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Archivio del Tag ‘Repubblica Ceca’

  • Cure proibite, per lanciare i vaccini: spiegata la strage

    Scritto il 18/5/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.
    Piccolo particolare: in attesa dei vaccini, l’Italia ha ufficialmente registrato 120.000 morti. Quanti di questi pazienti sarebbero ancora vivi, se ai medici fosse stato permesso di curarli con i farmaci nel frattempo individuati come rimedio efficace? Nel video-denuncia “Covid, le cure proibite”, Mazzucco documenta i capi d’accusa che ormai emergono in modo schiacciante: tutte le terapie vincenti (almeno una decina) sono state regolarmente oscurate e combattute per poter presentare il vaccino come unica soluzione, e – sempre per imporre la vaccinazione di massa – sono state imposte le peggiori restrizioni: lockdown, coprifuoco, zone rosse. Un ricatto: tornerete liberi solo quando vi sarete vaccinati. Ma attenzione, si tratta dell’ennesimo imbroglio: è infatti prevista una vaccinazione periodica e frequente, dall’incubo non si uscirà mai. E naturalmente: le terapie salva-vita, quelle che renderebbero superfluo il vaccino, restano nel cassetto.
    Nel suo reportage, Mazzucco non entra nel merito del piano vacciale più controverso della storia. Quelli somministrati sono farmaci “genici” sperimentali, impropriamente chiamati vaccini: non immunizzano completamente il corpo, e lasciano che il soggetto vaccinato possa restare contagioso. Non solo: presentano un serio rischio fisico immediato, in termini di reazioni avverse, mentre non si conoscono le conseguenze a lungo termine di un inoculo Rna-Dna che va a insediarsi nelle cellule, interagendo con il genoma umano. In questo caso, Mazzucco – autore di video-reportage che hanno fatto storia, come quelli sull’11 Settembre, trasmessi anche da “Canale 5″ in prima serata – si concentra sul più pazzesco degli scandali: quello delle “cure proibite”. Un copione invariabile, drammatico: scoperta la terapia, viene immediatamente screditata e poi messa al bando. Una dopo l’altra, le autorità sanitarie italiane hanno regolarmente respinto tutte le cure – efficaci – che i medici avevano scoperto, per contrastare il Covid.
    L’elenco è avvilente, grida vendetta: e a protestare (inutilmente, finora) sono proprio i medici, cui è stato materialmente sottratto lo strumento terapeutico per guarire i pazienti. Incredibilmente, il protocollo nazionale parla ancora di Tachipirina – farmaco inutile, in caso di Covid, se non dannoso – e si limita a raccomandare la “vigilante attesa”. Di cosa, se non dell’aggravamento? Mazzucco cita i vip prontamente curati e guariti nel 2020, non proprio giovanotti: Berlusconi, Briatore, lo stesso Trump. Rimessi in sesto in pochissimi giorni, nonostante la loro età avanzata. Come? Non certo con la “vigile attesa”: li hanno curati tempestivamente, con i farmaci adatti. Quelli a cui il cittadino normale continua a non avere accesso, visto che ai medici di famiglia non è ancora stato affidato un protocollo idoneo. Attenzione: si tratta di farmaci normalissimi. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, spiega come “domare” l’incendio Covid ricorrendo a semplici antinfiammatori: funzionano purché si agisca celermente, cioè dopo i primi sintomi.
    I medici dell’associazione Ippocrate, che curano il Covid in modo volontaristico data la latitanza delle autorità sanitarie, hanno messo a punto un prontuario specifico: precisi farmaci (di uso comune) per ogni singola fase della malattia. I numeri sono dalla loro parte: si parla di migliaia di guarigioni da casa, evitando il ricovero. A Roma, il dottor Mariano Amici dimostra di aver guarito il 100% dei suoi pazienti – non meno di 2.000 persone – con la somministrazione, in fase precoce, di normali antinfiammatori. Nel video-reportage di Mazzucco, sul tema intervengono i sanitari dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna: le morti per Covid sono finite, assicurano, quando hanno cominciato a curare i pazienti direttamente nelle loro case, rinunciando cioè alla “vigile attesa” (che determinava il ricovero di malati ormai in gravi condizioni). Carta vincente, le cure precoci domiciliari: quelle che il ministero di Speranza ha appena chiesto e ottenuto, dal Consiglio di Stato, di non autorizzare.
    Mazzucco rievoca le tappe del calvario. Capitolo primo, le vitamine: consigliate da molti medici come sostanze utili per la prevenzione e, in dosi elevate, per la guarigione. Ma guai a dirlo: contro la “bufala” delle vitamine anti-Covid si sono scatenati prima i virologi televisivi, e a ruota i media. Risultato: vitamine bocciate. Ma non per tutti: Mazzucco esibisce un documento dei carabinieri che (già a marzo 2020) invitava i miltari dell’Arma ad assumere ogni mattina le vitamine C e D. Lo schema si ripete in modo scandaloso di fronte a ogni altra scoperta medica: anziché essere incoraggiati, i sanitari che hanno individuato una terapia efficace vengono zittiti, oscurati, screditati e boicottati. Succede a Giuseppe De Donno (Mantova), il primo ad aver sperimentato la plasmaferesi: guarigioni garantite, in poche ore, a chi riceve trasfusioni con il sangue dei pazienti guariti. Niente da fare nemmeno per Elena Campione dell’università romana di Tor Vergata, che ha scoperto i benefici della lattoferrina: sostanza naturale e antivirale, contenuta nel latte materno, che spiega il motivo per cui i bambini non vengono colpiti dall’infezione.
    Un caso-limite è quello dei cortisonici: nell’aprile 2020, sempre Roberto Speranza non ha degnato di risposta i 30 luminari italiani che gli segnalavano i grandi risultati ottenuti con farmaci a base di cortisone. Ironia della sorte, due mesi dopo è stata la stessa Oms a complimentarsi coi medici inglesi, che a loro volta avevano scoperto le virtù del Desametasone. Ma niente da fare, la consegna è sempre la stessa: negare l’evidenza per affossare le cure. E pazienza, se nel frattempo i malati – lasciati a casa in “vigile attesa” – continuano a morire, o arrivano in ospedale con la salute ormai gravamente compromessa proprio perché rimasti per giorni senza cure. E’ così che ha funzionato, la macchina del terrore: negare le terapie è “servito” esattamente ad alzare il numero dei ricoveri, delle terapie intensive, permettendo ai politici, ai media e agli “scienziati di corte” di recitare all’infinito il mantra della paura e dell’attesa messianica dell’unico possibile rimedio, il vaccino.
    Per questo, aggiunge Mazzucco, nonostante i risultati lusinghieri sono state biocciate tutte le altre soluzioni terapeutiche nel frattempo emerse: la quercetina scoperta dal Cnr, l’ozonoterapia praticata con successo all’ospedale di Udine, l’adenosina (introdotta a Reggio Calabria dai medici Sebastiano Macheda e Pierpaolo Correale), e persino un antiparassitario come l’ivermectina, che ha permesso alla Repubblica Ceca di veder crollare di colpo i decessi per Covid. Tradotto: a Praga si è smesso di morire, in Italia no. Culmine della vergogna, il caso dell’idrossiclorochina associata a un antibiotico come l’azitromicina: terapia sperimentata con successo in Francia dal professor Didier Raoult, uno dei maggiori virologi al mondo, ma poi abbandonata dopo uno studio (falsato da dati inventati) pubblicato sul “Lancet”. Poi la rivista si è corretta, scusandosi: quello studio era da buttare, la clorochina (antimalarico in uso da decenni) non è affatto pericolosa, in dosi appropriate. Ma il divieto di usarla, in Italia, è rimasto: anche dopo la scoperta della frode scientifica del “Lancet”.
    Domanda: quale organizzazione criminale potrebbe mai progettare e attuare un piano simile, fondato sulla disinformazione e sul boicottaggio delle guarigioni, a costo di provocare decine di migliaia di morti? Qualunque ne sia l’origine, dice Mazzucco, ne conosciamo il coordinatore: Big Pharma. Anche in Italia, tutti i decisori sono strettamente controllati dalle farmaceutiche, che ottengono il consenso dei media a suon di milioni in termini di pubblicità. In cambio, giornali e televisioni fanno parlare – come oracoli – solo e sempre determinanti esponenti del mondo scientifico (i vari Bassetti, Pregliasco, Crisanti, Galli, Burioni e Lopalco, perfettamente funzionali al business farmaceutico-vaccinale). Ferreo anche il controllo sul governo, esercitato da un Comitato Tecnico-Scientifico composto da dirigenti dell’Aifa, del ministero della salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, tutti «baroni legati a Big Pharma, che non si sognerebbero mai di contraddire le farmaceutiche».
    Nel Cts, ricorda Mazzucco, c’erano anche Ranieri Guerra, indagato per il piano pandemico non aggiornato né applicato, e lo stesso Walter Ricciardi, consulente di Speranza. «Due anni fa, Ricciardi dovette dimettersi da direttore dell’Iss dopo che emersero i suoi conflitti d’interesse con le case farmaceutiche». Questi, sottolinea Mazzucco, sono i personaggi che stabiliscono cosa chiudere, e fino a quando: il controllato e il controllore sono lo stesso soggetto, Big Pharma, che agisce attraverso i suoi ramificati canali, anche istituzionali. «La stessa Ema è zeppa di dirigenti che provengono da Big Pharma, tramite il meccanismo delle “porte girevoli”: l’attuale direttrice, Emer Cooke, quella che ripete che “i benefici dei vaccini superano i rischi”, viene dalla lobby europea delle industrie farmaceutiche». E’ vero, purtroppo: la Cooke è stata a lungo in forza alla Efpia, European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations.
    Nell’Epfia, conferma Wikipedia, Emer Cooke ha lavorato per 8 anni come lobbysta delle “Big 30″, incluse Pfizer, AstraZeneca, Novartis e Johnson & Johnson. «Secondo voi chi l’ha messa a dirigere l’Ema, Gesù Bambino?». Non solo: «Credete che sia l’Unione Europea, coi nostri soldi, a finanziare la sua agenzia del farmaco? Errore: l’agenzia vive di fondi pubblici solo per il 16%, dato che l’84% del denaro che serve al suo funzionamento proviene dalle aziende farmaceutiche, sotto forma di autorizzazioni per i medicinali». Domanda retorica: qualcuno può davvero pensare che l’Ema (da cui di fatto dipende anche l’Aifa) sia un ente autonomo e quindi scientificamente affidabile, indipendente, che ha a cuore solo la salute dei cittadini, e non invece – anche e soprattutto – quella dei bilianci miliardari del complesso industriale farmaceutico che la foraggia quasi completamente?
    Tragedia e farsa si sommano, nell’impietosa ricostruzione di Mazzucco, fino all’epilogo tanto atteso: lo sdoganamento anticipato dei famosi “vaccini genici”. «Per i preparati vaccinali, la procedura d’emergenza (quindi con sperimentazione molto limitata) può avvenire solo a certe condizioni». Una su tutte: «Non deve esistere nessuna cura disponibile, per la malattia in questione, altrimenti il vaccino non la può ricevere, l’approvazione d’emergenza». Vale per la statunitense Food and Drug Administration: a febbraio, nell’autorizzare i vaccini-Covid, la Fda ha ricordato che non deve esistere «una adeguata, approvata e disponibile alternativa al prodotto». Idem l’Ema: il vaccino «deve rispondere a una necessità medica non soddisfatta, ovvero una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o cura autorizzato dalla comunità (o, anche se questo metodo esistesse, il nuovo prodotto medicinale deve rappresentare un importante vantaggio terapeutico per i malati)».
    E dato che «nessun vaccino potrà mai rappresentare un importante vantaggio terapeutico, rispetto a una medicina che agisce subito», ecco che  «le medicine normali non vengono autorizzate», scandisce Mazzucco. «Abbiamo svelato l’arcano: le cure non sono mai state riconosciute non perché non funzionino, ma perché sapevano fin dall’inizio che – riconoscendo una qualunque cura valida – non si sarebbe potuta ottenere l’autorizzazione d’emergenza per il vaccino». Ragiona il reporter: «Se per ipotesi i vaccini non esistessero (cioè, se non fossero mai stati “inventati”), secondo voi come si competerebbe la sanità, rispetto al Covid? Ovvio: curerebbe i malati senza indugi, con tutte le terapie disponibili, e anzi rafforzandole con ulteriori ricerche (proprio quelle che finora sono state accuratamente evitate, privando i medici di sperimentazioni su vasta scala)». Insiste Mazzucco: «Paradossalmente, il vaccino non è la soluzione: è il problema». Vero, se è stato la vera causa del rifiuto di somministrare terapie salva-vita.
    «Pensateci: potremmo tornare a vivere tranquillamente, domattina, riaprendo tutto e curando le persone appena si ammalano, con le varie terapie ormai disponibili (lasciando libere di vaccinarsi, ovviamente, le persone che lo desiderano)». E invece, questo non accade. «Quello che non è accettabile – ripete Mazzucco – è che il vaccino sia imposto come unica condizione per riavere le nostre libertà. Si chiama ricatto, e si chiama anche crimine: perché nel frattempo muoiono mogliaia di persone che si potrebbero salvare». E’ così: «Le nostre libertà ci vengono negate intenzionalmente, proprio per obbligarci ad accettare la vaccinazione come unica via d’uscita». Lo dice apertamente la professoressa Leana Wen, docente di politiche della salute alla George Washington University. «La Wen è tra i “top doctors” americani, scrive sul “Washington Post” e appare spesso come commentatrice televisiva. E’ stata anche premiata dal Forum di Davos tra i “giovani leader globali”».
    Una grande opinion maker, Leana Wen: nel 2019, “Time Magazine” l’ha definita “una delle 100 persone più influenti del mondo”. Di fronte al fatto che Stati come Florida e Texas stanno già riaprendo tutto, anche con pochi cittadini vaccinati, alla “Cnn” si è lasciata scappare la seguente ammissione: «Ci sono milioni di persone che per qualche ragione temono i vaccini, e non capiscono quale possa esserne il vantaggio, per loro. Noi dobbiamo spiegargli bene che il vaccino è il loro lasciapassare, per tornare alla vita com’era prima della pandemia. E la finestra di tempo per farlo si sta restringendo, per legare le riaperture alla situazione vaccinale: altrimenti, se si riapre tutto, quale sarà la “carota”?». La carota: il premio. «Come faremo a incentivare le persone a farsi vaccinare? Ecco perché il Cdc e l’amministrazione Biden devono affermare con forza: se sarete vaccinati, guardate quante cose potrete fare, quante libertà potrete riavere. Viceversa, la gente tornerà a godersi queste libertà in ogni caso».
    Capito, come funziona? Massimo Mazzucco lancia un appello severo e accorato ai giornalisti, finora reticenti o addirittura complici del sistema “bastone e carota”, fatto di cure negate, migliaia di vittime e “terrorismo sanitario” per spingere il popolo bue verso l’imbuto previsto fin dall’inizio, quello del vaccino. «Voi, che continuate a chiamare “negazionista” chiunque protesti per questa situazione assurda, finirete per passare alla storia come i nuovi collaborazionisti», dice Mazzucco agli operatori dei media. «Gli uomini di Vichy sono passati alla storia per aver aiutato il nazismo in Francia; voi passerete alla storia per aver aiutato il vacci-nazismo che si sta cercando di instaurare: e come c’è stata una Norimberga per i nazisti, ci sarà sicuramente una Norimberga anche per voi». E dunque: «Smettetela di fare i servi delle case farmaceutiche, e tornate a mettervi dalla parte dei cittadini, prima che sia troppo tardi».
    Il secondo messaggio, al termine del suo lungo video, Mazzucco lo dedica a tutti quelli che dicono: «Non vedo l’ora di vaccinarmi, così almeno questo incubo finirà». Magari. «Non illudetevi: non finirà. Il tira e molla delle restrizioni continuerà all’infinito». Facile profezia: «Ci faranno respirare un po’ quest’estate, e poi in autunno arriverà la “quarta ondata”, così imporranno nuove restrizioni e magari daranno la colpa a quelli che si saranno “divertiti troppo” durante l’estate. Incolperanno anche i non vaccinati, per cercare di metterci gli uni contro gli altri». Mazzucco è pessimista: «State tranquilli che non basterà una sola vaccinazione, per farla finita: ci saranno i richiami, perché ci saranno mille, nuove meravigliose “varianti”, e dovremo abituarci a vaccinarci tutti, ogni anno». Non ci credete? Male. «Ci sarà una terza dose, poi il richiamo annuale», dice Albert Bourla, presidente della Pfizer. «Deve diventare un’abitudine: una volta all’anno dovremo vaccinarci», conferma l’immunologo genovese Matteo Bassetti.
    E se qualcuno aveva sperato che con Mario Draghi sarebbe finita, la colossale farsa, si deve amaramente ricredere: «Dovremo continuare a vaccinarci, per gli anni a venire – ha appena annunciato il nuovo primo ministro – perché ci saranno delle varianti, e quindi i vaccini andranno adattati». Che caso: la Pfizer intanto ha già previsto rincari del 900%. «Una dose costerà fino a 175 dollari: che pagheremo noi, con in soldi delle nostre tasse». Pfizer e Moderna – aggiunge Mazzucco – hanno appena cominciato le sperimentazioni su bambini di 6 mesi, ed entro novembre sarà pronto il vaccino per il neonati (e i bambini fino a 11 anni)». Chiosa il reporter: «Questa idea di vaccinarsi pur di uscire dall’incubo è una pia illusione: significa uscire dalla gabbia del lockdown per entrare nella gabbia più grande, quella delle vaccinazioni permanenti. Che poi è il sogno di Big Pharma: una società in cui tutte le persone sane si abituino comunqe a vaccinarsi regolarmente, a tutte le età, una o più volte all’anno, pena la restrizione delle loro libertà. Questo è quello che vogliono ottenere, e stanno per riuscirci».
    Quindi, conclude Massimo Mazzucco, vedete voi in che mondo volete vivere: «Un mondo libero, dove ci vengono garantite da subito delle cure valide (e dove chi vuole potrà anche vaccinarsi, se lo desidera), oppure un mondo di schiavi, ricattati dalle continue restrizioni e condannati a circolare con il passaporto vaccinale in tasca per andare allo stadio, in discoteca, a trovare i parenti anziani nelle case di risposo». Violando la Costituzione, il governo Draghi ha già imposto il vaccino ai sanitari: in teoria, la Carta proibisce di sottoporre cittadini a Tso con farmaci ancora sperimentali. Il grande avvocato tedesco Reiner Fuellmich, insieme a mille colleghi e 10.000 medici di tutto il mondo, sta preparando le carte per ottenerla, la Nuova Norimberga. Nella geografia della strage, spicca l’Italia di Giuseppe Conte e Roberto Speranza: alle cure negate (”proibite”, per dirla con Mazzucco) corrisponde un numero spaventoso di vittime, abbandonate in “vigile attesa” della morte.

