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Archivio del Tag ‘scandali’

  • “Supermassoni: Marcello Foa silurato da Attali e Napolitano”

    Scritto il 02/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (102)

    «Considero le alternative a Marcello Foa, a prescindere dai nomi, come una sconfitta della democrazia in Italia». E’ il preambolo con cui Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, dispensa la sue rivelazioni – a dir poco esplosive – sul clamoroso siluramento del candidato salviniano alla presidenza della Rai, scandalosamente affossato da Forza Italia con la complicità del Pd. Dissapori nel centrodestra sul metodo adottato dal leader della Lega, che avrebbe scavalcato il Cavaliere? Falso: Berlusconi era stato consultato, da Salvini, sul nome di Foa. Peggio: l’uomo di Arcore aveva garantito a Salvini che lo stesso Foa, allievo di Montanelli e già caporedattore del “Giornale”, sarebbe stato eletto presidente della Rai con i voti forzisti e anche quelli di Fratelli d’Italia. Cos’è successo, allora? E’ arrivato un “niet” dall’estero. Da Parigi: precisamente, dall’uomo che si è presentato come “l’inventore” di Macron, ovvero il supermassone reazionario Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e poi super-sponsor di Sarkozy. E a chi avrebbe telefonato, Attali, per chiedere lumi su come bloccare l’elezione di Foa? Al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che secondo Gioele Magaldi milita nella stessa Ur-Lodge del francese, la “Three Eyes”. Napolitano avrebbe consigliato ad Attali di contattare Antonio Tajani, ansioso di farsi confermare alla guida del Parlamento Europeo. E Tajani sarebbe riuscito a convincere Berlusconi, facendo valere proprio il peso della “Three Eyes”, in cui figurano alcuni pesi massimi del potere mondiale di ieri e di oggi, da Kissinger a Draghi.
    «E’ una riedizione dello stop imposto, a governo non ancora formato, a Paolo Savona come candidato ministro dell’economia», dichiara Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube, il 2 agosto, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Eminente simbologo e già a capo della più antica obbedienza del Rito Scozzese italiano, poi da lui stesso disciolta, Carpeoro (all’anagrafe, Pecoraro) ha alle spalle una lunga carriera come avvocato. Nella diretta web-streaming si diverte con il gioco degli indovinelli, evitando di precisare il nome di Attali ma fornendone l’identikit: francese dal cognome italiano, ebreo, supermassone vicino all’Eliseo, esponente del Jewish Institute e forse anche del B’nai B’rith, la potente cellula massonica del Mossad. Attali ha chiamato Napolitano? «Ha chiamato il presidente emerito della Repubblica, che peraltro credo sia ancora, anche, un esponente del Pd, oltre che – secondo Magaldi – un “fratello” della superloggia “Three Eyes”», la stessa di Attali. Seconda telefonata: a Tajani. «Da massone, Tajani si è messo “in piedi all’ordine”». E Berlusconi? «Idem: si è messo “in piedi all’ordine” anche lui, che massone non è neppure – quand’era in massoneria, si era fermato al grado di apprendista». Certo, il Cavaliere ha provato a resistere: «Ha fatto presente a Tajani di aver già garantito a Salvini i voti per Foa in Commissione di Vigilanza». Ma poi si è piegato: potenza della “Three Eyes”.
    La fonte di Carpeoro? «Vecchi amici, di una prestigiosa loggia massonica tedesca». Si tratta probabilmente della “Tre Globi”, a cui l’avvocato-saggista fu associato quando, in Europa, fu incaricato di coordinare tutti i massoni del 18° grado del Rito Scozzese, ispirato ai Rosacroce. «Diciamo che queste cose mi sono state rivelate in sogno», scherza Carpeoro: «Colpa della peperonata: ne sono ghiotto, ma non la digerisco». Scherzi a parte: «Se la peperonata non è bugiarda, tutto questo la dice lunga su come funzionano, hanno funzionato e probabilmente funzioneranno le cose italiche». La verità, insiste Carpeoro, è che il governo Conte, ad oggi, «non è stato legittimato dal potere: nessuno crede che duri». Lo stesso Carpeoro, esponente del Movimento Roosevelt, ha rimproverato a Di Maio di aver bussato, negli Usa, alle porte delle grandi lobby e a quelle delle Ur-Lodges neo-aristocratiche, i santuari della supermassoneria più reazionaria. «Ma è stato tenuto fuori dalla porta». Salvini? «Nemmeno ci ha provato: probabilmente non ha la sottigliezza politica per bussare alle lobby. A volte sembra un Renato Pozzetto della politica, sempliciotto e semplicistico».
    Il leader della Lega, per contro, secondo Carpeoro è senz’altro estraneo al grande potere, che infatti è contro il governo gialloverde: «Finora la pressione manipolatoria delle lobby non è stata in termini di inglobamento, ma di ostacolo. Il potere preferisce i vecchi partiti». Ma non è detto che la spunti, l’establishment: «Le cose non vanno sempre come sembrano essere state scritte». Stando sempre al “sogno della peperonata”, dunque, Berlusconi e il Pd prendono ordini dalla “Three Eyes”, superloggia che annovera – secondo Magaldi – anche altri big del potere italiano, oltre a Napolitano: tra questi Marta Dassù, l’ex ministra renziana Federica Guidi, l’economista Carlo Secchi, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani. Perché Marcello Foa farebbe tanta paura al grande potere, di cui la “Three Eyes” rappresenta uno dei massimi vertici a livello mondiale? «Certamente Foa non è un soggetto manipolabile. In Rai potrebbe parlare di quello di cui è convinto, non di quello che gli fanno dire». L’accusa dei media mainstream di essere filo-Putin? «Non amo i metodi di Putin – premette Carpeoro – ma considero le sanzioni nei confronti della Russia un’idiozia. Trump, che fa finta di litigarci, con Putin fa fior di accordi. Non ho capito perché le uniche verginelle dovremmo essere noi».
    Valoroso giornalista e impietoso giudice dell’attuale sistema mediatico, nel saggio “Gli stregoni della notizia” Foa ha denunciato le manipolazioni quotidiane delle redazioni che si piegano al “frame”, la cornice disegnata dagli “spin doctor” dei governi per manipolare l’opinione pubblica a colpi di “fake news”. Possibile però che la macchina del fango si mobiliti a reti quasi unificate, non appena spunta un uomo non controllabile dall’establishment? «Normalissimo», dice Carpeoro: «Fa parte del gioco. Il potere è una scuola seria, chi lo pratica seriamente – come fine della sua vita – poi si specializza: il potere è una specializzazione, è un master». Cinismo senza limiti: «Stanno facendo qualcosa di indegno contro Foa, attaccandolo per via del fatto che il figlio lavora nello staff di Salvini al Viminale. Ma il ragazzo ha fatto una tesi di laurea proprio su Salvini, in tempi non sospetti, prima ancora che il leader leghista diventasse ministro. Perché mai Salvini non lo doveva assumere?». Fango sui Foa – padre e figlio – e silenzio assoluto su Monica Maggioni, ultima presidente della Rai, nonché a capo della sezione italiana della Commissione Trilaterale. La Maggioni? «Completamente omologata al potere, filone Lilli Gruber». Morale: il governo eletto, che gode del consenso di almeno il 65% degli italiani, non riesce a eleggere Marcello Foa presidente della Rai. Per colpa di Napolitano e Attali-Macron, o meglio della “Three Eyes”, a cui Berlusconi e il Pd obbediscono? “Peperonata” e “incubi” a parte, Carpeoro insiste: è l’ennesima umiliazione della democrazia italiana.

