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Archivio del Tag ‘Regioni’

  • Partiti fantasma, a pezzi, per una democrazia senza popolo

    Scritto il 20/4/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.
    Lo iato tra livello nazionale e “periferia” non potrebbe essere più vistoso, dal Veneto alla Puglia. Ma rischia di suggerire una contrapposizione tra due fenomeni in realtà speculari. L’esplosione dei legami dentro e tra i partiti non è soltanto la certificazione del fallimento di un’idea di federalismo. Riflette anche le scissioni sociali che sono avvenute in questi anni in un’Italia affacciata sul vuoto dell’azione politica. Sono la versione minore e moltiplicata delle migrazioni parlamentari registrate in questi anni alle Camere: indizi di un malessere ormai cronico. Le spaccature e le riaggregazioni locali nel centrodestra, nella Lega, perfino nel Pd, imitano alla perfezione i conflitti alla Camera e al Senato. Replicano “cambi di casacca” che non sono solo frutti dell’opportunismo: rivelano un trasversalismo privo di nobiltà, e alimentato da identità debolissime e stralunate. Il cemento è il micro-interesse, e tanti micro-narcisismi collettivi che rendono difficile qualunque aggregazione forte e duratura.
    La domanda è se e chi riuscirà a ricompattare questo magma centrifugo. In apparenza, il modello verticale di Matteo Renzi lo sta facendo. Ma la distanza tra il premier o il capo della Lega, Matteo Salvini, o Beppe Grillo, i tre oggi in auge, e il caotico agitarsi di anonimi candidati regionali, non esalta solo la loro capacità di leadership. Finisce anche per sottolineare i loro limiti: quasi l’impossibilità, oltre che l’incapacità, di trasformare dall’alto una realtà prosaicamente mediocre e fuori controllo. La politica nazionale inspira a pieni polmoni i miasmi locali anche perché non appare in grado di trasmettere messaggi forti di rinnovamento come quelli che si sforza di offrire all’Europa. Il risultato è che a vincere sembra sia la “periferia” non governata, immutabile e misteriosa nei suoi gangli più oscuri: quelli che solo la magistratura finora tende a portare alla luce, delegittimando partiti che arrivano sempre dopo; e che mostrano riflessi difensivi automatici, lasciando ai giudici una supplenza di fatto che assume contorni ambigui e mostra limiti oggettivi, seguendo logiche non politiche. Sono fenomeni che corrodono quotidianamente la credibilità degli eletti, e si proiettano sulle scelte nazionali.
    Vedremo come si evolverà la campagna elettorale. Ma il turbinìo di liste, unioni e rotture trasmette una pessima impressione. Il crollo della partecipazione a livello locale che si è registrato negli ultimi anni non è un segno di modernità “all’americana”: anche per la rapidità con la quale sta avvenendo, suona come la risposta patologica ad una rappresentanza inadeguata e malata. Se si dovesse confermare a maggio, significherebbe un rifiuto di metodi e di formazioni non disinvolti ma, appunto, ormai percepiti come “impazziti”. Sarebbe una sconfitta che nessuna riforma elettorale, né la prevalenza di uno schieramento sull’altro, potrebbero attenuare o nascondere. Il guaio maggiore, tuttavia, non sarebbe il fallimento di una politica locale che per paradosso oggi fornisce tanti governanti, premier compreso; né la scissione di alcuni partiti, ridotti a gusci di identità irriconoscibili. Il rischio vero è quello della scissione tra l’elettorato e chi non è in grado di offrirgli una scelta degna di questo nome. Sarebbe la premessa di una pericolosa democrazia con sempre meno popolo.
    (Massimo Franco, “Piccole miserie locali”, dal “Corriere della Sera” del 15 aprile 2015).

    Non è esagerato parlare di partiti in pezzi: divisi e già scissi di fatto, sebbene formalmente si esiti ancora a lacerare l’involucro dell’unità. Osservando quanto accade in vista delle elezioni regionali di fine maggio, lo spettacolo è quello di una scomposizione di forze politiche e alleanze: la conseguenza fisiologica di uno sgretolamento progressivo delle identità, dei blocchi sociali, delle nomenklature. In pochi anni, non solo i «cartelli» elettorali sono invecchiati come se ne fossero passati dieci. La dimensione locale della politica ha subito un’involuzione che la fa apparire quasi impazzita. È il prodotto della subalternità del sistema dei partiti ad interessi che lo dominano e lo umiliano; e dell’impoverimento culturale di piccole tribù autoreferenziali che sommano i difetti del dilettantismo a quelli del professionismo del potere. Le tante inchieste della magistratura che convergono sulle cosiddette classi dirigenti locali confermano questa deriva. E fanno apparire molti Comuni e Regioni come epicentri di un’economia studiatamente inefficiente, funzionale al malaffare.