    Ha idea, Roberto Speranza, di quante persone sono morte per il Covid, nell’ultimo anno, a causa delle cure non autorizzate? Migliaia? Tutti pazienti che potevano essere salvati, se solo non fossero stati ostacolati in ogni modo i medici che avevano scoperto come guarirli, spesso da casa, senza nemmeno ricorrere all’ospedale. Massimo Mazzucco snocciola i numeri della strage: e spiega anche perché è stata provocata, da che cosa. L’imputato numero uno ha un nome preciso: il vaccino. Se fossero state approvate le terapie salva-vita, sarebbe stato impossibile (per l’Ema, e quindi per l’Aifa) accordare ai vaccini-Covid l’autorizzazione d’emergenza per la loro somministrazione. Normalmente, per approvare un vaccino servono 3-5 anni di sperimentazioni. La procedura emergenziale può scattare solo in un caso: quando non esistono alternative, cioè cure. Ecco perché le cure (che esistono e funzionano) sono state sistematicamente boicottate: se fossero state approvate, addio vaccini.

  • Bizzi: bomba a Gerusalemme, per incendiare il mondo

    Scritto il 15/5/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Spero siano notizie infondate, ma negli ambienti di intelligence circola la voce di un possibile, enorme attentato terroristico – magari con l’impiego di mini-atomiche – che sarebbe in preparazione a Gerusalemme, progettato dai “soliti noti” per far ricadere la colpa sull’Iran e quindi poi coinvolgere nella tensione anche Russia e Cina». A lanciare l’allarme è Nicola Bizzi, storico nonché editore di Aurora Boreale. Bizzi è co-autore e curatore (con Matt Martini) del bestseller “Operazione Corona”, che svela imbarazzanti retroscena sugli eventi degli ultimi mesi: l’emergenza pandemica sarebbe una sofisticata “invenzione” del vertice finanziario mondiale, nel 2019 terrorizzato dalla storica crisi dei Repo, le compensazioni interbancarie delle banche centrali. In altre parole: non potendo sdoganare l’idea keynesiana dell’emissione monetaria illimitata, dopo decenni di austerity neoliberista fondata sul dogma (farlocco) della “scarsità di moneta”, di fronte alla carenza di liquidità per garantire il credito non restava che il “piano-B”, cioè il collasso pilotato dell’economia, con i lockdown, per azzerare di colpo la domanda di prestiti.
    Massone, esponente della comunità “eleusina” e in contatto con ambienti dell’intelligence, Nicola Bizzi ha spesso firmato annunci poi regolarmente confermati dai fatti. «Da almeno un mese – disse, a marzo – mi hanno spiegato che il 12 aprile inizierà una sorta di de-escalation, riguardo all’emergenza Covid, in virtù di un accordo riservatissimo che sarebbe stato raggiunto a fine 2020: una volta risolta la crisi finanziaria dei Repo, di cui l’opinione pubblica è rimasta all’oscuro, la fazione ostile alle restrizioni-Covid avrebbe indicato una sorta di road-map: se entro il 12 aprile 2021 avesse cominciato a “sgonfiarsi” il terrorismo mediatico costruito sulla cosiddetta pandemia, gli artefici del fenomeno-Covid avrebbero evitato di rendere conto dei loro misfatti». Secondo Bizzi, è esattamente quello che sta avvenendo: proprio il 12 aprile sono uscite dallo stato d’emergenza sia la Gran Bretagna che la Repubblica Ceca, mentre Spagna e Portogallo hanno accelerato le riaperute. «Qualcosa del genere è avvenuto per Olanda e Belgio, dove i governi tentano però di resistere alle riaperture».
    Succede anche in Francia, dove – segnala Matt Martini – nei giorni scorsi il Parlamento si è pronunciato contro l’adozione del “pass vaccinale”, salvo poi rimangiarsi la parola in serata (grazie a pressioni esercitate su singoli parlamentari?). «Non mi stupisce», dice Bizzi: «I poteri che si sono “inventati” il Covid non possono fare retromacia di colpo, dicendo alla popolazione: abbiamo scherzato». Lo stesso Bizzi, nella tarda primavera 2020, fu il primo a sottolineare – riscuotendo notevoli riscontri, in tutta Europa – la clamorosa denuncia del presidente bielorusso Alexandr Lukashenko, secondo cui prima l’Oms e poi il Fmi avrebbero offerto cifre stellari, fino a 900 milioni di dollari, per indurre la Bielorussia ad attuare il lockdown «come in Italia». E’ noto che Minsk – che non ha attuato alcuna misura d’emergenza, contro il Covid – è una sorta di avamposto di Mosca, sul fronte geopolitico occidentale. Contro Lukashenko era stata messa in atto l’ennesima “rivoluzione colorata”, poi abortita. Fallita la rivolta “democratica”, l’autocrate di Minsk – ostile al “partito del Covid” – ha rischiato di essere ucciso, in un attentato sventato dagli 007 russi.
    «Il colpo di Stato contro Lukashenko in Bielorussia, sventato dai servizi segreti di Putin – dice Bizzi – doveva servire come premessa per militarizzare l’Ucraina, da parte della Nato, che avrebbe poi agito direttamente contro i russi». Ora il tentativo di riaccendere la guerra ripartirebbe da Gerusalemme, per mezzo del terrorismo “false flag”? «Speriamo proprio di no, mi auguro che siano soltanto illazioni», dice l’editore di Aurola Boreale, secondo cui però non è il caso di abbassare la guardia. «C’è chi teme che in Iran, dove si voterà presto e dove l’ayatollah Khamanei si starebbe spegnendo a causa di una lunga malattia, potrebbe emergere una giovane leadership “antiglobalista”: un’ipotesi che fa paura, al punto da progettare attentati per congelare questo processo attraverso un conflitto di portata mondiale?». Quello contro la Russia è stato appena disinnescato. Però, il solo fatto di parlare di eventuali attentati, stavolta in Israele – insiste Bizzi – a volte può servire ad allontanare possibili pericoli.