    «Considero le alternative a Marcello Foa, a prescindere dai nomi, come una sconfitta della democrazia in Italia». E’ il preambolo con cui Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, dispensa la sue rivelazioni – a dir poco esplosive – sul clamoroso siluramento del candidato salviniano alla presidenza della Rai, scandalosamente affossato da Forza Italia con la complicità del Pd. Dissapori nel centrodestra sul metodo adottato dal leader della Lega, che avrebbe scavalcato il Cavaliere? Falso: Berlusconi era stato consultato, da Salvini, sul nome di Foa. Peggio: l’uomo di Arcore aveva garantito a Salvini che lo stesso Foa, allievo di Montanelli e già caporedattore del “Giornale”, sarebbe stato eletto presidente della Rai con i voti forzisti e anche quelli di Fratelli d’Italia. Cos’è successo, allora? E’ arrivato un “niet” dall’estero. Da Parigi: precisamente, dall’uomo che si è presentato come “l’inventore” di Macron, ovvero il supermassone reazionario Jacques Attali, già braccio destro di Mitterrand e poi super-sponsor di Sarkozy. E a chi avrebbe telefonato, Attali, per chiedere lumi su come bloccare l’elezione di Foa? Al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che secondo Gioele Magaldi milita nella stessa Ur-Lodge del francese, la “Three Eyes”. Napolitano avrebbe consigliato ad Attali di contattare Antonio Tajani, ansioso di farsi confermare alla guida del Parlamento Europeo. E Tajani sarebbe riuscito a convincere Berlusconi, facendo valere proprio il peso della “Three Eyes”, in cui figurano alcuni pesi massimi del potere mondiale di ieri e di oggi, da Kissinger a Draghi.

  • I 5 Stelle: rassegnatevi, la Tav Torino-Lione non si farà più

    Scritto il 27/7/18 • nella Categoria: segnalazioni • (15)

    «Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».
    Anche dalla valle di Susa si è alzata la protesta che ha investito Toninelli, appena ha solo accennato alla volontà di «migliorare» la Tav invece di confermare la rinuncia al tunnel. «Luigi Di Maio non può permettersi di liquidare entrambe le promesse elettorali, figlie di campagne identitarie per i grillini», sostiene Lombardo. Il post in cui tre giorni fa Toninelli annunciava un veto su qualsiasi ulteriore firma «ai fini dell’avanzamento dell’opera» è stato un avvertimento e un primo segnale. Rivolto anche all’alleato di governo, la Lega, che invece è stata una grande sostenitrice della Tav. Conte, aggiunge “La Stampa”, sarebbe ormai pronto ad abbracciare il piano di Di Maio e Toninelli, che ha un obiettivo chiaro: «La chiusura della tratta piemontese dell’alta velocità, nascosto dietro a una dichiarazione di intenti più fumosa che parla di “ridiscutere integralmente l’infrastruttura”, esattamente quello che c’è scritto nel contratto di governo, e che per i grillini può essere interpretato anche in maniera radicale». Lo stesso Toninelli, sul “Blog delle Stelle”, non usa però mezzi termini, riguardo al progetto Torino-Lione: «E’ stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e persino la criminalità organizzata».
    Impietosa l’analisi del ministro: la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare 9,6 miliardi (il 40% a carico dell’Ue, il 35% a spese Italia e il 25% della Francia), ma già nel 2007 era emerso che il costo vero arriverebbe a 20 miliardi di euro, o addirittura 26 secondo la Corte dei Conti francese, sulla base delle stime del Tesoro di Parigi aggiornate al 2012. Costi folli, per un’opera giudicata inutile: è infatti ormai semi-deserta la linea Torino-Modane che già collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, nonostante il recente ammodernamento del Traforo del Fréjus, costato 400 milioni. Peggio: nel caso della Torino-Lione sarebbero davvero eccessivi gli oneri gravanti sull’Italia, nonostante il nostro paese sia interessato solo da 12,5 chilometri dell’ipotetico traforo internazionale da scavare per 57,5 chilometri sotto il Moncenisio. «Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì», sottolinea Toninelli: «I nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante». Da neo-ministro, Toninelli accusa: «Mi son trovato a mettere le mani in un verminaio di sprechi, connivenze corruttive, appalti pilotati, varianti in corso d’opera che hanno fatto esplodere i costi negli anni. E’ difficile raddrizzare la barra, ma dobbiamo farlo. Lo dobbiamo ai nostri concittadini e soprattutto alle generazioni future».
    Scandalosa la gestione dell’alta velocità ferroviaria in Italia: ci costa in media 28 milioni di euro a chilometro contro i 12 milioni della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia. Cifra che sale a 33 milioni di euro a chilometro con le linee in via di costruzione. «E’ per questo che abbiamo avviato una seria revisione progettuale su queste infrastrutture», spiega Toninelli: «Non si può più fare a meno di una rigorosa analisi costi-benefici». Rifarsi al “contratto” di governo, scrive il ministro, pensando soprattutto a Salvini, significa «voler ridiscutere integralmente l’infrastruttura, senza preclusioni ideologiche ma senza subire il ricatto che ci piove in testa e che scaturisce dalle scandalose scelte precedenti». Di qui l’intimazione ai tecnocrati: «Nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera, lo considereremmo come un atto ostile: le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce». Il progetto Tav Torino-Lione (tuttora solo cartaceo) è nato da un accordo con la Francia ratificato dal Parlamento. Un’intesa che però, secondo Palazzo Chigi e il ministero dei trasporti, può essere stracciato attraverso una legge e un altro voto alle Camere, sempre che la maggioranza regga e la Lega non si sfili.
    A oltre 15 anni dal tentativo di avvio del primo cantiere a Venaus, letteralmente fermato dalla protesta popolare, i lavori – sul versante italiano – sono ancora limitati alla sola galleria esplorativa di Chiomonte. Secondo i ministri grillini, scrive la “Stampa”, si tratterebbe semplicemente di restituire i fondi all’Europa (800 milioni di euro) senza penali. «I contatti con i francesi sono continui, ma la parte grillina del governo è decisa ad andare avanti anche a costo di scontri diplomatici con Parigi, con conseguente richiesta di risarcimenti». Il “no” definitivo è previsto per il prossimo autunno, tra ottobre e novembre, quando si concluderà l’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali. «Ma il destino dell’alta velocità piemontese si incrocia anche con la partita delle nomine in corso in queste ore», aggiunge Lombardo sul quotidiano torinese. «Telt, la società responsabile della realizzazione della Torino-Lione, è per il 50% in mano allo Stato francese e per il restante 50% controllata da Ferrovie, i cui vertici sono stati azzerati da Toninelli l’altro ieri». Tra i valsusini prevale la prudenza: riusciranno davvero, i 5 Stelle, a fermare l’inutile ecomostro che ha finora attratto potentissimi interessi economici, politici e finanziari, al punto da apparire impossibile da fermare?

    «Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».

  • Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?

    Scritto il 23/7/18 • nella Categoria: idee • (6)

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
    Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.
    Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.
    Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.
    (Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).

    La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.