  • I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana

    Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
    Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».
    Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».
    Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.
    Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.
    «In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.

    Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.

  • L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)

    Scritto il 28/3/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
    Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.
    C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.
    Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.
    Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.
    Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.
    La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.
    Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.
    In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.
    Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.
    Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.
    (Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).

    Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?

  • Acqua, luce e gas: la fregatura è servita (firmata Renzi)

    Scritto il 14/3/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».
    Caro lettore, cosa hai capito? Nulla, scommetto. Però se riascolti un bel servizio televisivo de “La Gabbia”, mandato in onda il 26 settembre 2013 e ripreso in questi giorni su Twitter da Alessandro Greco, la riforma dell’articolo V assume un altro significativo. Guardalo, ne vale la pena, dura appena 3 minuti. In questo servizio il dirigente generale Lorenzo Codogno, a capo della direzione I analisi economico-finanziaria del dipartimento del Tesoro, del ministero dell’economia e delle finanze, intervistato sulla vendita di partecipazioni Eni, Finmeccanica ed Enel, dichiarò: «Il problema è che non prendi tantissimo perché – ho fatto il calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, non è una gran cifra, meno di un punto di Pil. La vera risorsa sono le utilities a livello locale. Lì sono veramente tanti, tanti miliardi. Il problema è che non sono nostri, dello Stato, sono dei Comuni, delle Regioni, e quindi bisogna cambiare il titolo V della Costituzione. Ed espropriare i Comuni e le Regioni».
    Il deputato Simonetta Rubinato del Pd depositò un’interrogazione alla Camera chiedendo spiegazioni al primo ministro. A quanto mi risulta, nessuno ha risposto. E ora, guarda un po’, il Titolo V è stato riformato e prevede, cito il “Sole 24 Ore”, quanto segue: «Il nuovo articolo 117 si caratterizza per l’eliminazione della legislazione concorrente con riattribuzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di diverse materie, quali quelle relative alla regolamentazione del procedimento amministrativo, della disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, della previdenza complementare e integrativa, del commercio con l’estero, della valorizzazione (oltrechè tutela) dei beni culturali e paesaggistici, dell’ordinamento delle professioni e della comunicazione, della produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, delle infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; dei porti ed aeroporti di interesse nazionale ed internazionale».
    Come sempre le leggi italiane sono pasticciate e pare che la norma non si applichi alle Regioni a statuto speciale; però il senso mi sembra inequivocabile: quando sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, il nuovo Titolo V permetterà a quel galantuomo di Renzi, che tanto ha a cuore i destini del suo paese, di fare un immenso regalo ai colossi stranieri dell’energia privatizzando i servizi di acqua, luce e gas. Io sono un liberale e, se le privatizzazioni servissero a portare vera concorrenza e servizi e tariffe migliori per tutti, sarei il primo a rallegrarmene, tanto più che le utilities pubbliche non sono certo un modello di gestione e di efficienza. Ma il rimedio rischia di essere peggiore del male. Purtroppo l’esperienza dimostra che, in questo settore, come avvenuto per le autostrade, le privatizzazioni si risolvono nella sostituzione di un monopolio pubblico con uno privato. E a rimetterci sono gli utenti, costretti a far fronte a un’esplosione dei prezzi delle bollette. Insomma, una fregatura su tutta la linea. Prendetene nota e al momento opportuno ricordatevi chi ringraziare.
    (Marcello Foa, “Acqua luce e gas, la fregatura è servita, firmata Matteo Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 12 marzo 2015).

    L’importante, spesso, non è spiegare, ma non far capire. Molte riforme fondamentali passano tra le pieghe di un provvedimento come se fossero marginali. I parlamentari approvano senza nemmeno sapere cosa votano, seguendo le indicazioni del capogruppo mentre i giornalisti ne scrivono senza capire o, ancora meglio, non ne scrivono affatto. Prendiamo la recente riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi. I giornali si sono concentrati sugli aspetti più eclatanti come l’abolizione di fatto del Senato e l’aumento delle firme per referendum e iniziative popolari; pochi hanno parlato dell’articolo V della Costituzione, che solo a nominarlo… bah, che noia! Tutti, la settimana scorsa, hanno pubblicato un vademecum sulle riforme. Ecco cosa scrive ad esempio “La Stampa”: «Titolo V. Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”».

