Archivio del Tag ‘privilegi’
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L’Ue: guerra alle porte? L’esercito contro chi sciopera
Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».«Nel quadro coordinato delle politiche di sicurezza – si legge – si stanno fondendo le responsabilità delle forze di polizia con quelle delle forze armate, e si stanno creando delle capacità comuni per affrontare le proteste sociali». La radio tedesca “Deutschlandfunk” ha appena parlato di questo studio, precisando che ufficialmente questo “progetto” dovrebbe riguardare solo interventi in paesi al di fuori della Ue. «Ma ai sensi dell’articolo 222 del Trattato di Lisbona, esiste una base giuridica, creata appositamente per il dispiegamento di unità militari e paramilitari all’interno di Stati membri della Ue, in crisi». Il trattato, spiega Krassnin in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato scritto da un gruppo di docenti universitari ed esperti nel settore della sicurezza europea, per la difesa e la politica estera. Nella prefazione, redatta dal “ministro degli esteri” dell’Ue, Catherine Ashton – sono definiti quali saranno i parametri a lungo termine che seguirà la politica di sicurezza dell’Unione Europea.Il contributo più ampio, dal titolo “L’Unione Europea e l’ambiente di sicurezza globalizzato”, riassume l’indirizzo del progetto: Tomas Ries, direttore dell’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali, indica che la Ue dovrebbe sempre «combattere i problemi sociali con mezzi militari». Durante la guerra fredda, racconta Krassnin, il professor Ries svolgeva mansioni di esperto di organizzazione per le forze armate del nord Europa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha rivolto le sue attenzioni allo studio della politica di sicurezza globale. Secondo Ries, la principale minaccia per la “sicurezza” europea si annida nella violenza di un prevedibile «conflitto provocato dalle disuguaglianze tra le classi socio-economiche che esistono nella società globale». Conflitti frutto di «asimmetriche tensioni verticali nel villaggio globale». In parole povere, conclude Krassnin, il principale “problema per la sicurezza” nell’economia mondiale globalizzata è la lotta di classe.Per illustrare queste “tensioni verticali asimmetriche”, Ries ha rappresentato le disuguaglianze sociali in un grafico. Nella parte superiore ci sono le multinazionali, il “Fortune Global 1000”, o le mille aziende che incassano la maggior parte del fatturato del mondo. Ha calcolato che, tutte insieme, queste multinazionali rappresentino in percentuale lo 0,001% della popolazione, cioè appena 7 milioni di persone. E ha evidenziato che tra loro e la grande massa della popolazione mondiale, quasi 7 miliardi di individui, esiste una distanza enorme, incolmabile. «Visivamente – aggiunge Krassnin, sempre citando Ries – appare evidente che saranno inevitabili conflitti sociali, economici e politici che scaturiranno da questa disuguaglianza». La ricetta di Ries? Semplice: il tecnocrate svedese «raccomanda di mettere la Ue “in simbiosi” con le multinazionali». Il potere di queste aziende «è in costante crescita nei settori della tecnologia e dell’economia», ma ormai «stanno acquisendo una forte influenza anche in altre aree». Dettaglio fondamentale: «Queste multinazionali hanno bisogno dello Stato e lo Stato ha bisogno di loro».Con la crisi finanziaria, osserva Krassnin, gli Stati hanno già fatto la loro parte per entrare “in simbiosi” coi super-poteri, facendo «pagare alla popolazione i debiti delle banche» e quindi peggiorando ulteriormente le condizioni di quella che un tempo si sarebbe chiamata “classe operaia”. «Come conseguenza di questi attacchi contro i fondamentali diritti sociali», aggiunge Krassnin, secondo Ries si svilupperanno inevitabilmente dei conflitti sociali che colpiranno importanti aree delle infrastrutture. Esempi: «Uno sciopero dei netturbini a Napoli, in Italia, uno sciopero dei vigili del fuoco a Liverpool, in Inghilterra, e dei controllori del traffico aereo negli Stati Uniti». In tutte queste situazioni, «l’esercito è già stato utilizzato per mantenere in funzione le infrastrutture». Anche se questo non era in realtà un lavoro di competenza dei militari, Ries avverte che nei prossimi anni l’esercito dovrebbe essere utilizzato a livello nazionale con sempre maggiore frequenza: il «lavoro di polizia» che dovranno svolgere le truppe sarà necessario sempre più frequentemente a causa di queste tensioni, si legge nel testo.«Dal momento in cui queste righe sono state scritte, i soldati sono già stati schierati contro i lavoratori in sciopero in Spagna e in Grecia ed è stata dichiarata la legge marziale per costringerli a tornare di nuovo al lavoro». Questo è “inevitabile”, perché «i ricchi dovevano essere protetti dai poveri», sostiene il professore. Dal momento che «la percentuale della popolazione povera e frustrata dovrà continuare ad essere molto elevata, le tensioni tra questo mondo e il mondo dei ricchi è destinata ad aumentare, con tutte le prevedibili relative conseguenze». E visto che «difficilmente entro il 2020 saremo in grado di superare il gap che causa questo problema», cioè i «difetti funzionali della società», ecco che «dovremo proteggere maggiormente la nostra incolumità». Chiaro? «Quando scrive “difetti funzionali”, Ries intende le conseguenze sociali del sistema di profitto globale, come anche le guerre che servono per garantire la funzionalità del sistema». Per Krassnin, «queste sono solo due delle componenti fondamentali del sistema capitalistico, che obbligano un numero sempre maggiore di persone alla povertà o a dover scappare dal proprio paese e diventare dei rifugiati».Proteggere i ricchi dai poveri? Ries la descrive come «una strategia contro i perdenti del sistema». Benché ammetta che sul piano morale tutto questo sia «estremamente discutibile», secondo Ries non ci sarà nessun’altra via d’uscita «se non saremo capaci di superare le origini di questo problema». La visione del professore è quella dell’élite, «disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi e le ricchezze contro l’opposizione del resto della popolazione», annota Krassnin. E attenzione: «Ries non propone solo un regime militare europeo per reprimere gli scioperi, ma anche un rafforzamento massiccio dei singoli Stati membri dell’Ue», in vista di una guerra. «Entro il 2020, al più tardi, la Ue dovrà espandere significativamente le proprie capacità militari», per affrontare «combattimenti ad alta intensità». La pace tra le grandi potenze, infatti, «dipende interamente dal funzionamento dell’economia mondiale: se il sistema dovesse rompersi, anche il tranquillo ordine politico andrebbe distrutto». Questo è dunque lo scenario a cui si prepara l’Unione Europea. Un ottimo modello operativo? Il golpe in Ucraina contro Mosca, che ha consegnato «poteri forti ai politici». Ulteriori sviluppi? Uno su tutti: «La guerra, all’estero e in patria».Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».