  • Sul carro degli onesti. Foa: l’Italia e il branco dei gattopardi

    Scritto il 23/7/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Caro direttore, ci risiamo. L’Italia opportunista, l’Italia che, come sempre è accaduto nella sua storia, è maestra nell’abbandonare i perdenti salendo sul carro dei vincenti, sta prevalendo ancora una volta, appropriandosi i risultati di quella che fino ad oggi era stata la battaglia della parte pulita del paese. Sembra un paradosso, eppure purtroppo non lo è. Ricorda com’era la situazione a febbraio, quando scoppiò lo scandalo della Baggina? Il regime era solido e potente, poteva ancora sperare di limitare i danni, di far apparire quella vicenda un episodio isolato attribuibile ai “mariuoli”, o addirittura di insabbiare tutto con la complicità di giudici compiacenti. Di Pietro non si lasciò intimidire e, se ha potuto proseguire arrivando dove tutti sappiamo, il merito in parte è anche nostro, di quella fetta dell’opinione pubblica che sin dall’inizio si è schierata con entusiasmo dalla parte del “giustiziere di Tangentopoli”. A febbraio eravamo in pochi a gioire e a combattere. Era l’Italia pulita, onesta, che non ama gli schiamazzi di piazza. Tra questi pochi c’erano in blocco i nostri lettori.
    Per qualche giorno, Di Pietro ci ha fatto rivivere le emozioni degli anni ‘70: si tifava per lui come si tifava per Montanelli contro la tracotanza dei comunisti e le pallottole delle Brigate Rosse. Ma oggi a quale spettacolo assistiamo? Sul carro della denuncia di Tangentopoli sono saliti tutti gli onesti e le persone per bene, certo, ma anche i corrotti, i furbastri, gli opportunisti. Insomma, il peggio del paese. Ed è proprio la loro voce a tuonare sempre più forte, surclassando quella dell’Italia dal volto pulito. Sono questi maestri della propaganda e del conformismo ad aver ispirato alcune delle recenti spettacolari iniziative e a coniare gli slogan più incisivi a sostegno dei giudici di Milano, così brillanti da far apparire naif è un po’ patetiche le scritte sui muri “Forza Di Pietro” che ci entusiasmavano la primavera scorsa. C’è da preoccuparsi. Quelle centinaia di persone che oggi gareggiano a chi urla nelle piazze gli insulti più virulenti contro i potenti caduti in disgrazia sono le stesse che fino a pochi mesi fa bazzicavano nelle anticamere del potere, nella speranza di partecipare alla spartizione del malloppo. Portaborse, intellettuali alla moda, giornalisti di regime, arrampicatori e affaristi.
    Il loro scopo è evidente: appropriarsi la bandiera dell’Italia onesta e introdursi nelle forze politiche emergenti (Lega, Rete, Msi, movimenti referendari) per continuare a fare quel che hanno sempre fatto ho sognato di fare: la dolce vita e le carriere facili a spese del paese. Ormai manca solo che anche mafiosi e camorristi esprimano solidarietà e appoggio a Di Pietro. Per questo, caro direttore, “Il Giornale” vada ancora una volta controcorrente, iniziando una di quelle battaglie per le quali i nostri lettori dal 1974 ci appoggiano con passione ed entusiasmo. Come nel 1988, quando svelammo lo scandalo dell’“Irpiniagate”. Come agli inizi degli anni 80, quando fummo i primi a denunciare la corruzione della partitocrazia e a invocare la riforma del sistema elettorale. Continuiamo a schierarci con Di Pietro, ma fuori del gregge dell’ormai gratuito “dipietrismo”. Lasciamo ad altri le chiassate di piazza e diamoci da fare per smascherare gli eterni furbi d’Italia.
    (Marcello Foa, “Sul carro degli onesti”, lettera pubblicata sul “Giornale” del 21 dicembre 1992 dall’allora direttore Indro Montanelli, che in calce alla missiva aggiuse: «Questa lettera, caro Foa, potrei avrela scritta io». Lo rammenta lo stesso Foa, in un affettuoso ricordo che dedica a Montanelli sul blog “Il cuore del mondo”, pubblicato sul “Giornale” il 21 luglio 2018. Impegnato a denunciare le ipocrisie dei media mainstream con saggi di successo come “Gli stregoni della notizia”, oggi Foa condanna l’ostracismo moralistico del vecchio establishment, ostile a Salvini e al sovranismo democratico “gialloverde”).

    Caro direttore, ci risiamo. L’Italia opportunista, l’Italia che, come sempre è accaduto nella sua storia, è maestra nell’abbandonare i perdenti salendo sul carro dei vincenti, sta prevalendo ancora una volta, appropriandosi i risultati di quella che fino ad oggi era stata la battaglia della parte pulita del paese. Sembra un paradosso, eppure purtroppo non lo è. Ricorda com’era la situazione a febbraio, quando scoppiò lo scandalo della Baggina? Il regime era solido e potente, poteva ancora sperare di limitare i danni, di far apparire quella vicenda un episodio isolato attribuibile ai “mariuoli”, o addirittura di insabbiare tutto con la complicità di giudici compiacenti. Di Pietro non si lasciò intimidire e, se ha potuto proseguire arrivando dove tutti sappiamo, il merito in parte è anche nostro, di quella fetta dell’opinione pubblica che sin dall’inizio si è schierata con entusiasmo dalla parte del “giustiziere di Tangentopoli”. A febbraio eravamo in pochi a gioire e a combattere. Era l’Italia pulita, onesta, che non ama gli schiamazzi di piazza. Tra questi pochi c’erano in blocco i nostri lettori.