  • Mosler: milioni di posti di lavoro, alzando il deficit all’8%

    Scritto il 11/3/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.
    Per mantenere facili i calcoli, poniamo che tale stipendio sia di 10 euro l’ora (o di 10 lire l’ora, nel caso di ritorno alla lira con conversione iniziale di un euro per una lira). A tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare viene così offerta un’attività lavorativa finanziata dal settore pubblico e pagata 10 euro (o 10 lire) l’ora. Pertanto ciò che si verificherà è che chi era in precedenza disoccupato, e accetterà un lavoro di transizione, potrà così essere identificato e assunto dal settore privato effettuando quindi proprio quella transizione da disoccupazione a occupazione nel settore privato di cui parlavo poc’anzi. In altre parole stiamo praticamente riplasmando quella che è la situazione del cosiddetto “serbatoio”, o “riserva-cuscinetto”, contiguo al mercato del lavoro che Karl Marx chiamava “esercito industriale di riserva”, ossia una moltitudine di disoccupati che potrebbe essere impiegata nel settore privato ma che il settore privato tende a non voler assumere.
    Permettere volontariamente l’accesso a un programma lavorativo di transizione a tutti coloro che siano disponibili e abbiano voglia di lavorare rende estremamente più semplice, per il settore privato, l’assunzione di persone, in quanto diviene sufficiente pagarle di più, ad esempio 12 euro l’ora, onde traghettarle via dai programmi lavorativi di transizione e inserirle in un settore privato di nuovo economicamente in espansione. Questo è stato provato negli ultimi venti anni in varie parti del mondo, ottenendo in maniera sistematica esclusivamente successi. E per tale motivo si può affermare che siffatta soluzione si sia dimostrata efficace oltre ogni ragionevole dubbio. In sintesi, primo: il limite sul deficit va innalzato dal 3 all’8%; secondo: fornire a chiunque sia disponibile e abbia voglia di lavorare l’accesso a un programma lavorativo di transizione, finanziato dal settore pubblico, onde aiutare la transizione dalla disoccupazione all’occupazione nel settore privato.
    Ciò che ho proposto per gli Stati Uniti d’America potrebbe essere valido anche per l’Italia, ossia: dare la possibilità alle amministrazioni locali e regionali – o statali, come le chiamiamo noi negli Stati Uniti – di assumere, in un programma lavorativo di transizione finanziato dal governo centrale, le persone a questo minimo salariale orario di 10 euro (o 10 lire). A condizione che gli stipendi non superino tale minimo salariale, si deve porre le amministrazioni nelle condizioni di poter assumere il numero più alto possibile di persone per questi lavori di transizione. Non sono previsti trattamenti particolari e non ci si deve aspettare un aumento di stipendio, visto che si dovrebbe trattare di una occupazione di transizione senza una permanenza di lunga durata, al massimo uno o due anni, in quanto sarà in futuro il settore privato ad attingere da tale serbatoio le risorse umane, semplicemente pagandole di più. In questo modo