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Icke, Viganò, Great Reset. Biglino: complottista è la Bibbia
Cosa sta succedendo, se un alto prelato vaticano come monsignor Carlo Maria Viganò oggi si esprime negli stessi termini in cui anni fa si esprimeva nientemeno che l’inglese David Icke, considerato il decano del complottismo contemporaneo? Se lo domanda Mauro Biglino, popolare autore di bestseller basati sulla rilettura testuale, in lingua ebraica, dell’Antico Testamento. La risposta? I cosiddetti complottisti possono forse considerarsi in buona compagnia: è proprio la Bibbia, infatti, a prefigurare in modo esplicito il sistema di dominio basato sul controllo socio-economico assoluto, esercitato dal potere finanziario, oggi accusato – secondo Icke, ma anche Viganò – di manipolare la crisi sanitaria del Covid allo scopo di realizzare il “Great Reset”, il crollo pilotato dell’economia, per ottenere la sottomissione dell’umanità, spaventata a morte con la minaccia della pandemia. In un video sul suo canale YouTube, il cui testo riportiamo integralmente, Biglino ricorda che è lo stesso Talmud a ricordare l’importanza capitale della dominazione monetaria illustrata nella Torah. La ricetta? Prestare denaro a interesse, per soggiogare popoli e nazioni.Normalmente non mi piace entrare nei fatti di cronaca e di attualità. Ritengo che possa essere più saggio aspettare che le cose di raffreddino, perché parlare a caldo significa rischiare di dire delle stupidaggini. Oggi però stiamo vivendo una situazione che ha generato in me una serie di considerazioni che ho piacere di condividere, perché riguardano il tema di cui mi occupo, che – come dico da molti anni – è strettamente legato all’attualità. A volte, capire il passato ci aiuta a capire il presente, e questa è una di quelle situazioni in cui questa affermazione, a mio avviso, è validissima. Comincio col leggervi alcuni passi di una lettera, in cui sono contenute delle affermazioni molto pesanti. Per il momento non vi dico ancora chi l’ha scritta, anche se magari molti di voi lo capiranno. Si parla di «quest’ora in cui le sorti del mondo intero sono minacciate da una cospirazione globale». Si legge: «Vediamo i capi delle nazioni e i leader religiosi assecondare questo suicidio della cultura occidentale, mentre ai cittadini sono negati i diritti fondamentali, in nome di un’emergenza sanitaria che sempre più si rivela come strumentale all’instaurazione di una disumana tirannide senza volto».«Un piano globale, denominato Great Reset, è in via di realizzazione. Ne è artefice un’élite che vuole sottomettere l’umanità intera, imponendo misure coercitive con cui limitare drasticamente le libertà delle persone e dei popoli». Vi dico subito che Great Reset non è un termine inventato dal redattore di questa lettera, ma si trova già in un documento pubblicato dall’Onu nel 2015, dove è contenuta un’analisi della situazione della popolazione mondiale, e una serie di proposte. Non a caso, quel documento è conosciuto come Agenda 2030: siamo nel ‘20, quindi le date corrisponderebbero. «Scopo del Great Reset è l’imposizione di una dittatura sanitaria finalizzata all’imposizione di misure liberticide, nascoste dietro allettanti promesse di assicurare un reddito universale e di cancellare il debito dei singoli. Prezzo di queste concessioni del Fondo Monetario Internazionale» (altra istituzione che ha usato il termine Great Reset) «dovrebbe essere la rinuncia alla proprietà privata e l’adesione ad un programma di vaccinazione Covid-19 e Covid-21 promosso da Bill Gates con la collaborazione dei principali gruppi farmaceutici».