LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘Qatar’

  • “Ucciso in Siria generale israeliano che guidava gli jihadisti”

    Scritto il 06/7/15 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Arriva da fonte Usa e viene confermata da fonti libanesi la notizia che, il 26 giugno, con un attacco improvviso dell’aviazione siriana, sono rimasti uccisi un generale israeliano e 20 leader delle milizie dell’organizzazione terrorista “Al Nusra” ed altri gruppi, inclusi alcuni elementi del personale militare di collegamento dell’Arabia Saudita e del Qatar. Questo attacco dell’aviazione siriana aveva per obiettivo le forze militari straniere che operano all’interno della Siria. Un secondo attacco dell’aviazione siriana era avvenuto nella località di Sidon, contro un gruppo di cecchini di nazionalità cecena che avevano passato il confine della Giordania nella zona di Nassib, controllata dai miliziani di Al Nusra. Entrambi gli attacchi sono stati due poderosi colpi sferrati dalle forze siriane contro il nemico che stava pianificando l’operazione “Southern Storm” che avrebbe impegnato circa 15.000 miliziani con la collaborazione di Israele, della Turchia e delle autorità giordane. L’operazione doveva avere luogo per l’8 luglio e ha subito una battuta d’arresto grazie al lavoro dell’intelligence siriana che è riuscita a individuare per tempo il luogo dove si è riunita la squadra israeliana che si era recata ad Al Karak, nella provincia sud di Daraa.
    Al Karak o Al Karek è una città di 20.000 abitanti, sulla parte orientale del Mar Morto, all’interno della Giordania. Famosa per il suo castello crociato, Al Karak è facilmente raggiungibile da Israele per mezzo di elicotteri che volano sopra il Wadi Karak per evitare il rilevamento. Al generale israeliano era stato affidato il comando dell’operazione Tempesta del Sud, e assieme a una squadra israeliana si era recato in tale località per incontrarsi con i leader del gruppo di “Al-Nusra”, con cui Israele collabora da tempo, con il “Free Syrian Army”, con le brigate di “Al-Muthana” e “Al-Ezz”. Secondo i testimoni presenti alla riunione, il generale israeliano, dopo aver ringraziato i leader dei vari gruppi, aveva promesso aiuti militari, supporto logistico e di intelligence ed era rimasto a cena con loro. Il piano della “Southern Storm” prevedeva un attacco su tre direzioni su Daara da parte di 15.000 miliziani in 4 gruppi separati. La riunione si era svolta presso i locali di un vecchio magazzino utilizzato dai terroristi come deposito.
    Il comando israeliano aveva provveduto alla spedizione di missili anticarro Tow e Laaw, insieme con i missili tedeschi Milan, che erano stati consegnati in precedenza ai gruppi terroristi, per mezzo di voli effettuati in Giordania, e poi convogliati in Siria. Alcune di queste munizioni, fornite da Israele ai terroristi, provenivano dalle scorte israeliane recentemente sostituite dagli Stati Uniti dopo che Israele ha dichiarato di averle utilizzate in attacchi su Gaza. Il generale israeliano, assieme ad altri 20 comandanti dei miliziani, si era trasferito per una riunione presso una casa distante poche miglia, casa che è stata individuata e distrutta con precisione nell’attacco dell’aviazione siriana, di cui rimangono adesso le rovine fumanti. Nello stesso attacco sono rimasti uccisi altri 80 miliziani che si trovano nella zona in presidio e scorta ai leader terroristi. Le operazioni dei terroristi vengono coordinate da un centro di comando (Moc) che si trova in Giordania, che dispone di un collegamento satellitare e apparati elettronici di intelligence collegati con una la centrale della Cia situata in Giordania, così come è collegata con il grande centro logistico di intelligence saudita esistente ad Amman. Questa volta l’intelligence siriana è riuscita a prevenire le mosse del nemico ed annientare il suo centro di comando, bloccando le operazioni.
    (“Le forze siriane, con una azione lampo a Daraa, uccidono un generale israeliano riunito con i comandanti dei gruppi terroristi”, da “Controinformazione” del 4 luglio 2015).

    Arriva da fonte Usa e viene confermata da fonti libanesi la notizia che, il 26 giugno, con un attacco improvviso dell’aviazione siriana, sono rimasti uccisi un generale israeliano e 20 leader delle milizie dell’organizzazione terrorista “Al Nusra” ed altri gruppi, inclusi alcuni elementi del personale militare di collegamento dell’Arabia Saudita e del Qatar. Questo attacco dell’aviazione siriana aveva per obiettivo le forze militari straniere che operano all’interno della Siria. Un secondo attacco dell’aviazione siriana era avvenuto nella località di Sidon, contro un gruppo di cecchini di nazionalità cecena che avevano passato il confine della Giordania nella zona di Nassib, controllata dai miliziani di Al Nusra. Entrambi gli attacchi sono stati due poderosi colpi sferrati dalle forze siriane contro il nemico che stava pianificando l’operazione “Southern Storm” che avrebbe impegnato circa 15.000 miliziani con la collaborazione di Israele, della Turchia e delle autorità giordane. L’operazione doveva avere luogo per l’8 luglio e ha subito una battuta d’arresto grazie al lavoro dell’intelligence siriana che è riuscita a individuare per tempo il luogo dove si è riunita la squadra israeliana che si era recata ad Al Karak, nella provincia sud di Daraa.

  • Team 6, killer di Stato: chi e perché ha ucciso Ilaria Alpi

    Scritto il 19/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La docufiction “Ilaria Alpi – L’ultimo viaggio” (visibile sul sito di Rai Tre) getta luce, soprattutto grazie a prove scoperte dal giornalista Luigi Grimaldi, sull’omicidio della giornalista e del suo operatore Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Furono assassinati, in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e servizi segreti italiani, perché avevano scoperto un traffico di armi gestito dalla Cia attraverso la flotta della società Schifco, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia ufficialmente per la pesca. In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shifco erano usate, insieme a navi della Lettonia, per trasportare armi Usa e rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi la Croazia in guerra contro la Jugoslavia. Anche se nella docufiction non se ne parla, risulta che una nave della Shifco, la 21 Oktoobar II (poi sotto bandiera panamense col nome di Urgull), si trovava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una operazione segreta di trasbordo di armi statunitensi rientrate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si consumò la tragedia della Moby Prince in cui morirono 140 persone.
    Sul caso Alpi, dopo otto processi (con la condanna di un somalo ritenuto innocente dagli stessi genitori di Ilaria) e quattro commissioni parlamentari, sta venendo alla luce la verità, ossia ciò che Ilaria aveva scoperto e appuntato sui taccuini, fatti sparire dai servizi segreti. Una verità di scottante, drammatica attualità. L’operazione “Restore Hope”, lanciata nel dicembre 1992 in Somalia (paese di grande importanza geostrategica) dal presidente Bush, con l’assenso del neo-presidente Clinton, è stata la prima missione di “ingerenza umanitaria”. Con la stessa motivazione, ossia che occorre intervenire militarmente quando è in pericolo la sopravvivenza di un popolo, sono state lanciate le successive guerre Usa/Nato contro la Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria e altre operazioni come quelle in corso nello Yemen e in Ucraina. Preparate e accompagnate, sotto la veste “umanitaria”, da attività segrete. Una inchiesta del “New York Times” (24 marzo 2013) ha confermato l’esistenza di una rete internazionale della Cia, che con aerei qatariani, giordani e sauditi fornisce ai “ribelli” in Siria, attraverso la Turchia, armi provenienti anche dalla Croazia, che restituisce così alla Cia il “favore” ricevuto negli anni Novanta.
    Quando il 29 maggio scorso il quotidiano turco “Cumhuriyet” ha pubblicato un video che mostra il transito di tali armi attraverso la Turchia, il presidente Erdogan ha dichiarato che il direttore del giornale pagherà «un prezzo pesante». Ventun anni fa Ilaria Alpi pagò con la vita il tentativo di dimostrare che la realtà della guerra non è solo quella che viene fatta apparire ai nostri occhi. Da allora la guerra è divenuta sempre più “coperta”. Lo conferma un servizio del “New York Times” (7 giugno) sulla “Team 6”, unità supersegreta del comando Usa per le operazioni speciali, incaricata delle “uccisioni silenziose”. I suoi specialisti «hanno tramato azioni mortali da basi segrete sui calanchi della Somalia, in Afghanistan si sono impegnati in combattimenti così ravvicinati da ritornare imbevuti di sangue non loro», uccidendo anche con «primitivi tomahawk». Usando «stazioni di spionaggio in tutto il mondo», camuffandosi da «impiegati civili di compagnie o funzionari di ambasciate», seguono coloro che «gli Stati Uniti vogliono uccidere o catturare». Il “Team 6” è divenuta «una macchina globale di caccia all’uomo». I killer di Ilaria Alpi sono oggi ancora più potenti. Ma la verità è dura da uccidere.
    (Manlio Dinucci, “La scottante verità di Ilaria Alpi”, dal “Manifesto” del 9 giugno 2015).

