Archivio del Tag ‘sciopero della fame’
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Sciopero della fame: il governo ci ha dichiarato guerra
Perché questo sciopero della fame? E’ lo Stato che ci condanna alla fame: siamo in 40 mila, attualmente, ad essere privati dell’intero stipendio, e tra pochi giorni forse anche di più. Chi commette colpe gravi, di lesione agli altri, viene sospeso con metà stipendio e mantiene assegno familiare per gli alimenti. A noi invece tolgono tutto, non ci restano neppure gli assegni familiari o indennità per alimenti. Ci vogliono prendere per fame. Lo sciopero della fame è questo: mostrare che lo Stato ci sta affamando. E’ una risposta nonviolenta alla deriva di uno Stato sempre più totalitario, che si sta appropriando del corpo dei cittadini. Prima di essere sospeso, facevo il tampone ogni due giorni; eppure vengo accusato di mettere a rischio la salute pubblica. Cosa rispondo? Che appunto non esiste alcuna logica sanitaria in questo provvedimento. E’ chiaro che si tratta di una misura punitiva riservata a dei dissidenti politici.Dobbiamo finalmente comprendere che ciò che più mette a rischio la salute di tutti noi, è la distruzione dello Stato di diritto. La storia ci racconta come nascono i totalitarismi: durante le emergenze, soprattutto se queste durano a lungo, le persone vengono private delle loro libertà fondamentali, umiliate, ricattate, annichilite nella loro dignità. La storia ci racconta che il virus dell’odio è il più grande pericolo per il benessere psicofisico di ogni comunità. Non mi sono mai considerato un professore, ma uno studente anziano che continua a guidare gli studenti più giovani: io non insegno, ma imparo insieme ai ragazzi, che sono compagni di viaggio. Come negli anni abbiamo insieme appreso storia e filosofia, così ho discusso con loro questa mia scelta. Ho spiegato che avevo bisogno di disobbedire ad un ordine ingiusto, per poter continuare ad essere libero di pensare, libero di dubitare, libero di proseguire la mia ricerca scientifica.I ragazzi mi hanno risposto con una grande comprensione. Ma la risposta più vera e profonda si vedrà negli anni. Ognuno semina qualcosa nell’animo altrui. Mi chiedo invece quali frutti nasceranno dai seminatori di odio. Perché questo tracollo della sinistra, ossessionata dal mito della sicurezza e dell’obbedienza, un tempo parole chiave della destra? Prima di essere “di sinistra” o “di destra”, occorre essere “umani”. Provare umanità, compassione, comprensione. Mettere al centro la dignità dell’uomo e della donna, prima di ogni ideologia. Senza questa comprensione il tracollo è inevitabile. Le idee sono lo strumento, ma l’obiettivo è l’essere umano. Purtroppo, spesso, nella storia, per seguire l’ideologia, si è perso di vista l’essere umano. Così è successo anche questa volta, e così siamo caduti in una guerra contro una minoranza di cittadini inermi.Sto ricevendo tantissimi messaggi di sostegno, da tutta Italia e anche da fuori Italia: tanti vogliono aderire allo sciopero. Ma non dobbiamo concentrarci in un solo modo di lotta; mi auguro sempre più disobbedienza pacifica. E’ l’unico modo per resistere al potere senza scatenare una reazione violenta spropositata. Ricordiamoci sempre che lo Stato ha armi e potere, noi abbiamo solo il nostro corpo. Le regole sono contraddittorie, i decreti ogni due settimane creano un senso di incertezza e controllo continuo. Credo che sia una scelta voluta. E’ una sorta di tortura psicologica verso tutti i cittadini, anche verso chi obbedisce. Nessuno, neppure chi obbedisce, sa più quanto durerà la propria libertà, quando dureranno i propri diritti. Per questo non devono esserci divisioni né odio né disprezzo tra vaccinati e non vaccinati. Tutti dobbiamo lottare per ripristinare lo Stato di diritto.