità di realizzare, a condizioni più che favorevoli, quello che le imprese chiamano il ricambio organico del personale, perché rifiutarla? Questo è lo scopo vero del Jobact: un gigantesco scambio di manodopera tra chi ha più e chi ha meno diritti e salario. Come più di cento anni fa, quando i braccianti venivano cacciati dalla terra che avevano coltivato, perché agrari e baroni reclutavano gente più povera disposta a subire condizioni peggiori. Non solo il Jobact non fa nulla contro la disoccupazione, ma anzi proprio per funzionare ha bisogno di una massa ricattabile di senza lavoro, senza i quali le sue norme resterebbero lettera morta.
    Alla fine l’occupazione complessiva sarà ancora minore, come già sapientemente prevede la Confindustria, ma quella rimasta somiglierà molto di più a quella che lavora oggi in Cina rispetto a quella che aveva conquistato diritti e dignità in Italia. Le imprese rimaste festeggeranno per i maggiori profitti, mentre il lavoro sarà sottoposto alla schiavitù di un Medio Evo tecnologico. A questo punto non serve aggiungere altre parole. Ogni atto del governo Renzi rappresenta una coerente azione di restaurazione sociale. Non si colpisce solo il lavoro, ma la scuola, la sanità, i servizi pubblici, mentre si rafforzano le spese militari. Quando si interviene, come all’Ilva, lo si fa per permettere alle multinazionali cui verrà ceduta di risparmiare i costi del risanamento e degli investimenti. Tutte le riforme politiche proposte stravolgono principi e libertà costituzionali.
    Ma a questo punto continuare a rimproverare a Renzi e a Giorgio Napolitano, che ne è il primo sostegno, di fare quello che dichiarano di voler fare non serve a niente. Il governo Renzi è la personalizzazione della distruzione della Costituzione Repubblicana, è nato e opera per questo. Rappresenta una classe dirigente italiana che ha deciso che il sistema sociale e democratico del dopoguerra non possa più essere mantenuto, di fronte ai vincoli della Troika e della finanza globale. O si contestano quei vincoli, euro compreso, o si insegue il modello del capitalismo selvaggio senza vincoli. Renzi e Napolitano hanno scelto di essere fino in fondo fedeli esecutori di quei vincoli, per questo oggi son avversari di tutto ciò che nella storia italiana ha significato progresso sociale e democratico. Renzi e Napolitano hanno scelto e chi si oppone a questa loro scelta deve essere altrettanto intransigente e rigoroso. Altrimenti la coerenza reazionaria del governo sarà la sola devastante forza in campo.
    (Giorgio Cremaschi, “Il Jobs Act e la coerenza reazionaria del governo Renzi”, da “Micromega” del 30 dicembre 2014).

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.

  • Spaventare la Francia: ieri il petroliere, oggi il banchiere

    Scritto il 12/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Certo, c’è ingombro grottesco e mediatico degli jihadisti fanatici, i tagliagole che – nessuno lo ricorda mai – sono stati incoraggiati, protetti, armati e finanziati dall’Occidente e dagli alleati occidentali del Golfo. E si parla come sempre anche dell’immancabile Mossad, campione mondiale della strategia della tensione per sabotare la democrazia in ogni angolo del pianeta. Ma se il principale bersaglio della strage di Parigi fosse un banchiere? Tra le vittime freddate nella redazione di “Charlie Hebdo” c’è infatti anche il professor Bernard Maris, economista e dirigente della Banca di Francia, protagonista di una clamorosa denuncia dell’austerity europea messa in atto dall’oligarchia che tutela il sistema bancario. La morte di Maris segue di pochi mesi quella di Christope de Margerie, numero uno della Total, scomparso il 20 ottobre scorso in uno strano incidente all’aeroporto di Mosca. De Margerie era stato protagonista di un vigoroso braccio di ferro contro le sanzioni da imporre alla Russia: il capo della Total voleva il dialogo, a tutti i costi. Dialogo che lo stesso Hollande aveva provato a riaprire, proprio alla vigilia della strage di Parigi, ipotizzando la revoca delle sanzioni contro Putin.
    Marco della Luna esplora l’ipotesi della “strage al-banqaidista”, cioè compiuta come “bank aid”, come soccorso alle banche, avente come bersaglio effettivo proprio Maris. Che «mai aveva offeso Allah», ma in compenso aveva attaccato ben altre divinità, interamente europee: «Con le sue ricerche e pubblicazioni, minacciava gli interessi dei creditori-usurai (soprattutto franco-tedeschi) e l’imperialismo finanziario di Berlino in Europa, spiegando che i debiti pubblici sono ingiusti, insostenibili e vanno parzialmente condonati», Soprattutto, continua Della Luna nel suo blog, Maris «aveva confutato e ridicolizzato i dogmi della falsa fede su cui si regge il potere e il profitto dei grandi banchieri: il globalismo, il neoliberismo, la creazione privata del danaro bancario e la mancata registrazione contabile di questa creazione da parte delle banche», quindi anche «la conseguente evasione fiscale per centinaia di miliardi l’anno». Lo stesso Della Luna aveva denunciato il fenomeno in diversi saggi, insieme a Marco Saba, Carlo Sibilia, Nino Galloni e Nicoletta Forcheri: i bilanci delle banche sono falsi, perché non registrano come “attivo” la creazione monetaria.
    Lo ha dimostrato il professor Richard Werner, in un recente “paper” ufficiale della Bank of England. Werner, che insegna all’università di Southampton, spiega che i prestiti bancari avvengono senza che la banca disponga del denaro che presta, mentre la banca si presenta come intermediaria del credito, basandosi su una massa di depositi. “Smontata” da Werner anche l’altra dottrina, quella della “riserva frazionaria”, secondo cui la banca, per prestare, attingerebbe alle proprie riserve presso la banca centrale. «Che le banche creino “ex nihilo” il grosso del “money supply”», continua Della Luna, «era stato anticipato il 26 marzo scorso da un “paper” della Bank of England, che ha spiegato come le banche creino la moneta bancaria con l’atto e nell’atto del prestarla, “by lending it into existence”, non preesistendo quanto prestato all’atto del prestare». Bernard Maris, sostiene Della Luna, faceva parte di questa comunità internazionale di economisti impegnati per un risveglio democratico dell’economia in Europa, denunciando gli abusi del sistema e le menzogne del potere Ue che impone il declassamento dei cittadini, mendiante austerity e smantellamento dello Stato, privatizzazioni selvagge, precarizzazione del lavoro.
    La vittima numero uno della tenaglia europeista è lo Stato, visto come “sindacato dei cittadini”, in quanto “prestatore di ultima istanza”. Con l’euro, questa vitale funzione dello Stato è completamente disabilitata: sono solo le banche a “creare denaro dal nulla”, denaro che però non è più “pubblico”, è privato, costa carissimo (debito pubblico) e arricchisce soltanto l’élite finanziaria. Bernard Maris l’aveva denunciato in modo chiaro, attraverso “Charlie Hebdo”. Se ora si aggiunge la sua morte a quella del patron della Total, si può leggere un chiaro disegno per colpire la Francia di Hollande? Secondo Gioele Magaldi, autore dell’esplosivo libro-denuncia “Massoni”, che indica in alcune superlogge mondiali i mandanti dei peggiori crimini, Hollande – che pure si era fatto eleggere per porre fine all’austerity – ha bruscamente riallineato la sua politica al rigore Ue perché sarebbe stato personalmente minacciato di morte. Quando il terrorismo è opaco e manipolato, i boia si assomigliano tutti. E i media mainstream evitano di ricordare che proprio l’Occidente ha “coltivato” i peggiori tagliagole, dall’Afghanistan all’Iraq, passando per la Libia e la Siria. Macellai perfetti, per silenziare un banchiere scomodo e un petroliere di Stato? Perfetti, sicuramente, per terrorizzare la Francia di Hollande, architrave della traballante Ue. Il clima di “guerra” può far digerire ai francesi la disciplina sociale della crisi, e anche il clima di militarizzazione del mondo su cui gli Usa stanno investendo incessantemente, nella loro pericolosa geopolitica del caos che non esita a reclutare i “nemici della civiltà”.