  • Di Maio: niente bavaglio al web, l’Italia si opporrà all’Ue

    Scritto il 29/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.
    L’Europa dovrebbe puntare sulla cultura e sull’istruzione, per fare in modo che i suoi cittadini capiscano cos’è una fake news; invece preferisce inondare di nuove tasse perfino le tre righe che escono quando condividiamo un articolo o un’informazione in generale. Il secondo articolo è perfino più pericoloso del primo, perché impone alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente, qualunque cosa venga caricata che abbia anche solo una parvenza di ledere il diritto d’autore, e con questo mi riferisco a qualsiasi immagine per esempio, e sottolineo qualsiasi, potrebbe essere bloccata da una piattaforma privata. Praticamente deleghiamo a delle multinazionali – e neanche loro credo lo vogliano – che spesso nemmeno sono europee, il potere di decidere cosa debba essere o meno pubblicato. Cosa è giusto o sbagliato. Cosa i cittadini devono sapere e cosa non devono sapere. Se non è un bavaglio questo ditemi voi cos’è un bavaglio. E pensiamo anche alle piccole e medie imprese di questo settore, che non avranno mai la potenza economica per affidarsi ad un algoritmo che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato.
    Quindi mentre si parla di dati statistici che ci vedono occupare la 25a posizione nella classifica dei 28 Stati membri dell’Unione Europea in merito ai progressi del settore digitale. Mentre il quadro sull’utilizzo delle tecnologie Ict da parte di cittadini e imprese mostra un impiego sempre più diffuso ed evoluto di queste tecnologie nelle attività economiche e nella vita quotidiana, l’Unione Europea ha preparato un bavaglio per limitare la libertà d’espressione dei cittadini. È inaccettabile. E come governo ci opporremo. Faremo tutto quello che è in nostro potere per contrastare la direttiva al Parlamento Europeo e, qualora dovesse passare così com’è, dovremo fare una seria riflessione a livello nazionale sulla possibilità o meno di recepirla. Perché Internet dev’essere mantenuto libero, indipendente, al servizio dei cittadini. Nessuno può permettersi di fare azioni di censura preventiva, nemmeno se quel qualcuno si chiama Commissione Europea. Questo provvedimento, contro il buon senso, ci riporterebbe indietro di vent’anni e consentirebbe di concentrare il potere nelle mani di poche persone, di poche piattaforme e di poche multinazionali.
    Questa direttiva è la plastica dimostrazione che qualcosa in quei palazzi, e mi riferisco al Parlamento Europeo in questo caso, c’è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è una città intera di lobbisti che si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie senza l’obbligo di dire cosa fanno, chi rappresentano, con chi parlano, quanto guadagnano e da chi sono pagati. Intendo una città intera di lobbisti che influenza il processo decisionale non a caso, perché stiamo parlando di almeno 30mila lobbisti che ogni giorno entrano in quei palazzi. Non hanno l’obbligo di dichiarare qual è il loro mestiere e possono facoltativamente iscriversi ad un “registro di trasparenza”. Viene sollecitata sin dal 2008 la creazione di un registro obbligatorio per i rappresentanti d’interessi specifici attivi nelle istituzioni dell’Ue, sottolineando come solo uno strumento simile assicurerebbe il pieno rispetto da parte di quest’ultimi del loro codice di condotta. Stranamente non se n’è mai fatto nulla. Il governo italiano non può accettare passivamente un provvedimento studiato e preparato a tavolino dalle lobby dei grandi editori multimiliardari che spostano e occultano il diritto all’informazione. Non è bastato lo scandalo di Cambridge Analityca per fare capire a questi signori che il potere non deve essere accentrato nelle mai di pochi, ma condiviso con i cittadini.
    (Luigi Di Maio, estratto del post “Salviamo la Rete dal bavaglio europeo: #NoLinkTax”, pubblicato sul “Blog delle Stelle” il 29 giugno 2018).

    Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.

  • Lilli e i suoi fratelli, la guerra dei media contro il popolo bue

    Scritto il 20/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, come di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.
    A Salvini, in prima serata, “Lady Bilderberg” ha riservato tutte le domande tenute nel cassetto per anni, mai poste a nessuno in precedenza: ma più che le risposte del neo-ministro, a fare notizia era l’evidente dispetto dipinto sul volto dell’dell’ex anchorman del Tg2 craxiano, poi eletta europarlamentare dell’Ulivo prima di tornare, come se niente fosse, a fare “informazione”. Dietlinde Gruber, detta Lilli, di fronte al capo leghista ha sfoderato un piglio bellicoso da Watergate – ma Bob Woodward e Carl Bernstein, vincitori del Pulitzer, mai avrebbero accettato (per dignità professionale) di farsi arruolare ufficialmente tra le fila degli avversari politici di Nixon. E se proprio fossero stati invitati al Bilderberg, avrebbero messo in messo in piazza qualche notizia, intercettata tra quelle segrete stanze. La giornalista de La7 invece partecipa ai “caminetti” a porte chiuse, di cui non riferisce nulla ai suoi telespettatori, e poi – come se niente fosse – carica Salvini a testa bassa, ricordandogli che George Soros è in realtà un grand’uomo, un vero filantropo, essendo la sua Open Society dedita essenzialmente a opere di bene. Lui, Soros: il più celebre speculatore della storia, il più noto supermassone di potere, profeta delle rivoluzioni colorate e ispiratore di “home jobs” insanguinati come il golpe in Ucraina, coi cecchini sui tetti a sparare sulla polizia di Yanukovich per poi far ricadere la colpa sul governo, da abbattere con mezzi criminali.
    Dopo aver terremotato l’Africa, l’élite francese neoliberista e neocoloniale gioca allo scaricabarile e prova a colpire direttamente l’Italia, anche per distrarre un’opinione pubblica che, oltralpe, ha già perso la fiducia che aveva nell’oscuro, opaco Macron, sodale occulto dei peggiori Soros in circolazione? Niente paura: a reti unificate, le testate italiane – giornali che più nessuno legge – si schierano compatte col francese e contro l’italiano, scelgono il paese che sta cercando di sfrattare l’Italia dalla Libia e si avventano contro il ministro che ha avuto l’ardire di rimettere in discussione l’ipocrisia europea. Salvini fa politica: per la prima volta, un italiano riesce a spaccare in due la Germania e a dividere Berlino da Parigi. Ragione in più per trattarlo da nemico pubblico, in Italia. A malmenarlo, con inaudita violenza, è proprio la Gruber, che utilizza una scheda televisiva per dimostrare che la Francia ha accolto più rifugiati, rispetto all’Italia. Salvini però la smentisce all’istante: i dati esibiti a “Otto e mezzo” sono vecchi, risalgono al 2015. La verità, oggi, è ribaltata: l’Italia accoglie, la Francia non più. Dati ufficiali, del Viminale: una notizia, in teoria – ma non per Lilli Gruber e soci: a loro, le notizie sono l’ultima cosa che interessano, impegnati come sono nella loro rabbiosa crociata contro il popolo italiano e i mascalzoni che ha osato mandare al governo.

    Va bene tutto, tranne la verità: come quando cade un regime, e gli organi del vecchio potere annaspano, manifestando rabbia e paura, nemmeno fossero di fronte a orde di rivoluzionari scatenati. E’ livido il bombardamento quotidiano, il grottesco fuoco di sbarramento che il mainstream – a prescindere – riversa contro il neonato governo gialloverde. Editorialisti e giornalisti da salotto, esperti sostanzialmente nell’arte del baciamano, oggi sembrano rivoltosi sulle barricate: a Elsa Fornero perdonavano tutto, inclusi gli spargimenti di sangue, mentre sui 5 Stelle e sulla Lega si avventano come mastini. Imperdonabile, il voto degli italiani il 4 marzo: e, visto che il popolo bue ha evidentemente sbagliato a votare, gli addetti alla verità stanno facendo gli straordinari per dimostrare agli elettori grillini e leghisti che non l’avranno vinta: loro, gli euro-cantori dell’establishment, in ogni caso non si arrenderanno alla storia; resisteranno – come gli ultimi giapponesi sull’isoletta – alla marea furibonda del “popolo degli abissi”, espressione che Giulio Sapelli mutua da Jack London. Provare per credere: da manuale di boxe il trattamento che Lilli Gruber ha riservato al cattivone Matteo Salvini, reo di aver osato costringere l’Unione Europea a meditare sulla politica per i migranti, fermando una nave e facendo imbestialire il nemico numero uno dell’Italia, il supermassone reazionario Emmanuel Macron, di scuola Rothschild.

