Archivio del Tag ‘Roberto Tartaglia’
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Falange Armata? No: 007, Gladio, mafia. Scalfaro sapeva?
Coincidenze. Probabilmente per certi apparati dello Stato è più comodo parlare in questi termini. Ma il binomio servizi segreti-Falange Armata emerso dalle dichiarazioni dell’ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci, è decisamente impattante. Nella sua testimonianza odierna al processo sulla trattativa riaffiora il ricordo di due cartine geografiche mostrategli da un suo fidato analista: una con i luoghi da dove partivano le telefonate targate “Falange Armata” e l’altra con le ubicazioni delle sedi periferiche del Sismi. Risultato? Le due cartine erano perfettamente “sovrapponibili”. Ancora coincidenze? Certo è che queste ambigue circostanze vanno ad infittire i tanti misteri nascosti dietro a questa strana sigla, utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti, fino a sparire inghiottita nei buchi neri del nostro disgraziato Paese, per poi tornare in auge nel febbraio del 2014 all’interno di una strana lettera di minacce indirizzata a Totò Riina.Il racconto di Fulci affonda le radici nella lista dei 15 nomi di agenti dei servizi addestrati a maneggiare esplosivi. A questi nominativi l’ex ambasciatore ne aggiunge un altro: quello del colonnello Walter Masina, che però non fa parte della “VII divisione” e degli “Ossi”. «Non avrei dovuto farlo ma volevo fargliela pagare – aveva dichiarato a verbale – dato che Masina era quello che spiava la mia abitazione». Nei suoi ricordi riemerge anche la prospettiva di una indagine del Cesis con un obiettivo ben definito: verificare se nei giorni delle stragi del ‘93 di Roma, Firenze e Milano quegli stessi 007 si fossero trovati nei paraggi dei luoghi degli attentati. Su sollecitazione del pm Tartaglia l’ex ambasciatore ricorda la richiesta esplicita dell’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, di fornire quei nominativi all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Ma perché Scalfaro sapeva di quella lista, quasi in tempo reale, quando su quell’affaire si sarebbe dovuta mantenere la massima segretezza?Lo stesso Fulci a distanza di anni ammette di non avere mai saputo se quell’indagine fosse stata fatta o meno. Quello che rammenta perfettamente sono invece le microspie piazzate in tutta la sua casa, l’arma del dossieraggio, con tanto di macchina del fango – ben oliata – contro di lui e contro la sua famiglia. «Avevo detto a mia moglie: se mi succede qualcosa andate a vedere se qualcuno di quei nomi era nei paraggi». La lista di Fulci era peraltro finita in Parlamento il 16 novembre 1994, inserita in un’interrogazione parlamentare dell’onorevole di Rifondazione Comunista Martino Dorigo. Al processo sulla trattativa Stato-mafia sembra di assistere ad una spy-story. Ma la storia grigia del nostro paese supera di gran lunga qualsiasi sceneggiatura cinematografica. «Due giorni prima di assumere l’incarico al Cesis – ricorda in aula Fulci – telefonarono dicendo: “Qui Falange Armata, uccideremo l’ambasciatore Fulci”. Io dissi: “Cominciamo bene, ma come fanno a sapere del mio incarico quando tutto è coperto da assoluto riserbo?”. Un messaggio che si ripeté due o tre giorni dopo l’inizio del mio incarico. Della Falange Armata avevo sentito parlare sui giornali».Di sicuro la nomina di Fulci da parte dell’allora premier Giulio Andreotti non era stata oggetto di pubblicità sui media. «Ci fu una campagna violentissima di un giornaletto che circolava negli ambienti dei servizi, si dicevano sul mio conto e su quello di mia moglie le nefandezze più terribili. Al momento del primo messaggio della Falange Armata, comunque, erano a conoscenza del mio insediamento al Cesis parecchie persone nell’ambito degli addetti ai lavori, soggetti dei servizi e del ministero degli esteri». Tartaglia rilegge quindi in aula uno stralcio delle dichiarazioni di Fulci tratte dal suo verbale di interrogatorio del 2014. «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata – dichiarava l’ex ambasciatore solamente un anno fa – faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (Gladio, ndr): facevano esercitazioni, come si può creare il panico in mezzo alla gente, creare le condizioni per destabilizzare il paese, questa è sempre l’idea». Il pm osserva che quando erano cominciate le rivendicazioni della Falange Armata, l’operazione “Gladio” non esisteva più (per lo meno ufficialmente); a chi si riferiva, quindi? La replica di Fulci è alquanto schietta: «Vuole che gliela dica tutta? Qualche nostalgico». Che potrebbe essere utilizzato ancora su “chiamata diretta” di uno Stato-mafia bisognoso di una nuova destabilizzazione?(Lorenzo Baldo, “Trattativa: Fulci, la Falange Armata e il mondo sommerso dei Servizi”, da “Antimafia Duemila” del 26 giugno 2015).Coincidenze. Probabilmente per certi apparati dello Stato è più comodo parlare in questi termini. Ma il binomio servizi segreti-Falange Armata emerso dalle dichiarazioni dell’ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci, è decisamente impattante. Nella sua testimonianza odierna al processo sulla trattativa riaffiora il ricordo di due cartine geografiche mostrategli da un suo fidato analista: una con i luoghi da dove partivano le telefonate targate “Falange Armata” e l’altra con le ubicazioni delle sedi periferiche del Sismi. Risultato? Le due cartine erano perfettamente “sovrapponibili”. Ancora coincidenze? Certo è che queste ambigue circostanze vanno ad infittire i tanti misteri nascosti dietro a questa strana sigla, utilizzata ad intermittenza per rivendicare stragi e omicidi eccellenti, fino a sparire inghiottita nei buchi neri del nostro disgraziato paese, per poi tornare in auge nel febbraio del 2014 all’interno di una strana lettera di minacce indirizzata a Totò Riina.
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Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina
Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.(Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.