    Certo, c’è ingombro grottesco e mediatico degli jihadisti fanatici, i tagliagole che – nessuno lo ricorda mai – sono stati incoraggiati, protetti, armati e finanziati dall’Occidente e dagli alleati occidentali del Golfo. E si parla come sempre anche dell’immancabile Mossad, campione mondiale della strategia della tensione per sabotare la democrazia in ogni angolo del pianeta. Ma se il principale bersaglio della strage di Parigi fosse un banchiere? Tra le vittime freddate nella redazione di “Charlie Hebdo” c’è infatti anche il professor Bernard Maris, economista e dirigente della Banca di Francia, protagonista di una clamorosa denuncia dell’austerity europea messa in atto dall’oligarchia che tutela il sistema bancario. La morte di Maris segue di pochi mesi quella di Christope de Margerie, numero uno della Total, scomparso il 20 ottobre scorso in uno strano incidente all’aeroporto di Mosca. De Margerie era stato protagonista di un vigoroso braccio di ferro contro le sanzioni da imporre alla Russia: il capo della Total voleva il dialogo, a tutti i costi. Dialogo che lo stesso Hollande aveva provato a riaprire, proprio alla vigilia della strage di Parigi, ipotizzando la revoca delle sanzioni contro Putin.

  • Praticamente mezzo paese, un noir sull’Italia che affonda

    Scritto il 08/1/15 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo libro d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.
    Di altri analoghi tradimenti racconta “Praticamente mezzo paese”, che in 160 pagine dipana una trama avvolgente, senza cadute di ritmo, che attorno all’indagine strapaesana sulla tragica dipartita dell’ex vicesindaco, ucciso alla vigilia delle elezioni, mette in scena la strana alleanza tra un solitario capitano dei carabinieri, laconico per indole e per ufficio, e una giovane giornalista precaria e chiacchierona, in possesso del vasto background sul malaffare che regna nella cittadina, così prezioso per illuminare il terreno di caccia in tempo utile. Si tenta infatti di risolvere il caso in extremis, prima del voto, per restituire al rito elettorale il suo sacro potere democratico, quello del microcosmo che si autogoverna scegliendo direttamente i propri rappresentanti. E qui la narrazione si inoltra in una galleria di piccoli orrori tristemente casalinghi, fatta di lusinghe e minacce, ritorsioni, prebende e tangenti, nel grigio orizzonte dell’assalto edilizio che ha ridotto il verde territorio prealpino a un labirinto di villette a schiera “color giallo Paperopoli”, arricchendo una casta di privilegiati quasi mai in regola con la legge.
    Se ne accorge ben presto il capitano, che cerca un assassino e invece inciampa di continuo in nient’altro che piccoli predatori, occupati soltanto a mettere in salvo il proprio conto corrente e non l’ospedale, declassato per colpa di quella che ancora non si chiamava “spending review” ma già minava la sopravvivenza di una provincia fino a ieri prospera, e oggi presidiata quasi solo da palazzinari e baristi, senza trascurare le parrucchiere a cui le signore ricorrono per “essere in quadro” nei giorni di festa. Un Piemonte italianissimo e sfregiato da una modernità farlocca, dalla caricatura del marketing territoriale tenuto in piedi dalle ricette della nonna, mentre qualcuno uccide un candidato alle elezioni – non un eroe, un italiano normale – sulla cui morte si scatena l’ignobile speculazione dei concorrenti. Brutto spettacolo: ai veterani, con alle spalle anni di malversazioni alla corte del Feudatario, il “sindaco sempiterno”, si oppongono esordienti già accecati dall’ambizione e dalla presunzione.
    Il sistema è marcio, dice Elisa Bevilacqua, che provvede a irrigare di abbondante ironia il suo noir patriottico sullo stato delle cose, senza mai allontanarsi dalle procedure di un’indagine che mette a nudo la fragilità inconfessabile dietro alla quale si nasconde la normalità quotidiana dei discorsi ufficiali, quelli a cui tutti fingono ancora di credere, danzando su un Titanic in tricolore. Il sistema è marcio, quindi è debole: chiunque potrà farne un sol boccone. Ed è esattamente quello che sta accadendo, all’Italia tutta. Per fortuna, il poco che resta vale molto: l’affetto, i sentimenti, i legami familiari. La dedizione alla verità, che la giovane giornalista ha pagato di persona, anche con la perdita del posto di lavoro. E l’integrità di uomini silenziosi come l’ufficiale dei carabinieri. Si cercano, si trovano. In fondo, li accomuna la stessa nostalgia per un’Italia migliore: che entrambi hanno conosciuto, almeno per sentito dire.
    (Il libro: Elisa Bevilacqua, “Praticamente mezzo paese”, edizioni Graffio, 160 pagine, euro 13,50).