    «Spero siano notizie infondate, ma negli ambienti di intelligence circola la voce di un possibile, enorme attentato terroristico – magari con l’impiego di mini-atomiche – che sarebbe in preparazione a Gerusalemme, progettato dai “soliti noti” per far ricadere la colpa sull’Iran e quindi poi coinvolgere nella tensione anche Russia e Cina». A lanciare l’allarme è Nicola Bizzi, storico nonché editore di Aurora Boreale. Bizzi è co-autore e curatore (con Matt Martini) del bestseller “Operazione Corona”, che svela imbarazzanti retroscena sugli eventi degli ultimi mesi: l’emergenza pandemica sarebbe una sofisticata “invenzione” del vertice finanziario mondiale, nel 2019 terrorizzato dalla storica crisi dei Repo, le compensazioni interbancarie delle banche centrali. In altre parole: non potendo sdoganare l’idea keynesiana dell’emissione monetaria illimitata, dopo decenni di austerity neoliberista fondata sul dogma (farlocco) della “scarsità di moneta”, di fronte alla carenza di liquidità per garantire il credito non restava che il “piano-B”, cioè il collasso pilotato dell’economia, con i lockdown, per azzerare di colpo la domanda di prestiti.

  • Biden: anche il genocidio armeno, per nuocere a Mosca?

    Scritto il 22/4/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Joe Biden ha deciso di riconoscere come genocidio l’uccisione di 1,5 milioni di armeni durante il periodo della Prima Guerra Mondiale da parte dell’Impero Ottomano». Lo scrive il “New York Times”, precisando che l’annuncio è atteso per il 24 aprile, 106esimo anniversario dell’eccidio di massa. «Biden sarà il primo presidente Usa a farlo, dopo che almeno una trentina di paesi hanno fatto passi analoghi», osserva “Repubblica”. L’Olocausto armeno è stato riconosciuto soprattutto in Europa e in Sudamerica, a partire dalla presa di posizione dell’Uruguay, risalente al 1965. Il Vaticano si mosse nel 2000, l’Unione Europea solo nel 2015 (dopo una prima risoluzione del 1987). L’Italia è intervenuta nel 2019, mentre la Russia già nel 1995, nel solco della storica amicizia russo-armena risalente all’epoca sovietica. La mossa degli Usa è ora destinata a infiammare le tensioni con la Turchia, alleato Nato, scrive “Repubblica”, secondo cui il gruppo di potere che oggi gestisce la Casa Bianca avrebbe «anteposto il suo impegno verso i diritti umani». Ferite aperte: e non solo con la Turchia, visto che è recentissima la crisi del Nagorno Karabakh, a due passi dalle frontiere con la Russia.
    La guerra del Nagorno Karabakh era deflagrata tra il gennaio 1992 e il maggio 1994, nella piccola enclave armena nel sud-ovest dell’Azerbaijan, tra la maggioranza etnica armena (sostenuta dalla vicina Armenia) e la repubblica caucasica dell’Azerbaijan. Il conflitto è riesploso nell’autunno 2020, impegnando direttamente la Russia in funzione di mediatrice. Il conflitto, sottolinea l’Ispi, si è trasformato rapidamente in una crisi umanitaria di dimensioni immani: sarebbero stati 90.000 (su una popolazione totale di 140.000 persone) i civili fuggiti dal Karabakh verso l’Armenia. Un grosso problema, per la Russia di Putin: tradizionalmente vicina agli armeni, di religione cristiana, Mosca avrebbe tentato di evitare di mettersi in urto con gli azeri, musulmani. «Altro elemento di discontinuità, che ha alterato e rovesciato l’equilibrio provvisorio e fragile di questo conflitto – scrive l’Ispi – è la natura del coinvolgimento della Turchia a fianco di Baku». Già nel 1993, Ankara chiuse i confini con l’Armenia in solidarietà all’Azerbaijan, ma stavolta ha offerto un supporto militare diretto (aviazione e droni).
    Se è vero che Biden aveva annunciato in anticipo (in campagna elettorale) la sua intenzione di riconoscere finalmente il dramma storico armeno, finora sottaciuto per non irritare la Turchia, membro della Nato, è impossibile non contemplare le implicazioni geopolitiche del gesto, nella primavera 2021: sono in aumento le frizioni con il regime di Erdogan, sempre meno controllabile da Washington nonostante il suo impegno – sotto l’amministrazione Obama – ad assistere l’Isis in Siria, con la complicità dell’Occidente, in un fuzione anti-russa. Lo stesso Mario Draghi (vicino all’amministrazione Biden) ha appena definito “dittatore” il sultano di Ankara, che contende all’Italia il controllo energetico della Libia, in coabitazione con una Russia ormai nel mirino degli Usa dopo le continue provocazioni a cui Mosca è stata sottoposta nell’Est Europa. «Alcuni paesi hanno preso l’abitudine di prendersela con la Russia», ha detto Vladimir Putin in questi giorni. «Per loro è come una competizione sportiva, un nuovo tipo di sport: giocano a chi sarà il più forte a parlare contro la Russia».
    Dal capo del Cremlino, un avvertimento esplicito: «Se vogliono bruciare i ponti, o addirittura farli saltare, si pentiranno delle loro azioni, come non si sono mai pentiti prima: la risposta della Russia sarà asimmetrica, rapida e dura». Mosca ha appena espluso 20 diplomatici cechi, in risposta alla cacciata di 18 funzionari russi, allontanati da Praga dopo esser stati incolpati di un mini-attentato più che dubbio, nella Repubbica Ceca. Una mossa che, secondo alcuni osservatori, aveva lo scopo di accendere le tensioni con la Russia e, soprattutto, distogliere i media da una notizia imbarazzante: gli 007 russi avrebbero appena sventato un golpe, a Minsk, che prevedeva l’omicidio mirato del presidente Lukashenko, l’uomo che nel 2020 denunciò l’Oms e il Fmi per aver tentato di corrompere la Bielorussia con offerte miliardarie perché adottasse il lockdown contro il Covid, agendo «come in Italia», secondo le direttive auspicate da personaggi come Bill Gates e Anthony Fauci, sostenitori di Biden.
    Il club internazionale del “terrorismo sanitario” (utilizzato per liquidare Donald Trump, poi rottamato con i brogli elettorali) sembra ora mettere nel mirino soprattutto la Russia, che – con il vaccino Sputnik – ha trascinato con sé vari paesi, ridimensionando l’emergenza pandemica funzionale al Great Reset socio-economico e finanziario disegnato a Davos. Può sembrare strano che a riesumare i diritti umani (degli armeni di cent’anni fa) siano personalità dal curriculum poco rassicurante come Biden e il suo segretario di Stato, Blinken. Gli Usa stanno impegnando la Nato a sostenere l’Ucraina nella repressione della popolazione russofona del Donbass, separatasi da Kiev dopo il golpe “colorato” finanziato da Soros e promosso da Obama e Biden nel 2014. La Russia risponde militarizzando le frontiere e rinforzando la sua presenza in Crimea e nel Mar Nero. A due passi c’è il Nagorno Karabakh: la presa di posizione di Biden – proprio adesso – ha anche la funzione di destabilizzare ulteriormente la regione, complicando la vita alla Russia?

    «Joe Biden ha deciso di riconoscere come genocidio l’uccisione di 1,5 milioni di armeni durante il periodo della Prima Guerra Mondiale da parte dell’Impero Ottomano». Lo scrive il “New York Times”, precisando che l’annuncio è atteso per il 24 aprile, 106esimo anniversario dell’eccidio di massa. «Biden sarà il primo presidente Usa a farlo, dopo che almeno una trentina di paesi hanno fatto passi analoghi», osserva “Repubblica”. L’Olocausto armeno è stato riconosciuto soprattutto in Europa e in Sudamerica, a partire dalla presa di posizione dell’Uruguay, risalente al 1965. Il Vaticano si mosse nel 2000, l’Unione Europea solo nel 2015 (dopo una prima risoluzione del 1987). L’Italia è intervenuta nel 2019, mentre la Russia già nel 1995, nel solco della storica amicizia russo-armena risalente all’epoca sovietica. La mossa degli Usa è ora destinata a infiammare le tensioni con la Turchia, alleato Nato, scrive “Repubblica”, secondo cui il gruppo di potere che oggi gestisce la Casa Bianca avrebbe «anteposto il suo impegno verso i diritti umani». Ferite aperte: e non solo con la Turchia, visto che è recentissima la crisi del Nagorno Karabakh, a due passi dalle frontiere con la Russia.

