Archivio del Tag ‘radicamento’
-
Giannuli: Di Maio, neoliberismo populista funzionale all’élite
Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.«Aleggiava un certo odore neoliberista, che poi Di Maio provvedeva ad amplificare con dichiarazioni del tipo “dobbiamo metterci in testa che i governi devono accettare l’andamento dei mercati finanziari senza pretendere di influenzarli” o giù di lì». Il che, aggiunge Giannuli nel suo blog, «fa pensare che se il Pd (riposi in pace) fu la “socialdemocrazia neoliberista”, il M5S si candida ad essere il “populismo neoliberista”». E la scelta dei ministri, aggiunge il politologo, conferma purtroppo questa impressione. «I tre ministri dell’economia vengono dipinti come keynesiani o neo-keynesiani e si invocano le ombre di Krugman e di Stiglitz, ma sia l’uno che l’altro sono sostanzialmente dei neoliberisti che cercano di innestare quote di keynesismo nel neoliberismo, e non sono affatto fautori del superamento di questo sistema». Sempre che un governo Di Maio poi effettivamente nasca, continua Giannuli, staremo vedere come Fioramonti «pensa di abbattere del 40% il debito pubblico in 10 anni, di dare il reddito minimo di cittadinanza (che peraltro è una ricetta neoliberista), e di abbattere la pressione fiscale. Non è che le promesse son state troppe?». E poi, come ci si regola con l’Europa e con gli apparati ministeriali italiani?Quanto alla squadra di governo, Giannuli teme ci siano troppi “tecnici” (e di dubbia competenza), che farebbero tremendamente somigliare l’esecutivo Di Maio «ad un governo Monti in carta 5 Stelle» (Gioele Magaldi l’ha definito «un governo Monti senza Monti»). E al di là degli aspetti di linea politica, Giannuli ricorda che il Movimento 5 Stelle ha una serie di gravi handicap nel suo modello organizzativo: «Il debolissimo radicamento territoriale, il carattere di movimento di opinione assai volatile e il forte rischio di essere “scalato”», visti i meccanismi di selezione dei candidati: «Se il “controllo di qualità” è quello che abbiamo visto, la prossima volta nelle liste ci troviamo Dracula e Jack lo Squartatore!». Tutte cose che, per Giannuli, «minacciano la statica del Movimento, anzi del partito, che tale è al di là dei nominalismi». Un raggruppamento fortissimo sul piano elettorale ma assai fragile su quello politico. E quel che è peggio, con le idee tutt’altro che chiare sulla politica economica. Grosso rischio: l’entusiasmo degli elettori – 11 milioni di italiani, un votante su tre – potrebbe rapidamente trasformarsi in delusione, e quindi in rabbia. In altre parole: la vittoria è insidiosa, va maneggiata con cura.Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.
-
L’Italia sogna l’uomo forte, ma ha soltanto leader deboli
«Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica», scrive Diamanti su “Repubblica”. «Al “senso civico” è subentrato il “senso cinico”». Mentre, per citare Bauman, si è diffusa «la solitudine del cittadino globale». Ed è così che «la prospettiva di “un Uomo Forte al governo” è divenuta tanto popolare. Che non significa populista. Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti». A quel punto, «i cittadini restano soli», davanti ai loro monitor: «Dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i Pc, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone, mentre le dita battono sui tasti». Una “folla solitaria”, per echeggiare il noto saggio di David Riesman. «“Affollata” di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo, ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. “Autorevole”, non “autoritario”. Un “leader”, non un “dittatore”». Già, perché «questa società è allergica ai vincoli e alle regole: figurarsi se accetterebbe figure troppo “forti”. Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi, o le difficoltà che incontra Matteo Renzi».Fino a pochi mesi fa, infatti, si marciava verso un bicameralismo “imperfetto”, con un Senato ridimensionato. E una legge elettorale a doppio turno, «a sostegno di una democrazia maggioritaria». Tutto a monte: prima la bocciatura imposta dal referendum, che ha confermato l’attuale Senato e dunque il bicameralismo classico. Poi la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio: se per vincere bisogna ottenere il 40% dei voti, l’Italia resterà senza maggioranze né leadership precise, annota Diamanti sempre su “Repubblica”. Se Renzi è il vero sconfitto dal referendum, i vincitori sono frammentati e incompatibili tra loro. «E in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria», dal momento che «non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno».Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono semmai il ritorno dei partiti, come ha suggerito con qualche ironia Giuliano Ferrara, intervistato dall’“Unità”. «D’altra parte – aggiunge Diamanti – gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli, lontani dalla società e dal territorio». Il Pd, ad esempio, ha visto dimezzarsi i suoi iscritti negli ultimi tre anni: erano 76.000 nel 2013, oggi sono appena 37.000. Ma non è solo un problema italiano: la sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su “Le Monde”. In Francia, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, stretto fra la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron. Ma anche altrove: in Germania, in Spagna, in Gran Bretagna. E perché? Diamanti qui non lo spiega, ma la risposta sta emergendo in modo plateale: cooptata dall’élite neoliberista e privatizzatrice, l’ex “sinistra riformista” ha presentato ai cittadini ricette inevitabilmente “deludenti”, impopolari, che hanno gonfiato le fila dei cosiddetti “populisti”.In Italia, i personaggi teoricamente accreditati come uomini-contro sono Grillo e Salvini, il primo a capo di un “non-partito”, il secondo alla guida di una Lega che ieri era «il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa», mentre ora «si è a sua volta personalizzata», inseguendo con fatica «la prospettiva di una destra lepenista-nazionale», incarnata in Francia dall’unica figura “forte” sulla scena, Marine Le Pen, contraltare perfetto dell’altra lady di ferro europea, Angela Merkel: più che l’Uomo Forte, oggi, la politica europea propone la Donna Forte. E in Italia? «Dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti», conclude Diamanti. Partiti «dis-organizzati e poco radicati: anzi, s-radicati nella società e sul territorio». E così, «mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti». Perché la forza del leader «sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini», che sono «in cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi: per non sentirsi deboli, e disorientati». Si guarda agli Usa? «Da noi, però, non c’è un Trump», comunque lo si valuti, «ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste». Sicchè, chiosa Diamanti, «due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato».Da Trump a Putin, l’Uomo Forte torna di moda. Niente a che vedere con i grandi leader del passato, i giganti della storia del secondo ‘900 – Mao e Fidel, i Kennedy, Gorbaciov. In Italia ogni tanto qualche intellettuale rimpiange personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, leader identitari come Berlinguer, statisti spericolati come Craxi. Poi vennero Bossi e Berlusconi. Dopo la meteora Renzi, oggi siamo tornati al modello Gentiloni, «un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare, lontano dall’icona del Capo», osserva Ilvo Diamanti, che segnala quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un “uomo forte”. Dal lontano 2004, i sondaggi Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento, mai così estesa: 8 italiani su 10. «Significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini». Un segnale inquietante? Non proprio: «L’Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini, un Duce. Non manifesta una richiesta di “autoritarismo”. Piuttosto: di “autorità”. Cioè: di una leadership dotata di legittimità». Domanda che si è pian piano “personalizzata”, concentrata sulle singole persone, dopo che i partiti hanno perduto i legami con la società, gestendo istituzioni sempre più “lontane”, burocrazie anonime e minacciose come quella dell’Ue.