le persone sarebbero appunto in grado di trovare un posto di lavoro vicino a casa. Una volta fatto questo, qualora vi fossero ancora persone alla ricerca di una occupazione, vi è la possibilità di coinvolgere anche determinate associazioni senza scopo di lucro. Negli Stati Uniti vi sono organizzazione non-profit (così come ve ne sono in Italia) nelle quali è possibile fare attività di volontariato, ad esempio la Croce Rossa. Si potrebbe quindi far sì che tali organizzazioni siano parte attiva di un programma lavorativo di transizione.
    Che si parli di pubblica amministrazione a livello locale oppure nazionale, ci deve essere uno sforzo di collaborazione e partecipazione che investa l’intera società. Si tratta di quell’impegno cooperativo su cui la nostra società si fonda, e pertanto è necessario incentivare maggiormente la collaborazione e la partecipazione delle persone in maniera che si accresca la loro conoscenza e consapevolezza dei temi di interesse generale e delle posizioni espresse da ciascun candidato politico e che possano essere poste nelle condizioni migliori per prendere delle decisioni con cognizione di causa. Si tratta di un processo in evoluzione, in quanto gli Stati sono necessari, altrimenti ritorneremmo in una società come ad esempio quella somala, dove non esiste un organismo centrale delegato a mantenere l’ordine e che permetta alla gente di rendersi produttiva senza aver paura di subire atti di violenza. Lo Stato serve a organizzare le forze di pubblica sicurezza e di difesa, i trasporti e l’istruzione. Pensiamo anche alla sanità pubblica, ad esempio. Questi servizi sono necessari, non si può farne a meno.
    Ritengo che il meglio che si possa fare è cercare di agire in modo da essere più partecipativi in tutti i processi organizzativi e in tutti gli ambiti della gestione della cosa pubblica affinché con l’assennatezza e attraverso l’implementazione di incentivi a tutti i livelli sia possibile ottenere che il buon senso e l’interesse generale divengano le forze alla guida del settore pubblico. Mi rendo ben conto che non sia un obiettivo facile da conseguire. È un traguardo che non solo è difficile da raggiungere al giorno d’oggi bensì è da millenni che si rivela essere un’impresa ardua, quindi probabilmente dovremo persistere a combattere per migliorare la situazione ancora per lungo tempo. Quando si capisce che il deficit pubblico è il risparmio privato, ad esempio, non si torna indietro: a questo serve l’informazione diffusa dagli attivisti della Mmt, Modern Money Theory. Questo deve servire a valutare ogni candidato a incarichi di pubblica responsabilità. Sulla base di queste nuove informazioni, potremo capire quali siano – e quali non siano – i candidati che sono i più adatti a plasmare la società in cui noi avremmo piacere di vivere. E quindi sostenere i candidati che siano in grado di organizzare il settore pubblico al meglio, nella maniera in cui noi vorremmo.
    (Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francesco Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana” il 13 febbraio 2015).