  • Uccidere Lukashenko: Mosca sventa il golpe Usa a Minsk

    Scritto il 19/4/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Grande Satana: con questa espressione (deformando con lenti teologiche la Bibbia, dove il “demonio” in realtà non esiste) l’ayatollah Khomeini definitiva l’imperialismo Usa, che in Iran aveva abbattuto il presidente legittimo, Mohammad Mossadeq, ostile al colonialismo petrolifero inglese, per insediare il dittatore di fiducia delle democrazie occidentali, lo scià Reza Pahlevi. Il Grande Satana sembra tornato: mentre il potere euro-statunitense e cinese sostiene che il mondo sarebbe tenuto in ostaggio dal Covid, le grandi potenze mercantili mettono nel mirino il sistema-Russia, l’unico (su scala mondiale) che si sia opposto alla narrazione fobica del coronavirus, decretando la fine dell’emergenza dopo aver rinunciato ai lockdown. Le notizie sembrano rincorrersi lungo un precipizio pericoloso, tracciato dal gruppo di potere che utilizza la Casa Bianca (Joe Biden) come paravento istituzionale per la resa dei conti con Mosca, incessantemente preparata da quando Vladimir Putin ha messo fine al saccheggio occidentale del suo paese. Mentre si assediano le posizioni russe in Ucraina, si tenta di abbattere (uccidendolo) il presidente della Bielorussia, alleato di Mosca.
    Fonti come “Controinformazione” e “L’Antidiplomatico” forniscono dettagli non rintraccabili nella stampa mainstream occidentale, quella che ha costruito il Grande Terrore del virus di Wuhan. I servizi segreti russi, si legge, nei giorni scorsi hanno sventato un piano per assassinare Lukashenko e i suoi famigliari, onde decapitare la dirigenza di Minsk. Tra i fermati, l’attivista Yuri Leonidovich Zyankovich (uomo con doppia cittadinanza, bielorussa e statunitense) e il politologo bielorusso Alexander Feduta. L’accusa, da parte degli 007 dell’Fsb: stavano progettando un golpe militare, in Bielorussia, tramite il collaudato scenario della “rivoluzione colorata” con il coinvolgimento dei nazionalisti locali e ucraini, da innescare dopo l’eliminazione fisica del presidente Lukashenko. Nella primavera 2020, l’autocrate di Minsk era stato quasi travolto dalle proteste di piazza, orchestrate dall’Occidente. La sua grande colpa? Aver denunciato che l’Oms e il Fmi avevano avanzato offerte miliardarie, alla Bielorussia, se avesse optato per il lockdown «come in Italia».
    Il cattivo esempio di Lukashenko – niente lockdown, e denuncia del complotto – andava quindi punito severamente, nel 2020 con la sua deposizione e ora addirittura con il suo “omicidio mirato”. Il golpe sventato dai servizi segreti del Cremlino rientra nella drammatica partita a scacchi tra Occidente e Russia: una caccia alle streghe ufficialmente aperta dall’attuale presidente-fantoccio degli Stati Uniti, che ha definito «un assassino» il leader russo, sostenuto in patria da un vasto consenso popolare. Va ricordato che la Russia, in questi anni, non è mai venuta meno al senso dell’onore, rispettando i patti e i trattati internazionali. Al contrario, gli Usa hanno regolarmente violato tutti gli accordi, a partire da quelli risalenti all’epoca di Gorbaciov, quando l’Urss – mettendo fine alla guerra fredda – sognava orizzonti di pace e cooperazione, a beneficio dello sviluppo mondiale. Tradendo le promesse, gli Stati Uniti non hanno esitato, infatti, a spostare continuamente verso Est l’area operativa della Nato, minacciando in modo sempre più diretto la Russia.
    Dal canto suo, Mosca ostenta saldezza, forte della sua dichiarata potenza difensiva affidata a tecnologie avveniristiche di origine aerospaziale: nel gennaio 2021, il super-cacciatorpediniere americano Donald Cook è stato costretto a navigare alla deriva, nel Mar Nero, dopo un sorvolo radente da parte di un caccia russo Su-24 che ha letteralmente “spento a distanza” i comandi della avanzatissima nave da battaglia statunitense. Può apparire sconcertante – specie oggi, in un clima narrativo ancora dominato dalla cosiddetta pandemia – che a fare notizia siano eventi dal sapore antico, come il dislocamento di reparti corazzati alle frontiere. La Russia ha schierato oltre 1.000 carri armati e 300 aerei a difesa dei confini con l’Ucraina, dopo l’annuncio – da parte del regime di Kiev, sostenuto dalla Nato – di volersi riprendere con la forza le regioni ucraine che nel 2014 operarono la secessione dall’Ucraina, paese storicamente russo, a cui nel 1954 – con Khrushev – l’Urss “regalò” la Crimea, in segno di amicizia.
    Proprio la Crimea – tornata alla madrepatria russa con regolare referendum, dall’esito plebiscitario – resta la pietra dello scandalo, nonché la potenziale polveriera che potrebbe far esplodere la crisi oggi in corso. In questi giorni, la Russia sta letteralmente militarizzando la penisola del Mar Nero, per scoraggiare un’aggressione da parte della Nato, che utilizzerebbe truppe ucraine. Il ritorno alla Russia da parte della Crimea, nel 2014, si accompagnò al distacco dell’Est Ucraina (Lugansk e Donetsk): proprio il Donbass è stato bombardato, in questi giorni, dalle artiglierie di Kiev, a pochi chilometri dalla linea oltre la quale sono schierati migliaia di soldati russi, pronti anche – secondo Mosca – a penetrare in territorio ucraino, per fermare l’eventuale avanzata delle truppe appoggiate dalla Nato. All’origine del conflitto, il golpe del 2014 truccato da “rivoluzione colorata”: cecchini e mercenari Nato spararono sulla folla per far ricadere la colpa sulla polizia ucraina dell’allora presidente, il filo-russo Viktor Yanukovic. Il colpo di Stato, condotto anche con elementi neonazisti e anti-russi, gettò nel panico le componenti russofone dell’Ucraina (Crimea e Donbass), da allora passate sotto il controllo di Mosca.
    Di fronte alla sconfitta (in particolare, la perdita della Crimea), Barack Obama reagì imponendo sanzioni contro Mosca: ordine prontamente eseguito dall’Unione Europea, con gravissimi danni inferti al florido export italiano. Ed era solo l’antipasto: poco dopo, infatti, Vladimir Putin avrebbe schierato i suoi aerei a protezione della Siria, salvando Damasco dalle milizie dell’Isis, protette dall’intelligence occidentale sia in modo diretto (Usa, Francia, Gran Bretagna) che attraverso attori locali come Turchia, Israele e Arabia Saudita. Una disfatta, per Obama, difficilmente tollerabile: e proprio Obama è oggi il politico più determinante, nelle scelte della Casa Bianca. Già allora, i russi offrirono speciali inviti alla prudenza: senza alcuna motivazione tattica, infatti, le postazioni dell’Isis furono colpite anche da nuovissimi missili ipersonici, lanciati da corvette in navigazione nel Mar Caspio (a 1.300 chilometri di distanza) senza che i radar Nato riuscissero a “vederli” e intercettarli, prima dell’impatto.
    Sembrano curiosità per appassionati, ma forse sono notizie su cui può fare affidamento chi teme seriamente che Usa e Russia possano davvero venire alle mani in modo diretto, tenendo conto che (oltre al pericoloso Obama) alla Casa Bianca siede un “signore della guerra” come Biden, scandalosamente coinvolto – anche a livello di business familiare – nel grande affare del golpe in Ucraina, insieme a falchi neocon come Victoria Nuland e personaggi come l’ultra-guerrafondaio Tony Blinken, attuale segretario di Stato. Suona oltremodo sinistro l’impegno della marina militare britannica nel Mar Nero, contro la Russia, annunciato il 18 aprile dal “Sunday Times”: nessuno dimentica il ruolo svolto da Londra, con Blair, all’epoca dell’invenzione delle “armi di distruzione” di massa di Saddam, infame campagna di disinformazione per preparare l’invasione dell’Iraq. Ci risiamo? Non è rassicurante nemmeno la strana esplusione di diplomatici russi decretata dalla Repubblica Ceca in questi giorni, probabilmente per innalzare una cortina fumogena destinata a distogliere l’attenzione dei media dall’imbarazzante golpe in Bielorussia appena sventato da Mosca, capitale di un paese che ha osato sfidare i signori del Covid, anche facendo concorrenza ai loro vaccini miliardari.

    Grande Satana: con questa espressione (deformando con lenti teologiche la Bibbia, dove il “demonio” in realtà non esiste) l’ayatollah Khomeini definitiva l’imperialismo Usa, che in Iran aveva abbattuto il presidente legittimo, Mohammad Mossadeq, ostile al colonialismo petrolifero inglese, per insediare il “dittatore di fiducia” delle democrazie occidentali, lo scià Reza Pahlevi. Il Grande Satana sembra tornato: mentre il potere euro-statunitense e cinese sostiene che il mondo sarebbe tenuto in ostaggio dal Covid, le grandi potenze mercantili mettono nel mirino il sistema-Russia, l’unico (su scala mondiale) che si sia opposto alla narrazione fobica del coronavirus, decretando la fine dell’emergenza dopo aver rinunciato ai lockdown. Le notizie sembrano rincorrersi lungo un precipizio pericoloso, tracciato dal gruppo di potere che utilizza la Casa Bianca (Joe Biden) come paravento istituzionale per la resa dei conti con Mosca, incessantemente preparata da quando Vladimir Putin ha messo fine al saccheggio occidentale del suo paese. Mentre si assediano le posizioni russe in Ucraina, si tenta di abbattere (uccidendolo) il presidente della Bielorussia, alleato di Mosca.

  • Stop al Great Reset: due morti sfiorano il principe Carlo

    Scritto il 15/4/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Il principe Carlo ne ha perso un altro», dice Angela Merkel. «Sono due», conferma Vladimir Putin, al telefono con la cancelliera. «Il primo era il suo preferito, lo sai», aggiunge la Merkel. «Sì, sono stato informato». La tedesca: «Non è una coincidenza». «Sappiamo anche questo», chiosa il russo. Ma chi erano, i due morti menzionati? Il ceco Petr Kellner e il britannico Sir Richard Sutton, beniamini di Carlo d’Inghilterra e descritti come uomini-chiave del cosiddetto Grande Reset. Sono scomparsi nei giorni scorsi a distanza di pochissime ore: il primo caduto insieme al suo elicottero, il secondo accoltellato nella sua abitazione. E il favoloso colloquio telefonico tra Merkel e Putin? Lo pubblica “Mitt Dolcino”, sia pure prendendolo con le molle: lo definisce “report apodittico”, e lo attribuisce a «una Sorcha Faal in maschera», lasciando intendere che l’autrice del post (sul blog “What Does It Mean”) si avvalga di fonti d’intelligence.
    Né deve stupire la possibilità di una telefonata confidenziale come quella, tra Mosca e Berlino, dato che i capi dei due paesi militano nella stessa superloggia, la “Golden Eurasia”, dai tempi della Germania Est. Sia pure senza prove, e per di più «in un volutamente pessimo inglese», scrive Franco Leaf su “Mitt Dolcino”, il post di “Sorcha Faal” «riafferma il legame Merkel-Putin», e soprattutto «ci parla di una strana moria fra gli alti esponenti del Great Reset». La cosa più interessante di quella trascrizione, però, è lo scambio fra il presidente Putin e la cancelliera Merkel sulle loro rispettive posizioni, per come sono state articolate al World Economic Forum di Davos. Se la Merkel ha definito la pandemia «il disastro del secolo», che ha messo a nudo «le debolezze della nostra società», secondo Putin «è del tutto pleonastico sostenere che non ci siano paralleli diretti nella storia: alcuni esperti – e io rispetto la loro opinione – stanno paragonando la situazione attuale a quella degli anni Trenta».
    Putin, poi, sottolinea «le negative conseguenze demografiche della crisi sociale», nonché «la crisi dei valori, che potrebbe portare alla perdita dell’eredità civile e culturale di interi continenti». Durante questo scambio – scrive Sorcha Faal”- Putin e la Merkel hanno discusso a lungo l’agenda di Davos. La parte più sorprendente sembra mostrarla la trascrizione (dal tedesco) sulle due “perdite” attribuite a Carlo d’Inghilterra, «nelle vesti di uno dei principali sostenitori del programma socialista-globalista “The Great Reset”». Due dei suoi più stretti alleati per lo sviluppo di questo programma – si legge su “What Does It Mean” – erano l’uomo più ricco della Gran Bretagna, Sir Richard Sutton, e Petr Kellner, l’uomo più ricco della Repubblica Ceca». Il principe Carlo incontrò Kellner per la prima volta quando visitò la Repubblica Ceca nel 1991 e, nel 2009, guidò lo sforzo per farlo selezionare come il “giovane leader globale” del World Economic Forum, si ricorda nel post ripreso da “Mitt Dolcino”.
    «Due settimane fa, il 27 marzo, Petr Kellner è morto in un misterioso incidente d’elicottero in Alaska», disastro aereo «analogo a quello di Olivier Dassault», industriale e parlamentare francese, erede dell’impero familiare (Dassault, un colosso dell’aviazione: dai jet privati Falcon ai caccia Mirage e Rafale). Classe 1964, Petr Kellner è deceduto in Alaska sulle montagne a circa 80 chilometri da Anchorage, dove era andato per fare eliski. Kellner ha perso la vita assieme ad altre cinque persone, tra le quali due guide locali e il pilota dell’elicottero. Alla guida del fondo d’investimento Ppf, Kellner era stato protagonista della stagioni della grande privatizzazione nell’allora Cecoslovacchia post-sovietica. Un operatore di primissimo piano: banche e assicurazioni, energia, immobiliare e grande distribuzione, con interessi anche in Slovacchia, Russia e Bielorussia, Cina, Vietnam e Kazakhstan. Dal 2007 al 2011 era anche entrato a far parte, in Italia, del Cda delle Generali.
    L’inglese Richard Sutton, un baronetto di 83 anni, è stato invece aggredito il 7 aprile all’interno della sua villa vicino a Gillingham, nel Dorset (una dimora valutata oltre due milioni di euro). Sutton era un imprenditore che gestiva molte proprietà e alberghi importanti del Regno Unito, come l’Athenaeum Hotel di Mayfair e lo Sheraton Grand London di Park Lane. Figurava nella lista del “Sunday Times” delle persone più facoltose del paese, al 453esimo posto, e il suo patrimonio era valutato in oltre 300 milioni di sterline (quasi 350 milioni di euro). A queste due morti misteriose s’è aggiunta la notizia che – sempre il 9 aprile – il padre di Carlo, il principe Filippo di Edimburgo, è morto in ospedale all’età di 99 anni.
    Durante una conversazione con la “Deutsche Press Agentur”, come riportato dal tabloid “Express”, trent’anni fa il principe Filippo ebbe a dire: «Nel caso in cui mi reincarnassi, vorrei tornare come un virus mortale, per contribuire a risolvere il problema della sovrappopolazione». Una battuta di spirito, che oggi assume un retrogusto quasi inquietante: ricorda i moniti del Club di Roma, che per mezzo secolo ha parlato della crescita demografica come di una calamità planetaria, ben prima che spuntassero i teorici della decrescita e poi i personaggi come Greta Thunberg, profeti di sventura trasformati in fenomeni mediatici mondiali.
    «L’importanza di quanto si son detti il presidente Putin e la cancelliera Merkel – entrambi d’accordo sul fatto che le morti misteriose degli alleati del principe Carlo, Sir Richard Sutton e Petr Kellner, non siano una coincidenza – è monumentale», sottolinea “Sorcha Faal” nel post citato da “Mitt Dolcino”. Il contatto tra Mosca e Berlino, secondo “What Does It Mean”, «suggerisce fortemente che queste morti siano in realtà degli omicidi mirati: un messaggio rivolto a chi sostiene il “Great Reset”». Secondo il post, c’era da aspettarselo: «A fronte dell’agenda socialista-globalista volta a “resettare” il mondo intero, le potenti forze che vi si oppongono non permetteranno mai che ciò accada». E’ ancge il motivo, sempre secondo “Sorcha Faal”, per il quale «il presidente Putin ha avvertito quei pericolosi idioti del Wef che il percorso che stanno percorrendo è esattamente come quello degli anni Trenta», che portò fatalmente alla Seconda Guerra Mondiale.

