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Archivio del Tag ‘Risiko’

  • Addio curdi siriani, Trump e Erdogan li regalano ad Assad

    Scritto il 14/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Grazie al “dittatore” Erdogan, a capo di un paese Nato, con la benedizione dei cristiani l’autocrate Assad si riprende il Kurdistan siriano – laboratorio di democrazia – con l’appoggio della Russia e dell’Iran. Ai curdi, che si erano illusi di poter dare un futuro alla loro regione autonoma, che chiamano Rojava (“ovest”), non resta che la resa al governo di Damasco, tenuto in piedi da Putin e contrario a concedere qualsiasi autonomia. L’alternativa è l’inferno dell’Isis, annunciato dalle milizie sunnite filo-turche in avanzata. A far franare tutto, di colpo, è stato l’incredibile ritiro degli Usa, che proteggevano le formazioni curde, cioè i partigiani che si erano battuti eroicamente contro lo Stato Islamico mostrando al mondo, in città-simbolo come Kobane, una resistenza laica declinata anche al femminile. Tutto è crollato in poche ore, grazie al proditorio gesto di Trump. La fotografia della capitolazione la offre un magistrale reportage di Lorenzo Cremonesi sul “Corriere della Sera”, il 13 ottobre, dal fronte curdo. Traditi e abbandonati dall’alleato americano e da tutto l’Occidente, «i curdi di Rojava avviano il dialogo diretto con il regime di Bashar Assad grazie all’attenta mediazione russa». In realtà, osserva Cremonesi, non hanno alternative: «Sono con le spalle al muro e stanno capitolando per non essere annullati». E così, nella loro regione contesa nel nord della Siria, «piatta ma ricca d’acqua, fertile e ricca di campi petroliferi», si consuma «l’ennesimo smacco delle diplomazie e degli eserciti dell’alleanza Nato a beneficio della Russia di Putin».
    Soprattutto: la baby-autogestione curda soccombe di fronte alla fellonia dell’Occidente. A giocarsi il Risiko nord-siriano sono Erdogan, Putin, Assad, l’iraniano Rohani. Da parte sua, Cremonesi osserva l’evoluzione degli eventi direttamente sul terreno, da Qamishli, la città più popolosa della regione autonoma curda, dove una delegazione russa giunta all’aeroporto (con funzionari del governo siriano) è stata ricevuta dai massimi dirigenti curdi, mentre «contatti stanno proseguendo alla presenza dell’ambasciatore russo a Damasco». L’intesa pare ormai raggiunta, scrive Cremonesi: «Rojava si ritira e al suo posto stanno già schierandosi le truppe agli ordini diretti dello stato maggiore di Assad». A parlare, afferma il reporter, sono gli ambienti locali cristiani, legati ai patriarchi delle chiese locali. «Sono ambienti che sono rimasti sempre fedeli al regime». Su questo punto «tutti i sacerdoti delle chiese locali parlano la stessa lingua, senza differenze tra assiri, armeni, cattolici, ortodossi o caldei». Per i religiosi, l’unica via d’uscita dalla crisi (e il solo modo per bloccare l’avanzata turca da nord) è contrapporre a loro «la piena sovranità di Damasco, puntellata dai forti alleati militari russi e iraniani». Retaggi storici: «Noi cristiani – dicono i religiosi – non potremo mai dimenticare le responsabilità dell’antico Impero Ottomano nel massacro di armeni e in generale dei cristiani durante la Prima Guerra Mondiale».
    «Anche se i curdi allora furono strumento delle violenze ottomane nei confronti dei cristiani, oggi abbiamo tutto l’interesse a creare un fronte comune», sostiene un alto esponente della Caritas locale, legato strettamente alla Chiesa di Roma. Quella alla quale i curdi si sono ora visti costretti «è stata una dolorosissima concessione», osserva Cremonesi. Gira già voce che le loro forze «verranno assimilate all’esercito siriano della Quinta Brigata». È infatti ben noto che Assad «non intende dare loro alcuna autonomia sia politica che militare». Ma di fronte al pericolo maggiore di massacri e distruzioni hanno poche alternative, sottolinea il giornalista del “Corriere”. «Per salvare il nostro popolo siamo pronti a fare un patto anche il diavolo», ammettono all’unisono i capi politici e militari curdi che Cremonesi ha incontrato negli ultimi giorni. «Oggi però il dramma è molto più profondo, radicale», scrive il giornalista: «L’intera Rojava si sta dissolvendo sotto i nostri occhi». Si attende l’arrivo dell’esercito siriano, le pattuglie curde spariscono dalla circolazione, nelle strade tornano centinaia di militanti locali del partito baathista, «inneggiando al presidente siriano e sventolando le bandiere del regime». Cosa che «non accadeva dal 2011».
    Ma le notizie più gravi – aggiunge Cremonesi – arrivano dal fronte delle prigioni curde, dove fino a ieri erano detenuti i più pericolosi militanti dell’Isis catturati nelle battaglie tra il 2014 e il marzo 2019. «Nelle ultime ore circa un migliaio di detenuti Isis sono fuggiti dal campo di Ain Issa, non lontano dalla cittadina di Kobane, e a nord di Raqqa, la vecchia capitale del Califfato. Fughe di massa e rivolte si registrano nel gigantesco campo di Al Hol, dove sono detenuti oltre 70.000 tra donne e figli dei jihadisti dell’Isis. Scontri violenti avvengono in generale in una trentina di centri di detenzione curdi». È l’intero sistema che crolla, avverte Cremonesi: «I curdi abbandonano i servizi di guardia alle prigioni per concentrarsi sull’autodifesa militare, dove possono. A far precipitare la loro situazione è anche la notizia arrivata da Washington dell’imminente ritiro del migliaio di soldati americani che li avevano sostenuti nelle lunghe battaglie contro l’Isis, a partire da quella di Kobane nell’autunno 2014, e che ultimamente fungevano soprattutto da garanzia contro le mire turche». Per Cremonesi «è la fine, la sconfitta militare e politica». I centri stampa curdi «tornano a diffondere i vecchi comunicati dei tempi della battaglia di Afrin in cui si accusava la Turchia di sostenere gli stessi jihadisti dell’Isis che Erdogan oggi proclama di voler combattere».