«Al di là degli enormi interessi economici che muovono i promotori del Great Reset, l’imposizione della vaccinazione si accompagnerà all’obbligo di un passaporto sanitario e di un ID digitale, con il conseguente tracciamento dei contatti di tutta la popolazione mondiale. Chi non accetterà di sottoporsi a queste misure verrà confinato in campi di detenzione o agli arresti domiciliari, e gli verranno confiscati tutti i beni». Ancora: «Questa crisi serve per rendere irreversibile, nelle intenzioni dei suoi artefici, il ricorso degli Stati al Great Reset, dando il colpo di grazia a un mondo di cui si vuole cancellare completamente l’esistenza e lo stesso ricordo». E più avanti: «Come ormai è evidente – e qui l’autore si riferisce direttamente al Papa - colui che occupa la Sede di Pietro, fin dall’inizio ha tradito il proprio ruolo, per difendere e promuovere l’ideologia globalista, assecondando l’agenda della Deep Church, che lo ha scelto dal suo grembo».Poi l’estensore fa un cenno alle elezioni negli Stati Uniti, e scrive che c’è il rischio che venga eletto un personaggio che «farà agli Stati Uniti ciò che Jorge Mario Bergoglio sta facendo alla Chiesa, il primo ministro Conte all’Italia, il presidente Macron alla Francia, il primo ministro Sanchez alla Spagna, e via dicendo». Poi però l’autore formula una speranza, che anzi per lui è una certezza: dice che, siccome «l’avversario non sa amare, e non comprende che non basta assicurare un reddito universale o cancellare i mutui per soggiogare le masse e convincerle a farsi marchiare come capi di bestiame», questo disegno non si realizzerà. Difatti, dice: questo popolo «sta comprendendo di non esser disposto a barattare la propria libertà con l’omologazione e la cancellazione della propria identità». Aggiunge: «Questo Great Reset è destinato a fallire perché chi lo ha pianificato non capisce che ci sono persone ancora disposte a scendere nelle strade per difendere i propri diritti», e quindi «l’inumanità livellatrice del progetto mondialista si infrangerà miseramente dinanzi all’opposizione ferma e coraggiosa dei figli della Luce».Ora, questa lettera non è stata scritta da uno dei tanti complottisti, ma da un alto prelato vaticano come monsignor Carlo Maria Viganò, arcivescovo titolare di Ulpiana e già nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America. Viganò aveva iniziato a creare problemi all’interno della gerarchia, perché già ai tempi di Benedetto XVI aveva messo il dito nella piaga della pedofilia. Poi ha proseguito con Bergoglio, tant’è che è stato promosso per essere allontanato (il vecchio sistema del “promoveatur ut amoveatur”), dopodiché è stato, per così dire, “pensionato” in modo forzato. Ho sottolineato il fatto che questa lettera non è stata scritta da un complottista, perché in realtà contiene tutta una serie di concetti che erano già chiaramente espressi nel 2009, data dell’edizione italiana di “Cospirazione globale”, di David Icke, che è considerato un po’ il padre del complottismo mondiale. Ebbene, ci sono tutta una serie di concetti che si corrispondono: possono essere sovrapposti.Monsignor Viganò parla di questo accordo tra Bill Gates e i principali gruppi farmaceutici? Parlando di Big Pharma, David Icke diceva che «le industrie farmaceutiche delle bio-tecnologie non sono altro che il Male legalizzato». Monsignor Viganò presenta questa situazione come la guerra tra i “Figli del Bene” e i “Figli del Male”. «E ancora una volta le modalità sono le stesse», prosegue David Icke: «Queste corporazioni – in realtà si tratta di un’unica corporazione, al singolare – sono controllate dalla stessa forza che controlla i governi, e fondamentalmente ottengono qualunque cosa vogliano, relativamente alle leggi (o alla mancanza di leggi)». Cioè, anche qui si si fa riferimento a queste leggi liberticide. E poi, ancora: quando monsignor Viganò parla del coraggio di chi saprà resistere, David Icke dice: «La paura è il primo strumento di controllo, e smettere di aver paura significa disarmare chi ci manipola».Di riferimenti e parallelismi, tra Icke e Viganò, ce ne sono a decine. Colpisce l’accostamento tra due personaggi apparentemente così lontani: un alto prelato del Vaticano e un giornalista che si occupa di tutt’altro. Ma la cosa non si ferma qui, perché Viganò aggiunge: «Il nemico ha dalla sua parte Satana, che non sa che odiare. Noi abbiamo dalla nostra parte il