    La docufiction “Ilaria Alpi – L’ultimo viaggio” (visibile sul sito di Rai Tre) getta luce, soprattutto grazie a prove scoperte dal giornalista Luigi Grimaldi, sull’omicidio della giornalista e del suo operatore Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Furono assassinati, in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e servizi segreti italiani, perché avevano scoperto un traffico di armi gestito dalla Cia attraverso la flotta della società Schifco, donata dalla Cooperazione italiana alla Somalia ufficialmente per la pesca. In realtà, agli inizi degli anni Novanta, le navi della Shifco erano usate, insieme a navi della Lettonia, per trasportare armi Usa e rifiuti tossici anche radioattivi in Somalia e per rifornire di armi la Croazia in guerra contro la Jugoslavia. Anche se nella docufiction non se ne parla, risulta che una nave della Shifco, la 21 Oktoobar II (poi sotto bandiera panamense col nome di Urgull), si trovava il 10 aprile 1991 nel porto di Livorno dove era in corso una operazione segreta di trasbordo di armi statunitensi rientrate a Camp Darby dopo la guerra all’Iraq, e dove si consumò la tragedia della Moby Prince in cui morirono 140 persone.

  • L’Isis finanza scuole in Kosovo, sotto il controllo degli Usa

    Scritto il 05/6/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.
    Con la qualifica di Ong, continua il “Giornale”, queste organizzazioni mantengono la facciata pulita davanti ad operazioni illegali: prima portano cibo e sostegno sanitario, poi l’incitamento alla violenza. «La cooperazione, infatti, parte solo dopo la costruzione di una moschea. Poi l’indottrinamento è immediato: corsi sul Corano e prediche sui dogmi dell’Islam», ovviamente interpretati dall’imam radicale di turno. Come scrive in un reportage da Pristina Alessandro Albino su “Lettera 43”, «allo studio della religione – secondo l’intelligence – vengono affiancati addestramento militare, insegnamento di tattiche di guerriglia urbana, uso di armi ed esplosivi». Dopo le scuole superiori, chi non va a studiare nei paesi arabi finanziatori delle Ong, imbraccia il fucile e viene inviato al fronte per combattere al fianco dei guerriglieri dell’Isis. «La paga è alta, molto più di un normale stipendio in Kosovo: 300 euro per chi rimane a Pristina, 30.000 per chi sceglie la Siria e l’Iraq».
    Secondo le autorità, al momento, circa 300 cittadini del paese balcanico “liberato” dalla Nato hanno partecipato ai combattimenti in diversi luoghi controllati dall’Isis e 40 di questi sono morti in battaglia. Altri 32 sono stati da poco arrestati e sospettati di aver avuto contatti con lo Stato Islamico. A settembre, 15 reclutatori di integralisti islamici disposti a combattere a fianco dell’Isis e di “Al-Nusra” in Siria e Iraq sono finiti in manette, tra cui il leader del partito islamico Fuad Ramiqi e 12 imam di varie regioni. «L’allarme terrorismo si fa sempre più vicino all’Europa e all’Italia», conclude il “Giornale”. «Il Kosovo è a maggioranza mussulmana, e sarebbero 50.000 i combattenti pronti ad impugnare le armi per lottare contro l’infedele. Cioè noi».
    L’articolo del quotidiano milanese, osserva Pino Cabras in una nota su “Megachip”, spiega molto bene «un meccanismo che in questi anni ha accompagnato l’interventismo finanziario dei grandi elemosinieri delle petromonarchie del Golfo: ovunque ci sia l’Islam si cerca di dare – a suon di dollari – un ruolo centrale alle correnti minoritarie e oscurantiste per emarginare le altre opzioni politiche e religiose». L’articolo, però, «non si addentra negli intrecci di questa azione con le strategie di “fomentazione del caos” che partono da fortissimi settori di Washington». Nel caso in questione, continua Cabras, non si dimentichi che il Kosovo «è una delle creazioni statuali più artificiose e controverse degli ultimi cento anni», ovvero «un paese che – più che una nazione indipendente – è un protettorato militare Usa nel cuore del mondo balcanico, un perno delle strategie geopolitiche che intendono spezzare i legami tra Russia e resto dell’Europa».
    Anche i recentissimi disordini nella confinante Macedonia, che sono appena agli inizi, hanno un preciso retroterra militare e di intelligence collocato «nelle strutture di destabilizzazione basate in Kosovo, dove la regia è saldamente washingtoniana e brussellese, prima ancora che di Ryad». Il problema, conclude Cabras, non è dunque che in Kosovo c’è una maggioranza mussulmana pronta ad aggredire noi, come potrebbe far pensare la conclusione dell’articolo del “Giornale”. «Il problema è semmai che c’è una minoranza che potrà avere un peso micidiale dopo che si spezzeranno i vecchi ordini», esattamente come è avvenuto in Ucraina (con i neonazisti) o nel Levante (con l’Isis). Il pericolo è dunque massimo, insiste “Megachip”, data la presenza di «registi cinici e alleati provenienti da molte appartenenze religiose, ma uniti dalla fede nel dollaro».