    «Il principe Carlo ne ha perso un altro», dice Angela Merkel. «Sono due», conferma Vladimir Putin, al telefono con la cancelliera. «Il primo era il suo preferito, lo sai», aggiunge la Merkel. «Sì, sono stato informato». La tedesca: «Non è una coincidenza». «Sappiamo anche questo», chiosa il russo. Ma chi erano, i due morti menzionati? Il ceco Petr Kellner e il britannico Sir Richard Sutton, beniamini di Carlo d’Inghilterra e descritti come uomini-chiave del cosiddetto Grande Reset. Sono scomparsi nei giorni scorsi a distanza di pochissime ore: il primo caduto insieme al suo elicottero, il secondo accoltellato nella sua abitazione. E il favoloso colloquio telefonico tra Merkel e Putin? Lo pubblica “Mitt Dolcino“, sia pure prendendolo con le molle: lo definisce “report apodittico”, e lo attribuisce a «una Sorcha Faal in maschera», lasciando intendere che l’autrice del post (sul blog “What Does It Mean”) si avvalga di fonti d’intelligence.

  • Femminicidio, prove tecniche di criminalizzazione di massa

    Scritto il 07/12/19 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione contro la “violenza di genere”, cioè la violenza maschile contro le donne. I media hanno evocato a riguardo una sorta di emergenza “femminicidio” in Italia. L’anno più recente in cui la statistica sugli omicidi in Italia risulta pienamente aggiornata è il 2017. In base a questi dati, si registrerebbe in Italia un calo costante degli omicidi, che collocherebbe il nostro paese ai gradi più bassi della graduatoria europea per reati di sangue. Non solo in paesi comparabili al nostro, come Francia, Germania e Regno Unito, il tasso di omicidi risulta superiore all’Italia, ma persino in paesi considerati “modello”, come Svezia e Danimarca, da cui non te lo aspetteresti proprio. Meno violenti dell’Italia sono invece paesi come la Repubblica Ceca, il Portogallo e la Spagna, a smentita del luogo comune del “sangre caliente”. Il costante calo degli omicidi in Italia può essere in parte spiegato con l’invecchiamento medio della popolazione, dato che è difficile fare agguati quando si è afflitti da artrosi e prostatite. La maggioranza delle vittime di omicidi è ancora costituita da uomini. La diminuzione degli omicidi legati ad attività criminali fa statisticamente risaltare la quota degli omicidi in ambito familiare, nei quali è piuttosto consistente la quota di donne uccise.
    Mentre la criminalità comune sposta i reati in ambiti meno cruenti, da colletti bianchi, come le frodi informatiche e il riciclaggio, la famiglia rimane invece un luogo di violenza fisica e morale nei termini tradizionali. D’altra parte se vi fosse davvero una “violenza di genere”, questa dovrebbe proiettarsi ben oltre la famiglia, ma di ciò, almeno statisticamente, non c’è ancora nessuna traccia. Le oligarchie finanziarie e industriali sono rigorosamente costituite da maschi bianchi, in maggioranza di origine anglosassone o germanica, quindi in quel caso la criminalizzazione preventiva del genere maschile non attecchisce per niente. Funziona invece benissimo in altri ambiti, come la scuola. Secondo i dati Ocse, tende ovunque a diminuire la quota maschile di insegnanti, ma il fenomeno sembrerebbe molto più significativo in Italia, dove i maschi sono stati di fatto estromessi dalla scuola elementare. Visto che non siamo più ai tempi del Maestro di Vigevano, che lasciava la scuola per inseguire sogni di arricchimento nell’industria, la causa va probabilmente ricercata in un’opinione pubblica sempre più sospettosa e ostile alla presenza di maschi a contatto con bambini.
    D’altra parte, gli stessi metodi utilizzati per criminalizzare preventivamente il genere maschile potranno essere reimpiegati per criminalizzare anche il genere femminile; infatti l’Ocse presenta la femminilizzazione della scuola come un problema per il processo educativo. Nella scuola primaria e nella scuola dell’infanzia la criminalizzazione degli insegnanti maschi è servita per aprire la strada alla criminalizzazione della categoria degli insegnanti nel suo complesso. Siamo già alle condanne nei confronti di maestre per la generica accusa di aver “urlato”. L’Uomo Ragno diceva che ad un grande potere corrisponde una grande responsabilità. L’Uomo Ragno è una fiaba e infatti la realtà funziona nel modo esattamente opposto: maggiore è il potere che si esercita, maggiore è la capacità di deresponsabilizzarsi e di colpevolizzare invece i deboli per ogni cosa. Il moralismo è un linguaggio del potere che ritorce l’ansia di giustizia degli oppressi contro di loro. La criminalizzazione preventiva di chi non deteneva e non detiene i mezzi per nuocere, è quindi diventata una costante dell’attuale “governance”. Si può infatti riscontrare che non colpisce solo i generi ma anche le generazioni.
    Mentre le oligarchie mondialiste rimangono in gran parte felicemente gerontocratiche, in ambito sociale invece gli anziani sono additati dai media come nemici e parassiti delle giovani generazioni. Viene addebitato alla responsabilità della vecchia generazione sia il debito pubblico italiano, sia il riscaldamento globale. Non a caso la propaganda ha bollato anche un’inezia come la “Quota 100” nei termini di un furto ai danni dei giovani. A ciò si aggiunge la criminalizzazione preventiva delle categorie, in particolare i lavoratori del pubblico impiego, invariabilmente catalogati come “fannulloni” e “furbetti”. La ministra delle pubblica amministrazione del passato governo, Giulia Bongiorno, aveva introdotto un sistema di rilevamento biometrico delle impronte digitali dei dipendenti pubblici per evitare le presunte frodi dei cartellini scambiati. I ministri sono solo passacarte, perciò la Bongiorno non aveva fatto altro che adeguarsi al trend imposto dalle lobby che contano.
    L’attuale governo sembra aver abolito la norma, riconoscendo che aveva un carattere di criminalizzazione preventiva di un’intera categoria. La sensazione però è che il provvedimento firmato dalla Bongiorno sia stato solo rimandato poiché non sono ancora a disposizione della pubblica amministrazione le infrastrutture tecnologiche per attuarla. Di fatto il concetto era passato senza che vi fossero reazioni significative da parte di una pubblica opinione ormai addestrata all’odio di categoria. È banale e forse riduttivo evocare in questo caso il “divide et impera”, poiché c’è di peggio: si educa una società ad invocare catene dai suoi carnefici. Per i prossimi anni si apre quindi uno scenario in cui la crescente criminalizzazione di ogni settore sociale andrà a legittimare forme di controllo sempre più invasive. Si prepara una “biometrizzazione” di massa?
    (”Prove tecniche di criminalizzazione preventiva”, da “Comidad” del 28 novembre 2019).

    Sabato scorso si è svolta a Roma una manifestazione contro la “violenza di genere”, cioè la violenza maschile contro le donne. I media hanno evocato a riguardo una sorta di emergenza “femminicidio” in Italia. L’anno più recente in cui la statistica sugli omicidi in Italia risulta pienamente aggiornata è il 2017. In base a questi dati, si registrerebbe in Italia un calo costante degli omicidi, che collocherebbe il nostro paese ai gradi più bassi della graduatoria europea per reati di sangue. Non solo in paesi comparabili al nostro, come Francia, Germania e Regno Unito, il tasso di omicidi risulta superiore all’Italia, ma persino in paesi considerati “modello”, come Svezia e Danimarca, da cui non te lo aspetteresti proprio. Meno violenti dell’Italia sono invece paesi come la Repubblica Ceca, il Portogallo e la Spagna, a smentita del luogo comune del “sangre caliente”. Il costante calo degli omicidi in Italia può essere in parte spiegato con l’invecchiamento medio della popolazione, dato che è difficile fare agguati quando si è afflitti da artrosi e prostatite. La maggioranza delle vittime di omicidi è ancora costituita da uomini. La diminuzione degli omicidi legati ad attività criminali fa statisticamente risaltare la quota degli omicidi in ambito familiare, nei quali è piuttosto consistente la quota di donne uccise.