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Mujica, presidente impossibile: possiamo solo sognarcelo
Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.«A noi arrivano i successi ottenuti dai governi nati dall’ondata di cambiamento, ma bisogna ricordare che il loro emergere è stato favorito dal lavoro dei movimenti sociali latinoamericani, dei movimenti indigeni e sindacali», affermano i due autori del libro. «I governi progressisti e integrazionisti sono per lo più frutto di questo costante lavoro di riflessione, analisi e azione. Dall’altra le organizzazioni partitiche, nel caso dell’Uruguay, hanno saputo cogliere queste istanze e considerano i movimenti interlocutori alla pari». Appunto l’Uruguay, governato ora da un ex guerrigliero tupamaros. Il testo ci porta in questo Stato di soli 3 milioni di abitanti, principalmente agricolo dove «la terra ha un potere quasi religioso». Si ripercorre la biografia di Pepe Mujica – classe 1935 – il quale fin da giovane dimostra l’attaccamento alla vita rurale diventando un esperto di fiori (soprattutto giapponesi) da vendere in fiere e mercati. Ma la politica entra presto nella sua vita. Si forma ispirandosi al pensiero anarchico, successivamente sposa un marxismo eterodosso.Negli anni ’60 visita la Cina di Mao Zedong e la Cuba di Che Guevara rimanendo positivamente colpito dall’esperienza cubana, mentre dell’Unione Sovietica riporta il rifiuto verso un modello anchilosato a causa dell’enorme peso della burocrazia. Aderisce al Movimento di Liberazione Nazionale “Tupamaros” nel 1966, in un Uruguay in grande fermento politico: sono gli anni di una destra golpista che getterà le basi per il futuro regime. Mujica sceglie l’opzione militare. Il Mln, un gruppo armato di sinistra ispirato dalla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero (cañeros) del nord del paese, sindacalizzati da Raúl Sendic, è inclusivo e attira militanti politici e sindacali di diversa provenienza. «Fummo molto attenti – le parole di Mujica riportate nel libro – cercammo di evitare il più possibile lo spargimento di sangue. Perché eravamo imbottiti di questa percezione anche in quanto figli dell’Uruguay, un paese che ha determinate caratteristiche tra le quali quella della vita umana come un valore portante».Una guerriglia di liberazione principalmente urbana, che nel tempo è duramente piegata dalla repressione del governo: molti attivisti sono uccisi, la polizia scheda e sorveglia 300 mila persone. Lo stesso Mujica è arrestato e torturato nel 1971. Proprio l’esperienza di prigionia, di cui ben 12 anni in isolamento, è fondamentale per capire il suo attuale pensiero: «In quella cella, realtà e immaginazione erano tutt’uno». Uscito dal carcere, l’Uruguay è in via di cambiamento. Lui, animale politico, passa dalla lotta armata alle vie parlamentari. Viene eletto per la prima volta deputato il 15 febbraio 1995. Nel libro viene ricordato uno dei suoi interventi maggiormente esplicativi del suo pensiero: «La democrazia vera non esiste, è una meta da raggiungere, non so quando né so bene come. La democrazia è un insieme di compromesso, lavoro, partecipazione, gestione dell’economia e tutto il resto. Noi siamo lontani da tutto questo e mi sembra che ci si avvicinino di più i popoli indigeni».«La democrazia liberale massifica, non promuove lo sviluppo delle enormi potenzialità della società, non dà opportunità, è rigida. Il fatto che io accetti di navigare con questo sistema non significa che mi illuda che sia il sistema ideale. No! Da questo punto di vista sono socialista come esattamente trent’anni fa». Nella sua attività parlamentare, da subito si evince la necessità di restituire il Parlamento ai cittadini come luogo di discussione ed elaborazione: «Compagni, il mondo è sottosopra. Nel palco dovreste esserci voi e noi in basso ad applaudirvi». I giornali raccontano come si sia presentato il giorno dell’insediamento con jeans e maglietta, spettinato e con una vecchia motocicletta. Questo il suo stile di vita, estremamente umile, sobrio e quasi – lo definirei – francescano, che ad oggi ancora lo caratterizza. Nel 2010 l’elezione a presidente dell’Uruguay col “Frente Amplio”, dopo un’esperienza da ministro nel primo governo di centrosinistra nel paese.Da premier rinuncia a tutti i privilegi della cosiddetta casta. Rimane a vivere nella sua umile “chacra”, con la sua compagna (anch’essa militante storica del Mln, intervistata nel libro) e i suoi tre amatissimi cani. Nel poco tempo libero si dedica alla terra, al trattore, alla coltivazione. Come scrivono Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, «l’unicità di Mujica è data proprio dalla sua resistenza ad un certo tipo di ‘civilizzazione’». E poi l’innovazione nel paese. Soprattutto sui temi dei diritti civili: l’istituzione del matrimonio omosessuale (una rivoluzione per uno Stato latinoamericano) e la legalizzazione dell’uso della cannabis. Non solo. La decisione di lottare contro gli sprechi e di donare gran parte del suo stipendio ai poveri. Per ultimo, la campagna contro l’eccessivo uso delle armi: a chi dà indietro un fucile, lo Stato garantisce una bicicletta e un computer. Strumento sempre più utilizzato e diffuso nelle scuole dell’Uruguay.Un consenso nei suoi confronti in grande ascesa, anche se non mancano critiche. Qualcuno lo accusa di aver fatto poco a livello socio-economico, di non aver contrastato fino in fondo le politiche liberiste e di non aver ancora attuato riforme strutturali (come la riforma agraria). Mujica ne è consapevole. Parla di “umanizzazione del capitalismo” e, nel suo definirsi ancora socialista e libertario, chiede tempo per attuare completamente quel cambiamento promesso e annunciato. Pragmatico, rappresenta nel governo un uomo di grande mediazione che però ha avuto il coraggio di non abbandonare mai l’utopia: «Chi non coltiva la memoria, non sfida il potere», le sue parole. «E’ questo lo strumento per costruire il futuro che, in ogni caso, è nostro perché non hanno potuto sconfiggerci». Non un modello esportabile. Né un esempio da seguire in maniera pedissequa. Ma dall’Uruguay ci giunge un laboratorio politico-sociale che dovremmo analizzare e studiare per riscoprire da noi le ragioni della sinistra e riaffilare gli strumenti per la lotta dal basso. Il libro di Angelucci e Tarquini è prezioso per tali motivi.(Giacomo Russo Spena, “Il coraggio di cambiare, il nuovo Uruguay di Pepe Mujica”, da “Micromega” del 1° agosto 2014. Il libro: Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, “Il presidente impossibile”, Nova Delphi, 199 pagine, euro 12,50).Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.