    Per fare la guerra santa è bene partire dall’educazione. Soprattutto quella di asili e scuole materne, dove si può iniziare a fare proselitismo jihadista. Occorre quindi finanziarle per far sì che al loro interno si insegni il radicalismo islamista. In Kosovo, scrive il “Giornale”, sono numerosi gli asili, le scuole e i collegi che vengono finanziati da gruppi di terroristi, «e lo fanno attraverso delle organizzazioni non governative». Esatto: sono proprio quelle Ong create dopo la guerra del 1999, che «si sono rapidamente legate agli imam radicali locali». In questo modo, «fiumi di denaro vengono riversati dal terrorismo internazionale nelle scuole kosovare». Si calcola che siano arrivati circa 35 milioni di euro da Arabia Saudita, Libano, Libia, Emirati Arabi, Qatar. C’è anche una scuola con la licenza dal 2006, quindi riconosciuta dal governo locale attraverso il ministero dell’educazione: è la “Flori del giornò” di Pristina, il cui proprietario avrebbe anche legami con terroristi in Bosnia e in Iraq. Ma sono ben 50 le Ong inserite nel documento dell’intelligence straniera citata dal quotidiano “Koha” come anello di congiunzione tra fondamentalismo islamico e educazione al radicalismo in Kosovo.

  • Votate chiunque tranne il Pd, vero nemico storico dell’Italia

    Scritto il 25/5/15 • nella Categoria: idee • (7)

    Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.
    Il Pd è il partito del capitale finanziario straniero che deve liquidare il patrimonio immobiliare degli italiani, per poi fare ugualmente fallimento. E’ il partito che ha svenduto Bankitalia e si appresta  a svendere i pezzi nobili di Eni e Finmeccanica. L’Italia è, per colpa del Pd, terreno di caccia dei capitali francesi, americani, cinesi, quatarioti ecc. Peggio non potrebbe fare. La politica sociale non ha bisogno di commenti: il Jobs Act e la recente riforma della scuola fanno quello che la destra berlusconiana non osava neppure immaginare. La democrazia: il Pd – e prima di lui il Pds e i Ds – da venti anni guida l’attacco alla Costituzione, liquidando prima di tutto la legge elettorale proporzionale, che ne era l’architrave, poi intaccandone più pezzi, ora con un disegno organico di sistema costituzionale da repubblica del centro America. Il Partito si è conseguentemente evoluto in “partito del leader”, avendo trovato in Renzi il volenteroso Caudillo.
    Nel campo della giustizia ha osato anche più di Berlusconi, con una politica punitiva dei magistrati, finalizzata non ad un miglioramento della macchina giudiziaria del nostro paese ma, al contrario ad un suo peggioramento e alla subordinazione del potere giudiziario all’esecutivo. La corruzione: per anni il Pci-Pds-Ds-Pd ha goduto di una sorta di rendita di posizione di “partito della questione morale” che lo ha messo al riparo dalle ondate di protesta e dalle inchieste di una magistratura amica, troppo amica. Il risultato è stato che, al confortevole riparo di questo scudo è crescita una classe politica di lestofanti peggiore di quella del Pdl di triste memoria. Mose, Expo, Mafia Capitale, Cooperative: tutti i maggiori casi più recenti di corruzione hanno visto gli uomini del Pd in prima fila e talvolta esclusivi attori. Ora piovono avvisi di garanzia, ma in troppi fanno ancora finta di niente. Possiamo continuare così?
    C’è poi un motivo in più, di ordine per così dire “estetico” che mi induce a guardate la Pd come al peggiore di tutti i mali: che la destra faccia il mestiere della destra è giusto che sia così, non mi indigno certo se Salvini fa certe sparate sugli immigrati, sono un suo avversario politico dichiarato e combatto le sue deliranti proposte, allo stesso modo in cui riconosco in Berlusconi un aperto avversario da contrastare senza incertezze, ma il Pd è peggiore perché non è meno di destra degli altri, anzi lo è di più, ma si ammanta di un falso sembiante di sinistra per abbindolare quei babbei che ancora ci credono e lo votano, pensando di sostenere la reliquia del Pci. Svelare il trucco e spezzare l’imbroglio diventa una operazione di pulizia morale, prima ancora che politica. Tutto ciò premesso – e aspettando di essere contestato nel merito delle accuse che muovo al partito di Renzi – non vi sembra che sarebbe molto salutare per il paese un voto che segni una inversione di tendenza, con un iniziale calo elettorale del Pd? Qualcosa che lo avvii alla sconfitta nelle prossime politiche?
    Per anni abbiamo vissuto sotto l’eterno ricatto del “se-no-vince-la-destra”. Il risultato è stata la fine della sinistra. Non vi sembra l’ora di rigettare il ricatto e colpire la destra peggiore? Io, come si sa, voto M5S: non ve la sentite? Va bene, non votate M5S, votate Sel, ma, se non siete di sinistra, votate Forza Italia (tanto siamo alla fine) e persino Salvini, Fratelli d’Italia (tanto non vanno al di là di una certa soglia e, comunque, siamo ad elezioni amministrative)  o chi vi pare (dipende da quanto sono orrendi i vostri gusti). Arrivo a dire persino Alfano o Sc: è un voto perfettamente inutile, ma è innocuo e comunque sono voti sottratti al Pd. E magari, se proprio non sapete chi possa essere il “meno peggio”, disperdete il voto scegliendo la classica lista del fiasco (evitate però cose come Forza Nuova o Casa Pound: non esageriamo!). Tutto, ma puniamo il Pd. E’ probabile che il lettore del Pd non sia arrivato sino a questo punto dell’articolo, vinto dal mal di stomaco: pazienza, come dire: “ce ne faremo una ragione”. Ma agli altri, a chi sente di poter condividere questo punto di vista, chiedo una cosa: segnalate il pezzo agli amici per mail o nei social, fatelo vostro e riprendetene le argomentazioni, non mi interessa neppure essere citato, ma iniziamo insieme una campagna virale contro il Pd.
    (Aldo Giannuli, “Perché il nemico da battere è il Pd”, dal blog di Giannuli del 10 maggio 2015).

    Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.

  • Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel

    Scritto il 17/3/15 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
    «Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan,  Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.
    Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».
    Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».
    La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?
    Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.

    Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.

  • Wall Street Journal: le armi della Cia ai tagliagole dell’Isis

    Scritto il 20/2/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Già nel 2012 osservatori indipendenti come Thierry Meyssan l’avevano annunciato: centinaia di jihadisti provenienti dalla Libia erano stati segretamente trasferiti in Siria, attraverso la Turchia, per dare il via all’operazione degli Usa contro il governo Assad, travestita da “rivoluzione democratica”. Ora la partita è persa, ammesso che la Russia – assediata al confine con l’Ucraina – riesca a mantenere la sua assistenza alla Siria. Punto di svolta, la strage di civili del 2013 sterminati dai “ribelli” col gas nervino per tentare di incolpare il governo di Damasco. Il casus belli perfetto per inennescare i bombardamenti della Nato, fermati in extremis nel settembre del 2013 da un’inedita alleanza: i milziani libanesi di Hezbollah e le truppe speciali inviate dall’Iran in Siria, il “no” di Papa Francesco e quello del Parlamento britannico, le navi da guerra dislocate dalla Cina nel Mediterraneo in appoggio alla flotta del Mar Nero schierata da Putin a protezione dei siriani. Adesso che l’operazione è fallita, lo ammette anche il “Wall Street Journal”: sono stati gli Usa ad armare i “ribelli” che, vista la mala parata in Siria, ora combattono in Iraq sotto il nome di Isis.