(Davide Tutino, dichiarazioni rilasciate a Linda Maggiori per l’intervista “Siamo 40 mila, condannati alla fame”, pubblicata da “Pressenza” il 3 gennaio 2022. Professore di storia e filosofia di un liceo di Roma e referente del sindacato Fisi per il Lazio, Tutino è stato sospeso dall’insegnamento dopo l’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale scolastico e il 31 dicembre 2021 ha iniziato il suo sciopero della fame. Costretto a prenotare il proprio Tso, il 3 gennaio il professore si è presentato al centro vaccinale di Grottaferrata insieme all’avvocato Ida Nazzaro, uno dei legali dell’associazione “Umanità e Ragione”. Constatato il suo stato di deperimento fisico, il medico vaccinatore ha ritenuto di esentarlo dal trattamento. «Questo provvedimento apre una piccola, grande crepa nella norma sull’obbligo, ma soprattutto apre la strada ad una lotta nonviolenta di massa», ha dichiarato Tutino, che prosegue comunque il suo digiuno per chiedere che il governo fermi la “condanna alla fame” per decine di migliaia di cittadini, privati del lavoro e del pane per ragioni politiche, non sanitarie, e che tutti i dispositivi di sicurezza imposti dal governo, tamponi compresi, siano gratuiti per i lavoratori).Perché questo sciopero della fame? E’ lo Stato che ci condanna alla fame: siamo in 40 mila, attualmente, ad essere privati dell’intero stipendio, e tra pochi giorni forse anche di più. Chi commette colpe gravi, di lesione agli altri, viene sospeso con metà stipendio e mantiene assegno familiare per gli alimenti. A noi invece tolgono tutto, non ci restano neppure gli assegni familiari o indennità per alimenti. Ci vogliono prendere per fame. Lo sciopero della fame è questo: mostrare che lo Stato ci sta affamando. E’ una risposta nonviolenta alla deriva di uno Stato sempre più totalitario, che si sta appropriando del corpo dei cittadini. Prima di essere sospeso, facevo il tampone ogni due giorni; eppure vengo accusato di mettere a rischio la salute pubblica. Cosa rispondo? Che appunto non esiste alcuna logica sanitaria in questo provvedimento. E’ chiaro che si tratta di una misura punitiva riservata a dei dissidenti politici.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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L’amara lezione di Zanoli, il Giusto che ripudia Israele
Atto di dolore, da parte di Gad Lerner, per la drammatica decisione del novantenne avvocato olandese Henk Zanoli, giunto a “ripudiare” lo status di “Giusto tra le Nazioni”, attribuitogli da Israele per aver salvato un bambino ebreo nell’Olanda occupata dai nazisti. Zanoli, che ha acquisito parenti palestinesi dopo che la figlia, diplomatica, ha sposato un economista di Gaza, protesta così – nel modo più plateale – dopo il bombardamento della Striscia che il 20 luglio ha sterminato i suoi parenti palestinesi, sei persone, tra cui una bambina di 12 anni. Lerner, ebreo, denuncia «il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l’Israele di oggi, l’Israele che c’è, non sta forse gettando un’ombra sinistra sull’eterno Israele messianico luogo di salvezza?». Nel calvario familiare di Henk Zanoli c’è anche la memoria del padre, di cui porta il nome, ucciso a Mauthausen dov’era stato rinchiuso per aver osato opporsi all’occupazione nazista. E ora, la carneficina di Gaza. Che trasforma il dolore di Zanoli in condanna: lo Stato di Israele è razzista, violento, spietato, disumano.«La scelta compiuta dal Giusto, che tale naturalmente rimane, è terribile e nobile al tempo stesso», scrive Lerner su “Repubblica”. Nobile, certo, «perché investe la sua autorevolezza nel denunciare l’ottenebrarsi delle coscienze, spinte a tollerare come necessari la strage dei civili e la prospettiva dell’apartheid». Ma anche “terribile”, secondo il giornalista, «perché, anche senza volerlo, ripropone un’insidiosa, ambigua comparazione fra i crimini di cui furono vittime gli ebrei settant’anni fa in Europa, e gli atti criminali compiuti nel corso di azioni di guerra dallo Stato che di quelle vittime si sente erede e portavoce». Zanoli lo ha scritto in una lettera all’ambasciatore israeliano all’Aja: «Conservare l’onorificenza concessami dallo Stato d’Israele in queste circostanze sarebbe un insulto alla memoria della mia coraggiosa madre», Johana, che lo aiutò a proteggere il bambino in pericolo durante il terrore nazista.Sotto le bombe di Gaza, Zanoli sente “insultate” «le ultime quattro generazioni» della sua famiglia. Ma non basta. «Dopo l’orrore della Shoah – aggiunge – la mia famiglia ha sostenuto con forza il popolo ebraico anche riguardo alle sue aspirazioni a un focolare nazionale. Ma in più di sei decenni ho cominciato a realizzare che il progetto