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Riforme eversive: sabotare l’Italia, registi e complici
In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».“Il grande mutuo”, saggio di Antonino Galloni (Editori Riuniti) già nel 2007 preannunciava l’imminente esplosione di un’imponente crisi finanziaria e di liquidità dopo l’inizio, anni prima, delle problematicità nell’economia reale. Quasi contemporaneamente, «in epoca di grandi promesse europeiste al pubblico», un altro saggio, “Basta con questa Italia”, firmato da Marco Della Luna (Arianna Editrice, 2008), anticipava che l’Italia, come sistema-paese, con le sue aziende pubbliche e private meno competitive di quelle straniere, sotto-capitalizzate, sotto-finanziate e strozzinate, vessate da fisco e pubblica amministrazione, incapaci di significativi avanzamenti tecnologici, sarebbe stata «rilevata dal capitale straniero, che la avrebbe riformata e gestita secondo i propri interessi, e certo non secondo quelli degli italiani». Esattamente questo sta avvenendo, scrive oggi Della Luna nel suo blog, grazie alla piena collaborazione tra la politica italiana, l’Ue e la Bce, «che hanno creato ad arte le condizioni affinché ciò avvenisse». Problema capitale: la grave carenza di liquidità, «che si pretende di combattere con misure fiscali e budgetarie che invece la aggravano, gettando il paese nelle mani del capitalismo imperialista appoggiato dalla Bce».«L’eversione costituzionale – scrive Della Luna – consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico e oligarchico». Questa manomissione prende oggi il nome di “riforme”, corrompendo nel modo più subdolo anche il vocabolario italiano. Insieme allo stesso Nino Galloni, Della Luna mette a fuoco il quadro, regolarmente trascurato dai media: l’Italia è ko grazie al piano europeo nonostante la sua economia sia virtualmente ancora sana, e grazie alla disonestà organica della Germania, che bara clamorosamente. Primo appunto: «Nonostante tutto, le imprese italiane esportano più di quanto il sistema Italia importi: quindi hanno un buon potenziale medio di profitto, sono interessanti, fanno gola». Secondo punto: «La Germania ha fatto e fa imbrogli di tutti i generi», anche se – almeno fino a due anni fa, grazie a un ceto politico-imprenditoriale meno rapace di quello italiano – ha investito in innovazione tecnologica per abbassare il costo del lavoro. Terzo problema: da due anni, la stessa Germania sta contenendo la propria domanda interna.«E’ uno squilibrio dovuto a eccesso di avanzo commerciale, che corrisponde al disavanzo di altri», scrivono Galloni e Della Luna. «E’ vero che a tale avanzo non corrisponde un disavanzo dell’Italia, ma nondimeno quell’avanzo è utilizzabile per comperare, in Italia, servizi in via di privatizzazione». Si tengano presenti, poi, le intenzioni annunciate da Draghi: sostenere il credito bancario verso l’economia reale, «nei limiti del mandato della Bce». Si tratta di «espressioni allusive, indeterminate, ambigue, che prospettano una variabile ad oggi ancora tale». A pesare, intanto, è la realtà. Il capitale straniero ha potuto comprare a prezzo di saldo moltissime aziende italiane soprattutto grazie all’euro: la moneta unica agevola l’export tedesco sfavorendo quello italiano, e inoltre aumenta l’indebitamento dell’Italia, rendendo più difficile – per il nostro paese – ottenere crediti. Poi pesa anche la riduzione tedesca del costo del lavoro: «La Germania, aiutandosi slealmente con lo sforamento del limite del 3% del deficit sul Pil (autorizzato dall’Italia), nonché con trucchi contabili e con illeciti aiuti di Stato alle imprese, ha ridotto prima di Italia e altri paesi il suo costo del lavoro per unità di prodotto. Lo ha fatto anche introducendo forme di impiego a 250 e 450 euro al mese, dette minijob e midijob».Grazie a questi vantaggi strategici – moneta favorevole e minor costo produttivo, ottenuto anche “barando” – la Germania ha potuto esportare verso la periferia (Italia compresa) molto più di quanto prima importava da essa, «realizzando così per molti anni forti saldi attivi della bilancia dei pagamenti, e indebitando quei paesi verso di sé, tanto più che prestava loro soldi per importare i suoi prodotti (caso estremo: la Grecia)». Questo ha permesso a Berlino di «rastrellare a basso costo aziende valide o potenzialmente produttive e redditizie di quei paesi, per integrarle nei propri cicli produttivi», lasciando ai paesi d’orgine – come l’Italia – soltanto «le briciole dei margini di utile», o addirittura chiudendo aziende concorrenti di quelle tedesche. «Gli utili di queste aziende rastrellate – scrive Della Luna – vengono trattenuti o deportati in Germania». Di male in peggio: nel settore dei servizi pubblici, l’operazione di “rastrellamento” si sta estendendo con la partecipazione della Francia.Beneficiando di posizioni di monopolio e contando su una domanda costante, quello dei servizi pubblici – nel quale è facilissimo incrementare le tariffe – è un settore che produce fortissimi utili e rendite. Soldi, continuano Galloni e Della Luna, che «saranno sempre più raccolti dalle tasche dei cittadini e delle imprese italiane per essere deportati in Germania e in Francia: probabilmente l’asse franco-tedesco per dominare l’Ue si basa su accordi di questo tipo». Al fine di massimizzare l’utile di questa operazione, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, «questo capitalismo mercantilista e imperialista ha bisogno di fare le cosiddette riforme, le quali in sostanza sono riduzioni dei diritti economici e non economici dei lavoratori anche autonomi, aumento della loro sudditanza al datore di lavoro, aumento dei livelli di precariato, di disoccupazione e sotto-occupazione in funzione di battere la forza contrattuale dei lavoratori». Analogamente, «vengono colpiti i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani, commercianti, che non si prestano al piano di conquista dell’imperialismo mercantile franco-tedesco».Ed ecco il trucco finale: «Per realizzare pienamente questa operazione di take-over sui servizi pubblici, è necessario farli privatizzare. A questo fine essi vengono, attraverso opportune campagne mediatiche, presentati come inefficienti, corrotti, dispendiosissimi, costosi, parassitari». Inoltre, «non si dice che investire in essi aumenterebbe la loro efficienza, in quanto li doterebbe di strumenti oggi mancanti e avrebbe un sicuro effetto di moltiplicatore del Pil, mentre il togliere loro fondi ha un effetto demoltiplicatore». Non è tutto: «Come ulteriore strumento per sabotarli, li si sta sovraccaricando di oneri e spese anche attraverso la politica di immigrazione di massa senza limitazioni, che sta ponendo un onere crescente e potenzialmente enorme alla spesa pubblica per l’accoglienza, mantenimento, cure sanitarie, alloggio, ricongiungimenti familiari». Profezia: «Quando la situazione diverrà esplosiva per i crescenti costi così suscitati da una parte e per la crescente disoccupazione e recessione dall’altra, con ulteriori maggiorazioni delle tasse, la popolazione stessa chiederà la privatizzazione estesa dei servizi sociali ora ancora in mano pubblica. A quel punto, capitali stranieri entreranno e occuperanno queste posizioni di mercato collegate a rendite monopolistiche».In altre parole, la fine dello Stato sociale. «Sottolineo che la Germania e i suoi satelliti riescono a sfruttare questo processo perché hanno eseguito prima dell’Italia e di altri paesi le riforme consistenti nella riduzione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori», precisa Della Luna. In questo modo, anticipando i “concorrenti” europei, Berlino ha acquisito «quei vantaggi commerciali, quegli attivi negli scambi con l’Italia, quei conseguenti crediti verso di essa», che ora spende «per rastrellare le imprese e i servizi italiani». La Bce, l’Ue, Maastricht, l’euro, i vertici