    L’assassino non è il maggiordomo, è il sindaco. O il braccio destro dell’ex vicesindaco. O la moglie, l’amante, l’ex prostituta, la figlia che non studia e non lavora. L’assassino è il figliolo trascurato, il becchino mezzo matto, il barista di uno qualsiasi dei 41 bar che affollano il centro storico. La lista dei sospettati è sterminata. “Praticamente mezzo paese”, per dirla con Elisa Bevilacqua, che – al suo giallo d’esordio – tratteggia una provincia italiana molto riconoscibile, a tratti opulenta, persino comica, sfigurata dal cemento ma non ancora dalla crisi, nella perdurante illusione che il futuro possa dipendere davvero da un piano regolatore, dai favori elargiti in modo clientelare, da una licenza frettolosamente accordata a una inquinante “fabbrica” di polli in batteria. C’è anche il morto, naturalmente. Agiato, mediamente colto e politicamente moderato, piccolo campione di una middle class piemontese periferica e residuale, come quella che convive da anni coi “marziani” NoTav della valle di Susa senza ancora aver capito veramente chi sono, per cosa lottano, in nome di quale universo civile tentano di battersi, con l’anima offesa di chi si sente tradito nella sua semplice vocazione di cittadino.

  • Nel nome di Roosevelt, per smascherare i vampiri del rigore

    Scritto il 06/1/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Il 2015 sarà un anno decisivo. Tante cose stanno velocemente cambiando sullo scenario nazionale e internazionale. Nessuno crede più ai soliti tromboni che predicano l’austerità per gli altri e l’abbondanza per se stessi. Il giochino è oramai sfacciato e scoperto. In molti non intendono più farsi abbindolare da parole vuote come “sacrifici”, “responsabilità”, “stabilità” e “mercati”, cavalieri di una apocalisse economica che cammina sulle gambe di Maestri Venerabili del calibro di Mario Draghi e Wolfang Schauble. Pur frastornati da una propaganda subdola e incessante, gli italiani cominciano ad intuire di essere stati raggirati. La mistica dei “sacrifici che salvano” non incanta più nessuno, a parte qualche inguaribile idiota-credulone utile solo a fini statistici. Oggi non sarebbe possibile piazzare impunemente al potere un figuro come Mario Monti, massone reazionario imposto alla guida dell’Italia per assecondare bramosie private. Il 2015, tanto per cominciare, si apre con una bella notizia: Napolitano se ne va.
    Il nostro (ancora per poco) presidente della Repubblica, iniziato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” nell’aprile del 1978, ha distrutto con zelo e costanza il benessere italiano, avallando la formazione di governi direttamente funzionali ai desiderata di un manipolo di plutocrati globalizzati. Napolitano, adducendo una improbabile stanchezza, ha deciso di farsi da parte. Come mai un uomo come lui, abituato fin dai tempi dell’invasione sovietica in Ungheria a vivere il potere per il potere, ha inteso abbandonare anzitempo il suo ruolo? Forse perché alcuni riservati mondi, magari quegli stessi che aiutarono Alan Friedman a scrivere “Ammazziamo il Gattopardo”, gli hanno fatto capire con una certa perentorietà di non essere più gradito? Anche in Grecia, altra vittima designata della crudeltà di una Troika in versione Mengele, l’aria sembra essere cambiata. Il premier Samaras, iniziato come Napolitano presso la superloggia “Three Eyes”, non è riuscito a trovare i numeri in Parlamento per eleggere un nuovo presidente della Repubblica gradito al politburo di Bruxelles.
    Il dispiegarsi di tante minacce e blandizie, ad opera dei soliti noti, questa volta non è bastato per alterare il corso della democrazia ellenica. Solo pochi anni fa il premier greco in carica, il socialista Papandreou, fu invitato a rimangiarsi la promessa di indire un referendum per chiedere al suo popolo cosa ne pensasse delle politiche “lacrime e sangue” richieste da alcuni organismi finanziari sprovvisti di legittimità democratica. Allo stesso modo, alcuni emissari di specifiche Ur-Lodges, digrignando i denti, spaventarono fin da subito il molliccio Hollande, costringendo il presidente francese ad appiattirsi in silenzio ai voleri di Angela Merkel. Oggi invece, anche e soprattutto grazie al ritrovato protagonismo di alcuni massoni di ispirazione progressista come Gioele Magaldi, già iniziato presso la Ur-Lodge democratica “Thomas Paine”, il  potere di “persuasione” dei sadici emissari tenuti al guinzaglio dai vari Draghi, Juncker e Lagarde è di molto diminuito.
    In Italia si gioca una partita decisiva per le sorti dell’intero pianeta. Molti italiani, nonostante i melliflui ragionamenti articolati dai vari Renzi e Napolitano, resistono di fronte alla prospettiva di una definitiva “cinesizzazione” del Belpaese. Questi italiani devono fare massa critica all’interno di un contenitore chiaro, visibile, limpido, forte ed efficace: questo contenitore si chiama “Movimento Roosevelt”. Il Movimento Roosevelt non è massonico né para-massonico. Il Movimento Roosevelt, inizialmente metapolitico, non intende entrare direttamente nell’agone elettorale, rivolgendosi invece a tutte le forze politiche già presenti sul territorio nazionale affinché abbandonino definitivamente i falsi miti del rigore e dell’austerità. Più saranno i cittadini pronti a combattere una battaglia di civiltà insieme a noi, maggiore sarà la nostra capacità di cambiare in meglio l’esistente.
    Tutti coloro i quali, pur contingentemente tesserati all’interno di partiti di destra, centro o sinistra, sentano di dover difendere i capisaldi della nostra civiltà, ovvero uguaglianza fra tutti gli uomini, diritto al lavoro, difesa del welfare e della sovranità popolare, non perdano altro tempo iscrivendosi immediatamente. Qualora i partiti esistenti, sordi di fronte alla volontà di cambiamento che sale dal basso, dovessero continuare a dare vita a governi consociativi eterodiretti dall’esterno, il Movimento Roosevelt si trasformerà in partito, chiedendo a viso aperto il consenso dei cittadini. Le migliaia di persone che si ritroveranno per la prima volta insieme a Perugia nel gennaio/febbraio del 2015 sono destinate a rendersi protagoniste di un processo storico, imitando dopo un secolo e mezzo l’epopea gloriosa dei mille garibaldini in camicia rossa. Chi non intende spendersi personalmente per difendere la democrazia, non la merita.
    (Francesco Maria Toscano, “Chi non difende la democrazia, non la merita”, da “Il Moralista” del 2 gennaio 2015. Sul sito, nella home page, è scaricabile il modulo di iscrizione al “Movimento Roosevelt”).

    Il 2015 sarà un anno decisivo. Tante cose stanno velocemente cambiando sullo scenario nazionale e internazionale. Nessuno crede più ai soliti tromboni che predicano l’austerità per gli altri e l’abbondanza per se stessi. Il giochino è oramai sfacciato e scoperto. In molti non intendono più farsi abbindolare da parole vuote come “sacrifici”, “responsabilità”, “stabilità” e “mercati”, cavalieri di una apocalisse economica che cammina sulle gambe di Maestri Venerabili del calibro di Mario Draghi e Wolfang Schauble. Pur frastornati da una propaganda subdola e incessante, gli italiani cominciano ad intuire di essere stati raggirati. La mistica dei “sacrifici che salvano” non incanta più nessuno, a parte qualche inguaribile idiota-credulone utile solo a fini statistici. Oggi non sarebbe possibile piazzare impunemente al potere un figuro come Mario Monti, massone reazionario imposto alla guida dell’Italia per assecondare bramosie private. Il 2015, tanto per cominciare, si apre con una bella notizia: Napolitano se ne va.

  • Foa: avremo un altro Napolitano, pronto a tradire l’Italia

    Scritto il 04/1/15 • nella Categoria: idee • (5)