sionista fin dall’inizio conteneva in sé un elemento razzista mirante a costruire uno Stato esclusivamente per gli ebrei». Su questo passaggio, Lerner dissente: «L’esclusivismo negatore di una possibile convivenza con gli arabi di Palestina fu teorizzato solo da una corrente interna al movimento sionista, da altri contrastato, e dunque non ne rappresentava un esito inevitabile». Il che, però, «non toglie che riesca arduo – ammette Lerner – disgiungere l’anelito di redenzione, l’impronta socialista e ugualitaria del movimento di liberazione ebraico, da quell’altro ineludibile dato di fatto che Ari Shavit, nel suo bel libro “La mia terra promessa” (Sperling & Kupfer) ha avuto la franchezza di definire “la brutalità sionista”».Non è un caso, aggiunge Lerner, se gli storici revisionisti israeliani che per primi hanno documentato l’esistenza di un piano per scacciare i palestinesi dalle loro case durante la guerra d’indipendenza del 1948, da Ilan Pappe a Benny Morris, pur giungendo a identiche conclusioni ne abbiano poi tratto conseguenze radicalmente opposte: il primo giudicandolo un peccato originale inestinguibile (la pulizia etnica della Palestina), il secondo giustificando quella brutalità come “passaggio inevitabile”. In realtà, lo stesso Pappe documenta come la cacciata dei palestinesi fu perseguita con spietata lucidità decenni prima dell’avvento di Hitler. E Paolo Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” (Rizzoli) ricorda le agghiaccianti “raccomandazioni” di David Ben Gurion, leader del sionismo moderno e padre fondatore dello Stato di Israele: sterminare tutti i palestinesi, compresi anziani, donne e bambini.Gad Lerner esprime il timore che il genocidio palestinese, che definisce «poco più che un dettaglio della storia», agli occhi di un grande reduce come Zanoli, possa essere equiparato all’Olocausto degli ebrei d’Europa, costituito da «milioni di vittime». In realtà, secondo il massimo testimone della Shoah – Primo Levi, peraltro mai tenero con Israele – la terribile unicità storica dell’abominio nazista non scaturisce tanto dalla tragica conta delle vittime, quanto dalla micidiale capacità di progettazione stragistica dei nazisti, il cinismo nel rivendicare apertamente il diritto al massacro e la loro lucida meticolosità nell’applicare fino in fondo le procedure della strage con cieca abnegazione. Un concetto che Levi sottolinea in numerosi scritti, tra cui i capitoli “La zona grigia” e “Lettere di tedeschi” del suo ultimo capolavoro, “I sommersi e i salvati”. Per concludere che, in fondo, è toccato alla Germania dimostrare di cosa è capace l’essere umano: un intero popolo interamente corrotto dal veleno ideologico, incapace di riconoscere il male e pronto a farsi carnefice, esecutore, complice, pavido testimone omertoso.Pur rifiutando il paragone col nazismo, Gad Lerner ammette che «quella brutalità» commessa da Israele contro i palestinesi «si sarebbe perpetuata nei decenni successivi, fino a oggi, quando il mondo (per fortuna) fatica a sopportarla». E ricorda che Henk Zanoli «non è il primo testimone a coinvolgere Yad Vashem», cioè la suprema istituzione che elabora e onora la memoria della Shoah, «nel confronto con le guerre mediorientali». E cita un sopravvissuto ai lager, Schlomo Schmalzman, che nell’estate 1982 – quando Begin e Sharon scatenarono un’offensiva per la conquista di Beirut – salì sul monte Herzl a Gerusalemme e, all’interno di Yad Vashem, intraprese uno sciopero della fame. Voleva così protestare contro «l’osceno strumentale paragone» con cui il premier Begin aveva sostenuto: «L’alternativa all’attacco in Libano è Treblinka». Durante quella stessa guerra, aggiunge Lerner, un comandante di brigata, Eli Geva, rifiutò di guidare le sue truppe alla presa di Beirut precisando, per scongiurare insinuazioni sul suo coraggio, che avrebbe partecipato all’operazione da soldato semplice: non se sentiva di comandare le truppe (e i miliziani locali, falangisti) che avrebbero fatto a pezzi donne e bambini nei campi profughi di Sabra e Chalila, suscitando l’orrore del mondo.Ancora oggi, continua Lerner, una delle voci più note del dissenso israeliano, la giornalista di “Haaretz” Amira Hass, rivendica la sua opera di denuncia delle discriminazioni