istituzionali: «Tutti concorrono a questo scopo strategico, spingendo per le “riforme” che l’Europa ci chiede». Tutti questi soggetti «lavorano per cedere e trasferire al capitale straniero le risorse e le aziende del paese, e insieme per trasformare i lavoratori italiani in forza lavoro sottopagata e sottomessa dei nuovi padroni finanziari stranieri». Tutto ciò accade per una ragione semplicissima: la politica italiana glielo consente. «In compenso di questa prestazione di tradimento, la nostra casta politica si riserva il ruolo di complice dei capitali stranieri, onde mantenere le sue poltrone e i suoi privilegi».Ecco perché, intorno a questo progetto, «la partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme», che ovviamente «non c’entrano col rilancio economico». L’Italicum, per esempio, «è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica». La casta punta soprattutto sulla nuova legge elettorale e sul nuovo Senato, «che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti». Non a caso il Senato ridisegnato dal Patto del Nazareno «viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia: potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri». Naturalmente è già in programma anche una riforma della giustizia, «per mettere al guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica». Scontato: «La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia».Scoperto il gioco, c’è da mettersi a piangere: «Le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna», sottolinea Della Luna. «Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’euro, dall’Ue, e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano». In parallelo, dicono Della Luna e Galloni, occorre «avviare una revisione del concetto di moneta oggi in uso, la “fiat currency”, e far capire, con tutte le conseguenze, che essa non è una merce né una materia prima, ma un simbolo, generato col computer e senza costi». Che senso ha, dunque, parlare di scarsità o mancanza di mezzi finanziari per gli investimenti necessari e utili alla società? Al contrario: «E’ un crimine eversivo e contro l’umanità fingere che vi sia una tale scarsità o mancanza, e usare questa finzione per impadronirsi di un paese e della sua economia reale, e per deprimere i salari e i livelli occupazionali». Raccontare la menzogna suprema – dire cioè che ci sia scarsità di moneta, e che la moneta abbia un costo di produzione – significa solo imporre un progetto di dominio, per trasferire la ricchezza reale strappandola a cittadini, imprese, famiglie e lavoratori, per consegnarla «nelle mani del cartello dei produttori dei mezzi monetari che in cambio non produce e non dà alcuna ricchezza reale alla società».In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».
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Industrie e banche agli stranieri, per Renzi va bene così
La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Grillo accusa tutti, tranne i veri colpevoli del disastro
Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».In prima linea, sugli schermi, ci sono i soliti partiti, quelli che «si accapigliano su tutto» ma, alla resa dei conti, «non smettono mai di assecondare l’odierno assetto delle democrazie occidentali, sull’asse che lega i vertici di Usa e Ue». Il punto da affrontare, scrive Zamboni in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è quello della loro credibilità o meno «come rappresentanti degli interessi popolari, nella prospettiva non già di una mera attenuazione nelle iniquità esistenti, ma di un loro superamento». Il che implica, ovviamente, «la rimozione delle cause profonde che hanno determinato tali disparità, che sono talmente forti, deliberate e persistenti da costituire delle vere e proprie ingiustizie». La situazione è ormai talmente grave «da esigere che i responsabili di una sopraffazione così cinica e insistita vengano quantomeno identificati e denunciati con estrema chiarezza, in attesa di poterli neutralizzare come meritano».Puntare il dito contro la “casta” italiana? Non basta: «Si tratta di un’espressione equivoca e fuorviante», perché secondo Zamboni «la chiave di volta del disastro italiano non risiede nel malgoverno esercitato a colpi di privilegi ingiustificati e di autentiche ruberie da codice penale: per quanto gravi, e da sanzionare duramente, queste condotte non sono altro che fenomeni collaterali». Per l’analista del “Ribelle”, «la colpa essenziale, la colpa “storica”, consiste nell’aver lasciato che le sovranità nazionali venissero sacrificate ai diktat finanziari, lanciati ora dalle banche centrali, ora da quello che potremmo definire “il fronte della speculazione”, includendovi tanto gli operatori di Borsa quanto i media più o meno specializzati, le agenzie di rating e ogni altro soggetto che si dia da fare per puntellarne le attività – e il terrificante potere».Grillo? E’ rimasto lontanissimo dalla meta. In questi anni «si è certamente scagliato contro molti degli abusi in corso, mettendo nel mirino anche alcune misure-capestro sovrannazionali come il Fiscal Compact e sollecitando un referendum sulla permanenza dell’euro», ma tuttavia «si è sempre astenuto dal tracciare un quadro complessivo delle sue chiavi di lettura e dei suoi obiettivi», al punto che «a tutt’oggi non è dato sapere, con la dovuta certezza, se lui e il M5S rifiutino il modello neoliberista in quanto tale, o se invece si accontentino di auspicarne una variante migliorativa». Una versione “light” che, «pur introducendo qualche limite all’azione dei privati a caccia di lucro e pur esercitando un controllo assai più stringente sui politici», rischia di restare imperniata sui principi e sui dogmi «dello sviluppo infinito e della ricerca incessante del profitto».«Ciò che resta indefinito, quindi, è proprio l’aspetto cruciale», conclude Zamboni. «E da questo mancato chiarimento derivano, per forza di cose, le contraddizioni e le divergenze anche interne che si sono manifestate soprattutto negli ultimi sedici mesi, dopo il grande successo alle politiche del febbraio 2013 e il massiccio ingresso in Parlamento». Se il movimento si è diviso fra trattativisti e oltranzisti dell’opposizione, oggi deve confrontarsi con l’ultima svolta di Grillo per provare a sfidare il Pd sulle riforme: «Se si tratta di un riposizionamento, che mette fine all’epoca del “Tutti a casa”, allora è una decisione strategica: al posto della rivoluzione, la collaborazione», per di più «con personaggi omologatissimi e infidi alla Renzi». Tutto questo, però, è solo tattica. La domanda a monte resta inevasa: cosa pensa, Grillo, del modello di dominio economico-finanziario che ha sequestrato la sovranità nazionale puntando a far sparire lo Stato (e la democrazia) privatizzando tutto, e arrivando per questo a manomettere la Costituzione?Grillo? Ottimo, anzi pessimo. Ha sparato contro i corrotti di casa, senza però mai – neppure una sola volta, in sette anni – alzare il mirino contro i “mandanti” della grande crisi, di cui i partiti dell’establishment sono i semplici maggiordomi. Netto il giudizio di Federico Zamboni, editorialista del “Ribelle” diretto da Massimo Fini, che si esprime «a sette anni esatti dall’annuncio, nel giugno 2007, del primo V-Day, che poi si svolse il successivo 8 settembre», e a quasi cinque dalla costituzione ufficiale, il 4 ottobre 2009, del “Movimento 5 Stelle”. L’accusa principale: nonostante l’impegno, Grillo non ha saputo affrontare il vero nodo della crisi, che dal 2007 «ha fatto emergere con ancora più forza la questione fondamentale del nostro tempo: il rapporto tra società ed economia “di mercato”». In altre parole, la “guerra” «tra la libertà di autodeterminazione dei singoli governi, e quindi dei rispettivi popoli, e i condizionamenti imposti dal modello dominante, incardinato sugli interessi delle oligarchie che gestiscono la finanza internazionale».