  • Francesi coi terroristi in Siria, segreto che inchioda Hollande

    Scritto il 09/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.
    Oggi, grazie alle nostre fonti presenti sul posto, possiamo dire come sono avvenute le cose in quelle ore: Baba Amr è stata letteralmente consegnata all’Esercito di Damasco in cambio del silenzio. Quegli ufficiali, tra i quali molti francesi, hanno abbandonato la Siria in dieci bus, nascosti alla vista di tutti grazie ai finestrini oscurati. Per garantire l’anonimato vennero perfino montate delle tende all’interno dei mezzi. Nessuno doveva sapere che in mezzo ai terroristi erano presenti anche gli ufficiali e i militari francesi. Nessuno doveva vedere.
    Quel convoglio di dieci bus lasciò la Siria attraversando il confine con la Turchia. Poi si persero le tracce. Quello che è successo a Parigi è terribile. Ma non sfugge a nessuno come la Francia sia responsabile di aver armato e addestrato questi finti rivoluzionari. Alcuni di questi sono partiti da Parigi alla volta della Siria per far cadere un governo che fino a quel momento aveva vissuto in pace con chiunque. Mai in alcun modo Bashar al Assad aveva attentato alla sicurezza nazionale dell’Europa, degli Stati Uniti, dei paesi del Golfo. Mai.
    Il presidente siriano era rispettato a livello internazionale e considerato come uno dei più importanti attori per la stabilità del Medio Oriente. Di questa opinione era, ad esempio, l’attuale sottosegretario di Stato americano John Kerry. Chi ha ucciso le 12 persone a Parigi non può essere considerato un “terrorista” in patria e, allo stesso tempo, un “ribelle democratico” in Siria. Bisogna essere onesti e avere il coraggio di dire che questa sporca guerra voluta dall’Occidente ha molte mani insanguinate. Quelle dei terroristi. E anche quelle di Hollande. Il peggior presidente della storia della repubblica francese. Lunga vita a “Charlie Hebdo”. Lunga vita soprattutto a quei giornalisti che in Siria sono morti per raccontare le atrocità commesse dai terroristi, nel silenzio assoluto dei media nazionali che solo oggi parlano di libertà di stampa e di espressione. Per loro mai una copertina e neppure un titolo sul giornale.
    (Alessandro Aramu, “Quegli ufficiali francesi nella roccaforte dei terroristi a Baba Amr in Siria”, da “Sponda Sud” dell’8 gennaio 2015. Giornalista, Aramu è autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas, Messico, e sul movimento Hezbollah in Libano, ed è co-autore dei volumi “Syria. Quello che i media non dicono” e “Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria”, entrambi editi da Arkadia).

    Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.