Signore Onnipotente, il Dio degli eserciti schierati in battaglia». Questo è lo Yahweh Tsebaoth, il “Dio degli eserciti” dell’Antico Testamento. Ora, c’è una cosa che sappiamo tutti. Il vero potere che governa l’intero pianeta Terra, tiene soggiogati i popoli e tiene sotto scacco i governi è il potere finanziario, basato sul sistema del debito-credito. Con questo sistema, chi ha in mano le leve tiene il cappio al collo ad ogni forma di governo. Sappiamo che i nostri politici sono sostanzialmente degli esecutori, chiunque essi siano. E quindi questo sistema è addirittura indifferente alle varie forme di governo: chi ha in mano le leve del potere finanziario non si preoccupa se a governare una nazione è una dittatura oppure, facciamo per dire, la più realizzata delle democrazie.Ciò che interessa è che chi governa, comunque, non decida di uscire da quel sistema: perché, se decide di uscire, viene durissimamente colpito. Dittatore o governo democratico, deve stare dentro il sistema finanziario che tiene sotto scacco il pianeta. Per fortuna, dice Viganò, noi abbiamo dalla nostra parte Yahweh, il Dio biblico. Ma cosa dice, la Bibbia, a questo proposito? In Esodo, 22 si parla proprio del sistema del debito e del credito: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, al povero che è con te, non ti comporterai con lui da usuraio. Non gli imporrete alcun interesse». Cioè, dice Yahweh al suo popolo, agli israeliti: se vi prestate denaro tra di voi, non chiedete interesse. Poi però dà indicazione diverse, per quanto riguarda gli stranieri. La Bibbia cita anche i Giubilei, che avvenivano al termine di ogni ciclo di 7 anni o di 50 anni, per cui bisognava rimettere i debiti. Il Deuteronomio (capitolo 15, versetto 2) illustra le norme che riguardano la remissione dei debiti: «Ogni creditore rimetta quanto ha prestato al suo prossimo», e per “prossimo” la Bibbia intende il tuo vicino, l’appartenente al tuo stesso clan. «Non lo riscuota né dal suo prossimo né dal suo fratello, quando sia proclamato l’anno della remissione per il Signore. Tu potrai esigere il tuo credito dallo straniero, ma al tuo fratello condonerai quanto deve nei tuoi confronti».Quindi qui c’è una distinzione netta: tra di voi vi prestate denaro senza interesse, e al settimo anno rimetterete i debiti agli appartenenti allo stesso clan tribale, mentre il debito può essere riscosso dallo straniero. E l’affermazione successiva è ancora più importante e più pesante: «Quando il Signore tuo Dio» (in ebraico c’è: “Quando Yahweh, Elohim tuo”) ti avrà benedetto come ti ha promesso, tu farai prestito a molte nazioni, ma tu non chiederai nulla in prestito; dominerai molte nazioni, ma su di te esse non domineranno». Qui viene quindi introdotto il concetto di una élite che dovrà dominare su tutte le altre nazioni. E lo farà attraverso il sistema finanziario, cioè quello del debito-credito. Sempre in Deuteronomio, al capitolo 23, si ripete: «Non esigerai alcun interesse da tuo fratello, né per i prestiti di denaro, né per prestiti di viveri, né per qualsiasi cosa che si presta a interesse. Dallo straniero potrai esigere un interesse, ma non dal tuo fratello».Queste erano leggi precise, anche molto dure. Tant’è che in un volume, dove si analizzano le istituzioni dell’Antico Testamento, l’autore scrive: «L’evoluzione economica e l’esempio dell’estero condussero frequentemente alla violazione di queste leggi», in Israele (cioè: in sostanza, prestavano a interesse anche tra di loro), «e questa è una delle colpe per le quali Gerusalemme è condannata. La situazione non migliorò, dopo l’esilio, e Neemia mostra il popolo oberato di debiti. Il prestito a interesse, a tassi che ci sembrano di usura, era praticato dai giudei di Elefantina. Secondo le fonti rabbiniche, lo stesso Tempio di Gerusalemme prestava a interesse. E la parabola di Matteo, 25 e il passo di Luca, 19 suppongono che l’usanza fosse corrente e ammessa». Cioè: era lo stesso “demanio”, la sede del potere, a esercitare questo prestito a