inflitte ai palestinesi come tributo all’esperienza vissuta dai suoi genitori: la madre deportata a Bergen Belsen, il padre rinchiuso nel ghetto di Shogorad. «Né va dimenticato un predicatore del dialogo come Marek Halter, che non esita a incontrare i dirigenti di Hamas presentandosi loro come sopravvissuto del ghetto di Varsavia». La forza del gesto di Henk Zanoli, sostiene Lerner, «ripropone l’insidia dei paragoni storici spesso branditi con stolta o maliziosa ignoranza, all’unico scopo di umiliare chi ancora si porta addosso le piaghe della Shoah». Parallelismi difficili, ma non impossibili: Marek Edelman, il sopravvissuto vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia, autonominatosi “guardiano” degli ebrei polacchi sterminati, nel 1993 decise di accompagnare fin dentro a Sarajevo assediata un convoglio di aiuti umanitari. «Diciamo che si è proposto egli stesso come “allusione” necessaria», conclude Lerner. «Se serve, a fin di bene, con la dovuta cautela, in casi eccezionali, i Giusti possono violare il paradigma sacrale dell’unicità dello sterminio che ha sfregiato l’Europa. Di fronte agli armeni, agli zingari, ai cambogiani, ai tutsi, agli yazidi, ai milioni di profughi di nuovo oggi in fuga dalle loro case, chi mai avrebbe titolo per proibirlo?».http://www.gadlerner.it/2014/08/17/il-giusto-e-le-terribili-lezioni-della-storia-fra-israele-e-gaza?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+gadlerner%2Ffeed+%28Gad+Lerner+Blog%29Atto di dolore, da parte di Gad Lerner, per la drammatica decisione del novantenne avvocato olandese Henk Zanoli, giunto a “ripudiare” lo status di “Giusto tra le Nazioni”, attribuitogli da Israele per aver salvato un bambino ebreo nell’Olanda occupata dai nazisti. Zanoli, che ha acquisito parenti palestinesi dopo che la figlia, diplomatica, ha sposato un economista di Gaza, protesta così – nel modo più plateale – dopo il bombardamento della Striscia che il 20 luglio ha sterminato i suoi parenti palestinesi, sei persone, tra cui una bambina di 12 anni. Lerner, ebreo, denuncia «il dilemma morale che lacera le nostre coscienze: l’Israele di oggi, l’Israele che c’è, non sta forse gettando un’ombra sinistra sull’eterno Israele messianico luogo di salvezza?». Nel calvario familiare di Henk Zanoli c’è anche la memoria del padre, di cui porta il nome, ucciso a Mauthausen dov’era stato rinchiuso per aver osato opporsi all’occupazione nazista. E ora, la carneficina di Gaza. Che trasforma il dolore di Zanoli in condanna: lo Stato di Israele è razzista, violento, spietato, disumano.
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Haaretz: studenti uccisi, Israele punisce palestinesi inermi
Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.La violenza dei palestinesi merita di essere condannata, e i due responsabili per questa violenza, insieme a tanti che non erano responsabili di nulla, sono stati puniti con grande severità, anche se questa severità ha assunto la natura di una rappresaglia. Al contrario, la continua violenza israeliana – messa in atto dal governo perché si tratta di violenza perpetrata da un governo straniero, dall’esercito e da privati cittadini come i coloni – non solo non viene punita, ma viene anche raccontata. Non la chiamano nemmeno “violenza”, non è qualcosa che interessa gli israeliani e certamente non risveglia in nessuno un sentimento di identificazione con le vittime. Le vittime israeliane della violenza – che sono meno di quelle palestinesi – hanno tutte un nome e una faccia, sia in Israele che nel mondo. Le molte vittime palestinesi, quando va bene, entrano nel conto delle statistiche.Questa affermazione non è solo il punto di vista espresso su un editoriale, ma è alla base della vita quotidiana dei palestinesi. La loro mancanza di compassione in casi particolari, come questo, è la risposta dei palestinesi a questa loro discriminazione. Fintanto che non erano ancora stati trovati i corpi, molti palestinesi non credevano nemmeno che il rapimento fosse mai avvenuto. Per loro, il rapimento era stata tutta una invenzione per ostacolare il governo di unità nazionale palestinese, per annullare i risultati (secondo il punto di vista palestinese) della negoziazione per liberare il soldato rapito Gilad Shalit