-
Cacciari: ma il M5S non farà guerra a Renzi sul referendum
Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.L’affermazione del Movimento 5 Stelle viene da lontano, e viene soprattutto dalle strutturali debolezze del Partito Democratico, che non dipendono tanto dalle lacerazioni interne, come si continua a blaterare, ma da una radicale debolezza del mondo in cui questo partito è stato organizzato fin dall’inizio, dimenticando totalmente il “problemino” di un suo radicamento territoriale, la valorizzazione delle energie locali. Sono scelte sciagurate, che dimostrano come la dirigenza ex socialdemocratico-comunista ed ex democristiana che hanno dato vita al Pd non comprendessero nulla, negli anni ‘90 e nel primo decennio del nuovo millennio, delle trasformazioni sociali e strutturali che erano in atto. Questo non è il senno di poi. Si chieda a Fassino delle decine di riunioni, anche con lui, e allora anche con Chiamparino, per vedere di organizzare un Partito Democratico federalistico, che puntasse sul radicamento territoriale nelle periferie. Le energie c’erano, basti pensare all’andamento del voto amministrativo nel ventennio berlusconiano: sempre vi era un’affermazione maggiore del centrosinistra, dell’Ulivo, rispetto al centrodestra.Tutto ciò è stato sradicato, è stato dimenticato, ed è da lì che nasce il successo dei grillini – da lì e poi, certo, anche da un movimento generale anti-sistema che è comune in tutta Europa. Ma la specificità del caso italiano va compresa lì. E non è che sia scomparsa la classe operaia, non è scomparso il lavoro dipendente. E cosa votano costoro, soprattutto i giovani? Votano 5 Stelle massicciamente, o stanno a casa. L’astensionismo? Impressionante, ma ormai è fisiologico: centrodestra e centrosinistra dovrebbero cambiare radicalmente (ma non c’è alcuna prospettiva), e diventare nuovamente attrattivi di settori dell’elettorato “ragionante”. Perché comunque questa non è l’astensione dell’indifferenza, è l’astensione del “non ne possiamo più”: non ne possiamo più di andare a scegliere in quale demagogia identificarci. Metà di quest’astensione è un’astensione matura, consapevole: non possiamo continuare a votare tra chi promette di più e chi è più incompetente. Questi dati non cambieranno fino a quando non ci sarà un’offerta politica più intelligente e più adeguata alle tragedie che viviamo.(Massimo Cacciari, “Risultato Torino sintomatico disastro Pd”, dichiarazioni rilasciate ad Anna Zippel per “Repubblica Tv” il 20 giugno 2016).Il voto politicamente decisivo, per Renzi, era Milano. S’è salvato, a Milano, e adesso può continuare a raccontare che il voto non è politicamente significativo. Ma, a questo punto, la sfida di ottobre diventa per lui assolutamente decisiva. E, con i risultati di queste elezioni, se il Movimento 5 Stelle si dovesse impegnare davvero “pancia a terra” per il referendum, per il No, rischia la pelle. Ma non ne sono convinto: non sono affatto convinto che il Movimento 5 Stelle condurrà una battaglia all’ultimo respiro su questo tema, perché ormai è evidente che al Movimento 5 Stelle la riforma Renzi conviene, è molto semplice – a meno che Renzi non decida di cambiare la legge elettorale. Come vado ripetendo dall’inizio della sua avventura, quello dei 5 Stelle non è un movimento di destra, assolutamente, e quindi anche una certa riforma istituzionale molti dei militanti l’avrebbero appoggiata. Metà dell’elettorato e dei militanti 5 Stelle hanno una storia che è Ulivo, è centrosinistra; sono persone che la sciagurata direzione del centrosinistra, dell’Ulivo prima e del Pd dopo, ha perso per strada. Non hanno nulla a che fare, antropologicamente, col Fronte Nazionale e Lega, sono molto più simili agli Tsipras, ai Podemos. Quindi, perché dovrebbero schierarsi “usque ad mortem” contro Renzi sul referendum? Non credo che lo faranno, e non solo per ragioni tattiche.