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Farsi votare dalle proprie vittime: il capolavoro di Renzi
Le elezioni del 25 maggio sono state un mega-sondaggio sul rapporto che i cittadini d’Europa intrattengono con l’Unione Europea, lo Stato multinazionale in costruzione al di fuori di ogni loro possibile controllo: tutto infatti resta affidato alla concertazione intergovernativa, quindi dei paesi economicamente più forti, ma soprattutto alla pressione dei “mercati”. Il sondaggio, scrive Dante Barontini su “Contropiano”, ha mostrato un continente diviso in “nazioni”, preoccupato del futuro dipinto dai tecnocrati di Bruxelles e – per mancanza di alternative chiare – tentato dal semplice ritorno al nazionalismo. «Lo avevano in qualche modo dimostrato le campagne elettorali di tutti i partiti, in ogni paese, incentrate esclusivamente sui problemi e le dinamiche interne, anziché su quelle comunitarie. Gli unici paesi relativamente stabili sono la Germania, come ampiamente previsto, e l’Italia renziana (molto a sorpresa)». L’Europa non c’è come “spirito pubblico”: esiste solo una Unione Europea «arcigna custode di regole e conti che non tornano più».La retorica europeista degli spot istituzionali sulla libera circolazione delle persone (studenti, professionisti, imprese, turisti) dimenticava completamente i disastri materiali provocati sia dalla crisi. «Le preoccupazioni espresse immediatamente da Barroso (presidente uscente della Commissione) sono ben più realistiche dell’ottimismo di facciata sparso dai media mainstream italiani», scrive Barontini. «Con le politiche fin qui adottate, la “costruzione europea” è a rischio». Quella costruzione aveva due pilastri fondamentali, Francia e Germania. «La prima è in frantumi, avendo subito tutti gli svantaggi della costruzione comune; la seconda è relativamente stabile solo perché ha beneficiato in modo clamoroso della sua posizione “centrale” sul piano produttivo, manifatturiero, finanziario e monetario». Se a Berlino c’è solo qualche scricchiolio, il 7% dei centristi no-euro di Afd, Alternative fur Deutschland, dagli altri paesi – anche senza calcolare la evidente fuga transatlantica della Gran Bretagna – sono arrivati segnali univoci: così non si va avanti.Quasi ovunque, i governi in carica hanno pagato dazio alle misure di austerità «imposte a schiaffi, ricatti e manganellate in piazza». Le contromisure, da spacciare come “riforme” dei trattati europei, sono già in via di definizione. «È più che probabile un innalzamento di alcuni dei parametri di Maastricht (in primo luogo quel ridicolo 3% nel rapporto tra deficit e Pil)», aggiunge “Contropiano”, «ma intanto si è approvato un trucco statistico-contabile di immense proporzioni: da ottobre di quest’anno tra i fattori economici validi per il calcolo del Pil di un paese saranno compresi anche “attività economiche” come la prostituzione, lo spaccio di droga e il contrabbando». Una dose incredibile di droga “statistica”, dice Barontini, per un paese come l’Italia, dove queste voci sono stimate intorno al 27% del Pil (senza calcolare le ricadute da “indotto” su buona parte dell’economia sommersa). Truccati i conti, «resta il problema di far pagare le tasse alle varie mafie e ai “papponi”, ma basterà attingere alle legislazioni di altri paesi Ue per raccogliere qualche risultato “vendibile” al grande pubblico». L’alterazione contabile – che alleggerisce di colpo il rapporto deficit-Pil – è un “regalo” dell’Unione Europea che però a Bruxelles non costerà nulla, e serve ad evitare il costo (insostenibile) del “salvataggio” di paesi come l’Italia.Sul piano politico, da noi «è in corso un’operazione reazionaria assai più complessa, quasi da manuale». Il governo Renzi? «Era troppo recente per poter essere riconosciuto colpevole delle peggiorate condizioni di vita e lavoro». Così, «nonostante la sua perfetta continuità con i governi precedenti – sia “politici” che “tecnici” – ha giocato con spregiudicatezza la carta della “rottamazione” delle vecchie facce dell’establishment per mantenere al posto di comando esattamente gli stessi assetti di potere». Un’operazione di chirurgia estetica, continua Barontini, fondata su uno sforzo comunicativo eccezionale per dimensioni, intensità, capacità innovativa. «Sembra l’eterno ritorno del pessimo destino italiota: tutto deve cambiare perché tutto resti uguale». Una parte considerevole del blocco sociale ex berlusconiano «ha piantato le tende in campo renziano, dando dimensioni “eccezionali” a una vittoria giocata sullo stesso campo degli avversari più temuti, i grillini: stesso “tutti a casa”, stesso giovanilismo esteriore, stesse incompetenze messe davanti alle telecamere». Ma l’operazione-Renzi è stata gestita con «una regia ferrea, “rassicurante”, di potere e per il potere, con un progetto chiaro (le riforme anticostituzionali e la dissoluzione delle regole del mercato del lavoro, la blindatura della rappresentanza politica e sidacale)», mentre Grillo è apparso «ondivago e verboso», e così «ha conquistato meno cuori di quante menti è riuscito a inquietare», relegando nell’astensionismo molti ex supporter.Domanda: come mai, solo in Italia, il precipitare della crisi e l’esplosione del malessere non si traducono in una solenne bocciatura del governo e del regime Ue? Premesse: c’è da fare i conti con una struttura sociale opaca, incluso quel 27% di Pil-fantasma. Inoltre, «buona parte della popolazione mette ancora insieme redditi “spurii”, cioè provenienti da fonti diverse: case di proprietà, risparmio investito in titoli di Stato, lavoro nero che affianca quello ufficiale». C’è anche una notevole “flessibilità” comportamentale, che permette di adottare strategie di sopravvivenza articolate, dalla “riscoperta della coabitazione” all’utilizzo dei pensionati come ammortizzatore sociale familiare. «Di fatto – sottolinea Barontini – la crisi ha fin qui “asfaltato” in modo selettivo», colpendo soprattutto i percettori di un solo reddito. Persone che si sentono isolate, e faticano a coalizzarsi: «Una condizione che istiga al suicidio, più che alla lotta, mentre nella maggioranza della popolazione che stringe la cinghia prevale ancora un atteggiamento alla “io speriamo che me la cavo”, dove la riduzione delle entrate è affrontata con la contrazione dei consumi e l’erosione del “patrimonio”».Se così è, prosegue “Contropiano”, la stessa forza politica di Renzi è altamente volatile: «Regge sulla eventuale disponibilità tedesca ad allentare alcuni parametri e su questo fronte potrà farsi forte della debolezza francese (e spagnola). Si glorierà del miglioramento statistico dei conti truccati. Ma resta in balia di una crisi globale che non passa e che sta per celebrare l’ingresso nell’ottavo anno consecutivo». Di sicuro, il “nuovo” potere «andrà avanti come un treno inarrestabile, o almeno ci proverà: il “semestre europeo” a guida Renzi è da questo punto di vista sia un banco di prova sia un’assicurazione contro “nervosismi” interni al blocco dominante». Servirebbe un contro-semestre ispirato a un’opposizione radicale: «Un’epoca è definitivamente chiusa», conclude Barontini. «Siamo già in un contesto post-costituzionale e ben poco “democratico”». Per i movimenti sociali si avvicina la tolleranza zero, a meno che non sappiano – ora o mai più – costruire un’allenza capace di contrastare il disegno egemonico che si nasconde dietro la maschera di Renzi.Le elezioni del 25 maggio sono state un mega-sondaggio sul rapporto che i cittadini d’Europa intrattengono con l’Unione Europea, lo Stato multinazionale in costruzione al di fuori di ogni loro possibile controllo: tutto infatti resta affidato alla concertazione intergovernativa, quindi dei paesi economicamente più forti, ma soprattutto alla pressione dei “mercati”. Il sondaggio, scrive Dante Barontini su “Contropiano”, ha mostrato un continente diviso in “nazioni”, preoccupato del futuro dipinto dai tecnocrati di Bruxelles e – per mancanza di alternative chiare – tentato dal semplice ritorno al nazionalismo. «Lo avevano in qualche modo dimostrato le campagne elettorali di tutti i partiti, in ogni paese, incentrate esclusivamente sui problemi e le dinamiche interne, anziché su quelle comunitarie. Gli unici paesi relativamente stabili sono la Germania, come ampiamente previsto, e l’Italia renziana (molto a sorpresa)». L’Europa non c’è come “spirito pubblico”: esiste solo una Unione Europea «arcigna custode di regole e conti che non tornano più».