    L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio alla sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».
    Non illudiamoci che a Napolitano subentri un eletto «autenticamente patriottico», continua Foa, visto che le condizioni non sono affatto cambiate: il “padrone” è sempre l’élite finanziaria europea neoliberista, mercantilista, neo-feudale, quella a cui – probabilmente con l’eccezione del solo Berlusconi, peraltro prigioniero dei suoi conflitti d’interesse – ogni potente italiano ha sempre obbedito, negli ultimi decenni. Napolitano non fa certo eccezione: «Non è stato un buon presidente – scrive Foa – per la semplice ragione che non ha rispettato l’essenza, l’anima, la missione di un Capo dello Stato: che è quello di servire il popolo, di rispettare in modo inflessibile la Costituzione, di difendere la sovranità». L’uomo del Colle, invece, «appartiene a quella élite di politici che, in Italia ma non solo, di fatto si prodiga per svuotare di significato proprio la carica, le istituzioni e in ultima analisi il paese che dovrebbe difendere», anche se lo fa illudendo l’opinione pubblica con «il rispetto formale del mandato e della Costituzione», così come «i richiami ai valori nazionali e al senso dello Stato». Un copione «rituale, retorico, obbligato».
    Ma attenzione: «Il tono cambia quando il presidente parla di Unione Europea; in questo caso – osserva Foa – trapela l’appartenenza, la convinzione, il senso storico di una missione». Infatti, «il presidente che dovrebbe difendere la Costituzione curiosamente lancia continuamente appelli alla cessione di sovranità e di poteri a favore della Ue, di cui auspica l’unione politica», naturalmente «per il bene degli italiani». Peccato che Napolitano si sia prodigato «per difendere, proteggere e al momento giusto lanciare quei politici o quei tecnici che la pensano come lui e con cui condivide le stesse referenze sovranazionali», non esattamente “amiche” dell’Italia. «E’ stato Napolitano ad avallare il colpo di Stato con cui le élite europee hanno fatto cadere Berlusconi nel 2011, attribuendo simultaneamente l’incarico al suo grande amico e sodale Mario Monti, tra l’altro beneficiandolo della nomina improvvisa a senatore a vita; dunque rendendo possibile l’attuazione di un piano che, come ormai ampiamente dimostrato, è stato concepito mesi prima della caduta del Cavaliere».
    Poco dopo, è lo stesso Napolitano a spingere «un altro giovane emergente sodale», Enrico Letta, a Palazzo Chigi. E poi, dopo pochi mesi, a «benedire l’improvvisa ascesa, ma gradita a certi ambienti, di Matteo Renzi, superando un’antipatia e una diffidenza personale che ora traspare, ma a cui si è inchinato in ossequio a logiche che al popolo non vengono mai spiegate: un “obbedisco” a modo suo». Nessuna illusione sul futuro: le forze che dominano in Parlamento, inclusa Forza Italia, non osano infatti mettere in discussione i diktat del rigore, dal Fiscal Compact al pareggio di bilancio, cioè le misure (da tutti votate) che in tre anni hanno “suicidato” il paese, facendogli pagare una flessione del Pil da 450 miliardi e provocando la catastrofe della disoccupazione, il fallimento di migliaia di aziende, il crollo dei consumi e del gettito fiscale, l’esplosione di un debito pubblico micidiale perché non denominato in moneta sovrana. Gli italiani fiutano la rovina: tre anni di guerra, milioni di poveri, le pensioni tagliate dalla riforma Fornero votata anche dal Pd. Italia kaputt, come voleva il “padrone” tedesco che temeva la concorrenza del made in Italy. Ecco perché «via un Napolitano se ne farà un altro, che offra le stesse garanzie e vanti le stesse appartenenze», profetizza Foa. «Perché questa è la logica del potere che governa davvero l’Europa. E dunque anche quel che resta dell’Italia. Ma agli italiani non va detto e men che meno spiegato».

    L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio all’obbedienza ai poteri forti da parte della sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».

  • Hathor Pentalpha e Isis, il romanzo criminale che ci attende

    Scritto il 02/1/15 • nella Categoria: Recensioni • (7)

    Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.
    Si tratta di massoni speciali, potentissimi, interconnessi fra loro nel super-network segreto delle Ur-Lodges. Uomini del massimo potere, abituati da sempre a influire nelle grandi decisioni geopolitiche, condizionando istituzioni che – in Occidente, a partire dagli Usa – vengono considerate esse stesse una sorta di emanazione massonica: senza il secolare impegno laico della “libera muratoria” europea nella lotta contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico, non avremmo avuto gli Stati moderni, la scienza moderna, la cultura moderna. Erano massoni i maggiori scienziati – da Newton a Einstein – così come i maggiori letterati e musicisti. Massoni anche i padri fondatori degli Stati Uniti. Massone l’americano Roosevelt, spettacolare campione della spesa pubblica vocata allo sviluppo della piena occupazione, secondo il credo del più grande economista del ‘900, il massone inglese John Maynard Keynes, su cui si basa tutta la sinistra europea marxista e post-marxista che ha messo in piedi il grandioso sistema di protezione sociale del welfare, fondato sulla sovranità democratica e monetaria per mitigare gli appetiti antisociali del “libero mercato”.
    La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promossa dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite, l’assemblea planetaria eretta sulle rovine della Seconda Guerra Mondiale, prefigura un’umanità redenta, liberata, globalizzata nei diritti e nelle aspirazioni al futuro. Esattamente il contrario dell’attuale globalizzazione neo-schiavistica, aristocratica, mercantilista, neo-feudale. Un disegno cinico e reazionario, oggi chiamato semplicemente “crisi”, sviluppato negli anni ‘70 dai ristrettissimi circoli elitari internazionali preoccupati dall’avanzata del loro grande nemico: la democrazia. Da qui il famigerato memorandum di Lewis Powell per stroncare la sinistra in tutto l’Occidente e il manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e traviarlo, in modo che non servisse più l’interesse pubblico, ma obbedisse ai diktat delle grandi lobby, l’industria delle armi, le grandi multinazionali invadenti e totalitarie.
    Una storia già raccontata? Sì, anche, da diversi analisti “eretici”. Ma mai, finora, dallo sconcertante punto di osservazione del massone Magaldi, che fornisce dettagli inediti e spiegazioni spiazzanti, partendo da una rivelazione capitale: tutti gli uomini del massimo potere, nel ‘900, sono sempre stati accomunati dall’iniziazione esoterica. Questo fa di loro gli esponenti privilegiati di un circuito cosmopolita autoreferenziale e invisibile, protetto, ma al tempo stesso profondamente dialettico, non sempre concorde. Anzi, proprio alla guerra sotterranea che ha dilaniato il “terzo livello” del super-potere è dedicata la straordinaria contro-lettura di Magaldi: che nel golpe in Cile, ad esempio, non vede solo il noto complotto delle multinazionali americane per colpire il governo socialista, pericolosamente amico dei lavoratori e dei loro salari, ma anche – e soprattutto, in questo caso – il ruolo decisivo del massone Kissinger nel colpo di Stato promosso dalla Cia contro il massone Allende, come monito all’intera America Latina, da ridurre a periferia coloniale, e anche alla stessa Europa, dove le stesse “menti raffinatissime” hanno organizzato il “golpe dei colonnelli” in Grecia e i tre tentativi di colpo di Stato in Italia, affidati a Borghese e Sogno ma supervisionati da Licio Gelli, emissario della potentissima superloggia “Three Eyes”, quella di Kissinger.
    Sul fronte opposto, si è mossa nell’ombra la “fratellanza bianca” delle superlogge progressiste, per tentare di rintuzzare i colpi dei “grembiulini” oligarchici. Come in un romanzo di Dan Brown, in un film di Harry Potter? Non a caso, sostiene Magaldi: proprio nel cinema e nella letteratura, negli ultimi anni, si è concentrata l’azione delle Ur-Lodges democratiche, in attesa di una grande riscossa – pace contro guerra, diritti contro privilegi – di cui lo stesso libro del “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla superloggia progressista “Thomas Paine”, è parte integrante. Per credere a Magaldi, all’inizio della lettura, occorre accettare di indossare i suoi occhiali. Poi, però, già dopo poche pagine, diventa impossibile togliergli: quelli che aggiunge, infatti, sono preziosi tasselli che spiegano ancor meglio i passaggi-chiave della storia del “secolo breve”, senza mai discostarsi dalla verità accertata, dalla storiografia corrente. Solo (si fa per dire) Magaldi aggiunge nomi e cognomi. Completa la storia che già conosciamo integrandola con indizi inequivocabili, che illuminano retroscena finora rimasti in ombra.