  • Aiutarli a casa loro, per la prima volta nella storia dell’Ue

    Scritto il 13/6/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Hanno trasformato l’Italia nella frontiera-sud dell’Unione Europea, ma si sono dimenticati di dircelo. Parola d’ordine: arrangiatevi. «Per questo apprezzo la fermezza di Salvini», dice Gioele Magaldi a “Colors Radio”: la decisione di chiudere i porti italiani alla nave Aquarius della Ong “Sos Mediterranée” «rompe l’insopportabile ipocrisia dei finti progressisti di Roma e di Bruxelles, che sono anche finti europeisti e in realtà distruttori dell’idea stessa di unità europea». Non a caso, gli stessi euro-buonisti sono in imbarazzo di fronte alla prima uscita internazionale di Giuseppe Conte, brillantemente impegnato al G7 canadese a giocare di sponda – sulla Russia – con un Trump che finalmente si sta dimostrando tutt’altra cosa, rispetto all’evanescente Obama. «Il presidente americano sa benissimo di esser stato appoggiato in modo determinante dai circuiti massonici progressisti», ricorda Magaldi: per questo non è strano che riapra verso Mosca e si schieri con l’Italia che chiede la revoca delle sanzioni, mentre nel frattempo – con la stretta sui dazi – avverte la Germania che il tempo dell’ordoliberismo mercantilista è finito, insieme a quello del rigore per l’Europa. Tutto va rimesso in discussione: anche le frontiere? Senz’altro, secondo il Movimento Roosevelt, che – con Paolo Mosca – propone un’agenzia Ue che finalmente si decida a gestire i migranti in modo civile e responsabile. Come? Filtrandoli alla partenza e trovando vere soluzioni, per la loro vita, finanziate dall’Ue.
    Premessa: per affrontare in modo dignitoso i drammi del nostro tempo, dice Magaldi, è indispensabile sgombrare il campo dall’equivoco umanitario della cultura politica del centrosinistra, che “santifica” il migrante africano dopo aver umiliato il pensionato italiano con la legge Fornero, esasperando gli animi di un paese storicamente tollerante, costretto a subire un’immigrazione incontrollata (a volte anche criminale) che alimenta un business opaco. L’accoglienza diventa un dogma, senza la minima sincerità: non una parola sulle vere cause dell’esodo, cioè il neoliberismo imposto a mano armata a intere regioni del pianeta, devastate anche dalle guerre neo-coloniali europee come quella condotta in Libia. E’ comodo ergersi a paladini delle famiglie africane ridotte alla disperazione, sottolinea Magaldi, per un centrosinistra moralista che ha demolito il welfare e precipitato l’Italia nella disoccupazione di massa, pur di obbedire servilmente ai diktat dei grandi gruppi (privati) che dirigono l’Unione Europea come fosse “cosa loro”. Bene ha fatto, Salvini, a inviare a Bruxelles un messaggio chiarissimo: scordatevi che l’Italia continui da sola a spendere miliardi per il controllo del Mediterrano, per poi subire tagli continui a un bilancio che deve necessariamente essere espanso, per finanziare gli investimenti strategici di cui il paese ha assoluto bisogno.
    Se c’è qualcosa di scandaloso, infatti, è proprio il menefreghismo dell’Ue di fronte alla marea umana in fuga dalla guerra e dalla fame. Sottolinea Gianfranco Carpeoro, altro esponente del Movimento Roosevelt: «E’ indecente che la morale corrente ormai distingua chi muore di guerra da chi muore di fame, come se il migrante economico avesse meno diritti e appartenesse a un altro tipo di umanità. Ed è altrettanto inaccettabile l’idea che l’emigrazione sia fisiologica, alla stregua di un fenomeno naturale: c’è qualcuno, su quei barconi, che – se potesse – non se ne starebbe volentieri a casa sua? Perché non ci chiediamo mai che colpa abbiamo noi, nel loro esodo? Siamo stati noi ipocriti a razziare i paesi da cui provengono i migranti. Troppo comodo, dopo, limitarsi a dire che bisogna accoglierli». Ragionamenti che Paolo Mosca traduce in precisi punti programmatici. Primo: radunare tutti i migranti sbarcati o raccolti in mare, e identificarli. Poi: rilasciare a tutti un documento provvisorio di identità, non valevole per l’accoglienza in uno Stato europeo. Terza mossa: rilasciare un documento definitivo solo ai migranti in possesso dei requisiti per l’accoglienza, da smistare in Europa sulla base di quote prestabilite. E i migranti senza requisiti? Vanno ricollocati in paesi non europei, secondo progetti industriali condivisi (coi paesi che ospitano i centri, o anche con altri disponibili ad accoglierli).
    Visione strategica: la creazione, finalmente, di una agenzia europea per l’immigrazione, capace di filtrare l’esodo e smistare forza lavoro in modo intelligente, su aree prestabilite. «L’obiettivo oltre frontiera – dice Mosca – deve essere il medesimo entro frontiera: garantire a tutti casa e lavoro. E ciò è possibile solo sviluppando risorse in modo coordinato secondo strategie innovative e sinergie finora non praticate». Per varare l’agenzia basterebbero sei mesi. E il piano, di concerto con le Ong, potrebbe entrare in funzione nel giro di due anni. Con quali soldi? Tutti i fondi Ue oggi destinati alla gestione dell’immigrazione, inclusi i fondi dei singoli paesi. E poi: una quota specifica dei fondi strutturali Ue per lo sviluppo economico. Vogliamo cominciare a parlarne? «L’errore atavico dei nostri governi – affermano Mosca e Carpeoro – è stato quello di non porre in discussione il problema della frontiera, nel caso specifico dell’Italia di accettare di essere frontiera. La nuova logica può essere quella di spostare la frontiera stipulando accordi con Stati, ad esempio nordafricani, che accettino di avere sul loro territorio, debitamente supportati economicamente a livello europeo, dei centri di raccolta per il controllo dell’immigrazione gestiti direttamente da una istituzione europea».

    Hanno trasformato l’Italia nella frontiera-sud dell’Unione Europea, ma si sono dimenticati di dircelo. Parola d’ordine: arrangiatevi. «Per questo apprezzo la fermezza di Salvini», dice Gioele Magaldi a “Colors Radio”: la decisione di chiudere i porti italiani alla nave Aquarius della Ong “Sos Mediterranée” «rompe l’insopportabile ipocrisia dei finti progressisti di Roma e di Bruxelles, che sono anche finti europeisti e in realtà distruttori dell’idea stessa di unità europea». Non a caso, gli stessi euro-buonisti sono in imbarazzo di fronte alla prima uscita internazionale di Giuseppe Conte, brillantemente impegnato al G7 canadese a giocare di sponda – sulla Russia – con un Trump che finalmente si sta dimostrando tutt’altra cosa, rispetto all’evanescente Obama. «Il presidente americano sa benissimo di esser stato appoggiato in modo determinante dai circuiti massonici progressisti», ricorda Magaldi: per questo non è strano che riapra verso Mosca e si schieri con l’Italia che chiede la revoca delle sanzioni, mentre nel frattempo – con la stretta sui dazi – avverte la Germania che il tempo dell’ordoliberismo mercantilista è finito, insieme a quello del rigore per l’Europa. Tutto va rimesso in discussione: anche le frontiere? Senz’altro, secondo il Movimento Roosevelt, che – con Paolo Mosca – propone un’agenzia Ue che finalmente si decida a gestire i migranti in modo civile e responsabile. Come? Filtrandoli alla partenza e trovando vere soluzioni, per la loro vita, finanziate dall’Ue.