    Se l’Unione Europea dovesse permettere all’Italia di aumentare il deficit pubblico all’8% in rapporto al Pil, oppure se l’Italia lasciasse l’euro, ritornasse alla lira ed effettuasse in autonomia un aumento del deficit pubblico all’8%, allora il settore privato ritornerebbe immediatamente alla prosperità. I fatturati aumenterebbero e gli imprenditori avrebbero bisogno di assumere gente. A quel punto il problema consisterebbe nel fatto che a nessuno piace assumere persone che siano state disoccupate da troppo tempo e per questo motivo è assolutamente essenziale fornire un’attività di transizione ai disoccupati – i quali sono per definizione ovviamente parte del settore pubblico, visto che se sei disoccupato di sicuro non fai parte del settore privato – al fine di effettuare una transizione dalla disoccupazione all’occupazione attraverso un programma lavorativo ideato a tale scopo e tenendo inoltre conto che in una simile situazione anche il settore privato mostrerebbe un atteggiamento di maggiore disponibilità nell’assumere persone. Sicché, il modo per far questo è che il settore pubblico offra un’attività lavorativa di transizione con un pagamento, ossia uno stipendio, che sia solo leggermente al di sotto (cioè quasi in linea) con il salario minimo del settore privato.

  • Le tasse alla mafia dei ladri, venduti al padrone straniero

    Scritto il 14/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.
    Il principio della rappresentanza democratica parlamentare è clamorosamente e definitivamente fallito sia perché il paese non ha più autonomia politica nelle cose che contano, sia perché i rappresentanti rappresentano le segreterie affaristiche che li nominano, e vanno contro gli interessi dei rappresentati. Fino agli anni ’80 questo sistema di potere si notava meno, faceva danni sopportabili e compatibili con un certo sviluppo del paese, con un certo benessere, garantito da una spirale costruttiva di investimenti e consumi, grazie al fatto che allora la banca centrale e i vincoli di portafoglio delle banche ordinarie garantivano il finanziamento del debito pubblico a tassi sostenibili escludendo il rischio di default. E grazie al fatto che le banche ordinarie si dedicavano all’economia reale anziché alle speculazioni finanziarie e alle truffe ai risparmiatori. E grazie al cambio flessibile.
    Oggi gli uomini della buro-partitocrazia sono tutti in pasta, trasversalmente, tra loro e con la mafia. Sono tutti nella criminalità organizzata. Quelli che non lo sono direttamente e attivamente, lo sono comunque, perché consapevolmente e volontariamente fanno parte di quel mondo. Quindi sono corresponsabili. Non ci sono onesti, solo finti tonti. Questo sistema ovviamente non si lascia cambiare dal suo interno, perché occupa i canali elettorali, mediatici, istituzionali, e in buona parte anche quelli giudiziari (molti arrestati di oggi sono assolti di ieri); e l’“esterno”, cioè l’“Europa”, la Germania, trae profitto e potere economici proprio da questa situazione. E’ quindi chiaro che questa gente, questa casta, questa cupola nazionale non la si abbatterà mai con le leggi, i tribunali, l’indignazione popolare, anzi continuerà a tramandare il sistema alle nuove leve. Non la si potrà mai abbattere con strumenti interni all’ordinamento dello Stato, che essa occupa. La potrebbero fermare solo mezzi rivoluzionari, solo la ghigliottina. Oppure un padrone straniero che la sostituisca e prenda direttamente in mano la gestione amministrativa del paese – ovviamente nel suo proprio interesse.
    I leader carismatici proposti al pubblico possono essere “puliti” di faccia, ma gli apparati dei loro partiti sono tutto un cupolone, funzionano in quel modo, quindi nessun governo potrà cambiare questo sistema. Con le loro migliaia di società partecipate e di Onlus mai contabilmente controllate che ricevono e spartiscono i miliardi del business dell’accoglienza. Renzi, che invoca giustizia e promette pulizia, finge di non conoscere che cosa sono gli apparati dei partiti e di non sapere che, se si mettesse di traverso, semplicemente verrebbe sostituito. E infatti le principali componenti della partitocrazia, superando l’ipocrita distinzione maggioranza-opposizione, si accordano tra loro sulle riforme del sistema elettorale e del Senato, riforme concepite per proteggere e rafforzare il sistema stesso. E così alla Camera resta il sistema dei nominati: possono divenire deputati solo i graditi dei segretari dei partiti. La riforma del Senato mette quest’ultimo ancora di più nelle mani dei segretari, i quali vi collocheranno nominati regionali e comunali – cioè elementi presi dagli ambiti più ladreschi dell’apparato – dotandoli così di ciò che resta dell’immunità parlamentare.
    Intanto, il governo ha allontanato il commissario alla spending review, Cottarelli, che aveva ardito raccomandare la soppressione di 6.000 società partecipate mangiasoldi, una indispensabile greppia di consenso per la partitocrazia. Le condizioni degli italiani – tassazione, recessione, disoccupazione – continueranno perciò a peggiorare e peggiorare e peggiorare, finché questi non insorgeranno con le armi e non faranno fuori materialmente la casta parassita e criminale, o quella parte di essa che non riuscirà a fuggire all’estero. Ma non lo faranno mai: in parte emigrano, in maggioranza restano a subire o a raccontarsi le favole, aspettando il padrone straniero, e di vendersi a lui. Dopotutto, è questa la storica tradizione del Belpaese.
    (Marco Della Luna, “Le tasse ai ladri e alla mafia”, dal blog di Della Luna dell’8 dicembre 2014).

    Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.

  • Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia

    Scritto il 05/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».
    Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.
    L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».

    «Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».