  • Io non sono Charlie, che è complice dei nostri veri assassini

    Scritto il 09/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.
    Accanita seminatrice di odio antislamico, beceramente razzista, un concentrato di volgarità, vuoi di solleticamenti pruriginosi (Wolinski), vuoi da ufficio propaganda dei macellai di musulmani, al servizio del suprematismo euro-atlantico-sionista e, dunque, vessillo della civiltà occidentale a tutti cara, pure alle banche. Tanto che queste la salvarono dal fallimento e le infilarono economisti di vaglia, come Bernard Maris, pure dirigente nel Consiglio Generale della Banca di Francia. Rientra in questo ordine di cose l’entusiasmo con cui il mattinale ha accolto l’opera del sodale Michel Houellebecq, celebratissimo e ora protettissimo romanziere, il cui capolavoro, “La sottomissione”, è uscito in felice sincronismo con l’attentato. La sottomissione deprecata per tutte le centinaia di pagine è quella dell’Occidente che ha “rinunciato a difendere i suoi valori” e “ha ceduto all’Islam, la più stupida delle religioni”. Non meraviglia che, sul “Il Fatto Quotidiano”, il vignettista Disegni solidarizzi con i colleghi parigini e, in particolare, con il già citato amico e maestro Wolinski.
    Chissà perché m’è venuto in mente il giorno, al tempo del disfacimento Nato della Jugoslavia, quando collaboravo a una sua rivista, in cui Disegni mi cacciò dal giornale, spiegandomi che non poteva tollerare nel suo giornale uno che stava dalla parte dei serbi. House Organ di sinistra, con altri (“Libération”, “Le Monde”), dei servizi segreti franco-israeliani, è anello fintamente satirico della catena psicoterrorista che ci deve ammanettare tutti e trascinarci convinti alla guerra contro democrazia e resto del mondo. L’attentato parigino, preceduto dagli altri tre grandi episodi della campagna per il Nuovo Ordine Mondiale, Torri Gemelle-Pentagono, metrò di Londra, ferrovia di Madrid (ma noi siamo stati gli antesignani: Piazza Fontana, Italicus, Brescia, Moro, le bombe del mafia-regime), si inserisce alla perfezione nella storia del terrorismo “false flag”. Minimo, o massimo, comune denominatore, un cui prodest che si risolve immancabilmente a vantaggio della vittima conclamata e a esiziale detrimento dei responsabili inventati.
    L’apocalisse scatenata dal capitalismo terrorista in tutto il mondo, come di prammatica anche stavolta è stata firmata dall’urlo Allah-U-Akbar. Prova inconfutabile di chi siano i mandanti, no? A prima vista, l’operazione rientra nella campagna di destabilizzazione dell’Europa che, attraverso sfascio economico-sociale, conflitti interetnici e misure di “sicurezza”, deve rafforzare la marcia verso Stati di polizia, politicamente ed economicamente assoggettati all’élite sovranazionale, ma controllati da proconsoli e signori incontrastati della vita dei loro sudditi. Si possono individuare due motivazioni specifiche: una punizione USraeliana a Hollande, che non si era peritato di invocare la revoca delle sanzioni al mostro russo, inaccettabile incrinatura del blocco bellico del Nuovo Ordine Mondiale (avviso alla Merkel e ad altri devianti), con effetti a lungo termine di disgregazione sociale e conflitto inter-etnico; oppure un contributo della casta antropofaga francese, in questo caso concordato con i padrini d’oltremare, alla guerra infinita esercitata, fuori, contro le colonie recuperande (Mali, Chad, Rca, Maghreb) e, a casa, contro il cuneo sociale islamico e l’insubordinazione di massa che compromettono le mire dei correligionari dei maestri di Tel Aviv, Hollande, Fabius, Sarkozy, Lagarde.
    Pensate alle ricadute della carneficina “islamista” di Parigi, ascoltate gli ululati delle mute di sciacalli che per un bel po’ avranno modo di cibarsi di cadaveri della verità. Quante ragioni di più avranno, agli occhi dei decerebrati dai media, i trogloditi nazifascisti e razzisti che si aggirano in sparuti ma vociferanti drappelli per l’Europa, e sono tanto utili a spostare il giudizio di estrema destra, di fascismo, dalla classe dirigente a queste bande di manipolati. Quanto si attenuerà la protesta per le immonde condizioni dei migranti invasori. Quanto ne saranno rafforzati l’impeto e l’impunità degli addetti alla repressione di “corpi estranei”, come dei dissidenti autoctoni: Ilva, Tav, Tap, Trivelle, basi militari, disoccupazione, miseria, Renzi che toglie gli ultimi lacciuoli ai grandi evasori (avete visto che chi guadagna di più potrà evadere di più) e a quelli in cui era stata costretta l’inclinazione a delinquere di Berlusconi. Sempre più degna dei suoi antichi e recenti titolari, si ergerà una civiltà partorita dai roghi e dagli squartamenti di mille Torquemada, dalle crociate da mille anni mai interrotte, dalla guerra infinita, dal dio bliblico, il più sanguinario e protervo della storia.
    Bonus aggiuntivo, la distrazione di massa occidentale dalla dittatura neoliberista in progress, dal genocidio sociale euro-atlantico e dalle guerre militari ed economiche che portano avanti. La distrazione, da noi, dalle canagliate, una dopo l’altra, che ci infliggono il ciarlatano zannuto e le sue risibili ancelle. Tutto questo si ripete nei secoli della tirannia feudalcapitalista, monotonamente e anche con trasparente pressapochismo, salvaguardato, però, dalle coperture mediatiche. Coperture nelle grandi occasioni condivise con passione sfrenata dal “Manifesto”: mobilitati tutti i furbi e i naives della redazione e del suo cerchio magico per ben 13 articoli fiammanti per 6 pagine, fotone e vignette, in difesa della libertà di stampa offesa. Ce ne fosse uno, tra questi pensosi guru del politically correct, che, sulla scorta di una storia clamorosa di “false flag” padronali, da Pearl Harbour al Golfo del Tonchino, dallo stesso 11 Settembre al piano del  Pentagono (Northwoods) di far saltare per aria, sotto etichetta cubana, palazzi governativi negli Usa e abbattere un aereo di studenti statunitensi nel cielo dell’Isola, avesse osato un assolo problematico, dubbioso.
    Gli autori dell’eccidio, veri professionisti che non avevano nemmeno effettuato un sopralluogo sulla scena. Che bisogno c’era? Servono così, bruti selvaggi, tanto dietro hanno chi professionista lo è davvero. Kalachnikov alla mano e passamontagna sul viso, hanno sbagliato portone e cercato indicazioni da un passante. Sono stati identificati prima ancora che si asciugasse il sangue. Nuovamente esponenti di quella comunità islamica che stoltamente si è tollerata, che deve stare bagnata con la coda tra le gambe. Tre di quei 18mila tagliagole stranieri, perlopiù europei, di cui l’Intelligence e la polizia sapevano tutto e li tenevano fissi d’occhio e di intercettazioni, ma che potevano agevolmente espatriare, addestrarsi nelle basi governate da istruttori Usa-Nato e gestite dai subalterni giordani, turchi, qatarioti, sauditi. Per poi altrettanto agevolmente rientrare, sotto lo sguardo comprensivo dei protettori dello Stato, e dedicarsi al mercenariato imperiale domestico. Di conseguenza, si ammette, sorveglianza zero sui “potenziali terroristi”, pur celebrati dall’ossessiva vulgata del “nemico della porta accanto”.
    Ora, vista la figuraccia del mancato controllo su uscite verso il Medioriente e rientro, cambiano versione: quelli lì non sono affatto stati in Siria. Invece si sono addestrati sparacchiando qua e là per Parigi, con tanto di istruttori di rango, sempre fuori da sguardi e cimici indiscreti. Figuraccia al cubo. E così, dal momento in cui è iniziata la sparatoria, subito ripresa e telefonata dai giornalisti di “Ch” con telefonino e comunicata dal furgone della polizia sul posto, poi mitragliato, è passata quasi mezz’ora prima dell’arrivo di rinforzi, in una delle metropoli più sorvegliata e tecnologizzata del mondo. Chi fossero i tre, mica s’è saputo grazie al costante controllo su movimenti e discorsi scientificamente condotto dai modernissimi flic tecnologizzati francesi. Figurati, è bastata una carta d’identità abbandonata nella fuga da un attentatore che, comprensibilmente, terminata la sparatoria e in fuga frenetica dalla scena, ha ammazzato il tempo tirando fuori il portafoglio (per vedere se bastava per il taxi?) e frugatoci dentro, estratta la tessera, l’ha posta in bella evidenza sul sedile.
    Ricorda quell’umoristico passaporto di Mohammed Atta, presunto capofila dei dirottatori dell’11/9, trovato lindo e intonso nel pulviscolo di tre grattacieli disintegrati. Con Atta che dal padre viene rivelato vivo, nella disattenzione assoluta dei gazzettieri. Visto che ovviamente la carta d’identità è stata lasciata a bella posta, quale sarà stato lo scopo? Indicare una testa di legno come autore e coprire quelle vere? Vedremo, nei prossimi giorni, quanto questa operazioni prodest all’Obama in precipitoso calo di consensi (come lo era Bush al tempo delle Torri), a multinazionali, banche, Pentagono e armieri, tutti quelli che devono gestire il trasferimento di ricchezza dalla periferia al centro e dal basso verso l’alto. E poi, scendendo per li rami, a un’Ue di nominati da business e arsenali, in crisi di credibilità e fiducia; a despoti europei reclutati per fare da capro espiatorio pagatore nella guerra alla Russia e al resto del mondo; a produttori di tecnologie per il controllo sociale; alle combine mafiose tra Pd e soci e faccendieri. Allo sparaballe in carenza di aria fritta. Al papa che sollecita gli islamici, solo loro, a farla finita con il terrorismo. Dall’altra parte, vedremo di che prodest ci avvantaggeremo noi, comuni mortali, islamici, cristiani o niente, di che lacrime gronderemo e di che sangue….
    Concludendo, un esercizio di fantasia. Immaginiamo cosa sarebbe successo, in termini di esecrazione e persecuzione degli antisemiti, se quelle vignette su Allah a culo all’aria e Maometto stupratore bombarolo avessero preso di mira Jahve, Mosé, o un qualsiasi “eterno ebreo” alla Himmler. E immaginiamo anche cosa risponderebbero quelli delle attuali chiassate per la libertà di stampa, nel paese al 69° posto per libertà di stampa, Ordine dei giornalisti e categoria tutta, se gli si chiedesse di manifestare per le centinaia di giornalisti assassinati nei paesi sotto tutela amica, Iraq, Messico, Honduras. Sempre più urgente e credibile, fondata su potenzialità politico-economico-militari letali per la criminalità organizzata che regge un impero in decadenza, diventa la formazione del fronte antagonista avviato da Hugo Chavez e portato avanti con intelligenza e dinamismo da Vladimir Putin: blocco asiatico-latinoamericano di Russia, Cina, Brics, governi e masse insubordinati. Ne consegue l’urgenza di smascherare e spazzare via i contractors della sedicente “Sinistra” che abitano nei sottoscala del menzognificio imperiale e ne ripetono le deformazioni della realtà finalizzate alla criminalizzazione dei diversi non sottomessi: lo “zar” omofobo Putin, “dittatori” vari, i musulmani, “violenti” asociali di varia estrazione, purchè non militari e poliziotti.
    (Fulvio Grimaldi, “Io non sono Charlie”, dal blog di Grimaldi dell’8 gennaio 2014.

    Qui solo qualche veloce considerazione. L’attentato ha colpito un bersaglio perfetto per alimentare di magma vulcanico la “guerra al terrorismo”, tirarci dentro milionate di boccaloni destri e sinistri a sostegno di guerre e “misure di sicurezza”, fornire benzina ai piromani dell’universo mediatico e politico globalizzato. Tutto nel nome di quella sacra “libertà di stampa”, simbolo della nostra superiore civiltà, rappresentata da noi da becchini della libertà di stampa come la Botteri, Pigi Battista, Calabresi, Gramellini, Mauro, Scalfari e, nel resto dell’emisfero, da presstituti solo un tantino meno rozzi di questi. Un verminaio ora rimescolato e infoiato da un evento che gli dà la possibilità di coprire la propria abiezione con nuovi spurghi di odio e menzogne. “Charlie Hebdo” è una rivista satirica che ha la sua ragion d’essere nell’islamofobia, cioè nella guerra imperiale al “terrorismo” e contro diversi milioni di cittadini francesi satanizzati perché con nome arabo.