    I riflessi della “grande guerra” che Magaldi racconta li stiamo pagando oggi: la crescita delle masse in Occidente è finita, e il mondo è sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. Tutto è cominciato alla fine degli anni ‘60, prima con la morte di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, poi con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King, che le Ur-Lodges progressiste volevano entrambi alla Casa Bianca. Nessuno si stupisca, dice Magaldi, se da allora la sinistra è stata sconfitta in modo sistematico: hanno vinto “loro”, i padreterni neo-feudali che volevano confiscare i diritti democratici e le garanzie del lavoro, retrocedendo i cittadini occidentali al rango di sudditi impauriti dal futuro e assediati dal bisogno. Sempre “loro”, gli egemoni, si sarebbero persino abbandonati a un clamoroso regolamento di conti: il clan che voleva George Bush alla Casa Bianca avrebbe fatto sparare a Reagan, e i sostenitori occulti di Reagan, per rappresaglia, di lì a poco avrebbero promosso l’attentato simmetrico a Wojtyla, eletto Papa anche col sostegno occulto degli amici di Bush.
    Poi, su tutto, è calato l’ambiguo sudario della pax massonica, suggellato nello storico patto “United Freemasons for Globalization”, sottoscritto nel 1981 non solo dalle superlogge occidentali di destra e di sinistra, ma anche dai “confratelli” sovietici alla vigilia della Perestrojka di Gorbaciov e dagli stessi cinesi, in vista delle grandiose riforme del “fratello” Deng Xiaoping. Peccato che però qualcuno abbia “esagerato”, riconosce il super-massone oligarchico che si firma “Frater Kronos”, nella sconcertante appendice del libro di Magaldi, in cui quattro pesi massimi delle Ur-Lodges si confrontano sulla trattazione, dopo aver aiutato il massone italiano a mettere in piazza tanti segreti di famiglia. “Frater Kronos”, su cui si lesinano le informazioni personali per mascherarne l’identità, dimostra l’autorevolezza del grande vecchio del potere occidentale. «No, non sono il fratello Kissinger», scherza, quasi a suggerire che potrebbe trattarsi di un pari grado, del calibro di Zbigniew Brzezinski. Anche “Frater Kronos” – chiunque egli sia in realtà – conferma l’allarme: qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita a una superloggia definita inquietante, pericolosa e sanguinaria, denominata “Athor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.
    Per questa missione, si legge nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro lo schermo della “primavera araba”. Il nuovo bersaglio è la Russia di Putin? C’è una precisa geopolitica del caos: e i golpisti occidentali puntano sempre sulla loro creatura più grottesca, il fondamentalismo islamico. Ci stanno lavorando dal lontano 2009, quando i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Regista dell’operazione? Sempre loro: la famiglia Bush. Per la precisione il fratello di George Walker, Jeb Bush, che vorrebbe fare di Al-Baghdadi il nuovo Bin Laden, da spendere per le presidenziali 2016. Dietrologia? Anche qui, “Massoni” fornisce chiavi inedite, partendo dall’attitudine esoterica degli iniziati: Isis non è solo il nome dell’orda terroristica messa in piedi da segmenti della Cia, è anche quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, carissima ai massoni che si definiscono anche “figli della vedova”. In alcuni testi antichi, Isis è chiamata anche con un altro nome, Athor. Proprio come la superloggia di Bush e Blair. Il Medio Oriente sta bruciando, è tornato lo spettacolo dell’orrore dei tagliatori di teste. “Frater Kronos” è preoccupato, il 2015 comincia male. Sicuri che non sia il caso di indossarli ancora, gli occhiali di Gioele Magaldi?
    (Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).

    Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.