  • Sapelli: patriottismo laburista anti-Merkel, con l’aiuto Usa

    Scritto il 05/6/18 • nella Categoria: idee • (16)

    «E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».
    Sapelli spera che – facendo leva sull’alleato americano, l’Italia possa comunque conservare «una sorta di limitata autonomia nei rapporti con la Russia al di là delle attuali, transitorie posizioni americane». Questo permetterebbe a Roma di reinterpretare la politica estera italiana già espressa durante la guerra fredda, «anche nei momenti più bui come la Guerra del Vietnam e il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi, e come si sta oggi verificando con la posizione degli Usa su Gerusalemme». Tradotto: l’Italia come attore mediterraneo, in grado di attutire i colpi e mediare tra le diverse posizioni. Nonostante le apparenze, osserva Sapelli, il momento potrebbe essere propizio: infatti, «non vi è mai stato un punto di flessione così acuto nelle relazioni tra Usa e Germania» come quello che si sta verificando in questi mesi, «a partire dal “diesel gate” per finire con il confronto sui dazi e e sul commercio estero in corso a livello mondiale». Per l’economista, «l’Italia può e deve dire la sua con due esponenti di spicco come Savona e Moavero Milanesi proprio sui temi che interessano in primo luogo i tedeschi e i francesi». In altre parole, «Roma deve parlare a voce chiara e distinta con la cancelliera Merkel e la figura oggi più importante della politica tedesca: il ministro degli interni Horst Seehofer, capo storico della Csu».
    La posta in palio è altissima: «Rinegoziare il Fiscal Compact, che non è nei trattati ma nei regolamenti». Per Sapelli «è possibile e si deve farlo subito, iniziando con contatti continui con Germania e Francia». Le ragioni, spiega, sono evidenti: «Nessun punto del programma “socialdemocratico” del governo Conte può reggersi con i vincoli di bilancio eurocratici esistenti, che debbono essere superati per creare crescita». L’elenco è pesante: eliminazione della legge Fornero, reddito di cittadinanza imperniato sull’agenzia del lavoro per far incontrare domanda e offerta e sulla qualificazione dei precari e dei disoccupati con offerte di lavoro non rifiutabili, riformulazione del carico fiscale con Flat Tax per le imprese e mantenimento della progressività dell’imposta sui redditi da lavoro. Sarà una lotta contro il tempo, sfoderando l’arte della mediazione: «La crescita può essere garantita, come ha affermato da sempre Pierluigi Ciocca, solo da una ripresa degli investimenti pubblici e privati, dall’edilizia alle nuove tecnologie. Non bisogna aver paura del progresso tecnico: è solo da esso che verrà l’occupazione sana, fondata sull’aumento dello stock di capitale e sulla ripresa della domanda interna, non dall’helicopter money e da vergognosi sgravi fiscali a pioggia». Inutile, aggiunge Sapelli, confidare solo nell’export, che alla lunga «ci uccide, noi e l’Europa».
    E’ questo, ribadisce l’economista, l’asse di intervento che ci consentirebbe di sopportare un aumento del debito «come hanno fatto sempre Francia, Germania e Spagna nei momenti di flessione del ciclo, senza preoccupare l’oligopolio finanziario internazionale», il quale peraltro «ha già ha dimostrato di apprezzare positivamente più la stabilità politica dell’austerity, che è ormai vista come un peste anche dalle cuspidi finanziarie che sanno che la deflazione è la morte dei profitti». Così, conclude Sapelli, «si potrà costruire una rete di alleanze per superare il Trattato di Dublino e instaurare una politica dell’accoglienza dei migranti fondata sempre sulla misericordia ma nel contempo sull’assunzione, anzi, la riassunzione da parte dello Stato (e nello Stato) delle politiche di sostenibilità migratoria». E’ questo l’atteggiamento che Sapelli chiama “patriottismo laburista”. Buono e giusto: «Può unire e non dividere le due anime del governo, ferme restando le differenze strutturali nella meccanica dei partiti e dei movimenti».

    «E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».

  • L’Ue minaccia il web: non avrete altra verità che la nostra

    Scritto il 28/4/18 • nella Categoria: segnalazioni • (28)

    E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.
    L’Unione Europea ieri ha compiuto un altro fatale passo, annunciando misure “propedeutiche”, in attesa di ulteriori “messe a punto”, già annunciate per dicembre. L’impostazione è soft, per non allarmare le masse, e infatti pochi media ne hanno parlato; l’esito, però, è scontato. Non può essere altrimenti quando si annuncia, come ha fatto il commissario Ue alla sicurezza Julian King, che «la manipolazione della pubblica opinione attraverso le fake news è una minaccia reale alla stabilità e alla coesione delle nostre società europee», annunciando «la creazione prima dell’estate di una rete europea indipendente di fact-checkers e a settembre di una piattaforma europea sulla disinformazione per aiutarli nel loro lavoro. Inoltre Bruxelles lancerà un nuovo bando quest’anno per la produzione e la diffusione di informazione di qualità sull’Ue attraverso notizie fondate sui dati». Già, ma quali verifiche? Quali dati? Quelli certificati da Macron o dal Dipartimento di Stato americano che hanno deciso di bombardare la Siria senza prove, solo sulla base di notizie riportate dai media e dai social media? Quelli diramati da Ong che pur presentandosi come non governative in realtà sono finanziate dai governi occidentali, diventando uno strumento dissimulato ma molto efficace nell’ambito delle moderne guerre asimmetriche?
    King ha varato anche misure per i social media da Facebook e Twitter, proprio mentre Zuckerberg, al Parlamento Europeo, annunciava la creazione di un piccolo esercito di ventimila guardiani per garantire la correttezza delle “elezioni europee del 2019”, ovvero per togliere linfa e visibilità a idee e movimenti sovranisti e critici nei confronti della Ue. Dunque per limitare dall’alto la libertà d’opinione, come accade solo nei regimi autoritari. Purtroppo si conferma lo scenario che abbiamo delineato Alberto Bagnai, Vladimiro Giacché e il sottoscritto, durante l’affollatissima conferenza che si è svolta sabato scorso a Roma, organizzata da “L’intellettuale Dissidente” e dall’associazione “a/simmetrie”. Una conferenza che ha suscitato l’entusiasmo de presenti e che potete seguire grazie a “Byoblu” di Claudio Messora, che l’ha filmata. La battaglia che si profila per un’informazione davvero libera sarà dura, molto dura. E avremo bisogno, come non mai, del vostro sostegno.
    (Marcello Foa, “Ci siamo: la Ue crea una rete di censori. La libertà d’opinione è in pericolo!”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 27 aprile 2018. Nel video realizzato da “ByoBlu”, la conferenza romana con Foa, Bagnai e Giacché).

    E’ da un anno e mezzo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti preparano il terreno. E ora ci siamo: tra non molto avremo una rete di fact-checkers, naturalmente indipendenti, naturalmente rispettosi di un rigoroso codice etico e naturalmente dediti alla causa suprema: la lotta alle fake news, ovvero al mostro che agita i sonni dell’establishment. Tutto questo, in realtà, come ripeto da tempo, ha un solo scopo: legittimare l’introduzione della censura, limitare l’impatto e la diffusione di idee non mainstream, naturalmente negando che di censura si tratti. Ma così sarà: non c’è vera democrazia quando qualcuno si arroga il diritto di decidere cos’è vero e cos’è falso, e rendendo inviolabile e sacra, quella che in realtà una pericolosissima forma di strabismo, perché si addita solo una parte del problema, le fake news veicolate dai social media, e si ignora il vero scandalo, che è rappresentato dalla manipolazione delle notizie creata all’interno dei governi, il cui impatto è infinitamente superiore. Qualunque frottola sulla Siria, sull’Ucraina, sulla Grecia resta rigorosamente impunita, purché abbia origine dentro a un’istituzione; proprio quelle istituzioni che ora pretendono, per il nostro bene, di limitare i confini della libertà di espressione.