  • Gentiloni tra gli Usa, Israele e il gas russo gestito dall’Eni

    Scritto il 04/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Un ministro vicino a Israele e al Vaticano ma soprattutto devoto a Washington, per controbilanciare la perdurante amicizia con la Russia, via Eni. E’ la lettura che Aldo Giannuli fornisce della nomina di Paolo Gentiloni come ministro degli esteri, dopo giorni difficili nei quali Renzi ha dovuto affrontare la manifestazione della Cgil e il pestaggio degli operai di Terni. Gentiloni, si dice, non era nella rosa iniziale dei candidati per la sostituzione della Mogherini. Imposto dal Colle? Eppure «viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano». Non era in pole position in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? «Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince». Perché a Gentiloni non si è arrivati subito? Probabilmente, spiega Giannuli nel suo blog, perché la suia nomina fa parte di una partita complessa, fatta soprattutto di energia e business, in cui l’Italia si colloca a metà strada tra gli Usa, che puntano a punire la Russia, e Israele, che invece non gradisce le sanzioni contro Putin e rimprovera Obama di non aver sferrato un attacco contro l’Iran.
    Dopo «una breve scapigliatura giovanile», dal Movimento Studentesco ai comunisti del Pdup passando per una collaborazione con il “Manifesto”, dov’era ritenuto esperto di mondo cattolico, «Gentiloni è andato a sciacquare i suoi panni nel Potomac, diventando uomo assai sensibile alle ragioni a stelle e strisce», scrive Giannuli. «E ancor più sensibile è diventato, con il tempo, alle ragioni di Israele: è interessante constatare come proprio alla vigilia della sua nomina, Gentiloni abbia avuto un caloroso incontro con i maggiori rappresentanti della comunità ebraica italiana». Non è un mistero, aggiunge Giannuli, che da almeno cinque anni, cioè dall’epoca del “discorso del Cairo” di Obama, Washington e Tel Aviv procedano «in direzioni via via divaricanti», sicché «l’intesa non è più quella di un tempo». Si sa: «Israele avrebbe voluto l’intervento in Iran che non c’è stato», e inoltre «non ha visto affatto di buon occhio la “primavera araba” che gli Usa hanno, in parte, incoraggiato». Parallelamente, «Washington si è mostrata meno allineata del passato ad Israele sulla questione palestinese». Ma soprattutto, in tempi recenti, «è la questione energetica a dividere i due vecchi sodali».
    Gli Usa, ricorda lo storico dell’ateneo milanese, hanno l’obiettivo strategico di indebolire la Russia e in particolare la sua influenza sull’Europa, determinata dal peso delle sue forniture di gas. «A questo scopo, gli Usa hanno cercato in tutti i modi di impedire la nascita del gasdotto “Southstream”, prima con il progetto concorrenziale “Nabucco”, dopo spingendo per l’inserimento del Quatar nella rete metanifera europea». Entrambe le questioni vedono al centro il nostro paese, sottolinea Giannuli: “Southstream” avrebbe dovuto essere costruito dall’Eni (ora non sappiamo che fine farà il progetto), mentre la via più semplice per agganciare il Qatar alla rete europea è agganciarlo al gasdotto italo-libico-algerino, operazione tentata nel 2005 e bloccata dal governo Berlusconi, per evidenti preferenze moscovite. Scelta che i quatarioti «si legarono al dito, rendendo all’Italia pan per focaccia in occasione della crisi libica». Va da sé, conclude Giannuli, che Israele veda il piano di inserimento del Qatar come il fumo negli occhi. Ed è ovvio, dato che il Qatar finanzia i Fratelli Musulmani: sicché, «accentuare la dipendenza dell’Europa dalle forniture di un paese arabo è in palese contrasto con i suoi interessi strategici». Per questo, «si è determinata una oggettiva convergenza fra Mosca e Tel Aviv».
    Il problema era tornato per un attimo alla ribalta, all’inizio della crisi ucraina, in occasione del viaggio di Letta in Qatar per trattare sull’ingresso degli arabi in Alitalia. Poi la tempestiva crisi del governo Letta bloccò sul nascere la ripresa del disegno. Dopo, con il governo Renzi (sul quale si sa avere molta influenza l’economista Yoram Gutgeld, già ufficiale superiore dell’esercito israeliano), sono venute le nomine Eni con la promozione di Claudio De Scalzi al posto che fu di Paolo Scaroni e, con essa, la conferma piena degli orientamenti filorussi dell’ente petrolifero di Stato. Insomma, «nel governo Renzi si è riprodotta in sedicesimo quella convergenza russo-israeliana di cui dicevamo», spiega Giannuli. «E gli americani non hanno affatto gradito, riservando al giullare fiorentino più di uno sgarbo». Poi, «puntuale come Big Ben», è arrivato lo scandalo Nigeria, «che ha colpito De Scalzi, oltre che Scaroni». Renzi? «In un primo momento ha difeso a spada tratta De Scalzi, ma si è molto raffreddato quando questi, per salvarsi, ha buttato a mare Scaroni (“decideva tutto lui”). E il gelo è sceso in occasione della visita di Italia di Li Kequiang, quando, alla cerimonia della firma dei contratti d’affari conclusi, tutti hanno notato la clamorosa assenza di De Scalzi, unico a mancare fra i big delle imprese di Stato».
    Sembra quindi che tutto confermi che sia in atto «una nuova puntata della guerra segreta dei gasdotti e che essa passi per il governo italiano», ragiona Giannuli. «Di qui la necessità di un ministro degli esteri molto ben accreditato sia presso Washington che presso Tel Aviv per trovare una mediazione in un conflitto che potenzialmente può travolgere il governo». Meglio ancora se questo mediatore dispone di buone entrature in Vaticano ed è amico di un personaggio come Stefano Silvestri, «altro ex estremista passato al campo a stelle e strisce», che può contare a sua volta su amici a Mosca e a Washington. Resta il rebus sulle modalità della nomina di Gentiloni: «Come mai un nome così perfetto non è stato la prima scelta? Forse perché occorreva coprirlo con altre candidature di parata, per non bruciarlo nel partito, dove c’erano altri candidati pure renziani? O per distrarre l’attenzione dal vero senso dell’operazione?».

    Un ministro vicino a Israele e al Vaticano ma soprattutto devoto a Washington, per controbilanciare la perdurante amicizia con la Russia, via Eni. E’ la lettura che Aldo Giannuli fornisce della nomina di Paolo Gentiloni come ministro degli esteri, dopo giorni difficili nei quali Renzi ha dovuto affrontare la manifestazione della Cgil e il pestaggio degli operai di Terni. Gentiloni, si dice, non era nella rosa iniziale dei candidati per la sostituzione della Mogherini. Imposto dal Colle? Eppure «viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano». Non era in pole position in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? «Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince». Perché a Gentiloni non si è arrivati subito? Probabilmente, spiega Giannuli nel suo blog, perché la suia nomina fa parte di una partita complessa, fatta soprattutto di energia e business, in cui l’Italia si colloca a metà strada tra gli Usa, che puntano a punire la Russia, e Israele, che invece non gradisce le sanzioni contro Putin e rimprovera Obama di non aver sferrato un attacco contro l’Iran.