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Internet per ricchi: i loro contenuti, veloci e costosi
«Immaginate un’autostrada con la corsia di sorpasso riservata ai soli proprietari di Mercedes e Bmw. Perché nel prezzo d’acquisto delle loro auto è incluso quel privilegio. Oppure, forse peggio ancora, la corsia veloce riservata a un paio di società multinazionali che gestiscono flotte di Tir, e hanno comprato quel diritto a farli circolare molto più in fretta di voi». Questo, avverte Federico Rampini, può accadere ben presto per la più importante di tutte le autostrade: Internet. La Rete da cui transita l’informazione, la comunicazione, ormai quasi ogni servizio essenziale, avrà qualità e servizi diversi. «Due velocità, per ricchi e poveri. È questa la conseguenza di una nuova normativa che sta per prendere forma negli Stati Uniti, la nazione che ha dato al mondo l’infrastruttura portante dell’èra digitale». Associazioni dei consumatori in rivolta, col mondo dei media dalla loro parte «nel denunciare la fine imminente di un principio che sembrava sacro: la Net Neutrality, la neutralità della Rete».Da un quarto di secolo, dalla nascita di Internet, il digitale ha avuto una sua ideologia egualitaria, l’idea cioè che Internet fosse potenzialmente “il grande livellatore”, che l’accesso alla conoscenza potesse abbattere barriere e diseguaglianze? Ora, scrive Rampini in un reportage su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, il principio stesso che siamo tutti uguali quando ci colleghiamo online, sta vacillando. «La novità non sarà visibile a occhio nudo, anzi sarà ben nascosta per l’utente medio». Infatti non si parla di tariffe differenziate per chi vuole accesso alla banda larga, a una connessione Internet più veloce e potente, differenziazioni peraltro già diffuse grazie al ruolo sempre più dominante degli smartphone come strumento di accesso a Internet. La battaglia che si è aperta riguarda l’altra estremità della Rete: i colossi che l’alimentano di contenuti, e gli altri colossi che gestiscono l’infrastruttura stessa.In America – e quindi, a cascata, nel mondo intero – è uno scontro fra titani: da una parte le telecom (Comcast, Verizon, At&t, TimeWarner) che quasi sempre sono anche i gestori della cable-tv e degli accessi Internet, e dall’altra Google con la sua filiale YouTube, il numero uno dei servizi di videostreaming Netflix, la Walt Disney, Microsoft con Skype, Apple con iTunes. «Sono questi ultimi – scrive Rampini – i colossi che distribuiscono contenuti: informazione, comunicazione, spettacolo, musica». La “santa alleanza” delle telecom preme da anni sulle authority Usa, per spuntare il diritto a far pagare di più questi maxiutenti. «L’argomento ha una sua logica: se Google con YouTube “occupa” una parte consistente della banda larga, chi gestisce l’infrastruttura vuole fargli pagare questo volume di traffico da smaltire ad alta velocità». La posizione delle telecom ha fatto breccia, e ora la svolta viene data per certa. “Presto avremo le corsie veloci per il traffico online”, intitola il “New York Times”.Fin qui, aggiunge Rampini, sembra una contesa tra i big del capitalismo americano: la posta in gioco, in apparenza, è solo una redistribuzione di guadagni fra di loro. Ma non la pensa affatto così un paladino degli utenti online, Todd O’Boyle, che dirige la Common Cause’s Media and Democracy Reform Initiative. Secondo O’Boyle, «agli americani fu promesso fin dalle origini un Internet senza caselli né pedaggi atostradali, senza corsie preferenziali, senza censure statali o private; se passano queste nuove regole la promessa sarà tradita». È dello stesso parere un altro difensore dei consumatori, Michael Weinberg dell’associazione Public Knowledge: «Si va verso una discriminazione commerciale, l’opposto della neutralità di Internet che si fonda sulla non-discriminazione».In che modo sarebbero colpiti i consumatori, gli utenti finali? «Anzitutto – spiega Rampini – se vince la lobby delle telecom e quindi conquista il diritto di prelevare tariffe diverse da Google e Amazon, non c’è da illudersi su chi pagherà il conto: sempre noi, perché ovviamente grandi gruppi come Google e Amazon scaricheranno il sovrapprezzo sull’utente finale». Altre conseguenze dannose sono addirittura più subdole, aggiunge il corrispondente di “Repubblica”: «È ovvio che in cambio della tariffa superiore, i big dell’economia digitale avranno diritto a un servizio migliore. È una distorsione piena di pericoli. Anzitutto perché noi stessi non ci accorgeremo, quando navighiamo in Rete, che alcuni giganti del commercio online o “aggregatori d’informazione” arrivano a noi molto più velocemente coi loro contenuti. Crederemo di andare su Internet in cerca di qualcosa, in realtà sarà “qualcosa” a trovare noi molto a scapito di altri contenuti forse migliori e più utili».Infine, una «minaccia enorme» incombe sui piccoli operatori: aziende locali, startup, giovani con idee innovative, creatori di contenuto originale (filmati, musiche, informazione, e-book). Per i loro siti, «l’accesso al pubblico finale sarà tutto in salita, perché verranno confinati nelle corsie lente, superati dalle colonne di Tir che trasportano i servizi di YouTube, Amazon, Netflix, Skype, Ebay, Disney». Le nuove regole, ribadisce Weinberg, imporranno un prezzo d’ingresso e quindi una barriera d’entrata, contro l’innovazione. Se fosse esistito un Internet a due velocità fin dalle origini, forse Microsoft avrebbe impedito l’emergere di rivali come Apple? Una delle forze della Silicon Valley è stata la “distruzione creatrice” che sconvolge periodicamente le gerarchie di potere, con dei ventenni che inventano una nuova azienda e sfidano i giganti già esistenti. Finita la Net neutrality, in una Rete a due velocità vinceranno sempre gli stessi?Uno scontro simile, conclude Rampini, si sta riproducendo in Europa. L’inglese Vodafone e la tedesca Deutsche Telekom imitano le loro sorelle americane: vogliono far pagare a Google e Netflix una tariffa superiore per l’uso intenso delle infrastrutture, inondate di video-streaming. Argomento insidioso: sostengono che, in mancanza di adegaumenti tariffari, non avrebbero incentivi a investire per modernizzare la Rete, facendo perdere terreno all’Europa rispetto agli Usa e all’Asia. Poi la trasparenza: le “corsie preferenziali” di fatto esisterebbero già, perché gli operatori di telefonia e Internet favoriscono più o meno occultamente l’accesso alle proprie consociate e filiali, per esempio boicottando Skype in Europa o rallentando vistosamente i film di Netflix per chi cerca di scaricarli dalla rete TimeWarner che ha la sua offerta di videonoleggio concorrente. Sancire l’esistenza della “corsia veloce” alla luce del sole renderebbe le cose più trasparenti? Finora l’Ue ha scelto di difendere la neutralità di Internet. Per il giurista americano Tim Wu, se si abbandona la neutralità «anche Internet diventerà omologato ad ogni altro aspetto della società americana: sarà diseguale, e per ciò stesso una minaccia alla nostra prosperità nel lungo termine».«Immaginate un’autostrada con la corsia di sorpasso riservata ai soli proprietari di Mercedes e Bmw. Perché nel prezzo d’acquisto delle loro auto è incluso quel privilegio. Oppure, forse peggio ancora, la corsia veloce riservata a un paio di società multinazionali che gestiscono flotte di Tir, e hanno comprato quel diritto a farli circolare molto più in fretta di voi». Questo, avverte Federico Rampini, può accadere ben presto per la più importante di tutte le autostrade: Internet. La Rete da cui transita l’informazione, la comunicazione, ormai quasi ogni servizio essenziale, avrà qualità e servizi diversi. «Due velocità, per ricchi e poveri. È questa la conseguenza di una nuova normativa che sta per prendere forma negli Stati Uniti, la nazione che ha dato al mondo l’infrastruttura portante dell’èra digitale». Associazioni dei consumatori in rivolta, col mondo dei media dalla loro parte «nel denunciare la fine imminente di un principio che sembrava sacro: la Net Neutrality, la neutralità della Rete».
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Retorica e privatizzazioni: com’è antico il nuovo Renzi
L’imprevisto plebiscito nazionale pro Renzi motiva i giudizi più severi da parte di Gomez e Padellaro sui toni sovreccitati della campagna grillesca, cui si aggiunge «una deleteria e autolesionistica esposizione dell’impresentabile Casaleggio», scrive Pier Franco Pellizzetti. Certo, il Beppe urlante e il Gianroberto sibilante «hanno terrorizzato non poco», ma il trionfo renziano «non può essere spiegato solo con un eccesso di decibel e un difetto di icone nella comunicazione avversaria». L’impressione di Pellizzetti è che i risultati delle europee siano “in maschera”, cioè di significato apparente, non reale. Se in Europa brillano gli euroscettici contrari all’establishment, visto come «un conglomerato colluso di imprenditori politici interessati esclusivamente al mantenimento delle proprie posizioni di potere», in Italia non ha vinto il centrosinistra col suo nuovo look anti-ideologico. C’è un equivoco: «Non ha vinto il Pd, ha vinto Renzi».Renzi, cioè «colui che è balzato sulla scena nazionale come portabandiera della rottamazione», e che da premier ha proseguito in questa retorica «facendo a cartellate con manager pubblici, statali e vertici sindacali». Tutti «abili bersagli polemici, mentre il presunto “angelo vendicatore” imbarcava sul suo carro interi spezzoni della vecchia classe dirigente politica, giornalistica e imprenditoriale: la combriccola di furboni consapevole che grazie al gattopardismo frenetico del giovanotto furbacchione era possibile rinsaldare l’antica presa del privilegio sull’intera società». Dunque, aggiunge Pellizzetti su “Micromega”, «assistiamo al successo del tradizionale trasformismo italico, che introietta nel suo presunto novismo anche altre – non propriamente gloriose – attitudini del genius loci». Nient’altro che l’apprezzamento di «un paese intimamente plebeo» per la regalia da parte del potente di turno, «si tratti del pacco contenente zucchero e pasta offerto dalla nobildonna benefattrice, la scarpa dal candidato sindaco di Napoli Achille Lauro o l’obolo di ottanta euro».«Il trasformista benefattore – continua Pellizzetti – vince perché l’intima natura del restyling renziano ancora non è venuta completamente alla luce, e anche perché presenta un profilo sfuggente che le invettive di Grillo e le frasi smozzicate di Casaleggio sono inadatte a intercettare criticamente». Cultura politica e la memoria storica? Non pervenute. «Tanto da far risultare sorprendente e originale un tipo che ripropone ricette blairiane vent’anni dopo l’originale, e da far sembrare “di sinistra” (socialdemocratica) pratiche puramente mimetiche e blandizie paternalistiche». Il tutto, «a effettivo vantaggio di un establishment che si camuffa da anti-establishment, secondo la migliore ricetta americana, da Clinton a Obama». Quanto durerà l’incantamento? «Certo più a lungo del necessario». Servirebero «letture attente e meno emotive del fenomeno Renzi», anche per «strappare la maschera dietro la quale il plebiscitato cela la sua vera natura di spregiudicato manovratore», edi cui è evidente «la forte vocazione privatistica», cioè la più pericolosa per un paese «che continua a precipitare in una crisi strutturale».L’imprevisto plebiscito nazionale pro Renzi motiva i giudizi più severi da parte di Gomez e Padellaro sui toni sovreccitati della campagna grillesca, cui si aggiunge «una deleteria e autolesionistica esposizione dell’impresentabile Casaleggio», scrive Pierfranco Pellizzetti. Certo, il Beppe urlante e il Gianroberto sibilante «hanno terrorizzato non poco», ma il trionfo renziano «non può essere spiegato solo con un eccesso di decibel e un difetto di icone nella comunicazione avversaria». L’impressione di Pellizzetti è che i risultati delle europee siano “in maschera”, cioè di significato apparente, non reale. Se in Europa brillano gli euroscettici contrari all’establishment, visto come «un conglomerato colluso di imprenditori politici interessati esclusivamente al mantenimento delle proprie posizioni di potere», in Italia non ha vinto il centrosinistra col suo nuovo look anti-ideologico. C’è un equivoco: «Non ha vinto il Pd, ha vinto Renzi».