    Grazie al “dittatore” Erdogan, a capo di un paese Nato, con la benedizione dei cristiani l’autocrate Assad si riprende il Kurdistan siriano – laboratorio di democrazia – con l’appoggio della Russia e dell’Iran. Ai curdi, che si erano illusi di poter dare un futuro alla loro regione autonoma, che chiamano Rojava (“ovest”), non resta che la resa al governo di Damasco, tenuto in piedi da Putin e contrario a concedere qualsiasi autonomia. L’alternativa è l’inferno dell’Isis, annunciato dalle milizie sunnite filo-turche in avanzata. A far franare tutto, di colpo, è stato l’incredibile ritiro degli Usa, che proteggevano le formazioni curde, cioè i partigiani che si erano battuti eroicamente contro lo Stato Islamico mostrando al mondo, in città-simbolo come Kobane, una resistenza laica declinata anche al femminile. Tutto è crollato in poche ore, grazie al proditorio gesto di Trump. La fotografia della capitolazione la offre un magistrale reportage di Lorenzo Cremonesi sul “Corriere della Sera”, il 13 ottobre, dal fronte curdo. Traditi e abbandonati dall’alleato americano e da tutto l’Occidente, «i curdi di Rojava avviano il dialogo diretto con il regime di Bashar Assad grazie all’attenta mediazione russa». In realtà, osserva Cremonesi, non hanno alternative: «Sono con le spalle al muro e stanno capitolando per non essere annullati». E così, nella loro regione contesa nel nord della Siria, «piatta ma ricca d’acqua, fertile e ricca di campi petroliferi», si consuma «l’ennesimo smacco delle diplomazie e degli eserciti dell’alleanza Nato a beneficio della Russia di Putin».

  • Parla Conte, come se fosse antani: ma gli italiani non ridono

    Scritto il 15/9/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Ci vuole impegno, per credere che la partita italiana abbia davvero a che fare, in qualche modo, con le grandi decisioni del mondo – di questo mondo, poi, che sembra preda di un caos mai visto prima, lacerato da verti incrociati e guerre finanziarie interpretate da oligarchi globali, l’un contro l’altro armato. Visto col telescopio, dalla Luna, sembra surreale il ciuffo di Giuseppe Conte, reduce dalla più goffa delle manovre: Gentiloni promosso all’Ue, che in cambio commissaria il governo (già auto-commissariato, peraltro) sistemando l’euro-tecnocrate Roberto Gualtieri all’economia. Intanto si ciancia, “come se fosse antani”: Green Deal sostenibile, rinascita del Mezzogiorno, eccetera, come neppure il grande Tognazzi di “Amici miei”. A tre italiani su quattro, il Conte-bis fa ribrezzo: lo confermano tutti i sondaggi. E mentre il fantasma di Di Maio si aggira per i ministeri ex gialloverdi, il Pd neo-renziano trascina in tribunale il disertore Matteo Richetti, costringendolo a versare i contributi arretrati alla “ditta”. Nel frattempo, gli italiani parlano coi fatti: le ultime elezioni regionali hanno relegato i 5 Stelle tra specie in via di estinzione, lungo il viale del tramonto dove si attarda l’inguardabile Pd. Esito confermato in modo spietato dalle europee, con in più un dato eloquentissimo: un italiano su due ha evitato di votare.