e per danneggiare Hamas. I palestinesi hanno creduto che il rapimento avrebbe solo portato vantaggi al governo di Benjamin Netanyahu, che il rapimento fosse stato solo un artifizio diplomatico (per esempio, per giustificare il rifiuto europeo e americano e l’opposizione al governo di unità nazionale palestinese).Lo sciopero della fame dei palestinesi in detenzione amministrativa in Israele aveva cominciato a fare eco sui media, e l’omicidio (omicidio, è la parola usata dai palestinesi) di due ragazzi palestinesi a Beitunia fatto dai soldati israeliani aveva rivelato le menzogne esistenti nel resoconto israeliano sull’incidente e l’assoluto imbarazzo delle autorità israeliane. Per un po’, questo aveva fatto sì che anche l’esercito e la polizia di frontiera – sia secondo i manifestanti che secondo i giornalisti – si comportassero in modo stranamente più moderato in presenza di alcune manifestazioni. Così, invece di chiedersi «chi è il palestinese che, con questo atto, è riuscito a vanificare tutti gli ultimi successi palestinesi», si sono tutti rifugiati nelle teorie della cospirazione.Questo atteggiamento ha impedito che qualsiasi discussione pubblica portasse ad una conclusione diversa: non solo non esiste nessuna strategia palestinese unificata, ma è stato dimostrato ancora una volta che, anche all’interno di Hamas, non c’è nemmeno un coordinamento tra tattica e strategia. Il rapimento mette in pericolo il nuovo governo e va contro gli interessi del leader di Hamas e di molti rami del movimento. In questo momento c’era un immediato bisogno del governo di unità nazionale, per sopravvivere alla crisi e riuscire a pagare gli stipendi ai dipendenti di Hamas a Gaza e, a lungo termine, per sbarazzarsi del peso della cronica crisi economica creata dal blocco israeliano. Eppure, anche quelli che erano furiosi – soprattutto nel partito Fatah – contro quegli attori locali che hanno pianificato e messo in atto il rapimento, sono stati costretti a reprimere i loro sentimenti di rabbia alla luce dell’assalto israeliano lanciato contro una parte tanto grande della popolazione palestinese.Altri, tra cui gli oppositori di Hamas, stavano aspettando il momento in cui i rapitori avrebbero dettato le condizioni per la restituzione degli ostaggi (vivi). Nello sbilanciamento di potere tra palestinesi e israeliani, il rapimento è visto come uno strumento legittimo. Gli assassini dovevano aver previsto che i ragazzi rapiti restassero vivi, ma qualcosa è andato storto e questo attesta il dilettantismo e la mancanza di una preparazione adeguata. Ma un dubbio resta sempre vivo: Hamas non ripudia mai pubblicamente chiunque dei suoi membri fallisca o abbia agito di propria iniziativa. In questa atmosfera, quei palestinesi che credono che sia sbagliato uccidere dei ragazzi israeliani inermi, anche se sono coloni o se studiano negli insediamenti, non osano dirlo ad alta voce.Dopo che i palestinesi sono stati costretti ad ammettere che gli israeliani rapiti non erano dei soldati armati, ma solo ragazzi, più volte hanno voluto sottolineare che, comunque, erano dei coloni. Tra i palestinesi, l’opinione prevalente è che gli attacchi contro i coloni siano giustificati, e che dovrebbe essere fatta una distinzione tra i coloni e i cittadini israeliani che vivono al di là della Linea Verde. Un uomo, che dice che non sarebbe mai capace di uccidere personalmente un colono, ha dichiarato che l’attacco a questi coloni è stato interpretato come un segnale lanciato agli israeliani, per far capire che non dovrebbero mandare i propri figli in Cisgiordania, che in quel posto non dovrebbero sentirsi al sicuro, che dovrebbero sapere che la loro presenza significa una spoliazione per i palestinesi. E’ molto dubbio che questo possa essere stato il messaggio che avrebbero voluto mandare quelli che hanno rapito e ucciso i tre ragazzi. Quel che è certo, però, è che al momento non c’è nessun dibattito interno tra i palestinesi sul fatto se l’omicidio sia effettivamente servito per questo obiettivo.(Amira Haas, “I palestinesi reagiscono con indifferenza all’assassinio dei tre ragazzi israeliani”, editoriale pubblicato sul quotidiano israeliano “Haarez” il 2 luglio 2014, tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.