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Ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush
Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze nei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione: «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: un’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Edward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Initiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potere americano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un presidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del gregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono dimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
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Fermare il Pd, il partito che ha fatto più danni all’Italia
Non ignoro i limiti ed i problemi del M5S e su questo sito, ma è anche vero che si tratta di un movimento giovane, che deve ancora attraversare il lungo tunnel della propria definizione. Quanto all’accusa di populismo (che peraltro Grillo non respinge ed anzi rovescia in una orgogliosa rivendicazione): io non sono affatto populista, vengo da una cultura politica che non è affatto populista, però so che ogni processo di rivolta contro il sistema ha sempre avuto esordi di tipo populista. Ma, soprattutto, so che questa polemica contro il populismo è la foglia di fico dietro cui queste miserabili élite nascondono le loro incapacità, la loro voracità, i loro ignobili privilegi. Questo mi dice da che parte stare in questo scontro. Io credo che siamo in un momento cruciale della storia del nostro paese. Ed in particolare in Italia, le cosiddette élite stanno dando il peggio di sé.Dopo un ventennio nel quale hanno preparato il disastro presente, si apprestano a svendere questo paese: pezzi pregiati di Eni, Finmeccanica, porti, patrimonio immobiliare e artistico, Ferrovie, Cdp, tutto sta per essere svenduto ed alla fine ci ritroveremo con lo stesso debito ma molto più poveri. Ricordate la svendita delle Partecipazioni Statali degli anni Novanta? Dovevano servire ad abbattere il debito: che fine hanno fatto? In questi venti anni abbiamo avuto un ceto politico sostanzialmente omogeneo, salvo sfumature di stile: stessa cultura politica liberista, stesso uso cinico delle tecniche surrettizie di raccolta di consenso, stessa moralità politica. Entrambe hanno occupato l’intero spazio politico con il solito argomento: vota me per non far vincere l’altro. Ma era una falsa alternativa, come l’esito finale di questo ventennio nero rende evidente.Dunque, è arrivato il momento di rovesciare questa classe dirigente in tutte le sue “varianti”. La specie berlusconiana sembra felicemente avviata all’estinzione, ma ora è il momento di pensare al Pd. Il partito che ha fatto più danni sul piano della democrazia (per tutte si pensi alle leggi elettorali maggioritarie e senza preferenze ed alla riforma del titolo V nel 2001; alla riforma dei servizi segreti del 2007), che sta svendendo la Banca d’Italia, che ha sempre espresso il maggior grado di asservimento agli Usa, che in 20 anni non ha svolto alcuna azione di contrasto alla corruzione, che non ha fatto alcuna legge sul conflitto di interesse chiedendo i voti per farla, che per i giovani propone solo e sempre maggiori periodi di lavoro gratuito (servizio civile, praticantato post laurea, lavoro in azienda durante il periodo scolastico), che, con il pacchetto Treu, ha dato il via alla demolizione dei diritti dei lavoratori, che ha difeso la legge Fornero, etc.Ora, l’approdo alla segreteria Renzi è il punto di arrivo finale della degenerazione di quello che fu un grande partito di sinistra ed è oggi un piccolo covo di intriganti e faccendieri. Posso avere molte perplessità sul M5S, ma in compenso ho la certezza che il Pd di Renzi sia il nemico da battere e punire. E’ probabile che in questo turno Renzi cresca, l’importante ora è ostacolarne al massimo l’avanzata per batterlo nella prossima occasione. Il M5S è lo strumento più efficace che ho per colpire questa classe politica. C’è poi un secondo ordine di motivi: è evidente ormai che l’ordinamento della Ue, con l’euro al centro, sta soffocando l’Europa ed occorra un forte ripensamento di questa costruzione tecnocratica. Se l’Europa dei popoli non è solo uno slogan, ma un’aspirazione vera, occorre prima mandare in frantumi questa Europa dei finanzieri e dei tecnocrati che è inconciliabile con l’altra. Il M5S, in Italia, è l’unico martello che ho a disposizione per colpire l’Europa delle banche, se non voglio lasciare campo libero, su questo tema, alle formazioni fasciste, xenofobe, di destra.Inoltre, come ho sempre dichiarato, sono un convinto fautore della legge elettorale proporzionale come unica garanzia di vera rappresentanza non manipolata e, non solo il M5S è l’unica forza politica dichiaratamente proporzionalista, ma soprattutto so che una forte affermazione del M5S avrebbe l’effetto immediato di paralizzare l’abominevole legge Renzi-Berlusconi che è in discussione in Parlamento. E’ sufficiente che il M5S emerga come secondo polo per far passare qualsiasi velleità di legge maggioritaria a doppio turno. E già questa sarebbe da sola una ragione sufficiente. Dunque, sulla base di queste considerazioni, voterò il M5S.Tuttavia, faccio anche i miei auguri alla lista Tsipras di raggiungere il quoziente richiesto. Una sconfitta di questa lista sarebbe molto negativa, comportando la dissoluzione della sinistra radicale. Certo sarebbe stato auspicabile che questa lista avesse espresso posizioni meno ambigue su questioni come l’Euro e non si fosse rifugiata nello slogan fumoso dell’Altra Europa, che vuol dire tutto e niente; ma sarà un alleato importante la prossima volta, quando avrà chiarito le sue posizioni. E, dunque, che per ora non le manchi il quoziente. Ci pensino quei malpancisti del Pd che non se la sentono di votare per il M5S: hanno quest’altra occasione di voto per sbarrare la strada a Renzi.(“Perché voto M5S, auguri anche alla Lista Tsipras”, estratti dell’intervento che Aldo Giannuli ha pubblicato sul suo blog il 18 maggio 2014).Attenti agli applausi: quelli che Grillo ha rimediato a Torino, nella straripante piazza Castello. Secondo il blog marxista “Contropiano” è utile prendere nota di cosa enstusiasma i seguaci: dalla battaglia No-Tav all’“euro-nazismo” di Schulz, che dimentica i meriti dell’Urss («Non avesse vinto Stalin, oggi Schulz avrebbe una svastica sulla fronte»). E c’è anche il fantasma buono di Enrico Berlinguer, evocato da Giuseppe Zupo per dire che il Movimento 5 Stelle è «l’unico erede, oggi in Italia, della battaglia berlingueriana per la “questione morale”», cioè istituzioni pulite come argine necessario contro la tentazione della violenza, di fronte alla rabbia per uno Stato dilaniato dalla corruzione di casta. Un’élite così moralmente fragile da farsi “comprare”, a poco prezzo, da chi vuol finire di mangiarsi l’Italia in un sol boccone: votare 5 Stelle, dice un ex esponente di Rifondazione Comunista come il professor Aldo Giannuli, storico e politologo, significa punire la classe politica (Pd, in primis) che ha tradito l’elettorato di sinistra per fare politiche di destra, al servizio esclusivo dei poteri forti.
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L’euro di Hitler, una moneta unica per l’Europa nazista
Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza». Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico, perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un “cerchio interno” composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un “cerchio esterno” in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i Pigs, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico.Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante». Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»).Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono intervenuti i prestiti di capitale dal centro; per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato, assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio. Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano.Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica», anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea. Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del Pil a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un Pil di oltre 2.000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto debito-Pil. Però all’inizio del 2013 lo stesso Fmi ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto debito-Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato). Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste.E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi Ue, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo Ue ed extra-Ue ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007». Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.