  • L’Eni gonfia di gas l’Egitto, che ora vuole annettersi la Libia

    Scritto il 15/4/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale, facendo dell’Egitto un attore ben più potente del passato».
    Peraltro, aggiunge Giannuli, la guerra del 2011 ha declassato la Cirenaica al rango di satellite egiziano, incarnato dal regime di Haftar. «Come è noto, la parte più rilevante dei giacimenti petroliferi libici si trova in Cirenaica, tuttavia questo non significa che Haftar ne abbia il controllo pieno e possa disporne come gli pare: per un complesso gioco di ragioni (non ultima l’accesso al gasdotto algerino che collega l’Africa settentrionale all’Europa) il generale filo-egiziano non è in grado di commercializzare il suo greggio sin quando c’è Serraj a Tripoli, e questo spiega il suo costante tentativo di abbattere il rivale e unificare tutta la Libia sotto il suo dominio». Dunque, osserva Giannuli, «una Libia unificata sotto l’egida del Cairo diventerebbe un formidabile polo di attrazione per i paesi confinanti: dal Nord Sudan, che soffre ancora delle ferite della secessione delle province meridionali, all’Algeria in piena crisi del sistema politico, alla Tunisia sempre insidiata dal radicalismo islamico, sino alla Turchia dove il regime di Erdogan è il declino e con il quale si litiga per il ruolo dei Fratelli Musulmani». Insomma, un effetto domino che potrebbe trasformare del tutto il Medio Oriente: e data la posta in gioco, si capisce l’interesse di molti a metterci il dito.
    Russia, Francia e Arabia Saudita sono schierate con Haftar, mentre l’Europa (tranne la Francia) sta dalla parte di Serraj, insieme agli Usa e al Qatar. «Sin qui la guerra di Libia non è stata molto sanguinosa, sia perché la popolazione è piuttosto scarsa, sia perché, in particolare dalla comparsa di Haftar in poi, è stata un curioso misto di colpi di mano, di acquisto di tribù e zone desertiche a suon di dollari e di propaganda». Dopo la conquista di Bengasi, il generale amico del Cairo «non ha affrontato grandi combattimenti campali, ma ha effettuato veloci incursioni impadronendosi di varie zone versando più dollari che sangue». E forse anche per questo, spiega Giannuli, l’Europa non si è preoccupata più di tanto dell’offensiva su Tripoli, «nella convinzione che si tratta solo di un espediente propagandistico di Haftar per tornare a sedersi al tavolo delle trattative con più forza contrattuale». Ma questo calcolo potrebbe dimostrarsi sbagliato: «Le cose si sono spinte troppo oltre, questa volta si combatte sul serio (comincia ad esserci il primo centinaio di morti) e ai cirenaici potrebbe costare caro fermarsi o tornare indietro». Il fatto sarebbe vissuto come una sconfitta: non solo tornerebbero al tavolo delle trattative indeboliti, ma per l’effetto psicologico della sconfitta «correrebbero il rischio di perdere quelle zone di Fezzan appena conquistate».
    A sua volta, Haftar ha fatto male i suoi conti: «Una vera e propria guerra prolungata non è quello che cerca e non è nei suoi interessi», per cui «ha pensato che il regime di Serraj si sarebbe facilmente sfaldato sotto la pressione della sua colonna di blindati». In effetti le forze di Tripoli sono inferiori, «e c’è sempre da contare sulle defezioni prezzolate». Da qui l’illusione di una guerra-lampo che mettesse la comunità internazionale davanti al fatto compiuto. Ma i cirenaici avevano sottovalutato «il nucleo delle forze di Medina, leali a Tripoli, determinate a combattere e molto ben addestrate dal Quatar». La marcia trionfale s’è già fermata, lasciando spazio alla diplomazia: gli americani, che avevano ritirato il loro contingente (forse dando per scontata la vittoria dei cirenaici) hanno deciso di tornare, mentre la Francia «inizia ad essere in serio imbarazzo», e infatti «non ha dato il via libera all’assalto finale». Con Haftar restano i finanziatori sauditi, gli egiziani «che continuano a fornire armi» e soprattutto i russi, «che potrebbero essere seriamente tentati di inviare tecnici e contractors vari». Solo che, a quel punto, «anche gli indecisi americani e i pavidissimi europei potrebbero decidere di intervenire». Scenario: «La guerra potrebbe diventare molto più lunga e sanguinosa delle previsioni», avverte Giannuli: «Rischieremmo una nuova Siria, per di più ad un braccio di mare dalle coste italiane». Sicuri che sia così sbagliata l’idea che l’Italia sbarchi in Libia con i carri armati?

    Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale», facendo dell’Egitto un attore ben più potente che in passato.

  • Magaldi: meglio Renzi dei vecchi babbioni del club Pisapia

    Scritto il 03/7/17 • nella Categoria: idee • (4)

    Può diventare anche divertente, il cabaret offerto dalla carta stampata. Ne ho avuto conferma leggendo di “Insieme”, questa cosa di Pisapia: i giornali si sono tutti eccitati di fronte a questa grande novità rappresentata dall’ex sindaco di Milano. Dietro il fumo, si stagliano le grandi novità della proposta politica, interpretate da figure come D’Alema, come Bersani: sono questi gli architrave su cui si regge la “casa” di Pisapia, che porta se stesso e va a unirsi con costoro. Stringendo sul programma, viene fuori tutto quell’armamentario di ferrivecchi, classici, di certa pseudo-sinistra italica. Per cui: in un momento in cui la classe media versa in pessime acque, questo bel tomo di Pisapia parla di patrimoniale, propone il ritorno dell’Imu sulla prima casa, parla di tassazione da aumentare per favorire la soliderietà. E’ un po’ indietro con gli studi, Pisapia. Io credo che, se avrà la bontà – lui e i suoi cattivi consiglieri – di studiare meglio il dibattito economico contemporaneo, capirà che non c’è bisogno di questo, c’è bisogno di riscoprire un filone keynesiano.
    Non per caso non ne parlano mai, di Keynes, costoro, in termini adeguati. Si tratta cioè di riscoprire l’idea che, forse, non si esce dalla crisi andando a punire la presunta ricchezza di chi magari s’è comprato una casa e magari la deve pagare cento volte e in mille modi; non è tornando a quella triste e fasulla contrapposizione per cui la destra è quella che abbassa le tasse e la sinistra è quella che le alza – che poi è un modo (per la sinistra immaginata da Pisapia) per perdere da qui all’eternità, e giustamente. No, qui si tratta di immaginare scenari in cui le istituzioni pubbliche hanno la forza, la visione e la lungimiranza di investire nelle giuste direzioni, per rianimare il sistema economico privato, favorendo l’occupazione.
    Da parte di questi santoni del presunto nuovo centrosinistra, ormai malamente invecchiati, non ho sentito una parola sull’occupazione: Meglio Renzi, rispetto a questi babbioni. Non ho sentito una parola su nuove regole d’ingaggio per come stare in Europa, non una parola neppure sul problema di una Costituzione per l’Europa. Non ho sentito una parola su quello che riguarda anche, se vogliamo, il ritorno a una sostanzialità dei processi democratici. No, questi vengono, si presentano e fanno il gioco del Risiko, del Monopoli, pensando: siccome Renzi è antipatico a tutti e ci toglie spazio, noi ci coalizziamo. D’Alema parlava della sua associazione, “Consenso”, e quest’altro parla di “Insieme”; ma alla fine il consenso che questi metteranno insieme sarà veramente ridicolo, e quindi credo che la loro sia una parata di perdenti di vecchia data, che non hanno nulla da dire (e nulla da dare) al paese.
    (Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 3 luglio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air”, su “Colors Radio”).

    Può diventare anche divertente, il cabaret offerto dalla carta stampata. Ne ho avuto conferma leggendo di “Insieme”, questa cosa di Pisapia: i giornali si sono tutti eccitati di fronte a questa grande novità rappresentata dall’ex sindaco di Milano. Dietro il fumo, si stagliano le grandi novità della proposta politica, interpretate da figure come D’Alema, come Bersani: sono questi gli architrave su cui si regge la “casa” di Pisapia, che porta se stesso e va a unirsi con costoro. Stringendo sul programma, viene fuori tutto quell’armamentario di ferrivecchi, classici, di certa pseudo-sinistra italica. Per cui: in un momento in cui la classe media versa in pessime acque, questo bel tomo di Pisapia parla di patrimoniale, propone il ritorno dell’Imu sulla prima casa, parla di tassazione da aumentare per favorire la soliderietà. E’ un po’ indietro con gli studi, Pisapia. Io credo che, se avrà la bontà – lui e i suoi cattivi consiglieri – di studiare meglio il dibattito economico contemporaneo, capirà che non c’è bisogno di questo, c’è bisogno di riscoprire un filone keynesiano.

  • Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo

    Scritto il 04/4/17 • nella Categoria: idee • (3)

    Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
    Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.
    Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.
    (Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).

    Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.

  • Migranti, il Pentagono: 20 anni di crisi, per piegare l’Europa

    Scritto il 08/9/15 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».
    Son cazzi amari, come si direbbe senza troppi complimenti nei bar di periferia… Il richiamo a Sarajevo fa tremare i polsi, preoccupa un Pentagono che scalpita e la Nato che si mette “in marcia”. Contro chi? Non è che, per caso, si agirà militarmente contro Assad, in Siria, e il cielo non voglia, contro Putin in Europa? Fra l’altro, l’esternante generale d’alto rango Martin Dempsey, ha partecipato al “fiasco” statunitense in Iraq, durante la seconda guerra americana del Golfo che, guarda caso, ha “dato i natali” all’organizzazione criminale dello stato islamico, anche se allora non si chiamava così. In ogni caso, saranno venti lunghi anni di guerre, di ondate di profughi, di stermini di massa e di crisi economica indotta. Vent’anni con la disoccupazione galoppante in casa e lo Stato islamosunnita alle porte, se non scoppia prima un conflitto nucleare con la Russia, tanto desiderato dagli americani e dalle loro comparse masochiste nell’est europeo, come l’Ucraina euronazista e i baltici anti-russi.
    Vent’anni di annegamenti in massa nel mare e colonne di disperati che cercheranno di raggiungere, attraverso il sud dell’Europa e i Balcani, la spocchiosa Germania arricchitasi grazie all’euro, ai trattati e al saccheggio dell’Europa meridionale. Vent’anni di stragi di innocenti, di distruzione delle infrastrutture e del patrimonio storico in Medio Oriente e in Africa settentrionale, per opera degli assassini islamosunniti molto utili al Pentagono, molto efficienti nel seminare morte e distruzione, molto abili nel generare nuove ondate di profughi. Sono certo che fin dai prossimi mesi potremo osservare il “fronte del conflitto” che si avvicinerà pericolosamente a noi, a causa di un’avanzata islamista che non si arresta, dalla Siria alla Libia. Tunisia e Algeria saranno a rischio… e l’Italia meridionale e insulare? E’ proprio quello che vogliono i signori del denaro e della finanza, che controllano anche il Pentagono, ed è proprio per questo che la “coalizione internazionale” a guida americana non interviene con decisione contro i macellai della sunnah. Qualche bomba su edifici vuoti e qualche drone bastano e avanzano.
    L’Europa deve esser messa alle strette per cedere definitivamente sovranità e risorse a loro beneficio. I vertici dell’alleanza atlantica e il Pentagono, in situazioni di guerra, la faranno da padroni. A quel punto, tutto sarà chiaro, e persino i Renzi, gli Hollande e gli Tsipras non serviranno più, a Lor Signori, perché saranno le armi, e chi le controlla (cioè loro stessi), a dettar legge ai popoli. Se scoppierà un conflitto nucleare con la Federazione Russa, dopo tutte le provocazioni orchestrate per arrivare a questo limite, loro s’illuderanno di vincerlo per il controllo dell’intero continente europeo – o di ciò che ne rimarrà in piedi – fino al ventiduesimo secolo. Destabilizzeranno nei prossimi mesi anche un importante Stato-canaglia, la Turchia islamista di Erdogan, che non ha più governo stabile e se ne va verso le elezioni d’autunno, fra attentati e attacchi ai curdi?
    E’ possibile che lo sacrificheranno cinicamente, per calcolo strategico, generando altre, spaventose ondate di profughi che avranno come unica e sola meta l’Europa. Inoltre, se non hanno mostrato scrupoli a scatenare il satanismo sunnita contro le popolazioni di Siria, Iraq e Libia, causando centinaia di migliaia di morti e più di dieci milioni di profughi, avranno qualche remora a spalancare davanti a noi le porte dell’inferno, per poi “salvarci” e dominarci a piacimento? Chiedetevelo, anche se non potete far nulla e vi sentite impotenti davanti a una dura realtà, perché questa crisi durerà venti anni. Lo dice il Pentagono, che se ne intende…
    (Eugenio Orso, “Hanno deciso che la crisi durerà vent’anni”, dal blog “Pauper Class” del 4 settembre 2015).

    Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».

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