  • Addio Taranto, Mittal si porta via i clienti Ilva: era scontato

    Scritto il 17/11/19 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.
    Nel 2003, infatti – continua Hechich – Arcelor aveva cominciato a contrattare con le parti sociali un piano di ristrutturazione di sei impianti in Europa e la cessazione di alcune attività. Nel 2006, Mittal firmò l’acquisto impegnandosi a non chiudere gli altoforni di Liegi (Belgio) e Florange (Francia). Obiettivo dichiarato: metterli a norma immediatamente per rinforzarne la competitività e assicurare l’ambientalizzazione. «La posta in gioco era molto alta, perché gli stabilimenti della Lorena fornivano l’acciaio alle case automobilistiche Bmw e Mercedes». E invece «non avvenne nulla di quanto stabilito, e nel 2009 lo stabilimento di Grandrange (Francia) chiuse senza mai aver beneficiato di quel piano che Mittal aveva promesso allo Stato francese». Aggiunge Hechich: «Buona parte degli stabilimenti sono stati acquistati al solo fine di distruggere la concorrenza europea, acquisire i contratti per poi lasciare gli impianti abbandonati». Non ci voleva un genio per capire che consegnare Taranto nelle mani del gruppo ArcelorMittal avrebbe voluto dire la fine della città: «La sola ragione per la quale un imprenditore spregiudicato come Mittal potrebbe accollarsi uno stabilimento obsoleto e al centro di una questione giudiziaria come l’Ilva di Taranto sarebbe il voler acquisire le commesse Ilva e chiudere, così come ha fatto nel resto d’Europa, senza bonifiche e senza alcun reimpiego degli operai».
    Nessuno si sorprenda, se oggi siamo ai titoli di coda: bastava consultare il web per vedere come avesse operato, la multinazionale, in giro per il mondo. E se anche avessimo voluto vendere Taranto ai tedeschi «sarebbe stata la stessa cosa, probabilmente». Infatti, «se gli indiani vogliono far fuori la concorrenza europea, i tedeschi avrebbero voluto far fuori la concorrenza italiana, visto che l’Ilva è il più grande stabilimento d’acciaio d’Europa ed è fondamentale per l’industria manufatturiera italiana, che poi dovrebbe rifornirsi dalla Germania a prezzi maggiori». Lo Stato italiano riuscirà nel miracolo di tirar fuori gli attributi, facendosi carico della questione e risolvendola una volta per tutte? «Certo, Di Maio farebbe una malinconica tenerezza, se non fosse per il fatto che ci va di mezzo la vita lavorativa ed economica di migliaia di famiglie». L’esponente 5 Stelle, allora ministro del lavoro, aveva annunciato di aver «risolto la questione in meno di tre mesi». Chiosa Hechich: in realtà bastava ancora meno – 5 minuti – per scoprire, consultando Google, dove sarebbe andato a parare, il gruppo ArcelorMittal.
    Nato nel 2006 dalla fusione tra il colosso europeo Arcelor (Spagna, Francia e Lussemburgo) e l’indiana Mittal Steel Company, il gruppo – basato in Lussemburgo – è il maggior produttore d’acciaio al mondo: con oltre 200.000 dipendenti, di cui metà in Europa, rifornisce l’industria automobilistica e i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi. Opera in Lussemburgo, Spagna, Italia, Polonia, Romania, Bosnia-Erzegovina e Repubblica Ceca. Tanti gli stabilimenti nel resto del mondo: Sudafrica, Messico, Canada, Brasile, Algeria, Indonesia e Kazakhstan. Il gigante ArcelorMittal è quotato in Borsa a Parigi, Amsterdam, New York, Bruxelles, Lussemburgo e Madrid, e le sue azioni sono incluse in più di 120 indici borsistici. L’acquisizione di Arcelor da parte di Mittal (per 33 miliardi di dollari) venne effettuata attraverso un’offerta pubblica di acquisto ostile, lanciata dopo il fallimento di una precedente fusione pianificata da Arcelor. Oggi il gruppo produce il 10% dell’acciaio mondiale, cosa che lo rende la più grande azienda siderurgica del pianeta: già nel 2007, i ricavi ammontavano a 105 miliardi di dollari. Nel 2016 la società è stata multata dal Sudafrica per aver “fatto cartello”, fissando i prezzi attraverso informazioni aziendali riservate (la sanzione inflitta all’azienda: 110 milioni di dollari).
    La produzione è arrivata a 114 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno. Con la crisi del comparto i numeri sono calati, ma il fatturato 2016 superava i 50 miliardi di euro (fruttando alla proprietà un miliardo e mezzo di utili). Cifre peraltro facilmente reperibili, anche su Wikipedia: nel 2018 i ricavi hanno superato i 76 miliardi di dollari (8 miliardi più dell’anno precedente), con un utile netto di oltre 5 miliardi. Tradotto: il profitto cresce, tagliando il lavoro, anche se si contrae il fatturato. Oggi, avverte il “Fatto Quotidiano”, il colosso dell’acciaio è in fuga, e non solo da Taranto: ArcelorMittal chiude stabilimenti in Sudafrica, Polonia e Usa, sostenendo che il mercato si starebbe deteriorando, data la contrazione della domanda. Dal 23 novembre, stop a tre altoforni tra Cracovia e Dabrowa Gornicza. Spente anche una fornace vicino a Chicago e l’acciaieria sudafricana di Baia di Saldanha. Oltre a Taranto, ArcelorMittal ha centri di servizio e sedi operative a Monza, Rieti, Avellino, Milano, Torino e Saronno (Varese). Gli stabilimenti ex Ilva, a parte quello pugliese, sono dislocati a Genova e Novi Ligure (Alessandria), Racconigi (Cuneo), Marghera (Venezia) e Salerno. Se si mette il naso fuori dall’Italia, si scopre che lo stabilimento di Zenica, in Bosnia, acquisito da ArcelorMittal con 22.000 dipendenti, oggi ha appena 3.000 operai.
    Uomo chiave dell’azienda è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal: presidente e amministratore delegato, detiene il 37.4% del gruppo. Nato in un villaggio indiano del Rajasthan, vive a Kensington, Londra, dove nel 2004 ha acquistato dal magnate britannico Bernie Ecclestone, allora patron della Formula 1, una sontuosa residenza da 70 milioni di sterline, costruita con uno stile che ricorda il Taj Mahal. Il “Financial Times” lo ha nominato uomo dell’anno nel 2006, e nel 2010 il “Sunday Times” lo ha eletto uomo più ricco del Regno Unito con un patrimonio netto superiore a 22 miliardi di sterline. Per “Forbes”,  Lakshmi Mittal è stato nel 2015 l’82°uomo più ricco del mondo (e il quinto più ricco dell’India) con un patrimonio di 13,5 miliardi di dollari. Sempre secondo “Forbes”, tra le persone più potenti del pianeta, nel 2014 si è piazzato al 57º posto. Nel 2007, ricorda ancora Wikipedia, ha donato circa 3 milioni di sterline al Partito Laburista. Personaggio poliedrico e azionista anche nel calcio (Queens Park Rangers), per i suoi due figli Mittal ha organizzato matrimoni sfarzosi, spendendo rispettivamente 30 e 65 milioni di dollari. Questo è l’uomo che Luigi Di Maio avrebbe “messo in riga”, un anno fa, e contro cui oggi tentano di fare la voce grossa l’avvocato Conte, il ministro Patuanelli e il sindacalista Landini.
    Il controllo sulla società, ha raccontato il “Sole 24 Ore”, viene esercitato dai Mittal attraverso sei “trust”, un particolare tipo di società utilizzato da imprese e individui molto ricchi per pagare meno tasse. I sei trust hanno sede nell’isola di Jersey, paradiso fiscale del Regno Unito nel Canale della Manica. Queste società – riassume “Il Post” – sono l’ultimo anello di una lunga catena dove, dopo un lungo giro tra fiduciarie e holding con sede a Gibilterra e in altri paradisi fiscali, arrivano i soldi della famiglia Mittal. All’altro capo della catena rispetto ai trust si trova ArcelorMittal, la multinazionale vera e propria (con sede in Lussemburgo, altro paese con un regime fiscale molto vantaggioso per le imprese). «Grazie a queste complicate strutture, ArcelorMittal è in grado di pagare pochissime tasse», aggiunge il “Post”. «Le sue pratiche di elusione fiscale sono state raccontate in un’inchiesta del sito francese “MediaPart”. La società ha ricevuto accuse di evasione fiscale anche da diversi governi, come quelli di Ucraina e Bosnia, oltre che accuse di aver compiuto violazioni ambientali e aver agito con mano pesante sulle comunità locali in molti dei paesi dove opera».
    Nel 2018, ArcelorMittal si era presentata alla gara per acquistare l’Ilva di Taranto e gli altri due impianti espropriati alla famiglia Riva, accusata di aver violato per anni le leggi di sicurezza e quelle ambientali. «Nonostante la sua reputazione, la sua offerta è stata giudicata migliore di quella della cordata rivale, Acciaitalia, capeggiata da un’altra società indiana, Jindal». L’assegnazione della vittoria ad ArcelorMittal, avvenuta ufficialmente il primo novembre 2018, è stata piuttosto controversa, ricorda sempre il “Post”: «Già all’epoca, diversi osservatori accusavano la multinazionale di non avere intenzione di rilanciare gli impianti italiani, ma di avere come unico obiettivo sottrarli a un potenziale concorrente». Altri invece hanno difeso la società, sostenendo che era l’unica disposta ad investire le cifre necessarie (circa 2 miliardi di euro) a mettere in sicurezza l’impianto di Taranto, e in particolare i suoi estesi parchi dove sono depositati i minerali di ferro, attualmente esposti al maltempo che spesso ne soffia le polveri sulla città di Taranto. A condurre la gara e le trattative con ArcelorMittal fu prima l’allora ministro Carlo Calenda, con il governo Gentiloni, e poi Luigi Di Maio, durante il primo governo Conte.
    Di Maio era contrario all’accordo, ma alla fine ha accettato l’offerta della multinazionale. «Con il contratto raggiunto con il governo italiano, ArcelorMittal si è impegnata a investire più di 4 miliardi di euro nella società, ha promesso di occuparsi delle bonifiche dell’impianto di Taranto e di mantenere al lavoro tutti i diecimila dipendenti della società». Da allora però il mercato dell’acciaio è peggiorato. «Anche se nell’ultimo trimestre i conti di ArcelorMittal si sono rivelati migliori del previsto – scrive il “Post” – il 2019 dovrebbe chiudersi con un bilancio molto peggiore rispetto all’anno precedente». Inoltre, alcuni altoforni dell’impianto di Taranto rischiano di dover essere spenti per ordine della magistratura, mentre il governo ha cambiato spesso idea sul cosiddetto “scudo penale” che, in teoria, serve a proteggere manager e dirigenti dell’azienda dal rischio di cause legali per le violazioni commesse dalle gestioni precedenti. Ora siamo al capolinea: ArcelorMittal lascia Taranto a annuncia lo spegimento degli impianti. Secondo Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, se ne va il 30% della siderurgia italiana. Da sola, l’Ilva vale l’1,5% del Pil.

    Rilevare stabilimenti, acquisirne i clienti e poi chiuderli. E’ la specialità di ArcelorMittal, colosso mondiale dell’acciaio. «Il risultato di questi giorni sulla questione Ilva era del tutto prevedibile», scrive Roberto Hechich: «Solo che la gente, i politici e la classe dirigente hanno la memoria corta». Mentre Taranto piange, con 10.000 posti di lavoro a rischio (e l’intera industria meccanica italiana senza più acciaio fatto in casa), sul blog del Movimento Roosevelt l’analista ricorda che Arcelor si difese strenuamente contro l’aggressiva offerta pubblica d’acquisto lanciata in Borsa da Mittal: a fine febbraio 2006 le quotazioni dei due gruppi arrivarono ad equivalersi, e Mittal riuscì ad assorbire Arcelor per un valore di 28,6 miliardi di euro. Promesse vane, sul rilancio: «A qualche mese dalla fusione cominciò a delinearsi chiaramente quella che era la strategia di politica industriale del gruppo: chiudere gli stabilimenti in Europa per fermare la concorrenza e acquisire gli ordini di Arcelor, facendo produrre l’acciaio in paesi terzi». Cominciarono anni di lotte tra il gruppo, i governi (Francia e Lussemburgo) e i sindacati: Mittal fu definito da un ministro francese come un «bugiardo senza limiti» che sapeva bene, al momento del lancio dell’Opa, quali sarebbero state le politiche da portare avanti in Europa.

  • Non temete i sovranisti, in quest’Europa fondata sulla paura

    Scritto il 20/9/18 • nella Categoria: idee • (67)

    Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.
    L’Europa di oggi è fondata sulla paura. Paura dello straniero per taluni, paura dei nazionalisti per talatri. Xenofobia e nazionefobia sono le due categorie politiche dominanti, le twin towers dell’Europa. Ma con la paura non si compiono scelte assennate. Fino a ieri nominavi la Svezia, l’Olanda, i paesi scandinavi e i paesi bassi, e spuntavano le immagini del socialismo democratico, della società aperta, permissiva, globale e spregiudicata, della droga libera, dell’eutanasia, delle coppie omosessuali esibite e parificate alle famiglie. Adesso nomini quei paesi e senti dire xenofobia, razzismo, nazionalismo. Fino a oggi appena nomini l’estrema destra ti viene fuori la solita genealogia: l’Austria reazionaria, asburgica e patria di Hitler, la Germania del Terzo Reich, la Francia di Vichy. Più l’aggravante cattolico-tradizionalista. E ora come la mettiamo che pure la permissiva, la protestante, la mai fascista Svezia, si rivolge a quella destra, dopo la Norvegia, l’Olanda e altri paesi nordeuropei?
    E come la mettiamo con paesi che hanno subito il nazismo e soprattutto il comunismo e ora si votano al sovranismo, come l’Ungheria, la Polonia, i cechi e gli slovacchi, cioè i paesi di Visegrad? Lasciamo stare i demoni fuori dalla porta, e lasciamo stare le paure. Ragioniamo con realismo. Sgomberiamo subito il campo da un’ossessione. L’antisemitismo e il razzismo non c’entrano con questa ondata populista, sovranista e nazionalista. Se conati antiebraici affiorano in Europa sono legati alla presenza islamica o alla questione palestinese; il resto è marginale periferia, patetico folclore, fuori dalla politica. C’è un tasso preoccupante di xenofobia in Europa? Ma non bisogna ridurla a patologia. Anche perché è paura, non odio razziale; è preoccupazione, non disprezzo etnico. C’è paura, umanissima e giustificatissima paura per l’ignoto e per l’estraneo, per la difficile convivenza, per il disagio sociale, per la criminalità legata a tutti questi fattori di instabilità. Quando la paura colpisce in modo così massiccio popoli maturi e civili non si può gridare al demonio, bisogna porsi il problema e affrontarlo fuori dai codici ideologici.
    La xenofobia attraversa oggi ceti sociali diversi, a cominciare dai più deboli e dai più popolari, e colpisce a destra come a sinistra. Vedete i travasi di voti in tutta Europa, compreso da noi, dalla sinistra al populismo, per rendervene conto. Allora rispetto allo straniero si devono portare a rigore due posizioni divergenti ma entrambi giustificate e rispettabili: quella di chi dice accoglienza punto e basta, viva la società multiculturale; e quella di chi dice accoglienza limitata e condizionata, e tutela prioritaria della comunità locale e nazionale e dei suoi confini. Sono due posizioni nettamente opposte, entrambi comprensibili e legittime se condotte con realismo e senza fanatismo. Se si accolgono nell’agone politico della democrazia entrambe le posizioni si spuntano le armi agli estremismi, ai fondamentalismi, alle violenze. Perché i fanatici stanno da entrambi le parti, e bisogna costringere entrambe a fare i conti con la realtà. I sovranisti crescono perché non hanno cittadinanza nella democrazia; e usano linguaggi duri e netti perché non sono ammessi nel gioco democratico.
    Finora la loro risorsa è proprio l’essere fuori, outsider, estranei e dunque critici radicali del sistema, a cominciare dal gergo usato. Non resta che scommettere a immetterla nel gioco, a pieno titolo, senza dichiararla criminale e illegale appena cresce (caso italiano docet): è una scelta che comporta rischi e incognite, ma complessivamente minori della scelta opposta, di escluderla e lasciarla inselvatichire, creando abissi tra popoli e istituzioni. Sarebbe un rischio anche per loro, perché si giocherebbero il loro ruolo di antagonisti anti-sistema. Larga parte di questi movimenti sovranisti non sono contro l’Europa ma contro l’Eurocrazia, ovvero contro le oligarchie finanziarie, tecnocratiche o ideologiche che decidono i destini dell’Europa a prescindere dai popoli e dalla loro realtà concreta. Sono movimenti fondati sull’importanza decisiva del confine e sulla priorità delle popolazioni autoctone e degli Stati nazionali rispetto al mondo esterno.
    Uscendo dal demagogico populismo antisistema, queste forze sarebbero costrette a rendere ragionevole, realista e compatibile la loro posizione: e questo si può convertire in un rafforzamento della base democratica e popolare dell’Europa al suo interno e di una maggiore incisività strategica e politica all’esterno. Anzi, queste spinte, opportunamente metabolizzate, possono alimentare un patriottismo europeo, o un patriottismo dei cerchi concentrici, che va dalla piccola patria alla nazione fino alla patria europea. Questi movimenti invocano, seppure a volte con rozzezza e demagogia, il ritorno della politica e delle passioni comunitarie, il ritorno ai popoli e alle loro sovranità, la salvaguardia della civiltà e della continuità con la storia. Non mi sembra una cosa terribile, o negativa.
    Dicono che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli. Quanto alla libertà vorrei ricordare che molti di questi partiti sovranisti sono di estrazione liberale, si presentano come partiti democratici del progresso, dell’Occidente, della modernità contro le invasioni islamiche, l’africanizzazione dei popoli. Il leader della destra olandese, l’omosessuale Pim Fortuyn, aveva scritto un saggio, “L’influenza islamica sulla nostra cultura”, in cui sosteneva l’incompatibilità tra l’Islam e la civiltà liberale d’Occidente. Posizione alla Oriana Fallaci, per intenderci. Fortuyn non si appellava alla difesa della tradizione europea o peggio al razzismo, ma al fatto che l’islamismo mette in pericolo la modernità liberale e democratica, la tolleranza e i costumi europei.
    Si può concordare o no con questa tesi (a me per esempio non piace), ma si deve riconoscere che si tratta di una posizione ultramoderna, liberale, occidentalista e perfino progressista. Che trova oggi molti seguaci nel nord Europa. Tesi non dissimili affiorano in difesa di Israele, rispetto al mondo arabo che lo circonda. Insomma, smettiamola di ingabbiare la mente e sprigionare le paure; proviamo a fare il contrario. Il futuro riserva sorprese e non è detto che siano amare. E tra le sorprese, la meno probabile mi sembra il ritorno al nazismo, al razzismo, al fascismo, e archeologia varia. Esortate ogni giorno a non innalzare muri; provate anche voi a non erigere muri dentro casa, contro l’onda sovranista.
    (Marcello Veneziani, “Non abboate paura dei sovranisti”, dal “Tempo” dell’11 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.