  • Divide et impera, fabbricare nemici per imporre il caos

    Scritto il 03/11/14 • nella Categoria: Recensioni • (2)

    Divide et impera, è la legge imperiale del caos che domina il mondo dopo gli attentati-fantasma dell’11 Settembre, che hanno terremotato la geopolitica planetaria rilanciando la presenza militare di Washington in ogni continente, attraverso la “guerra infinita” cominciata in Afghanistan e proseguita in Iraq, Libia e Siria, passando per il Nordafrica delle “primavere arabe” e l’Ucraina del sanguinoso golpe di Kiev. Si intitola “Divide et impera” l’ultimo saggio di Paolo Sensini, che mette a fuoco “strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”. Grande protagonista la superpotenza americana, alle prese con la grande crisi economica, e il suo alleato israeliano. Sul fronte opposto l’ascesa globale dei Brics, guidati dalla Cina e dal potenziale difensivo della Russia. L’analisi, osserva Giacomo Guarini, si concentra sull’evolvere degli scenari programmati dall’élite statunitense per tentare di mantenere la propria egemonia mondiale. Un copione ricorrente: il terrorismo per fabbricare nemici, l’intervento armato per presidiare territori strategici. Nessun continente è escluso dal grande gioco, a cominciare dall’Africa.
    Il saggio di Sensini, scrive Guarini su “Megachip”, si conclude proprio con l’analisi della situazione in Mali, a due passi dalla Nigeria minacciata dai jihadisti di Boko Haram. Due scenari, dice l’autore, che concorrono a disegnare l’attuale frontiera della “strategia del caos” nel continente africano. I gruppi come Boko Haram, «ovviamente ben supportati dai loro confratelli e dalla rete di poteri che si è mobilitata a partire dalle cosiddette “primavere arabe”», secondo Sensini sviluppano «un’offensiva ad ampio raggio delle milizie islamiste, con il solito tributo di sangue e atrocità», provocando esodi di massa. Scenari che ricordano da vicino quello dell’attuale Libia: «Purtroppo non era difficile prevedere ciò che sarebbe accaduto scoperchiando il “vaso di Pandora” libico, ossia sbarazzarsi militarmente di Gheddafi e lasciare quindi il paese senza una vera leadership», afferma Sensini. «Del resto, l’obiettivo era esattamente questo: consegnare il paese in preda a bellicose tribù rivali e contrapposte, tese unicamente a rafforzare ed espandere quanto più possibile il loro potere territoriale».
    Anche l’analista geopolitico più sprovveduto, continua Sensini, poteva agevolmente prevedere ciò che avrebbe significato un intervento occidentale di quel genere, «peraltro del tutto pretestuoso e infondato anche sul piano del diritto internazionale», con il quale Francia, Gran Bretagna, Usa, petromonarchi del Golfo, Turchia e Italia hanno iniziato i bombardamenti sistematici sulla Libia. «Ora è del tutto irreale pensare che un tale groviglio inter-tribale possa essere sbrogliato nel breve-medio periodo. Quindi, gli allarmi lanciati adesso dalla classe politica-burocratica e dal mainstream giornalistico suonano fasulli e grotteschi per due ordini di ragioni: primo, perché se non conoscevano la situazione interna libica e hanno avallato la guerra, avendo oltretutto l’Italia stipulato nell’agosto 2008 un “trattato di amicizia e cooperazione” che vincolava i due paesi, sono degli incompetenti del tutto inidonei a occuparsi degli affari pubblici; secondo, se sapevano e si sono nonostante ciò prestati a questa sporca operazione sono degli irresponsabili in malafade».
    Oggi, l’agenda del caos travolge soprattutto Iraq e Siria, con l’ultimo spettro islamista utilizzato per spaventare l’opinione pubblica occidentale: il Califfato Islamico. «L’Isis non è quella “strana creatura” saltata fuori dal nulla, come vorrebbe far credere il circo mediatico internazionale – premette Sensini – ma è il frutto di una lunga e laboriosa cooperazione tra diverse entità, durata svariati anni». E’ avvenuta esattamente la stessa cosa «anche con il suo “gemello” attualmente in disarmo, Al-Qaeda», con la quale l’Isis «era in simbiosi fino a poco tempo fa». Per Sensini, «non è infatti credibile che, in uno degli spazi più monitorati e tenuti sott’occhio dagli apparati di sicurezza di mezzo mondo, tale gruppo abbia potuto dilagare a sorpresa e conquistare in pochi giorni una così ampia fetta di territorio tra Siria e Iraq per stabilirvi il cosiddetto “Califfato islamico”». Un’operazione, questa, «che invece ha tutta l’aria di essere una risposta alle esigenze geopolitiche scaturite dalla sconfitta subita dalle milizie fondamentaliste in Siria, la quale poneva l’esigenza di spezzare quanto prima l’asse che, di fatto, lega vicendevolmente il regime siriano all’Iran». Tra i due paesi, infatti, a dispetto dei piani statunitensi e israeliani sull’intera area a partire dal marzo 2003, «è prevalsa in Iraq una realtà politico-sociale organica agli interessi iraniani, che non può che rappresentare un intralcio ai progetti di risistemazione del “Grande Medio Oriente”».
    Fallisce l’assalto alla Siria e cresce il ruolo dell’Iran, contrario alla guerra? Ecco allora «la repentina insorgenza di un gruppo su cui l’opinione pubblica occidentale non sapeva nulla, ma che è nato e prosperato sotto gli auspici di Arabia Saudita, Qatar, Stati Uniti, Turchia e Israele». Quale credibilità può avere, infatti, l’autoproclamato “califfo”, Abu Bakr al-Baghdadi? Il suo vero nome, spiega Sensini, pare essere Ibrahim al-Badri. E la notizia è che, prima di lanciarsi nell’impresa del fantomatico Emirato Islamico, era stato detenuto – tra il febbraio 2004 ed il 2009 – a Camp Bucca, in Iraq, fino a quando venne rimesso in libertà dalle autorità statunitensi: una commissione speciale, il “Combined Review and Release Board”, ne raccomandò il “rilascio incondizionato”. Tutto molto strano. Al punto che la sua liberazione, aggiunge Sensini, suscitò il preoccupato stupore del colonnello Kenneth King, tra gli ufficiali di comando a Camp Bucca nel periodo di detenzione di “al-Baghdadi”, certamente un soggetto dal profilo poco rassicurante.
    Questo, dice Sensini, spiegherebbe la riluttanza degli Stati Uniti a utilizzare i droni e la Us Air Force per contrastare l’immediata avanzata in Iraq della milizia sunnita dell’Isis, com’era invece stato richiesto con insistenza dal primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, di appartenenza sciita. Per mesi, l’Isis ha avuto letteralmente mano libera nel territorio iracheno, avanzando indisturbato – e armato fino ai denti – sotto l’occhio vigile dei satelliti americani. Infine, dopo l’orrore suscitato dalle decapitazioni di giornalisti occidentali, il “puntuale” voltafaccia e la risoluzione 2170 votata prontamente dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con gli Stati Uniti alla guida di un’ampia coalizione internazionale di “volenterosi”, decisi a bombardare nuovamente la Siria per “sconfiggere i terroristi dell’Isis”, cioè gli uomini condotti sul terreno dall’ex terrorista “al-Baghdadi”, misteriosamente e precipitosamente rilasciato cinque anni fa.
    Luce verde all’Isis, dunque, fino a ieri, soprattutto grazie alla «inaspettata resistenza della Siria di Bashar al-Assad». Nelle previsioni iniziali degli Usa, il presidente siriano doveva essere rovesciato e il paese «spezzettato su linee etnico-confessionali». Tutto ciò non è avvenuto, come sappiamo, «anche grazie al veto in sede Onu da parte di Russia e Cina, che hanno scongiurato la guerra contro la Siria». Nel frattempo, con l’ennesimo raid stragistico su Gaza, gli israeliani ne hanno approfittato per proseguire la loro pulizia etnica ai danni dei palestinesi, perfettamente sicuri, come al solito, «della più completa impunità di fronte alla comunità internazionale». E mentre si cade e si muore in tutto il “Grande Medio Oriente”, la geopolitica del caos ha travolto anche l’Est Europa, minacciando da vicino la Russia. «In effetti – rileva Sensini – le similitudini e i punti di contatto che si possono ravvisare tra ciò che sta accadendo in Ucraina e le “primavere arabe” sono molteplici. Non a caso, i rivolgimenti avvenuti nel corso degli anni in diversi paesi dell’Est sono stati definiti “rivoluzioni colorate” per marcarne, appunto, l’eterodirezione e il supporto ricevuto dall’esterno: basti solo pensare alla gestione mediatica delle varie crisi e al ribaltamento della realtà operati in questo come nei contesti mediorientali».
    In Ucraina, «il sostegno al governo di Kiev burattino degli americani e le sanzioni alla Russia assediata dalla Nato mirano a indebolire sempre più la sua sfera d’influenza». Circostanza non casuale, perché negli ultimi anni Mosca «ha ritrovato una crescente capacità d’intervento e prestigio nel contesto geopolitico internazionale, come ha ben dimostrato la vicenda siriana, dove – se non vi fosse stato il veto russo all’interno del Consiglio di sicurezza Onu – ci saremmo trovati dentro uno scenario bellico dagli esiti imprevedibili». Ulteriore analogia col Medio Oriente, le forze in campo: anche in Ucraina, come nel caso delle “primavere arabe”, le forze occidentali «hanno supportato i “ribelli”, presentati invariabilmente come dei sinceri rivoluzionari, desiderosi d’instaurare dovunque la “democrazia”». Copione già visto, con esiti orrendi e nuovi dittatori, peggiori dei precedenti. Esportare la democrazia? Capiremo molto presto, sulla nostra pelle, «cosa significa il dispiegamento della “strategia del caos”». Tempo al tempo, dice Sensini, e scopriremo di che pasta sono i nuovi mostri fabbricati dagli Stranamore di Washington.
    (Il libro: Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, Mimesis Edizioni, 322 pagine con 26 tavole illustrate, 24 euro).