  • Il vero motivo della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova

    Scritto il 21/4/18 • nella Categoria: segnalazioni • (26)

    Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.
    Missione compiuta, si direbbe: dopo Seattle, Praga e altre fiammate, a Genova nel luglio del 2001 è stato letteralmente soppresso «il primo movimento di protesta, nella storia dell’Occidente, capace di mobilitarsi in modo disinteressato, cioè senza più difendere singole cause territoriali, nazionali o di categoria, ma schierandosi in modo permanente a tutela dei diritti dell’umanità, in ogni continente». Lasciata l’intelligence Usa (l’agenzia resa tristemente celebre dallo scandaloso “datagate” spionistico del governo Obama), Madsen è divenuto un fiero accusatore di un sistema manipolatorio che a Genova, dice, richiedeva un preciso tributo di sangue: la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” dei ragazzi inermi nella scuola Diaz (col pretesto di bombe molotov introdotte dagli stessi agenti) e poi l’incubo delle torture inflitte ai “prigionieri” nella caserma di Bolzaneto. Tutta quella violenza barbarica sembra portare la stessa “firma” della mano segreta che, di lì a un paio di mesi, avrebbe pilotato l’immane attentato delle Torri Gemelle a New York, dando inizio alla “guerra infinita” contro il “terrorismo”. Un nome? Il massone “controiniziato” George W. Bush. Esponente, secondo Gioele Magaldi, della “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”. La costola più nera e tenebrosa dell’élite globalista, formata da “signori della guerra” che «non hanno esitato a reclutare, tra i loro affiliati, prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi».
    Da Al-Qaeda all’Isis, stesso copione (opaco) del terrore, scatenato contro civili, polizia e militari – ma non all’insaputa di precisi settori dell’intelligence. Prove? «Dispongo di 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi, autore del saggio “Massoni”. «Entro due anni certe carte verranno rese pubbliche», afferma Gianfranco Carpeoro, che ha firmato il volume “Dalla massoneria al terrorismo”, fornendo anche – insieme allo stesso Magaldi – un’accurata lettura della simbologia non certo islamica, ma “templare”, del recentissimo terrorismo targato Isis che ha insanguinato l’Europa a cominciare dalla Francia. Identico lo stile degli attentati: colpire nel mucchio, sparare sulla folla per terrorizzare tutti (e rendere accettabili le leggi d’emergenza, sul modello del Patriot Act statunitense disegnato per confiscare libertà e diritti). Genova? Una pietra miliare: il Rubicone varcato da un potere globalista “medievale”, neo-feudale, smisuratamente avido e bugiardo, estremamente feroce. Lo sostiene Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”. Una vera e propria confessione: «Mesi prima, per la tragica “riuscita” di quel G8 – dice – la Nsa mise a disposizione 1.500 funzionari, e a Genova (oltre alla polizia italiana) c’erano 700 agenti dell’Fbi».
    Nessuno lo sapeva, all’epoca, ma tutti videro lo stesso spettacolo: i reparti antisommossa si accanivano contro manifestanti inermi, ignorando deliberatamente i famosi “black bloc” spuntati dal nulla, liberi di devastare impunemente la città. I “neri” colpivano i loro obiettivi e poi si disperdevano rapidamente tra i vicoli. «E’ una tattica di guerriglia insegnata nelle scuole Nato: si chiama “swarming”», afferma – sempre nel libro di Fracassi – il generale dei paracadutisti Fabio Mini, già comandante della missione atlantica Kfor in Kosovo. «Esistono precise strutture – rivela Mini – in grado di far affluire in piena sicurezza centinaia di persone, da tutta Europa, senza il rischio di subire controlli alle frontiere, neppure dopo l’evento». Lo strascico del G8 di Genova è ancora fatto essenzialmente di rabbia e di dolore: le vittime denunciano omissioni e indulgenze, il nuovo capo della polizia (che ha preso le distanze da De Gennaro) giura che, oggi, simili episodi non potrebbero più ripetersi. Carlo Giuliani, intanto, a piazza Alimonda è morto. E la meccanica delle ricostruzioni difficilmente va oltre i dettagli del crimine. Una coltre di silenzio protegge ancora gli aspetti più decisivi: il movente e i mandanti.
    Per questo è importante la voce di un uomo come Madsen. «I mandanti sono le multinazionali – dice – che erano letteralmente terrorizzate dal crescente consenso di quei ragazzi: il movimento NoGlobal andava stroncato. E il loro uomo, Bush, ha semplicemente eseguito gli ordini». Com’era, il mondo, nel 2001? Stava molto meglio di adesso, secondo tutti gli indicatori. Archiviata la storica sfida con l’Urss, la guerra era praticamente assente. Anche per gli italiani, all’epoca, l’Unione Europea poteva sembrare un’istituzione amica. Si pagava ancora in lire: l’euro avrebbe iniziato a circolare solo l’anno seguente. In Afghanistan c’erano già i Talebani, ai quali si opponeva solo un leader laico e nazionalista come Ahmad Shah Massud: quando l’Alleanza del Nord entrò in azione, per prima cosa fu assassinato l’ingombrante Massud, autorevole interprete della sovranità afghana. Ucciso da un certo Hekmathyar, collegato ai servizi del Pakistan addestrati dalla Cia. «Il governo di Islamabad ha sostenuto Al-Qaeda in accordo con Bush», denunciò Benazir Bhutto, a sua volta assassinata nel 2007 per impedirle di vincere le elezioni e smascherare le trame che legavano Bush e Bin Laden al generale Musharraf, dittatore “americano” del Pakistan. Da anni, ormai, la “guerra infinita” era diventata la nuova normalità fondata su bombe e menzogne, fino all’attuale conflitto siriano.
    Un film dell’orrore, sostiene Madsen, grazie al quale nessuno si è più sognato di contestare frontalmente lo strapotere delle corporation e dell’oligarchia finanziaria, che in Europa è riuscita a ridurre alla fame un paese come la Grecia, senza più medicinali per i bambini, e a destituire con un golpe bianco il governo italiano democraticamente eletto. Si arrivò a insediare a Palazzo Chigi uno spettro come Mario Monti, cioè l’essere umano più lontano possibile dall’antropologia di una rockstar come Manu Chao, eroe del “social forum” che a Genova nel 2001 sognava una fratellanza universale capace di opporsi alle diseguaglianze create dalla rapina sistematica del mondo, quella che oggi spinge verso l’Europa milioni di migranti in fuga dalle loro economie sapientemente disastrate dal nostro apparato economico e politico, finanziario e militare. Un mondo migliore è possibile, recitava lo slogan dei ragazzi che guardavano al mito del “subcomandante” Marcos, esotico e mediatico custode di una biodiversità civile fondata sui diritti. Oggi, il dibattito pubblico è precipitato sotto terra, tra le rovine dell’Ue e della Bce: si parla al massimo di soldi, di Flat Tax e reddito di cittadinanza. Siamo caduti in basso? Il primo passo, sostiene Wayne Madsen, è stato il corpo esanime del militante che i grandi poteri economici, dai loro palazzi, volevano morto. E’ toccato a Carlo Giuliani. Forse, riletta così, può sembrare meno oscura la ragione (mostruosa) di quella fine così atroce.
    (Giorgio Cattaneo, “G8 Genova, il vero motivo della morte di Carlo Giuliani”, dal blog “Petali di Loto” del 17 aprile 2018).

    Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.

  • Odifreddi: Scalfari e il Papa, Repubblica stampa fake news

    Scritto il 03/4/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari, papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per “Repubblica”, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso.
    Fin qui tutto bene, o quasi: in fondo, chiunque ha diritto di abiurare il proprio passato di “uomo che non credeva in Dio” e diventare “l’uomo che adorava il papa”, andando a ingrossare le nutrite fila degli atei devoti, o in ginocchio, del nostro paese. Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre “interviste” pubblicate su “Repubblica” il 1° ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica. Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente «stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro» (una scena probabilmente mutuata da “Habemus Papam” di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste.
    Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, «alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette». Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo “Repubblica”. Il primo problema è perché mai il papa continui a incontrare Scalfari, che non solo diffonde pubblicamente i loro colloqui privati, ma li travisa sistematicamente attribuendogli affermazioni che, facendo scandalo, devono poi essere ufficialmente ritrattate. Sicuramente Bergoglio non è un intellettuale raffinato: l’operazione (fallita) di pochi giorni fa, di cercare di farlo passare ufficialmente per un gran pensatore, suona appunto come un’excusatio non petita al proposito, e non avrebbe avuto senso per il ben più attrezzato Ratzinger (il quale tra l’altro se n’è dissociato, con le note conseguenze).
    L’avventatezza di papa Francesco l’ha portato a circondarsi autolesionisticamente di una variopinta corte dei miracoli, dal cardinal Pell alla signora Chaouqui, e Scalfari è forse soltanto l’ennesimo errore di valutazione caratteriale da parte di un papa che non si è rivelato più adeguato del suo predecessore ai compiti amministrativi. Non bisogna però dimenticare che Bergoglio è comunque un gesuita, che potrebbe nascondere parecchia furbizia dietro la propria apparente banalità. In fondo, un minimo di blandizia esercitato nei confronti di un ego ipertrofico gli ha procurato e gli mantiene l’aperto supporto di uno dei due maggiori quotidiani italiani, che è passato da una posizione sostanzialmente laica a una palesemente filovaticana. Se da un lato Bergoglio può ridersela sotto i baffi dell’ingenuità di uno Scalfari, che gli propone di beatificare uno sbeffeggiatore dei gesuiti come Pascal, dall’altro lato può incassare le omelie di un Alberto Melloni, che dal 2016 ha trovato in “Repubblica” un pulpito dal quale appoggiare le politiche papali con ben maggior raffinatezza, anche se non con minore eccesso di entusiasmo. A little goes a long way, si direbbe nel latino moderno.
    Rimane il secondo problema, che è perché mai “Repubblica” non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche «non ci sono fatti, solo interpretazioni», ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale.
    Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali non interessano le verità, ma gli scoop: cioè, le notizie che facciano parlare la maggior parte degli altri giornalisti e degli altri giornali. E se una notizia falsa fa parlare più di una vera, allora serve più quella di questa. Dire che il papa crede all’esistenza dell’Inferno è ovviamente una notizia vera, ma sbattuta in prima pagina lascerebbe indifferenti la maggior parte dei giornalisti e dei giornali. Per questo Scalfari scrive, e Repubblica pubblica, che il papa non crede all’Inferno: perché altri giornalisti e altri giornali lo rimbalzino per l’intero mondo. Il vero problema è perché mai certe cose dovrebbero leggerle i lettori. Che infatti spesso non leggono le fake news, e a volte alla fine smettono di leggere anche il giornale intero. Forse la meditazione sul perché i giornali perdono copie potrebbe anche partite da qui, nella Giornata Mondiale del Fact Checking.
    (Piergiorgio Odifreddi, “Le fake news di Scalfari su papa Francesco”, dal blog di Odifreddi su “Repubblica” del 2 aprile 2018).

    Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari, papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per “Repubblica”, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso.

  • La Francia ci calpesta? Ovvio: siamo lo zerbino del mondo

    Scritto il 01/4/18 • nella Categoria: idee • (21)

    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che sostengono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.
    In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro taglia corto: inutile sperare che cambi qualcosa, dato il peso internazionale dell’Italia – ormai pari a zero. «D’altro canto, qui da noi, appena uno canta l’inno nazionale lo prendono in giro. Se noi stessi non abbiamo rispetto per quello che siamo, perché ne dovrebbero avere gli altri?». Avvocato e scrittore, nonché esperto simbologo, Carpeoro è un originale osservatore della situazione contemporanea. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela i retroscena (interamente occidentali, atlantici) dell’odierna strategia della tensione internazionale. Punta il dito sulla “sovragestione” occulta del massimo potere, che ogni tanto fa vittime eccellenti anche tra i suoi stessi esponenti – come Nicolas Sarkozy, ora nella bufera. Ma se il caso Sarkozy è un’eccezione, la regola nel Belpaese è un’altra: «L’Italia ha consentito che i suoi massimi esponenti politici fossero trascinati nel fango, senza tutelarli in nulla: ha consentito che dall’estero si pigliassero per il culo il propri leader».
    Proprio di Sarkozy si ricordano le grasse risate alle spalle di Berlusconi, condivise con Angela Merkel, di fronte alla compiacente stampa italiana, deliziata all’idea che i “paesi seri” si prendessero gioco del proprio premier “impresentabile”. «L’Italia è questo», insiste Carpeoro: «Noi per primi abbiamo utilizzato l’odio degli stranieri per “fottere” i nostri stessi connazionali». E’ una storia lunga e ripetitiva, che risale a Craxi e, prima ancora, a Mattei. Nel saggio “Il compasso, il fascio le la mitra”, che illumina gli aspetti più oscuri all’origine del fascismo, Carpero descrive i legami internazionali (Francia, Gran Bretagna) del faccendiere massone Filippo Naldi, uomo-chiave dell’ascesa e poi della caduta di Mussolini, nonché della spietata liquidazione di Giacomo Matteotti, che aveva scoperto (a Londra) la corruzione del sovrano, Vittorio Emanuele III, implicato nello scandalo petrolifero della Sinclair Oil. Sulla stessa nascita della repubblica italiana, Carpeoro ha manifestato perplessità: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita ha potuto fare il ministro “a vita” perché suo padre, Giuseppe Romita, ministro dell’interno nel ‘46, custodì il segreto del vero risultato del referendum che ufficialmente bocciò la monarchia».
    Se la repubblica “antifascista” è nata già fragile, il resto l’hanno fatto gli italiani: «Non dobbiamo lamentarci di nulla, perché noi per primi non abbiamo avuto rispetto dell’Italia. Non possiamo pretendere che altri ce l’abbiano: non siamo in questa condizione», aggiunge Carpeoro. «L’italiano accetta questa situazione perché non assoggetta mai la propria individualità agli interessi generali, come invece avviene all’estero». Umiliazioni come quella appena inferta dai gendarmi francesi? Ne usciremo solo «quando cominceremo ad avere più rispetto del nostro Stato e delle nostre istituzioni, senza assoggettarle continuamente a trame e complotti dove abbiamo regolarmente chiesto noi l’aiuto per diffamare leader politici di fronte a fonti di informazioni estere».

    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che assistono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare ancora la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.

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