  • Crisi-migranti: fratture e minacce, ora l’Ue può esplodere

    Scritto il 23/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (18)

    I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.
    «Io sono presidente della Csu, uno dei tre partiti della coalizione di governo, e guido il mio partito con totale sostegno», aggiunge Seehofer: «Se qualcuno nella cancelleria è insoddisfatto del lavoro del ministro dell’interno, allora deve porre fine alla coalizione». Ma mentre la cancelliera si arrovellava per tenere in piedi la sua stessa casa, osserva Micalessin, a oriente veniva giù un altro pezzo d’Europa: i paesi del blocco di Visegrad, Ungheria in testa, guidavano la rivolta contro il vertice preparatorio tra Italia, Spagna, Francia, Germania e Austria (ma forse anche Bulgaria, Olanda e Belgio) che domenica dovrebbe segnare le tappe d’avvicinamento al Consiglio d’Europa del 28 giugno sul tema migranti. Il pomo della discordia capace d’innescare la sollevazione di Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca è come sempre la ripartizione dei richiedenti asilo. Un argomento considerato una sorta d’inviolabile tabù dai quattro paesi dell’Est europeo. «Apprendiamo che ci sarà un mini-summit, ma noi non vi parteciperemo perché questo è contrario alle abitudini dell’Ue», annuncia il premier ungherese Viktor Orban, spiegando che il responsabile dell’organizzazione dei summit «è il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk e non la Commissione Europea».
    Prima ancora che succedesse tutto questo, annota sempre il “Giornale”, le linee guida della Merkel erano state messe in dubbio anche da un Giuseppe Conte «costretto a confrontarsi con l’ignobile bozza di lavoro sottopostaci in vista dello stesso vertice preparatorio». Una bozza che ribadiva l’obbligo di riprenderci, con tante scuse, i migranti sbarcati sulle nostre coste e poi «acciuffati al confine di altri paesi dopo esser sgusciati tra le maglie dei controlli». Non illudiamoci, insiste Micalessin: la rivolta di Conte, «prontissimo nel rispedire al mittente la bozza minacciando il ritiro dell’Italia», è una nota più che positiva ma «non è certamente una vittoria definitiva». Lo scontro tra Seehofer e la cancelliera? «Dimostra inequivocabilmente come dietro la sopravvivenza di quella clausola iniqua ci fosse il tentativo della Merkel d’abbassare il livello dello scontro con il proprio ministro dell’interno». E la reazione dell’Italia, con la cancellazione della clausola? «Ha dato fuoco alle polveri – chiosa Micalessin – ma anche messo a nudo lo stato di decomposizione in cui versa ormai l’Unione».

    I paesi di Visegrad le voltano la schiena. Il falco di Baviera Horst Seehoofer è pronto a scavarle la fossa sotto i piedi. L’Italia per la prima volta prova a rivoltarlesi contro. E il Trattato di Schengen sembra a un passo dalla rottamazione. Insomma, «la cancelliera Angela Merkel e l’Europa disegnata a sua immagine e somiglianza tremano, traballano e si sgretolano». Il tutto, scrive Gian Micalessin sul “Giornale”, a meno di una settimana da un Consiglio Europeo in cui l’Unione «dovrà decidere come uscire da quella crisi dei migranti che rischia di distruggerla». Ma la resa dei conti, aggiunge Micalessin, inizia dal peccato originale: anzi, dalla “peccatrice”, cioè «da quella Angela Merkel colpevole di aver spalancato le porte a un fenomeno migratorio di cui non comprese la devastante portata». Tre anni dopo, la prima a subirne le conseguenze è proprio lei: Seehofer attacca a muso duro una cancelliera pronta a licenziarlo pur di frenare il “masterplan” anti-immigrazione con cui il falco della Csu bavarese vorrebbe respingere alla frontiera chiunque si è visto rifiutare l’asilo in un altro paese o non è in grado di esibire un documento. «Sarebbe la prima volta al mondo che uno licenzia un ministro soltanto perché si preoccupa e si prende cura della sicurezza e dell’ordine del suo paese», dichiara Seehofer.

  • Bugie su Mosca da un’Europa in pezzi. L’Italia? Obbedisce

    Scritto il 30/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre a Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».
    Quanto alle dichiarazioni del governo britannico, la stessa May continua a dire che «è altamente probabile» che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. «Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi», aggiunge Foa. E nel comunicato congiunto diffuso da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma “sviluppato” non significa prodotto in Russia: «Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come “fabbricato” – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa», che pertanto «andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa, non come un verdetto». La stampa dovrebbe mostrare maggior cautela, specie dopo le maggiori “fake news” che ha propagato, dalle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein fino alle prove “incontrovertibili” (ma altrettanto inesistenti) della responsabilità di Assad nella strage coi gas nel 2013 (armi chimiche in realtà usate dai “ribelli” siriani per provocare un intervento della Nato).
    Come risalire addirittura a Putin nel giro di poche ore, soprattutto conoscendo l’efficienza dell’ex Kgb? Molto eloquente, sottolinea Ivan Giovi sul blog di Aldo Giannuli, la volontà di non mostrare la provetta che dimostrarebbe la produzione russa del gas nervino utilizzato contro Skripal, nonostante Boris Johson si sia scagliato contro il Cremlino, non a caso alla vigilia delle elezioni russe. Marcello Foa insiste: siamo regolarmente sommersi da “fake news” veicolate non dal web, ma dai grandi media. Penultimo esempio: sempre in Siria, nel 2107, Amnesty International e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un “formo crematorio” in cui venivano “bruciati i ribelli”, «rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano». Avverte Foa: «Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le  fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”».
    Le istantanee adesioni europee alla condanna unilaterale inglese contro la Russia, scrive Giovi, fanno pensare a un tentativo di compattamento dei ranghi della Nato, «che sembra ormai tutto tranne che un’alleanza». Ovvero: più che un alleato, la Turchia «ormai sembra sempre più una spina nel fianco di Europa e Usa», mentre la Germania «ha intrapreso una guerra commerciale con gli Stati Uniti trascinando con sé tutta Europa». Dal canto loro, gli Usa «si lamentano in continuazione con gli Stati europei perché non contribuiscono abbastanza alla difesa comune». Tendenza in corso: ricompattare i ranghi della Nato ingigantendo il reale potere dei russi e «trovando pretesti assurdi per incolparli di qualsivoglia evento accaduto nel mondo occidentale (leggasi hacker russi che interferiscono con elezioni di mezzo mondo)». Senza peraltro riuscire nello scopo, «perché l’influenza russa negli ultimi anni si è estesa sempre di più, basti pensare alla Turchia che ha palesemente cambiato sponda o alla in Siria dove il vincitore a breve sarà nettamente Vladimir Putin». In questo quadro, Maurizio Blondet inserisce anche il giro di vite contro l’uomo che per primo ha smontato la propaganda militare Usa, mettendo in piazza i crimini commessi in Iraq: Julian Assange. L’averlo isolato – senza più Internet – per ragioni diplomatiche (buon vicinato con gli inglesi) rappresenta «una stretta imposta dal governo britannico nell’ambito dell’offensiva europea e americana contro tutte le voci libere».
    Per Blondet, si tratta di «un atto di barbarie identico (e connesso) alle espulsioni dei diplomatici russi sotto accuse spudoratamente false: una vera congiura della dittatura totalitaria occidentale in corso di consolidamento, una volontà di precipitare il conflitto con la Russia». Lo stesso Blondet ricorda che la Commissione Europea ha appena presentato un “Piano d’azione sulla Mobilità Militare” che obbligherà tutti i paesi membri a lasciare libero il passo agli eserciti Nato sul proprio territorio. Come sottolinea Thierry Meyssan, non si parla solo di eserciti europei: nella Nato, oltre agli Usa, c’è la Turchia. Per Blondet, questa misura «è l’identificazione finale della “Unione Europea” con l’Alleanza Atlantica, l’inglobamento dell’organizzazione essenzialmente economica nella lega militare oggi in postura offensiva». A 25 Stati membri viene ordinato di fornire carte delle loro vie di comunicazione (ferrovie, porti, aeroporti) nonché di precisare i lavori necessari per rendere praticabili ponti e le loro gallerie per i mezzi cingolati. «Dovranno anche cancellare le leggi e i regolamenti in vigore che vietano – o regolamentano – il trasporto di armamenti e materiali bellici sul loro territorio: è una Schengen per la guerra».
    Trionfante, Federica Mogherini – ancora lei, benché il governo che l’ha piazzata a Bruxelles non esista più – accoglie il progetto con entusiasmo: «Facilitando la mobilità militare nella Ue, siamo più efficaci nel prevenire crisi, più efficienti nel dispiegare le nostre missioni e più rapidi nel reagire quando sorgono delle sfide». “Prevenire crisi”, secondo Blondet, va inteso nei due sensi: «Secondo documenti interni all’Alleanza, la mobilità militare non serve solo per far correre le forze alle frontiere contro la Russia; servirà anche in caso di sollevazione popolare all’interno di uno degli Stati membri». Noi italiani non potevamo fare altrimenti che espellere diplomatici russi, pur con il già defunto governo Gentiloni? Non è vero, sottolinea Blondet: sono sono tutti così servili. Austria, Grecia e Portogallo si sono rifiutati di accodarsi a Londra, Parigi, Berlino e Roma. L’ha fatto anche la Repubblica Ceca: «Voglio vedere le prove», ha avvertito il presidente ceco Milos Zeman, rifiutando di compiere azioni ostili contro Mosca. Una dignità politica inesistente in Italia, la cui nave della Saipem per trivellazioni marittime è stata allontanata dalle acque di Cipro (sotto minaccia della flotta turca) senza che fiatasse il governo di Roma, in cui soccorso non è intervenuto nessuno – né l’Ue, né la Nato, cioè le potenze che dall’Italia poi ottengono obbedienza immediata se si tratta di colpire Mosca.
    E vogliamo parlare del “partner” Germania? «Mentre noi applichiamo le sanzioni alla Russia – aggiunge Blondet – Berlino ha appena firmato e confermato il North-Stream 2, il gasdotto baltico con la Russia, a dispetto delle proteste di Polonia, paesi baltici e Usa. Con quale motivazione? Che il gasdotto è una realizzazione “economica”, non politica». Dalla “guerra” con la Russia, invece, l’Italia ha riportato enormi danni. Secondo dati ufficiali Eurostat, fino a inizio 2017 il trend delle esportazioni italiane nella Federazione Russa era in crescita, con 10,8 miliardi di euro. Le importazioni, invece, ammontano a circa 20 miliardi di euro, principalmente nel settore degli idrocarburi e delle materie prime. Oltre 400 sono le imprese italiane che operano in Russia e circa 70 gli stabilimenti produttivi realizzati nella Federazione (tra questi le installazioni Eni, Indesit, Marcegaglia, più le filiali Intesa SanPaolo e Unicredit). «E’ chiaro che il vero nostro partner è la Russia», non certo i nostri “alleati” euro-atlantici. E se il Pd è rimasto sempre allineato ai diktat “imperiali”, solo Salvini ha eccepito sull’ultima offensiva antirussa. Di Maio? «Sulla questione degli espulsi russi ha taciuto: zitto zitto, per non dispiacere all’ambasciatore Usa e ai padroni del vapore in generale». In sostanza: neppure la nuova politica emersa il 4 marzo protegge l’Italia dalle “pazzie” geopolitiche in corso, riesplose subito dopo l’annuncio di Putin: grazie a nuovissimi missili nucleari iper-sonici “imparabili”, la Russia è al riparo da attacchi atomici. Putin chiede pace? L’Occidente risponde con una guerra di menzogne.