  • Finalmente elezioni a risultato immediato, han votato in 36

    Scritto il 03/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Forse è questo che intende Matteo Renzi quando dice che sogna un paese dove la sera stessa delle elezioni si possa sapere chi ha vinto e chi ha perso. Giusto. Bello. Basterebbe che votassero in trentasei: poche schede da contare, percentuali presto fatte, seggi assegnati e seccatura archiviata. Rito antico e democratico, novecentesco, polveroso, retorico, che noia, che vecchiume. Perché poi, di tutte le spiegazioni, le sottili analisi, le elaborate elucubrazioni di questi giorni sul clamoroso astensionismo (soprattutto in Emilia) se ne dimentica una che non è un dettaglio: il valore del voto degli italiani è piuttosto in ribasso. La riforma delle Province, di cui si parla da quando Matteo faceva il boy scout, si è tradotta in una semplice abrogazione del voto. Cioè, le Province sono ancora lì, con i loro presidenti e i loro consiglieri, ma nominati (anche in seguito a vergognosi accordi tra partiti) e non più eletti. Al Senato peggio mi sento: anche lì resteranno gli scranni, il mirabile palazzo, i senatori che potranno legiferare persino sui temi etici (in soldoni: la vita e la morte), ma non ce li manderà l’elettore italiano. Saranno nominati anche loro, su base regionale. Ecco.
    Assistiamo dunque allo spettacolo d’arte varia di gente – commentatori politici, corsivisti, esponenti di questa o quella corrente – che si rammarica per l’astensionismo dopo aver applaudito sonoramente due riforme che toglievano il diritto di voto agli italiani per istituzioni fondamentali. Si aggiunga che senatori e consiglieri provinciali verranno nominati proprio dalle Regioni (e dai sindaci), dunque avremo, per dire, un Senato nominato da consigli regionali eletti da un’esigua minoranza di cittadini. Siccome la cultura politica da queste parti somiglia a quella calcistica, il giovane premier ha fatto notare che l’importate è la vittoria. Al novantesimo, con gol di mano, in fuorigioco, con due avversari a terra, ma che importa, conta vincere. E dunque l’astensione è diventata un problema “secondario”. Sarà. Resta il fatto che l’aria è un po’ cambiata. Qualcuno ricorderà (ok, va bene il paese senza memoria, ma sono passati solo sei mesi!) il garrulo entusiasmo con cui Renzi e il renzismo vennero accolti dal paese. Primarie affollate, urne piene alle europee, il mitico 41% ripetuto come un mantra ad ogni uscita pubblica dei giannizzeri del re.
    Un paese ipnotizzato e innamorato, ansioso di vedere la realizzazione delle sorti luminose e progressive che si promettevano ad ogni passo. Ora, quell’entusiasmo sembra in fase calante. Faremo questo in febbraio, questo in marzo, questo in aprile. Poi passano febbraio, marzo, aprile e tutti gli altri mesi del calendario, e non si vede granché, e soprattutto quel che si vede non piace. Sarebbe questo, tutto il nuovo che si diceva? Mah. Fosse ancora vivo, quell’entusiasmo della prima ora, alle urne ci si sarebbero precipitati, emiliani e calabresi. E invece no. In più, dopo aver discettato per mesi su renziani della prima e della seconda ora, ecco spuntare un nuovo soggetto, che sarebbe l’anti-renziano della seconda ora. Quello diventato più critico, quello che così come ha dato credito ora se lo riprende, o lo congela, che frena gli entusiasmi. Comunque sia, è vero: settecentomila voti che se ne vanno su un milione e duecentomila potrebbero essere un problema secondario, ma solo se avranno voglia di tornare. Se invece se ne staranno fuori, a guardare, sconsolati e orfani, il problemino potrebbe diventare primario.
    (Alessandro Robecchi, “Finalmente elezioni a risultato immediato, hanno votato in 36”, da “Micromega” del 27 novembre 2014).

    Forse è questo che intende Matteo Renzi quando dice che sogna un paese dove la sera stessa delle elezioni si possa sapere chi ha vinto e chi ha perso. Giusto. Bello. Basterebbe che votassero in trentasei: poche schede da contare, percentuali presto fatte, seggi assegnati e seccatura archiviata. Rito antico e democratico, novecentesco, polveroso, retorico, che noia, che vecchiume. Perché poi, di tutte le spiegazioni, le sottili analisi, le elaborate elucubrazioni di questi giorni sul clamoroso astensionismo (soprattutto in Emilia) se ne dimentica una che non è un dettaglio: il valore del voto degli italiani è piuttosto in ribasso. La riforma delle Province, di cui si parla da quando Matteo faceva il boy scout, si è tradotta in una semplice abrogazione del voto. Cioè, le Province sono ancora lì, con i loro presidenti e i loro consiglieri, ma nominati (anche in seguito a vergognosi accordi tra partiti) e non più eletti. Al Senato peggio mi sento: anche lì resteranno gli scranni, il mirabile palazzo, i senatori che potranno legiferare persino sui temi etici (in soldoni: la vita e la morte), ma non ce li manderà l’elettore italiano. Saranno nominati anche loro, su base regionale. Ecco.

  • Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti

    Scritto il 03/12/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
    «La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».
    Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.
    «La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».

    Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.