  • Il paradiso di Severgnini, questo falso Occidente criminale

    Scritto il 01/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).
    E poco importa se questi movimenti hanno storie e radici socioculturali diverse nelle diverse situazioni, tanto ormai si può giocare sul luogo comune di un Islam radicale globalizzato e omologato che esiste solo nell’imaginario dei media del “mondo libero” (salvo poi dover fare i salti mortali come in Siria, dove il mostro Bashar al-Assad e i “terroristi” del Pkk curdo vengono ora considerati alleati nella lotta contro i super mostri dell’Isis). Subito dopo la “cleptocrazia” di Putin che tenta di “riesumare la Grande Russia” aggredendo l’Ucraina; e qui – a parte la faccia tosta di definire cleptocrazia il regime russo quando si è cittadini della nazione più corrotta del mondo, come hanno appena dimostrato gli scandali Mose, Expo e Roma Mafia – c’è una palese inversione della realtà storica, visto che ad assediare la Russia e a tentare di colonizzare i paesi ex comunisti dell’Est Europa è stato semmai, dopo il 1989, proprio il “mondo libero” occidentale.
    Infine l’eterno, ridicolo (per la sua irrilevanza geopolitica) bersaglio di Pyongyang, un regime da operetta che viene presentato come una terribile minaccia per la libertà, solo per avere orchestrato alcuni attacchi informatici contro la Sony, che ha prodotto un film satirico in cui si dileggia il regime nordcoreano (nel mondo libero non si censura: ci si limita a nascondere al pubblico la verità, come hanno dimostrato le rivelazioni di Assange e Snowden, i quali, per avere rovinato l’immacolata immagine dei campioni della libera informazione, sono ora costretti a vivere in esilio). Questi “nuovi Erode” possono farci paura, tuona Severgnini, ma non si illudano: essi non possono vincere; a vincere saremo noi, il mondo libero occidentale, e lo faremo con la forza delle idee e non con la violenza (peccato che sulla testa delle centinaia di migliaia di civili massacrati in Iraq e in Afghanistan, per tacere delle tante altre guerre combattute in nome della libertà, siano piovute bombe e non idee). Ma vediamo quali sono queste idee vincenti.
    Pace (abbiamo appena accennato ai virtuosi massacri spacciati per guerre umanitarie); benessere (la crisi iniziata nel 2008 ha svelato la realtà di un mondo in cui le disuguaglianze sono tornate ai livelli dell’800 e dove all’arricchimento smisurato di un pugno di esponenti dell’alta finanza corrisponde l’immiserimento di milioni di cittadini comuni); istruzione (vogliamo parlare dei costi di un’istruzione superiore che torna ad essere appannaggio di ristrette élite?); tolleranza (quella di un paese “libero” come gli Stati Uniti, dove migliaia di cittadini di colore disarmati vengono assassinati da poliziotti che non solo non rischiano di essere incriminati ma conservano anche il posto?), rispetto per le donne (anche se dietro la retorica del politically correct si nasconde la realtà di un lavoro femminile che continua a essere sottopagato, per tacere dei femminicidi perpetrati nelle normali famiglie borghesi).
    Che dire poi della presunta superiorità del mercato garante di libertà e democrazia: finché dovremo ancora ascoltare questa baggianata? È vero che è passato molto tempo da quando i regimi nazifascisti si sono dimostrati del tutto compatibili con il libero mercato, ma oggi, con la Cina totalitaria che si avvia a diventare la maggiore potenza capitalistica mondiale, siamo di fronte a una smentita ancora più clamorosa. Insomma, se questi sono i suoi “valori”, allora non solo è possibile che l’Occidente perda, ma si può dire che ha già perso, perché di quei valori non ne è rimasto in piedi nemmeno uno: a combattere i “nuovi Erode” non c’è Gesù, ma un vecchio Erode non meno feroce dei suoi nemici. Eppure, scrive Severgnini, i migranti rischiano ancora la vita in mare «per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto». Rischiano la vita perché a casa loro crepano di fame, ma qui, più che pasti, letti e ospedali, trovano squallidi ghetti assediati da folle razziste (do you remember Tor Sapienza?) e, se non subiscono passivamente qualsiasi angheria, o se sono “irregolari”, tremano eccome davanti a un poliziotto.
    Alla fine, quasi prevedendo le sarcastiche obiezioni avanzate in questo articolo, Severgnini le rintuzza con il solito refrain: «Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». È l’argomento con cui il pensiero unico neoliberista cerca di legittimare, sia pure con argomenti di basso profilo (“in fondo non abbiamo niente di meglio”), la propria egemonia culturale. Ed è proprio sul piano culturale, prima ancora che su quello politico, che occorre lavorare per smontarlo, come alcuni (non moltissimi purtroppo) cercano di fare. Uno di questi era Hosea Jaffe, un economista sudafricano morto qualche giorno fa in Italia, dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita. Marxista eretico (i marxisti ufficiali non gli perdonavano di avere rinfacciato alle sinistre occidentali la loro complicità con il colonialismo), iconoclasta fino ad accusare gli stessi Marx ed Engels di eurocentrismo non senza venature razziste, Jaffe è stato in prima fila nelle lotte contro diversi regimi coloniali e neocoloniali africani, e si è battuto perché partiti e sindacati occidentali riconoscessero che parte delle loro conquiste salariali e sociali erano finanziate dal supersfruttamento dei popoli del Terzo Mondo.
    Oggi le sue idee trovano una sia pure parziale applicazione nelle lotte di quei movimenti sudamericani, africani e asiatici che hanno cominciato a capire di doversi inventare un’alternativa globale al “mondo libero”. Possiamo solo sperare che lavorino abbastanza in fretta per impedire che la rabbia dei milioni di disperati esclusi dai nostri “paradisi” trovi rappresentanza solo da parte dei nuovi Erode di cui sopra. Senza dimenticare che quella rabbia inizia a montare anche qui e, in assenza di un’alternativa di sinistra credibile, rischia di imboccare la strada che aveva imboccato negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, una strada in fondo alla quale ci aspetterebbero orrori peggiori di quelli che oggi inquietano i sogni dei pacifici borghesi occidentali.
    (Carlo Formenti, “Severgnini e la vecchia retorica del mondo libero contro l’impero del male”, da “Micromega” del 22 dicembre 2014).