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti, contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».

  • Addio Pd, la finta sinistra può solo scegliere come suicidarsi

    Scritto il 14/3/18 • nella Categoria: idee • (17)

    Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.
    Ma queste cose (campagna elettorale sbagliata e legge elettorale demenziale ed autolesionistica), che pure ci sono, sono solo una piccolissima parte delle ragioni del tracollo; quantomeno ci sarebbe da considerare la sconfitta del 4 dicembre 2016 sulla indecente riforma costituzionale, e poi ancora i 4 anni obbrobriosi di governo di Renzi. Ma anche questo non è sufficiente a spiegare il tutto. E’ una sconfitta che viene da lontano, da molto lontano, quantomeno da Occhetto. A volte per capire un quadro bisogna allontanarsi per vederlo nella sua interezza, e spesso le cause di una dinamica risalgono a molto tempo prima, perché i processi a volte sono molto lunghi nel loro svolgimento. In fondo la storia serve a questo (permettetemi di difendere l’utilità della mia disciplina contro lo scemenzaio recentista tipico del tempo del neoliberismo). Il Pci fu un partito popolare a trazione burocratica: la base era robustamente operaia, con fasce di piccolissima borghesia, guidata da un ceto funzionariale autoritario ma che sapeva aver cura del suo seguito. Dopo, a partire dalla metà anni settanta, iniziò una metamorfosi grazie all’espansione della sua base elettorale verso i ceti medi e medio-alti. Ma la svolta decisiva venne negli anni Ottanta e un ruolo decisivo lo ebbe “Repubblica”, la cui cultura politica era quella della destra azionista (La Malfa, Cianca, Tarchiani) ed il cui obiettivo era quello di una sorta di Pri di massa.
    L’operazione in gran parte riuscì e il risultato venne conclamato con Occhetto. Il Pds fu un partito sempre a base popolare (per quanto più ridotta) ma a trainarlo non era più l’apparato dei funzionari, quanto una certa borghesia professionale, accademica, giornalistica, manageriale. Fu il tempo della sinistra da salotto e da terrazza romana, che celebrò i suoi fasti al tempo di Veltroni. Si trattava di uno strato sociale di carrieristi, faccendieri, affaristi e, al bisogno, anche di tangentari grandi e piccoli. Gente priva di una sostanziale cultura politica, che non poteva sentir parlare di lotta di classe e che non aveva nessun senso della politica, ma che era in sintonia con lo spirito del tempo neoliberista. Pretendevano di essere loro la sinistra, anzi la nuova sinistra degli anni duemila, i blairiani d’Italia. Innamorati della finanza e allergici al lavoro, spinsero il partito a diventare il principale interlocutore del capitale finanziario in Italia.
    E anche questo era nello spirito dei tempi e rifletteva il nuovo compromesso socialdemocratico fra l’internazionale socialista e l’iper-capitalismo finanziario. La cosa ha funzionato per un quindicennio, poi… è venuta la crisi. Il modello si è incarognito e ha tagliato tutti gli spazi di mediazione riformistica, obbligando i partiti socialisti al governo (vale anche per Tsipras) a politiche apertamente antipopolari. E il meccanismo non ha più funzionato, come dimostrano i risultati ad una cifra di quasi tutti i partiti socialisti europei, dalla Spagna all’Austria, dalla Francia alla Grecia, dal Belgio alla Repubblica Ceca. La loro base popolare è risucchiata dall’ondata populista. Quel modello è fallito, in Europa e ora anche in Italia, nella quale la stagione renziana è stata solo una bizzarra anomalia subito normalizzata. E questa è la sorte odierna del Pd, destinato rapidamente a scendere a un risultato ad una cifra e all’assoluta irrilevanza politica: capolinea, signori si scende!
    (Aldo Giannuli, “Pd, la fine di un mondo”, dal blog di Giannuli del 9 marzo 2018).

    Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5S, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano; se appoggia il centrodestra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori; se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi. Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”; è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni; qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Waterloo. Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice, o al massimo a una legge elettorale sbagliata, e che ora si deve lavorare alla ripresa.

  • Salari cinesi per tutti: ormai sono più alti che in Est Europa

    Scritto il 10/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».
    In gergo economico, il fenomeno è descritto come “appiattimento della curva di Phillips”, come spiega Neil MacKinnon, economista di Vtb Capital. «L’impatto della globalizzazione e l’ingresso della Cina nel Wto nel 2002 ha aumentato notevolmente l’offerta di manodopera globale», afferma MacKinnon. L’eccesso di offerta di manodopera cinese e il flusso di merci cinesi a basso costo nell’economia mondiale ha creato un vantaggio per i consumatori globali, ma ha significato anche che determinati prodotti e posti di lavoro dell’Europa orientale hanno dovuto competere con la Cina, che ha prezzi più bassi. Catene di approvvigionamento e mercati a parte, il costo maggiore per un’azienda è la sua forza lavoro, e quella cinese viene finalmente remunerata. «Le retribuzioni dell’Europa orientale, simili a quelle cinesi, fanno parte di un mondo il cui motto è diventato: qualsiasi cosa tu possa fare, la Cina può farla a minor costo», scrive Rapoza. «La Cina stabilisce il prezzo per la manodopera manifatturiera e, in futuro, per la logistica relativa all’e-commerce. Alcuni europei dovrebbero sperare nei continui aumenti salariali della Cina se vogliono aumentare le loro stesse retribuzioni lorde».
    La quota della Cina nel commercio mondiale, continua Rapoza, è aumentata: da poco meno del 2% nel 1990 a quasi il 15% di oggi, secondo la Bank for International Settlements. «Da allora, l’economia di mercato cinese si è integrata all’economia globale, guidata principalmente dalla sua forza lavoro, con un rapporto capitale-lavoro inferiore agli standard globali». Inoltre, la Cina sta iniziando solo ora ad automatizzare la produzione. E in un arco di tempo simile, dagli anni ’90 ad oggi, i paesi dell’Europa orientale sono usciti dall’orbita della Russia e si sono spostati verso ovest. «Prima della caduta del comunismo, questi paesi erano rimasti più o meno isolati. La forza lavoro era abbondante e ben istruita, ma il capitale e il management erano limitati. Ne è seguita una combinazione fruttuosa: l’Europa occidentale ha fornito i soldi e il management, l’Europa dell’Est ha fornito la manodopera a basso costo». I dati relativi all’integrazione della Cina e dell’Est Europa sono impressionanti, aggiunge Rapoza. Contando solo la forza lavoro potenziale, la popolazione attiva in Cina e nell’Europa orientale tra i 20 e i 64 anni era di 820 milioni di persone nel 1990 e ha raggiunto 1,2 miliardi nel 2015. La popolazione attiva disponibile nei paesi europei industrializzati era di 685 milioni prima della crisi dell’Unione Sovietica nel 1990 e raggiungeva i 763 milioni nel 2014.
    «Parliamo quindi di un aumento una tantum del 120% della forza lavoro, che ha schiacciato i salari per i lavoratori meno qualificati», secondo la Bri. Usando come indicatore le tre grandi città cinesi – Shangai, Pechino e Shenzen – gli stipendi mediani dei lavoratori dipendenti sono più alti dei salari della parte più povera d’Europa: i vecchi Balcani dell’area comunista. «Proprio sul Mar Adriatico, di fronte alla ricca frontiera italiana, si trova una manodopera di tipo cinese: anzi ancora più economica, in realtà». I lavoratori cinesi a Shanghai, Shenzhen e Pechino, in media, guadagnano più dei lavoratori in Albania, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Montenegro, nuovo paese membro della Nato, che ha un reddito medio equivalente ad appena 896 dollari al mese. I salari medi di Shanghai non sono molto diversi da quelli della Polonia, da 1.569 dollari. Lo stesso vale per la Repubblica Ceca, dove lo stipendio medio a Praga, la sua città più ricca, si aggira intorno all’equivalente di 1.400 dollari. E il salario medio lordo dell’Ungheria sta proprio al livello di Shanghai: 1.139 dollari al mese. «La crescita dei salari in Cina è impressionante», conclude Rapoza. «Ottimo per i cinesi, ma ha lasciato indietro la crescita dei salari in molti dei paesi a basso reddito in Europa». Attenzione: «Ciò che questi numeri dimostrano è che il ruolo della Cina come centro manifatturiero ha posto le basi per qualsiasi aumento futuro delle retribuzioni, in particolare per gli operai non qualificati del settore manifatturiero, ma anche ben presto in altri nuovi settori come l’e-commerce».

    O la Cina sta raggiungendo alcune zone dell’Europa in termini di salari, o le retribuzioni nei paesi entrati più di recente nell’Unione Europea sono schiacciati dalla competizione globale sul lavoro, una competizione che la Cina vince a mani basse. «In realtà, si tratta di entrambe le cose», scrive Kenneth Rapoza su “Forbes”. La notizia? Sarà la Cina a dettare, nel mondo, la futura quota del salario medio – anche in Europa. A Shangai le retribuzioni medie mensili ammontano a 1.135 dollari, a Pechino sono 983 e a Shenzen 938. «Sono più alte che in Croazia, nuovo paese membro dell’Unione Europea: lo stipendio medio netto in Croazia è di 887 dollari al mese». Le paghe di Shanghai, in particolare, sono anche superiori a quelle di altri neo-membri dell’Eurozona, paesi baltici come la Lituania (956 dollari al mese) e la Lettonia (1.005), mentre in Estonia – paese che ha aderito all’euro nel 2011 – il reddito medio è pari a 1.256 dollari. Negli ultimi dieci anni, scrive Rapoza in un’analisi tradotta da “Voci dall’Estero”, l’Europa ha cercato di integrare nell’Ue la manodopera qualificata a basso costo dall’Europa dell’Est, mentre già nel 2002 la Cina si è pienamente integrata nella forza lavoro globale, entrando a far parte del Wto. L’ingresso di questi due enormi bacini di manodopera nella forza lavoro mondiale «ha posto le basi per la stagnazione dei salari tra i lavoratori meno qualificati delle catene di montaggio in tutto il mondo».

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