  • Senza più lira sovrana, lo Stato ci abbandona alle calamità

    Scritto il 27/11/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Negli ultimi vent’anni  siamo stati tempestati da un furore propagandistico senza pari nella storia, per cui lo Stato è diventato sinonimo di nemico, di inefficienza, di spreco, di latrocinio. Se a questa abile e battente propaganda aggiungiamo la privazione di quella che è la prerogativa fondante di uno Stato, ovvero la sovranità monetaria, la capacità di emettere e gestire la moneta fiat (creata dal nulla) in maniera che sia funzionale all’economia reale del paese, il gioco è fatto. Il gioco è quello che drammaticamente osserviamo e viviamo quotidianamente: riduzione dei redditi, distruzione del tessuto produttivo, tagli sistematici allo stato sociale e incapacità di far fronte alle calamità naturali insite in un territorio come quello italiano. E proprio quest’ultimo aspetto merita alcune riflessioni. Nel 1976 il Friuli viene letteralmente devastato da due episodi sismici catastrofici, susseguitisi a distanza di 4 mesi. La successiva ricostruzione, spesso e giustamente, viene portata come esempio virtuoso.
    Il governo nominò il 15 settembre ‘76 Zamberletti commissario straordinario, incaricato del coordinamento dei soccorsi. Gli fu concessa carta bianca, visto che all’epoca l’Italia godeva di piena socvranità monetaria (e quindi non necessitavano delle “mitiche” coperture). In collaborazione con le amministrazioni locali, i fondi statali destinati alla ricostruzione furono gestiti direttamente da Zamberletti assieme al governo regionale del Friuli Venezia Giulia. Contestualmente, Zamberletti istituì la Protezione Civile. Stime attendibili attestano per la ricostruzione un importo prossimo all’equivalente di 20 miliardi di euro, cifra enorme, che gestita in maniera opportuna e virtuosa ha non solo permesso una rapida e invidiabile ricostruzione, ma anche un boom economico nei territori interessati, alimentato dalla tanto vituperata spesa pubblica, che è durato fino all’inizio della crisi attuale.
    Veniamo ai giorni nostri. L’82% dei Comuni italiani comprende aree classificate a rischio idrogeologico. Negli ultimi anni l’intero territorio italiano è stato colpito ripetutamente e severamente da eventi alluvionali gravissimi, con perdite di vite e distruzione di beni sia pubblici che privati. La scelta dello Stato per il futuro è chiamarsi fuori per quanto riguarda i fondi necessari per le ricostruzioni degli edifici privati danneggiati. Il costo va a ricadere sui cittadini. Come? Stipulando una polizza assicurativa. Viene introdotto il principio delle coperture assicurative su base volontaria contro i rischi di danni derivanti da calamità naturali. Pensate sia complottismo? Putroppo ciò è confermato dal decreto legge 59 del 15 maggio 2012 (governo Monti). Appare lapalissiano un evidente cambio di paradigma, sicuramente non a tutela e nell’interesse dei cittadini. Non godere della sovranità monetaria, e di una finanza pubblica funzionale all’economia reale e alla tutela del benessere dei cittadini, significa violare l’essenza di uno Stato democratico e abbandonare letteralmente la cittadinanza ai rovesci della fortuna.
    (David Casanova, “Come lo Stato abbandonerà i cittadini di fronte alle calamità”, da “Rete Mmt” del 23 ottobre 2014).

    Negli ultimi vent’anni  siamo stati tempestati da un furore propagandistico senza pari nella storia, per cui lo Stato è diventato sinonimo di nemico, di inefficienza, di spreco, di latrocinio. Se a questa abile e battente propaganda aggiungiamo la privazione di quella che è la prerogativa fondante di uno Stato, ovvero la sovranità monetaria, la capacità di emettere e gestire la moneta fiat (creata dal nulla) in maniera che sia funzionale all’economia reale del paese, il gioco è fatto. Il gioco è quello che drammaticamente osserviamo e viviamo quotidianamente: riduzione dei redditi, distruzione del tessuto produttivo, tagli sistematici allo stato sociale e incapacità di far fronte alle calamità naturali insite in un territorio come quello italiano. E proprio quest’ultimo aspetto merita alcune riflessioni. Nel 1976 il Friuli viene letteralmente devastato da due episodi sismici catastrofici, susseguitisi a distanza di 4 mesi. La successiva ricostruzione, spesso e giustamente, viene portata come esempio virtuoso.

  • Gli italiani non votano più, disertate le urne anche in Emilia

    Scritto il 24/11/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».
    «Prima la disfatta del “modello emiliano” impersonato da Vasco Errani, poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall’alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine – prosegue Lerner nel suo blog – l’arrembaggio al carro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti». Tutto ciò, conclude il giornalista, «rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra». L’Emilia Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare, sostiene Pierluigi Battista, è il regno dei “corpi intermedi”, dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. «Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla “disintermediazione”, sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani, saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi».
    Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, continua l’editorialista del “Corriere”, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le elezioni. Mai la rinuncia alle urne aveva raggiunto livelli tanto allarmanti: «Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani», scrive Battista, «però in Emilia si è assistito a un crollo». Inoltre, «mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria». Per Battista, «si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro», che coinvolge «l’elettore di destra deluso da Berlusconi», che è sfiduciato e non va a votare, e pure «l’elettore di Grillo, che vede la carica del “Movimento 5 Stelle” spenta e incapace di indicare un’alternativa». Di fatto,la sfiducia si abbatte su tutto il sistema, «percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti». Un rigetto «disilluso e indiscriminato», un campanello d’allarme «per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari». Si chiede una politica radicalmente diversa, democratica, equa, che non arriva mai. Così, la rappresaglia degli elettori va avanti. E travolge persino la “rossa” Emilia.

    Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».

  • Il bonus-bebè nasconde 600 euro di rincari per famiglia

    Scritto il 14/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».
    La manovra da 36 miliardi promette un taglio a tasse e spesa, risparmi per 15 miliardi (6 da Regioni ed enti locali, 2 miliardi dalla sanità), un recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale. E poi una stretta su fondazioni e fondi pensione, sgravi per partite Iva e figli, uno stop all’Irap sul lavoro e zero contributi nei primi tre anni per le imprese che assumono, nonché il Tfr (volontario) in busta paga. Tutto questo, scrivono su “Wall Street Italia” Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti di Federconsumatori, «oltre ad infliggere l’ennesimo colpo allo stato sociale, nasconde l’ennesima stangata sui consumatori che potrebbe essere stimata in circa 606 euro per ogni famiglia». Il governo, infatti, con una manon concede 80 euro a circa 10 milioni di occupati – manovra «ancora insufficiente per far ripartire i consumi, che saranno ancora stagnanti per lunghi mesi in una fase di forte depressione economica e di totale sfiducia nella ripresa produttiva» – e con l’altra «addossa a sanità, Regioni ed enti locali oneri per circa 8 miliardi di euro, «che dovranno essere coperti da nuove tasse, stimate in almeno 330 euro per ogni nucleo famigliare, anche per pagare l’Irap delle imprese».
    Dunque, a conti fatti, si tratta di 330 euro a famiglia dagli 8 miliardi tagli a Regioni e Sanità, coperti con maggiori aliquote fiscali; a questi si aggiungono 14 euro dall’inasprimento della tassazione sulla previdenza e la nuova imposta sui fondi pensione, più 23 euro dall’anticipo Tfr delle banche, e qualcosa come 239 euro «con la prevista clausola di salvaguardia rincaro Iva dal 4 al 10% su pane, latte, pasta». Totale, 606 euro. «Una manovra recessiva con coperture aleatorie, come il recupero di 3,8 miliardi dall’evasione fiscale», annotano Lannutti e Trefiletti. «Mentre i 15 miliardi di revisione della spesa e tagli lineari che dovrebbero arrivare da ministeri (6,1 miliardi) ed enti locali (4 miliardi dalle Regioni, 1,2 miliardi dai Comuni, 1 miliardo dalle Province), addossano in parte alle famiglie, sottoposte ad ulteriori stangate fiscali, il taglio dell’Irap e delle altre provvidenze alle imprese». Tutto da dimostrare che, incassati gli sgravi, le imprese assumeranno in Italia oltre 800.000 lavoratori nel triennio, come enfatizzato dal ministro dell’economia Padoan, invece di delocalizzare in aree più allettanti. «Una manovra che, continuando a salvaguardare con ulteriori garanzie statali gli interessi delle banche, che prendono i soldi dalla Bce al tasso dello 0,15% prestando al 15%, senza destinare risorse adeguate a ricerca ed innovazione, non avrà alcuna capacità di rimettere in moto l’economia e i processi produttivi».

    «Quando Renzi promette, davanti alle tv del suo alleato Berlusconi, che, bontà sua, darà 80 euro di bonus-bebè, non dice che ad ogni famiglia ne taglierà 606», scrive “Senza Soste”, citando le cifre fornite da “Wall Street Italia”. «Matteo Renzi è un noto venditore di pentolame di scarsa qualità e a caro prezzo: finché la cosa resta tutto nel giro della circonvenzione di incapace, cioè nel suo partito, si può passare oltre, come è accaduto per quelle elezioni finte che chiamano primarie lo scorso anno». Il problema è che Renzi è diventato premier, continua il blog: non raggira più solo i militanti del Pd, ma gli italiani tutti. «Anche chi investe in Borsa si è accorto che Renzi tira fregature». Gli 80 euro alle famiglie con bebè in arrivo? Prontamente compensati «dall’aumento, previsto nella bozza di finanziaria, di pane, pasta, latte». “Wall Street Italia” definisce infatti “una partita di giro” la legge di stabilità: «Entrate e uscite, ma da dove prende i soldi Renzi? Si parla di bonus-bebé e Tfr in busta paga, ma ricadute negative arrivano a 606 euro sulle famiglie».

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