    È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).

  • L’eclissi di Napolitano e il clan occulto dei golpisti mondiali

    Scritto il 31/12/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Dopo nove anni passati sul Colle Giorgio Napolitano si appresta (forse) a lasciare. In poco tempo l’ex comunista migliorista ha trasformato un paese relativamente prospero come l’Italia in una valle di lacrime. In questo senso si può dire che Napolitano è stato molto efficace, riuscendo con abilità e costanza a realizzare gran parte degli obiettivi che alcuni occulti consessi gli avevano implicitamente affidato. Chi ha letto il libro di Magaldi, “Massoni”, sa come l’attuale presidente della Repubblica sia stato iniziato presso la Ur- Lodge “Three Eyes” nel lontano 1978. La “Three Eyes”, motore e centro decisionale di una offensiva reazionaria senza precedenti, supervisionò in passato una serie di accadimenti nefasti e sanguinari: dal golpe greco dei “colonnelli” fino all’operazione “Condor” in America Latina, molte delle tragedie conosciute e perpetuate dall’Uomo a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri portano indiscutibile il timbro della famigerata loggia dai “tre occhi”.
    Napolitano è quindi epigono di una stagione tragica, violenta ed infingarda, fortunatamente destinata per consunzione a chiudersi per sempre. Negli stessi anni in cui Kissinger e soci “cucinavano” in giro per il mondo le dittature militari poi personificate dai vari Pinochet e Videla, in Italia si riaffacciava il pericolo golpista. I tentativi del principe Junio Valerio Borghese prima e quello di Edgardo Sogno poi rappresentavano infatti coerenti tasselli di un mosaico globale. Grazie al cielo Arthur Schlesinger Jr., già “maestro venerabile” della superloggia progressista “Thomas Paine”, riuscì a proteggere la democrazia italiana dalla grinfie di alcuni noti “contro-iniziati”. La P2, giova ripeterlo, altro non era se non il braccio italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, centro elitario ed occulto che muoveva come pedine i tanti “Gelli” allevati e pasciuti in giro per il mondo.
    Proprio l’organica appartenenza presso una delle Ur-Lodges in assoluto più influenti ha permesso a Giorgio Napolitano di devastare di fatto l’Italia tra gli applausi scroscianti di un sistema mediatico appositamente “addomesticato”. La massoneria reazionaria sovranazionale, nelle sue diverse articolazioni, ha oggi affinato metodi ed approcci. Il nazismo classico, ora improponibile in Europa, è stato sostituito da un tecno-nazismo soft che uccide cavalcando il mito della “purezza del bilancio” in luogo dell’oramai vetusta “purezza della razza”. Per completare una torsione oligarchica in grado di affamare una gran parte di cittadini resi sudditi dalla paura e dal bisogno, è necessario quindi che tutti gli attori in commedia recitino lo stesso copione. Dal 2011 fino ad oggi Napolitano ha di fatto commissariato l’Italia, nominando premier-fantoccio con il chiaro obiettivo di assecondare bramosie private. Monti, Letta e ora Renzi hanno difatti  attuato politiche volutamente recessive, pensate per distruggere il tessuto economico italiano e diffondere miseria, disoccupazione e disperazione.
    Per questo la scelta del successore di Napolitano sarà indispensabile per capire quale piega prenderà l’Italia nei prossimi anni. Un nuovo Presidente della Repubblica organico alle Ur-Lodges neo-aristocratiche proverà infatti anche in futuro a neutralizzare gli esiti di una elezione libera e democratica, tenendo di continuo sotto scacco un Parlamento già declassato al ruolo di misero e decorativo orpello. Quelli che sperano nell’ascesa di un nuovo Presidente della Repubblica “tecnico” e “indipendente”, parlano in realtà in nome e per conto di quegli stessi mondi che da tempo selezionano ministri dell’Economia come Grilli, Saccomanni o Padoan. Chi esercita il potere in forza di un mandato popolare tenderà in linea di principio a difendere interessi diffusi. Chi, al contrario, come Monti o Padoan, ricopre posti di pubblica responsabilità senza avere un voto, evidentemente gode di altre fonti occulte di legittimità. Fonti che il libro “Massoni” smaschera, fornendo a chiunque le chiavi per comprendere genesi e ratio di alcuni accadimenti altrimenti apparentemente inspiegabili.
    (Francesco Maria Toscano, “L’eclissi di Giorgio di Napolitano, presidente della Repubblica in forza alla Ur-Lodge Three Eyes”, da “Il Moralista” del 22 dicembre 2014).

    Dopo nove anni passati sul Colle Giorgio Napolitano si appresta (forse) a lasciare. In poco tempo l’ex comunista migliorista ha trasformato un paese relativamente prospero come l’Italia in una valle di lacrime. In questo senso si può dire che Napolitano è stato molto efficace, riuscendo con abilità e costanza a realizzare gran parte degli obiettivi che alcuni occulti consessi gli avevano implicitamente affidato. Chi ha letto il libro di Magaldi, “Massoni”, sa come l’attuale presidente della Repubblica sia stato iniziato presso la Ur- Lodge “Three Eyes” nel lontano 1978. La “Three Eyes”, motore e centro decisionale di una offensiva reazionaria senza precedenti, supervisionò in passato una serie di accadimenti nefasti e sanguinari: dal golpe greco dei “colonnelli” fino all’operazione “Condor” in America Latina, molte delle tragedie conosciute e perpetuate dall’Uomo a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri portano indiscutibile il timbro della famigerata loggia dai “tre occhi”.

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