interesse, venendo meno a quelle che erano le disposizioni di Yahweh. Quindi, questo è un sistema che nella Bibbia è descritto con molta chiarezza.Nel Libro dei Proverbi si ricorda una distinzione netta, che noi abbiamo ben chiara, e che proprio questa crisi di cui parla la lettera di Viganò sta rendendo ancora più evidente: «Il ricco domina sui debitori, e il debitore è schiavo del creditore». Questa è una frase chiarissima. Se collegata a quelle precedenti, dove viene detto “tu non ti farai prestare denaro dalle nazioni, ma presterai denaro alle nazioni”, e la colleghiamo a questa, «il ricco domina sui debitori, e il debitore è schiavo del creditore», noi comprendiamo molto bene il sistema che ci governa. Quindi, io non so se possiamo formulare la speranza che ha espresso monsignor Viganò, quando dice che dalla nostra parte c’è «il Signore Onnipotente», cioè il “Dio degli eserciti” biblico, perché in realtà è proprio il biblico “Dio degli eserciti” che ha espresso e che ha chiaramente descritto questa formula di governo e di controllo, questa modalità per tenere sotto scacco i popoli e le nazioni.Questa cosa era talmente importante che anche nel Talmud, nel Trattato sulle Berakhot, in un passo in cui si sta parlando dei rapporti tra maestro e discepolo, si dice: «Abbiamo infatti studiato, in una Mishnah, che Rabbi Ishmael dice: “Chi vuole diventare saggio si occupi delle leggi monetarie, poiché non c’è materia più grande, nella Torah, essendo esse simili a una sorgente da cui sgorga l’acqua”». Ora, la Torah è il succo dell’Antico Testamento: è la legge. Quindi, se fare questi discorsi significa essere complottisti, allora dobbiamo dire che siamo in ottima compagnia: perché ad essere ad essere complottisti, per primi, sono stati proprio gli autori biblici. Perché, stando a quel che c’è scritto nel Talmud, lo studiare le materie monetarie è, appunto, «la materia più grande, nella Torah». Allora: apriamo gli occhi, vediamo che cosa ci succede attorno; cerchiamo di capire bene e facciamoci le nostre idee, ma documentandoci a 360 gradi.(Mauro Biglino, estratto testuale dal video “Great Reset già nella Bibbia?”, pubblicato il 1° novembre 2020 sul canale YouTube “Il vero Mauro Biglino”).Cosa sta succedendo, se un alto prelato vaticano come monsignor Carlo Maria Viganò oggi si esprime negli stessi termini in cui anni fa si esprimeva nientemeno che l’inglese David Icke, considerato il decano del complottismo contemporaneo? Se lo domanda Mauro Biglino, popolare autore di bestseller basati sulla rilettura testuale, in lingua ebraica, dell’Antico Testamento. La risposta? I cosiddetti complottisti possono forse considerarsi in buona compagnia: è proprio la Bibbia, infatti, a prefigurare in modo esplicito il sistema di dominio basato sul controllo socio-economico assoluto, esercitato dal potere finanziario, oggi accusato – secondo Icke, ma anche Viganò – di manipolare la crisi sanitaria del Covid allo scopo di realizzare il “Great Reset”, il crollo pilotato dell’economia, per ottenere la sottomissione dell’umanità, spaventata a morte con la minaccia della pandemia. In un video sul suo canale YouTube, il cui testo riportiamo integralmente, Biglino precisa che è lo stesso Talmud a ricordare l’importanza capitale della dominazione monetaria illustrata nella Torah. La ricetta? Prestare denaro a interesse solo all’esterno del proprio clan, per soggiogare popoli e nazioni.
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Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare
La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Tresivio, s’innamorò di Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conoscciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma e si dà l’esatta Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e Padova, che deve essere percorsa da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e allo “shake” scespiriano».I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzanmdolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.