    Divide et impera, è la legge imperiale del caos che domina il mondo dopo gli attentati-fantasma dell’11 Settembre, che hanno terremotato la geopolitica planetaria rilanciando la presenza militare di Washington in ogni continente, attraverso la “guerra infinita” cominciata in Afghanistan e proseguita in Iraq, Libia e Siria, passando per il Nordafrica delle “primavere arabe” e l’Ucraina del sanguinoso golpe di Kiev. Si intitola “Divide et impera” l’ultimo saggio di Paolo Sensini, che mette a fuoco “strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”. Grande protagonista la superpotenza americana, alle prese con la grande crisi economica, e il suo alleato israeliano. Sul fronte opposto l’ascesa globale dei Brics, guidati dalla Cina e dal potenziale difensivo della Russia. L’analisi, osserva Giacomo Guarini, si concentra sull’evolvere degli scenari programmati dall’élite statunitense per tentare di mantenere la propria egemonia mondiale. Un copione ricorrente: il terrorismo per fabbricare nemici, l’intervento armato per presidiare territori strategici. Nessun continente è escluso dal grande gioco, a cominciare dall’Africa.

  • Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama

    Scritto il 29/9/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
    L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».
    Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità  per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».

    Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.

  • Isis, finto nemico. Obiettivo: negare il petrolio alla Cina

    Scritto il 22/9/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».
    Quando, oltre dieci anni da, Giulietto Chiesa dava alle stampe “La guerra infinita” (Feltrinelli), prima coraggiosa indagine sulle menzogne ufficiali dell’11 Settembre funzionali all’imposizione imperialista del “Nuovo Secolo Americano”, i media mainstream si guardavano bene anche solo dal riportarne le tesi. Oggi, dopo anni di crisi catastrofica e focolai di guerra accesi praticamente ovunque, un editorialista in doppiopetto come Foa può permettersi si far sentire la sua voce indipendente dalle pagine del “Giornale”, attraverso il suo blog. «Sieti sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis?». Siamo seri: «L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia Saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto». E’ l’erede di Al-Qaeda, il nemico di ieri. «Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate», a carattere popolare in Tunisia e in Egitto, deflagrate in guerra civile prima in Libia e poi in Siria. «Guerra durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte».
    In Siria, a scendere in campo contro Assad sono stati «soprattutto guerriglieri provenienti da altri paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa». Una forza opaca, «composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi». Fanatici ultra-religiosi, ammiratori di Al-Qaeda. «Ovvero, quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici. E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori – continua Foa – Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis».
    La guerra civile si è prolungata, Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi: «Hanno girato i cannoni e i blindati e hanno iniziato a scorazzare verso sud-ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Baghdad e di Mosul, mentre l’America lasciava fare». Fino a ieri, «Obama snobbava l’Isis, o più verosimilmente faceva finta». Come dire: sono giovani teste calde, non ci preoccupano. «Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis». Poi, nelle ultime settimane, l’accelerazione: i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storie umane agghiaccianti, racconti di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani. Così, «l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno». L’opinione pubblica occidentale? «Scioccata, di fronte a immagini terribili». E indotta, ovviamente, «a invocare una reazione forte contro i fanatici». Si sa: «La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”».
    Obama, seguendo uno schema classico dello “spin”, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, «annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”» e capace di coinvolgere, nello sforzo finanziario, «proprio quei paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis». Sicché, «nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, poi diventati amici, ora tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare». Risultato: Golfo Persico, Medio Oriente e Nordafrica sono in fiamme, «a oltre 11 anni dalla “guerra lampo” che avrebbe dovuto liberare l’Iraq». Disordine, violenza e morte divampano ovunque: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Iraq. E gli americani, guardacaso, «si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare». Nel lontano 2002, Giulietto Chiesa l’aveva annunciata, col nome di “guerra infinita”. Oggi, il mainstream continua a evitare di collegare tra loro i singoli fotogrammi. E Foa aggiunge una possibile chiave di lettura: gli Usa infiammano il petrolio del Medio Oriente per toglierlo ai cinesi. E’ il piano per il “Nuovo Secolo Americano”: dall’attentato alle Torri Gemelle, di strada ne ha fatta parecchia.

    Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».

  • Page 6 of 10
  • <
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
  • 6
  • 7
  • 8
  • 9
  • 10
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo